26.2.18

Kafka, questo ebreo di Praga (Franco Fortini)


Kafka è morto nel 1924. Potrebb’esser morto l’anno passato, a Auschwitz, a Belsen, questo ebreo di Praga. Egli ha saputo quello che noi abbiamo soltanto vissuto: delle città che crollano sotto i «colpi successivi di un pugno gigante», degli uomini degradati fino ad esser gettati via nelle spazzature, delle macchine per le torture, delle condanne senz’appello, eseguite di nottetempo.
Ma questa sua visione, non aveva avuto bisogno di nessuna riprova esterna. Kafka ha descritto per sempre, viaggiando entro le proprie solitudini, una atroce provincia umana. Per questo la sua opera domina questi anni. Per questo vi sono dei critici che vedono in lui il più grande avvenimento spirituale dell’ultimo trentennio. Una definizione (superficiale) sarebbe facile; è facile avvicinarlo all’irrazionalismo europeo, che muove da Bergson fino alle ultime filosofie dell’angoscia e dell’esistenza.
Ma c’è in Kafka sempre qualche cosa di più, di irriducibile, che consiste nella identità che egli ha saputo stabilire fra il proprio destino e quello delle sue creature, fra il fatto e il simbolo. Così il suo mondo, che apparentemente sembra filare nella logica delle sue assurde premesse, è in realtà un vertiginoso giuoco di specchi. In esso risuonano le sue parole-chiave: la Paura, l’Angoscia, il Rischio, l’Attesa, la Frustrazione, la Colpa; in esso si instaurano i suoi terribili miti: la costruzione del rifugio (nella novella omonima) e quella delle muraglie babiloniche; la degradazione corporea, la Legge, il Tribunale, la Condanna.
Conoscevamo Il processo, questo terribile libro di una condanna senz’appello, La colonia penale, la Tana, la Metamorfosi e i racconti della Muraglia cinese e, prima ancora del Castello, (che è forse la sua opera più potente), ci giunge questo luminoso mistero che è America, tradotto da Alberto Spaini, uscito da Einaudi. È apparentemente, il racconto non finito delle avventure di un adolescente europeo in America; svolgimento fatato di eventi intorno ad un personaggio che rimane quasi identico a se stesso, come in tanti classici della narrazione dal Chisciotte a Eulenspiegel, da Candido al Meister. Carlo Rossmann, a differenza di tanti altri personaggi di Kafka, ha un nome ed un cognome; si direbbe quasi che l’autore abbia voluto confortarsi a credere nella realtà di quello che racconta. In questo come in altri libri di Kafka, la condizione iniziale, il tema fondamentale, che qui è la caduta di Carlo Rossmann in America, la sua nascita al mondo, si riproduce all’interno di ogni capitolo ed episodio, come sfere cinesi: così, sfuggenti, imprecise, eppure terribilmente evidenti, le persone che avvicinano Carlo sono ora dèi ora dèmoni di strani microcosmi (la nave, la villa, l’albergo, la casa di Brunelda). In ognuno di questi imperano una legge e un sentimento di colpevolezza e di fatalità, assieme a paradossali possibilità di evasione e di salvezza; e quei personaggi, che in generale paiono agire per mandato di altri, sono in verità dei funzionari di una mostruosa trappola giudiziaria, come nel romanzo Il processo. Ma il prodigioso di questo narratore è che, costruendo su due o tre temi fondamentali e riproducendoli, allargandoli, rovesciandoli come in una architettura musicale, finisce col dare un senso rigorosissimo, fisico, di verità, secondo una tradizione tutta germanica e gotica. Si guardi ad esempio il terzo capitolo: Carlo Rossmann è stato invitato da un amico di suo zio a passare la notte in una villa presso Nuova York ed ha ottenuto il permesso non senza qualche difficoltà. Carlo vorrebbe tornarsene a casa la sera stessa. Ma in quella casa c’è un altro amico dello zio, il signor Green, il quale lo fa aspettare fino alla mezzanotte, per consegnarli una lettera nella quale lo zio (simbolicamente, la divinità) gli dichiara di non volergli più dare ospitalità. Sui motivi fondamentali dell’ansia immotivata, della condanna gratuita, della paura e della colpevolezza (paura della casa non finita, colpa di essere in ritardo ecc.) se ne innestano innumerevoli altri, dinnanzi ai quali il lettore non ha soltanto, come scrive Spaini, l’impressione che Kafka batta sui giunti e i piani della sua costruzione, per dimostrarcene la solidità, facendo cosi pensare continuamente ai più terribili trabocchetti; ma proprio lo stupore di chi comprende come ogni cosa, persona o avvenimento abbiano più di un significato, anzi tutta una serie di significati. Non basta, assolutamente, per Kafka, riferirsi alla logica dei sogni; né chiedergli quello che è fuori dei suoi interessi. Spirito religioso nel senso sacrale della parola, Kafka non chiede, e non ripete, ossessionante, che poche, vitali parole: la Salvezza, la Condanna, la Colpa, la Grazia. E non c’è favola sua, nemmeno questa, che pare più concedere al nostro mondo, la quale non scavi quelle parole e quelle domande. La tana dell’animale, il cortile della casa paterna nella pagina tremenda che traduciamo, la città di Babele, il villaggio del Castello, la Praga del Processo e questa America non sono che immagini dello spazio e del tempo umano; le vicende e le azioni non ripetono che il dramma eterno del quale Kafka, nel suo diario, ci ha lasciato schemi sfolgoranti. Per esprimere tutto questo egli ha realizzato il miracolo di lasciar crescere il sentimento solo fino al punto nel quale il ragionamento non si distingue più dall’immagine; in quel punto ha applicato, come un sismografo, la propria penna, risolvendosi tutto, – dono rarissimo fra i diaristi, – in una disperata autobiografia; cessando di scrivere là dove cessava di vivere o dove sole sarebbero state, staccate l’una dall’altra, la ragione e la fantasia. È chiaro che per domare e costringere alla scrittura questa enorme forza d’immaginazione Kafka dovesse adottare un falsetto, nella sua scrittura; e il suo falsetto è la prosa cronistica o quella del romanziere di appendice. Su quel fondo di convenzioni verbali e psicologiche cresce la foresta delle sue invenzioni; e non diversamente hanno operato alcuni pittori surrealisti. Ma, sotto la tensione del sentimento, quel falsetto si rompe, finisce col non essere che un ricordo, ogni frase ha il suo ritmo interno, ed ogni pagina. Kafka sapeva che la retorica minaccia solo i deboli; così quel pericolo non esiste per lui. C’è una calma ed una giustezza nelle sue pagine che, a noi italiani, possono forse ricordare il leopardiano Elogio degli uccelli, o il Cantico del gallo silvestre. E ci piace ricordare queste, da una lettera di Kafka perché proprio come in Leopardi vibra in esse una altissima forza morale: Io combatto. Nessuno lo sa. Qualcuno lo sospetta, è inevitabile, ma nessuno lo sa. Compio i miei doveri quotidiani; mi si può rimproverare un po’ di distrazione ma non molto. Ben inteso, ogni uomo combatte, ma io combatto più di ogni altro. La maggior parte combatte come dormendo, come quando si agita la mano in sogno per scacciare un apparizione. Ma io sono agli avamposti e combatto di mia volontà fino a sfinire completamente le mie forze… Perché sono uscito per combattere agli avamposti?… Perché sono ora inscritto sulla prima lista del nemico? Non lo so. Un’altra forma di vita non mi sembrava valere la pena di vivere. Uomini di questa specie, la storia della guerra li chiama nature di soldati. Eppure non è così, io non spero la vittoria e non amo il combattimento per se stesso. Io lo amo solo perché è l’unica cosa che ho da compiere. E in questa sua qualità il combattimento mi procura molta più gioia di quanta non sia realmente capace di assaporare, più di quanta io possa esalare e forse non è il combattimento, ma questa gioia che mi farà perire.
Kafka non è né romanziere né poeta che possa divenire popolare. Quel che passa in proverbio di lui è lo schema letterario o la barzelletta. Kafka è un maestro di verità e di vita, di quelli che non consolano, ma incitano come spine nella carne. Uomini di questa specie la storia della guerra li chiama nature di soldati: la storia della guerra cioè la storia dell’uomo, che è milizia, secondo la parola cristiana. Kafka combatte tuttora per noi, nel buio, contro i draghi, come fanno i santi. E pare di un antico mistico umbro o fiammingo questo passo delle sue meditazioni: Non è necessario che tu esca di casa. Resta seduto al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltar neppure, attendi soltanto. Non attendere neppure, resta in silenzio e solitudine. Il mondo sta per offrirsi a te per essere smascherato, non potrà rifiutarsi. Estasiato, si torcerà intorno a te in larghi cerchi.

«La Lettura», II, 3, 17 gennaio 1946 in https://francofortini.wordpress.com/ 

Malta. Il casinò del mondo affacciato sul Mediterraneo (Fabia Fleri)

Malta, Oracle Casino

La Valletta
Il poker online stimola l’intelligenza e combatte la disoccupazione. A sostenere questa teoria è il controverso protocollo sottoscritto tra Adiconsum – Associazione italiana di difesa dei consumatori, promossa dalla Cisl – e Unibet, una delle più grandi compagnie di gioco online d’Europa. Unibet ha sede a Malta, così come altre 282 società di gaming che si sono insediate in questo Paese insulare di poco più di 300 chilometri quadrati, abitato da 400 mila persone. Un territorio minuscolo, ma un gigante dell’e-gaming. Un settore che non conosce disoccupazione, vista la continua richiesta di personale.
Per quanto profondamente cattolico, è da qualche anno che il piccolo Stato nel mezzo del Mediterraneo ha deciso di fare di testa propria, approvando il divorzio (2011), le unioni gay e il diritto di adozione per le coppie omosessuali (2014), oltre che rivoluzionando il mondo dell’industria del gioco online.
L’intuizione di Malta sta nell’aver compreso per prima, dall’ingresso nella Ue nel 2004, la convenienza di fornire una cornice giuridica alle compagnie di betting che vogliono uscire dall’illegalità e sottrarsi all’egida dei monopoli di Stato, proponendosi come un’alternativa sicura. Il “Lotteries and Games Act” è entrato in vigore proprio nel 2004 e ha riformato il settore del gaming, privatizzandolo, come le telecomunicazioni e i trasporti.
All’epoca il gioco online era in pieno sviluppo, un far west privo di regolamentazione. Malta non solo ha provveduto a creare una cornice giuridica, ma negli anni successivi ha instancabilmente accolto e incentivato l’apertura di succursali straniere. Negli ultimi anni sempre più Paesi hanno scelto di disciplinare il fenomeno, rendendo più complicato l’accesso virtuale sul territorio delle compagnie offshore. Ma il mercato di Malta ha segnato una rivoluzione nel gaming e oggi la Mga (Malta Gaming Authority), nata per regolare il gioco d’azzardo sull’isola, ha rilasciato più di 400 licenze, per un business che rappresenta l’8% del Pil e dà lavoro ad almeno 8 mila persone (altre stime si spingono a quota 12 mila). Alla scorsa fiera internazionale dell’industria del gioco – “Ice”, il più grande evento mondiale di gaming, svoltosi tra il 2 e il 4 febbraio a Londra –, Malta aveva 34 espositori, seguita dagli Stati Uniti e dall’Italia (18 entrambi).
Una proposta di legge approvata a gennaio dal parlamento europeo potrebbe però sgonfiare il business dell’isola, introducendo una corporate tax comune che eliminerebbe il privilegio fiscale di Malta. La Valletta attira le imprese straniere grazie a un vantaggioso tasso d’imposta sulle società del 35%; sui dividendi degli azionisti vengono operati sconti fiscali notevoli. Il direttore esecutivo della Mga, Joseph Cuschieri, però non si dice troppo preoccupato: Malta è anglofona e l’equilibrio politico stabile, elementi che rappresentano un’attrazione per le compagnie straniere – per tacere dell’incentivo costituito dal clima. I maltesi sono ambiziosi: José Herrera, segretario parlamentare per la competitività e la crescita economica, ha di recente dichiarato a Gambling Insider di voler rendere l’isola la Silicon Valley del gioco online. A breve aprirà la Malta Gaming Academy, per preparare i giovani a una carriera nell’industria del gioco e riequilibrare la distribuzione del lavoro in questo settore, in cui gli impiegati sono per due terzi stranieri.
Il direttore finanziario di una compagnia che opera nel settore spiega: «È un campo nuovo, c’è tanto da imparare. Io ho iniziato con il ruolo più basso, oggi sono un direttore; la paga è buona, è un lavoro sicuro e legale. Un mio amico italiano con due lauree non riusciva a uscire dalla disoccupazione. L’ho assunto nel 2008, è felice e ha un ottimo posto di lavoro. Ci sono molti italiani che lavorano qui, almeno mille».
Un business sicuro, legale: una forma di divertimento regolata dai principi del Responsible Gaming, il gioco responsabile. Helena è una psicologa che lavora come consulente per Academill, organizzazione che aiuta le società a sviluppare dei programmi per prevenire gli effetti avversi del gioco d’azzardo sugli individui e sulla società. «È positivo per la compagnia se i clienti giocano secondo i loro limiti, perché così rimangono consumatori più a lungo. È un incentivo per introdurre le misure proposte dal responsible gaming, perché si prevengono le frodi o il rischio che qualcuno tenti di usare la carta di credito di un altro, problemi comuni per giocatori disperati. Inganni che utenti regolari compiono di meno. Sono questioni che alla fine, letteralmente, costano un sacco di soldi e tempo alla compagnia». Del patto Unibet-Adiconsum Helena dice: «Non mi sorprende che una compagnia si promuova come fornitore di un servizio per trascorrere il tempo, per giocare, piuttosto che un modo per diventare ricchi in fretta, come invece si cercava di veicolare in passato. Alcuni lo fanno ancora, anche se è vietato dal codice di comportamento nella maggior parte dei Paesi europei. È una forma di entertainment, è previsto che tu paghi per giocare, che tu spenda soldi, non che tu ne vinca».
A Malta il gioco è regolamentato in ogni sua forma: ad aprile scorso sono state emanate le regole per le navi da crociera con casinò a bordo ormeggiate nel porto, ed è previsto un New Gaming Act per la fine di novembre. Nel 2014 la Mga ha effettuato 7.409 ispezioni, anche se quest’attenzione non ha impedito lo scandalo dell’estate scorsa, quando si è scoperto che molte società di gioco erano affiliate alla ’ndrangheta e impegnate nel riciclaggio di denaro sporco.
E sui maltesi il fenomeno dilagante dell’e-gaming che effetti ha? Secondo Helena i problemi del gioco d’azzardo «qui non hanno un tasso significativo, non è più prevalente che in zone simili dove non ci sono così tante compagnie del settore. Né ci sono segni che Malta avrebbe avuto meno casi di ludopatia se non fosse diventata l’hub del gioco online. È difficile da dire però, visto che non ci sono ricerche in quest’area». Il divieto d’accesso ai casinò per i ragazzi sotto i 25 anni mira a tutelare le fasce più deboli. «In ogni caso», conclude Helena, «qui non abbiamo lo stesso tipo di conseguenze sociali negative che potremmo trovare in aree con un’alta densità di casinò “materiali”, land-based, come Las Vegas».

Pagina 99, 5 marzo 2016

La poesia del lunedì. Michail Lèrmontov (1814-1841)


Non t’amo: di passioni e pene
È via volato il sogno primo,
Ma l’immagine tua dentro il mio cuore,
Benché impotente, è viva ancora;
Ad altri sogni abbandonato,
Io scordarla però non ho potuto:
Il tempio disertato è pure un tempio
E l’idolo abbattuto è pure un dio!

1831.

da Liriche e poemi, Einaudi, 1963 – Traduzione di Tommaso Landolfi

N fil de sole (Un filo di sole). Una poesia in dialetto perugino di Catia Rogari


Sì va bè ch’è inverno
ma sti giorni l’acqua
è nuta giù a stroscio,
a caminè pé strèda
pareva de gi ntla tròscia.
Meno mèle che stamatina
ntl'aprì la finestra
c’era è vero mbompò de brina
ma c'era anco n fil de sole
per facci arnì n pensiero ntla testa:
che pu a la fine la vita
nn’è tutta na tempesta!

Un filo di sole
Sì; va bene che è inverno / ma questi giorni l’acqua / è venuta giù violenta / a camminare per strada / sembrava di andare dentro uno stagno. / Meno male che questa mattina / aprendo la finestra / ci stava è vero tanta brina / ma ci stava anche un filo di sole / per farci ritornare un pensiero in testa: / che poi alla fine la vita / non è tutta una tempesta.

Da Sandro Allegrini L mèjo d i poeti perugini, Morlacchi 2012

25.2.18

Miele e pece. I proverbi dell'Europa contadina (Gian Luigi Beccaria)


Nei motti, nei proverbi esiste una «europeicità» locuzionale che, storicamente, si è rinsaldata nella convivenza tra le lingue «nuove» con le «classiche», nel tessuto unitario e unificante di una cultura europea. I proverbi, si sa, si ripetono tal quali un po’ dappertutto. Ed ecco a titolo di esempio: tosc. «Chi maneggia il miele si lecca le dita»; fr. «Qui manie le miel s'en leche les doigts»; port. «Quem com o mel trata, sempre se lhe apega»; sp. «El que anda con miel se moja los dedos»; tosc. «Chi tocca la pece s'imbratta le mani»; fr. «qui touche la poix se barbouille»; sp. «Quien anda con pez se manchard los dedos», motivo ripetuto nel piem. «Al murein na se po' andò sensa anfariné», nel port. «Quem ao moinho vai, enfarinhado sai», nell'aless. «Chi ch'u siassa [setaccia] u s'anfaréina», insomma «non si può mangiare pane senza far briciole».

Le corrispondenze sono però ideologiche. La civiltà contadina ha raccolto motti e proverbi intorno a limitati motivi ricorrenti. Negli esempi citati potremmo dire: «la tolleranza». In altri insiemi incontriamo, stabilmente, l'accettazione dei propri limiti, la necessità di accontentarsi, il dovere di limitare i desideri, o le parole, di essere prudenti, a rischio di rasentare la codardia (roman. «Loda lo mare e attàcchete a la tera», piem. «Chi ch'asseta 'n tera a casca nen», insomma il «Loda la montagna e tienti al piano», «Chi va a casa non si bagna»), sino a sfociare nel qualunquismo: roman. «Sinistra e ddestra è ttutta 'na minestra», piem. «A venta rangesse el mantel secund el vent», «Bisogna navigare secondo il vento» ecc.
Infine, fondamentale, la pazienza, la rassegnazione, dominante anche nelle fiabe, nei canti popolari («Gli è toccato partire»), l'ineluttabilità del destino, in un mondo immutabile: piem. «Vanta lassé andé l'acqua 'nt ’lbass», «l'acqua è sempre andata al basso», «l’acqua va sempre al mare»).
Non nelle campagne, ma nelle città, laboratorio di idee, nascerà la spinta al riscatto, alla ribellione. I proverbi al contrario mostrano che si è sempre fatto così, e non è il caso di cambiare, che la natura umana è immodificabile, che la società non è «fluida» e mutevole. Non si cambia il proprio stato: calabr. «Chi nasce quatru ’n po ' morire tunnu», «chi nasce quadro non può morire rotondo».

“Tuttolibri – La Stampa”, Ritaglio senza data, ma 2008

Di Anna Ascani, sedicente Pasionaria (P.L.)


Mi arriva per e-mail il resoconto, poco edificante, di alcune imprese dell'onorevole Ascani, responsabile cultura del Pd, scritto da un eccellente giornalista, tra l'altro redattore di “micropolis”. Mi pare degno di lettura e riflessione. (S.L.L.)

La storia inizia nel 2013 quando in una trasmissione tv del mattino l'on. Anna Ascani responsabile nazionale della cultura del Pd afferma di essere una insegnante e sostiene la "buona scuola" del Governo.
Mi arriva per posta elettronica una foto con il registro delle firme del corso di abilitazione del ministero per l'Umbria dove risultano le date dell'inizio del corso e le firme delle presenze. La Ascani ha presenziato solo una volta su 4 lezioni e il corso finirà dopo 4 mesi.
La Ascani su facebook si firma La Pasionaria Anna Ascani.
Scrivo un piccasorci su micropolis dell'aprile 2013.

La Pasionaria
Perdoniamo tutto alla giovane Ascani.
La scaltrezza contadina e l'ambizione smisurata che alle primarie del Pd l'ha vista surclassare molti pezzi da novanta; l'euforia malcelata per la conquista di un seggio sicuro; la foga con la quale ripete a pappagallo la linea "se il Pd non avrà i numeri per governare lo dovremo anche all'atteggiamento di Ingroia e della sinistra" . Una sola cosa non le perdoneremo mai. Nella costruzione a tavolino della sua immagine di pollastrella d'allevamento, ama aggiungere al suo nome il nomignolo di Pasionaria. No, questo no. Dolores Ibarruri era una compagna storica, sindacalista, combattente della guerra di Spagna, segretaria generale del Pce dal 1944 al 1960. La giovane Ascani nasce nelle parrocchie e, per ora, ha combattuto soltanto negli studi televisivi dove si spaccia come esperta insegnante anche se non è neanche abilitata all'insegnamento e dove spaccia disinvoltamente le panzane sulla buona scuola del governo Renzi. Panzane che la porteranno sicuramente ad entrare nel giglio magico del genio di Firenze. Ma si dia una regolata. Lei è entrata nella cronaca, la Pasionaria nel senso di Dolores Ibarruri è da tempo un gigante della storia.

Si incazza non poco, arrivano pressioni (tante) e applausi (pochi) ma la sua insistenza sembra sostenere quanto afferma. Mi suggeriscono di allargare la platea e di parlare con la prof. Signorelli.
Alla prima occasione, invitata da Floris, accetta ma chiede anche la presenza dell'onorevole Ascani per parlare di scuola e altro. Sul filmato allegato si vede la foga con la quale la Ascani ribadisce la sua presunta abilitazione. 
“Tecnica della scuola” è un giornale di settore molto conosciuto tra gli insegnanti. Si interessa al caso e verifica in pochi minuti che la on. Ascani non ha mai conseguito l'abilitazione.

Da “Tecnica della Scuola”
L’onorevole Anna Ascani può insegnare storia e filosofia nei licei? L’esponente del Partito Democratico, alla trasmissione “Di Martedì” su La7 (clicca qui per vedere il video) nel novembre scorso, dichiarò di essere abilitata all’insegnamento. Subito, però, sono sorti dei dubbi. Diversi insegnanti hanno chiesto, tramite social network, ad Ascani di mostrare il suo certificato di abilitazione all’insegnamento TFA (Tirocinio Formativo Attivo). Infatti il parlamentare dice di aver conseguito questo titolo presso l’ateneo di Perugia insieme ai suoi colleghi della A037 (Filosofia e Storia) nel 2013.

Dopo varie richieste di chiarimenti, anche da parte del M5S, la Ascani ha riferito di non aver conseguito il titolo né durante il primo ciclo, né nell’attuale secondo, nel quale era stata inserita senza ripetere le prove d’accesso obbligatorie, ed avendo dunque usufruito di una “sospensione” o “congelamento” (in realtà permesso solo “agli aspiranti vincitori di più procedure, o nei casi di maternità o gravi e comprovati motivi di salute come da nota Miur n. 0020175 del 29 dicembre 2014). Dunque la Ascani avrebbe millantato un titolo che non aveva, in realtà, conseguito, con la “motivazione” che, comunque, avendo iniziato il percorso e credendo di poter portarlo a termine, si sentiva “già” come abilitata”.
La risposta della parlamentare non si è fatta attendere e con un post su Facebook si è difesa ammettendo di di aver detto “una cosa imprecisa e sbagliata”.
Non è finita qui però. Infatti, sempre in quel post, Ascani, per giustificare quanto detto, ha affermato di aver avuto accesso a un privilegio sconosciuto ai normali tirocinanti e di aver detto no a tentativi di far “risultare” la frequenza a lezione. Il M5S, in una nota, chiede ad Ascani chi le abbia offerto queste scorciatoie. “La falsificazione si configura come un vero e proprio reato che, sempre secondo quanto afferma la deputata, altri soggetti “senza scrupoli” starebbero compiendo. Sarebbe suo dovere – conclude la nota del M5S, denunciare tali fatti agli organi giudiziari competenti, chiarendo subito chi le ha proposto la falsificazione di firme e presenze a quel tirocinio cui dice di aver partecipato”.
Oggi 2018 la Ascani gira per la campagna elettorale coinvolgendo insegnanti e mondo della scuola come responsabile nazionale della cultura del Pd.

“Nottetempo, casa per casa”. Severino Cesari legge Vincenzo Consolo

Severino Cesari e Vincenzo Consolo

Un lume acceso nella notte di pece e di piume.
Dal «Sorriso dell’ignoto marinaio» al messia nero

Del romanzo di Vincenzo Consolo Nottetempo, casa per casa, che accosta e forse supera le sue narrazioni maggiori: Il sorriso dell’ignoto marinaio, 1976, e Retablo, 1987, stupisce non la chiacchierata complessità (tematica, stilistica) quanto la assoluta semplicità. Basta leggere, e purché non si confonda il linguaggio chiamato barocco, forma della precisione, con il gusto novecentesco per l’ornamento e il superfluo. Tutto qui è invece di spartana necessità. Lo scontro letterario considerato attuale è tra Verga e D’Annunzio. La scena è storica, con meticolosi dettagli che balenano al punto giusto, fili d’oro nell’ordito: Cefalù negli anni ’19, ’20 e ’21 del secolo, l’avvento del fascismo mentre il mago e satanista Aleister Crowley (la «Bestia») sbarca in Sicilia per fondare il suo tempio erotico-eretico, e gli anarchici invece, per definizione, se ne vanno (in Tunisia, in questo caso), sullo sfondo di più gigantesche migrazioni, con la grande industria nascente e i mestieri però ancora saldi e sapienti.
La tesi, o l’intuizione: quegli anni di passaggio e di generale follia sono non identici, ma analoghi ai nostri, di grande mutazione. Il romanzo è la trasformazione di questo teorema in un mondo coerente e minuzioso, evocato alla vita da un linguaggio che si fa foglia, apparizione, movimento lieve del vento, imprecazione, polifonia, arcaismo, arabismo, citazione, pertinenza di ogni lingua parola e nome, con amore ascoltati, con attenzione, a restituire la realtà, subitanea, impressionante, del colpo di zoccolo di un cavallo sulla pietra nel silenzio meridiano che non abbiamo mai conosciuto, la materna presenza della pomelia, o plumelia, «il fior bianco e avorio» - che carissimo dev’essere agli scrittori siciliani se anche di recente l’ha eletto protettore del suo Cambio di stagione Gianni Riotta, citando versi di Lucio Piccolo.
L’invenzione, geniale, che permette al teorema di diventare vita è aver fatto del protagonista, Petro Marano, uno sradicato come Mastro-don Gesualdo (il quale è nei fatti, appunto, un senza classe che porta anche nel nome - è ancora considerato mastro, non ancora riconosciuto soltanto don) il proprio bloccato destino. Petro è figlio di contadino diventato piccolo possidente, non accettato però dai borghesi di Cefalù, e di questo passaggio eroico, incompiuto e terribile porta il peso di dolore, malinconia, lupo manaro, male catubbo. Fin qui, sarebbe Verga. Petro però (anch’egli segnato, nel cognome: Marano, marrano) trasforma il passaggio doloroso e la stessa offesa (il suo avversario, don Nenè, gli viola la casa, squarcia le giare dell’olio, in mescolanza di proto-squadrismo e rivalità amorosa) in libertà: perché sceglie di non aderire al suo nuovo status, non rivendicarlo, non difenderlo, fuggire. Fuggirà anche dalla sirena dell’azione politica, dalla follia dell’anarchico Schicchi, speculare alla Bestia: pensiero e dinamite lo tentano, ma per poco. Ed è Petro l’unica figura che davvero si muove, attraverso le pagine del libro, e gli garantisce unità e fluidità, come nella bellissima entrata in Palermo da Palazzo Steri, multipla di voci, di folle, di scritte e slogan, le proteste e la nascente industria, il ricordo della sorella e le prostitute...
Come sempre in Consolo non c’è tuttavia, di tutto questo, narrazione classica. Il romanzo si compone per scivolamento e intarsio di quadri e scene l’uno sull’altro, con chiuse, suggelli che velocemente sciolgono l’azione o meglio la condensano o preparano, e incipit altissimi, dove l’impeto naturale di scrittura diventa sapienza, artigianato ritmico e poetico da costruttore di giare. Ma vanno letti anche con qualche beneficio di ironia: come se ogni volta comparisse in scena un angiolone con la tromba, ad annunciare: qui comincia il capitolo, pardon, il quadro, dove accadrà questo e questo, ma attento lettore: l’importante non è ciò che accade, è il mondo che stai costruendo...
Capitoli anche diseguali tra loro nel tentativo programmatico di rendere ogni volta un tema, un tono, un umore, un registro dominante: che sempre di gran lunga prevale sui «personaggi», e su ogni volgare «psicologia», come se il tutto dovesse poi fondersi in una compatta, diamantina, infinitamente scintillante allegoria, sfolgorante tappeto di nomi nel quale rivelarsi una divinità assente... O come se il libro intero fosse alla fine non libro, ma cosa solida: se il Sorriso era chiocciola, e il Retablo era retablo, che cosa è Nottetempo, casa per casa?

Illuminismo versus strani illuminati, ancora la luce, ma distorta, sole nero, estasi per opposte allucinazioni: la Bestia Crowley e la mistica rosminiana Angelina Lanza si sfiorano nel Duomo di Cefalù, nella luce che piove dal rosone contemplano la propria follia, speculare a quella del proprio complementare nemico... E l’unica figura portatrice di una visione d’insieme è diventato il perfetto Male, il finto Illuminato... Alla coppia Mandralisca-Interdonato (quest’ultimo, il rivoltoso che tenta alla politica l’illuminato malacologo) nel Sorriso, coppia che già in Retablo si era stracangiata (per usare un tipico verbo consoliano) in quella più stravolta Clerici-Isìdoro, una sorta di Prospero-Calibano, con l’ex frate isolano Isidoro come servo, ora si sostituisce una disseminazione di rapporti: nessuna forma di «coscienza generale», quale quella garantita da quei personaggi illuministi, voce e forma di superiore anche se contaminata e commossa serenità, è più possibile. C’è la coppia Petro-Cicco Paolo (l’unica «positiva», ma nella reciproca debolezza e infermità); oppure Petro-Schicchi, Petro-Janu, e a livello di opposizioni Petro-barone Cìcio o persino Petro-Crowley (uno che arriva da fuori per corrompere, l’altro che da dentro evade scoprendo la corruzione e la frattura, la scissione generale come decadimento dallo stato naturale: e dunque, la cultura, la salvezza, anch’essa come scissione).
È che l’altra coppia, quella del Sorriso, libro aurorale, funzionava riferita a un mondo di cui l’illuminista di turno poteva rimanere spettatore, anche se appassionato e dolente, come il barone Mandralisca di fronte ai fatti di Alcàra Li Fusi e il cavalier Clerici di fronte ai terremotati: ora, ed è questa la novità dell’ultimo romanzo di Consolo, siamo tutti dentro, tutti partecipi di follia.
Da qui la cupezza, l’incastonatura ferrea e urlante, perfino metallica, con suoni di inchiavardamento e prigionia, la melanconia feroce del libro come nell’angelo celebre del pittore, sparsi intorno gli strumenti degli umani saperi. Da qui si passa, non c’è più un esterno cui è affidata la comprensione generale, del testo o della vita, la comprensione generale si ha solo attraverso il dolore, il patimento di chi è scisso, solo stando nel magma, nella melma e tirndosene su.
Altra conoscenza non c’è, altro sapere, se non quello corroso e pronto a ogni ribalderia alla moda del barone Cicio, che tra polverosa biblioteca (una biblioteca alla Azzeccagarbugli, un elenco alla Cervantes; grande e ironica l’epica degli elenchi in Consolo) e angolo suo particolare dannunziano, fa già le prove estetiche e piccine del fascismo: «e collezionava stampe, libri, arnesi arditamente osés che dentro nel suo studio facevano l’enfer». Ed era già dunque predisposto, don Nenè, nella gran macchina combinatoria di Consolo, all’incontro con il vero infernale Crowley, perché c’è sempre bisogno di un laido, sensitivo servo che accolga Dracula; e predisposto poi, nonché alle arditezze della targa Florio, benemerita peraltro e descritta con gran senso di corale stupore e schiamazzo e allegria e incrocio di modernità e scaltrezza contadina (compaiono le prime gomme Pirelli, trasformate in suole da scarpe dopo l’incidente d’auto del barone) al picchia picchia generico e rozzo del santo manganello, sia pure per interposta servitù picchiatrice, non sia mai.

Allora, gli illuminati neri son gli unici illuministi rimasti nel tempo di pece e piume, in cui tutti siamo complici, e diverse follie ci attraversano: follia di vittima predisposta nell’innocente, follia colpevole e presto assassina in altri. Ma qui stiamo, e visto che la fuga verso l’araba Tunisia, possibile forse per Petro allora, oggi vale in tutta evidenza solo come scena, un po’ come per Ferreri la fuga finale nell’ultima scena di Dillinger è morto, allora, bisognerà rassegnarsi all’unica possibile e vera evasione: rendersi conto, e render ragione, dare nomi alle nuove cose che accadono, scrivere infine (o equivalenti: si intende, l’arte in generale) o provare a farlo. La letteratura, e l’arte come medicina non della ferita, ma nella ferita. Consolo non lo dice, ma va da sé: se Aleister Crowley è uno stregone di magia nera, tutto Nottetempo, casa per casa è invece nient’altro che questo: un lungo, complicato, fascinoso esorcismo, è una operazione legittima e alla luce del sole di magia bianca, completamente riuscita, che si accende e si svolge come chiocciola o arma a lento sviluppo chimico nella mente del lettore attento, per liberarci dal male. Non litania, ma preghiera. Lume o fiaccola o fuoco o lampada che mano di donna accende alla finestra, nel buio: come nel primo capitolo, mentre corre il licantropo nella campagna e come già prima nel Mastro-don Gesualdo, ai primi rumori dell’incendio di casa Trao le donne a sporgersi, col lume...
Spia linguistica di questa opposizione tra tenebre della depressione-follia-melanconia e lume incerto «di speranza, ma non di ragione», come lo stesso Consolo mi diceva in una conversazione recente, è l’ossessione dei derivati da katò, greco per giù, sotto: da male catubbo, del padre di Petro, licantropo nelle notti di luna, la scena su cui apre il romanzo, dato storico del dolore contadino senza sfogo, che diventa lupo mannaro, ed è poi malinconia: fino a catoio, e simili. Laggiù, in un catoio, finiva, o forse cominciava, il carcere-chiocciola del Sorriso, letterato dai graffiti di prigionieri. Ma come tutto è ambivalente in Consolo, maestro dell’inesistenza della verità se non nel retablo, nella chiocciola, nell’esorcismo, nel libro nel suo insieme: mai in una sua parte o personaggio, è proprio giù nel profondo della terra, è nel buio dell’ipogeo che si trovano tesori. Sono le bianche forme di marmo classico in Retablo, e sono qui, nella memoria di Petro con l’amico pastore, Janu ancora innocente, non corrotto ancora da Crowley, le misteriose figure angeliche che si staccano dalle pareti di un sotterraneo, ritrovato luogo sacro, lievi allegorie del tempo che c’era prima di questo storico, del tempo in cui le creature potevano incontrarsi, nella bellezza e nell’innocenza dell’amore e del linguaggio, prima delle partizioni in caste, doveri e mestieri, rituali e divieti, eden.
Non è la precisa certezza di avere questo nel cuore, ricordo o speranza, a guidare il «senza classe» Petro fuori da ogni pastoia o vincolo di nuova appartenenza, a trasformare in risorsa la sua mobilità obbligata, e in leggerezza di nomade l’eredità del dolore del padre, schiacciato dalla fatica di emergere?
«Pensò al suo quaderno. Pensò che ritrovata calma, trovate le parole, il tono, la cadenza, avrebbe raccontato, sciolto il grumo dentro. Avrebbe dato ragione, nome a tutto quel dolore.»
Buono per oggi, per nomadi e mutanti e transeunti nell’età della semi-definitiva scomparsa di ogni eredità e appartenenza di classe, in una confusa massa, o confuso sogno, in cui molte cose ci attendono, e confusamente gemono per nascere, sirene creature o idiote follie, per forse raggiungerci nottetempo, casa per casa.

“latalpalibri il manifesto”, venerdì 17 aprile 1992

24.2.18

Il mio Hemingway personale (Gabriel Garcia Màrquez)

Ernest Hemingway

Lo riconobbi subito: stava passeggiando con sua moglie, Mary Welsh, lungo il Boulevard Saint Michel, a Parigi, un giorno della piovosa primavera del 1957. Camminava sul marciapiede opposto, in direzione del Giardino del Lussemburgo; portava un paio di pantaloni da cowboy piuttosto sciupati, una camicia a quadri e un berretto da giocatore di pelota. La sola cosa che non sembrava appartenergli erano gli occhiali dalla montatura metallica, piccoli e rotondi, che gli conferivano un’aria da nonno prematuro. Aveva compiuto 59 anni; era enorme, eccessivamente visibile, ma non dava un’impressione di forza brutale come lui avrebbe senza dubbio desiderato, perché aveva i fianchi stretti e le gambe un po’ gracili. Appariva così vivo, tra le bancarelle di libri usati e il torrente giovanile della Sorbona, che nessuno avrebbe mai potuto supporre che appena quattro anni dopo sarebbe morto.
Per una frazione di secondo mi trovai lacerato — come sempre mi è accaduto — tra le mie due attività rivali: non sapevo se chiedergli un’intervista o attraversare semplicemente la strada per esprimergli la mia
Gabriel Garcia marquez
incondizionata ammirazione. Sia per l’uno che per l’altro proposito, dovevo confrontarmi con lo stesso grave ostacolo: io parlavo allora lo stesso inglese rudimentale che ho continuato a parlare in seguito, e non ero troppo sicuro del suo spagnolo da torero. Così non feci nessuna delle due cose che avrebbero rischiato di rovinare quell’istante, e misi invece le mani intorno alla bocca a mo’ di corno, come Tarzan nella foresta, gridando da un marciapiede all’altro: «Maeeestro!». Ernest Hemingway si rese conto che tra la folla degli studenti non poteva esserci un altro maestro e si voltò, sollevando una mano e gridando in castigliano, con un tono un po’ puerile: «Adios, amigo!». È stata l’unica volta che l’ho visto.

Faulkner e Cartier-Bresson
Io ero allora un giornalista di ventotto anni, che aveva pubblicato un romanzo e aveva ottenuto un premio letterario in Colombia; ma a Parigi mi ero incagliato e non avevo idee precise sulla rotta da seguire. I miei due principali maestri erano i due scrittori nordamericani che in apparenza avevano tra loro poco o nulla in comune. Avevo letto tutto ciò che essi avevano scritto fino a quel momento, ma non come letture complementari, al contrario, come due modi diversi e quasi esclusivi di concepire la letteratura. Uno era William Faulkner, che non ho mai avuto occasione di vedere; posso soltanto immaginarmelo come l’uomo in maniche di camicia che si strofina il braccio, dando le spalle a due cagnolini bianchi, nel celebre ritratto di Cartier-Bresson. L’altro era quell’uomo effimero che mi aveva appena gridato «Adios» dal marciapiedi di fronte, lasciandomi l’impressione che nella mia vita fosse accaduto qualcosa: ed era accaduto per sempre.
Qualcuno ha detto che noi scrittori leggiamo libri degli altri solo per renderci conto di come sono scritti. Credo che sia proprio così. Non ci accontentiamo dei segreti che troviamo sulla pagina, la guardiamo al rovescio per decifrarne le cuciture. In un modo che è impossibile spiegare, smontiamo il libro nelle sue componenti essenziali per poi rimontarlo quando ormai conosciamo i misteri della sua personale orologeria. I libri di Faulkner si prestano male a questi tentativi, giacché questo autore non sembrava possedere un sistema organico di scrittura: procedeva alla cieca nel suo universo biblico, come un branco di capre lasciate libere in una cristalleria. Quando si riesce a smontare una pagina di Faulkner si ha l’impressione di trovarsi qualche molla e qualche vite di troppo e di essere nell’impossibilità di riportarla allo stato originale.
Hemingway invece, pur essendo meno ispirato, meno appassionato e meno pazzo, con un lucido rigore lascia in vista tutte le viti, come nei vagoni ferroviari. Forse per questo Faulkner è uno scrittore che ha avuto molto a che fare con la mia anima, mentre Hemingway è quello che più ha avuto a che fare con la mia professione: non soltanto a causa dei suoi libri, ma soprattutto a causa della sua straordinaria conoscenza dell’aspetto artigianale della scienza dello scrivere.
Nella storica intervista da lui concessa al giornalista Georges Plimpton per la “Paris Review” insegnò una volta per tutte — in contrasto con il concetto romantico della creazione — che la tranquillità economica e la buona salute sono estremamente utili per scrivere; che una delle maggiori difficoltà è quella di organizzare bene le parole; che è bene rileggere i propri libri quando si fatica a scrivere, per ricordarsi che è stato sempre difficile; che si può scrivere dovunque purché non ci siano visite né telefonate e che il giornalismo non distrugge necessariamente uno scrittore, come è stato detto tante volte: è precisamente il contrario — a condizione che lo si abbandoni in tempo. «Una volta che lo scrivere si sia trasformato nel principale vizio e nel maggior piacere», disse, «solo la morte può mettervi fine». Ci ha fatto scoprire, inoltre, che il lavoro quotidiano deve essere interrotto soltanto quando si sa come ricominciare il giorno dopo. Non credo che sia mai stato dato un consiglio più utile per chi scrive. Questo è, né più né meno, il rimedio sicuro contro lo spettro che gli scrittori temono maggiormente: l’agonia mattutina davanti alla pagina bianca.
Nell’opera di Hemingway si avverte un respiro geniale ma di breve durata. Ed è comprensibile. Una tensione interiore come la sua, sottoposta a un dominio tecnico così severo, sarebbe insostenibile nell’ambito vasto e rischioso di un romanzo. Era questa la sua condizione personale, ed egli ha commesso l’errore di voler superare i suoi splendidi limiti. Ecco perché il superfluo si nota in lui più che in altri scrittori. I suoi romanzi sembrano racconti fuori misura, contengono troppe cose in più. Al contrario, la qualità migliore dei suoi racconti è che danno l’impressione che manchi qualcosa — ed è precisamente questa la ragione del loro mistero e della loro bellezza. Jorge Luis Borges, che è uno dei grandi scrittori del nostro tempo, ha gli stessi limiti, ma ha avuto l'intelligenza di non cercare di superarli.
Un solo sparo di Francis Macomber contro il leone è istruttivo quanto una lezione di caccia, ma è anche istruttivo quanto un riassunto della scienza dello scrivere. In uno dei suoi racconti Hemingway ha scritto che un toro di Lidia, dopo aver sfiorato il petto del torero, si rivoltò «come un gatto che svicola lungo una cantonata». Credo, in tutta umiltà, che questa osservazione sia una delle geniali sciocchezze che si possono concedere solo gli scrittori più lucidi. L’opera di Hemingway è piena di trovate del genere, semplici e abbaglianti, che dimostrano fino a qual punto egli sia restato fedele alla propria definizione della scrittura letteraria: «come un iceberg, essa si regge soltanto quando è sostenuta sott’acqua da sette ottavi del suo volume».
Questa consapevolezza «tecnica» sarà senza dubbio la ragione per cui Hemingway passerà alla gloria non per uno dei suoi romanzi, ma per i suoi racconti più asciutti. Parlando di Per chi suona la campana lo scrittore ha detto di non aver fatto in anticipo un piano del libro; lo ha inventato giorno per giorno, man mano che lo andava scrivendo. Non c’era bisogno che ce lo dicesse: è evidente.
Viceversa, i suoi racconti di ispirazione istantanea sono invulnerabili. Come quei tre che scrisse il pomeriggio di un 16 maggio in una pensione di Madrid, quando a causa di una nevicata venne annullata la corrida della festa di San Isidro. Si trattava — come Hemingway stesso ha detto a George Plimpton — de Gli assassini, Dieci indiani e Oggi è venerdì; tre racconti magistrali.

Critiche feroci
Da questo punto di vista, secondo me, il racconto nel quale meglio si condensano le sue virtù è uno dei più brevi: Un gatto sotto la pioggia. E tuttavia — anche se può apparire uno scherzo del destino — mi pare che la sua opera più bella e più umana sia la meno riuscita: Al di là del fiume e tra gli alberi. Come lo stesso Hemingway ha rivelato, all’inizio si trattava di un racconto, che poi si sviò nella foresta del romanzo. È difficile concepire tante manchevolezze strutturali, tanti errori di meccanica letteraria da parte di un tecnico così sapiente, dialoghi così artificiali e così artificiosi da parte di quello che è uno dei più brillanti creatori di dialoghi di tutta la storia della letteratura. Quando il libro venne pubblicato, nel 1950, la critica fu feroce perché non era giusta. Hemingway si sentì ferito dove più gli faceva male e si difese dall’Avana con un telegramma passionale, che non sembra degno di un autore della sua statura. Non solo quello era il suo miglior romanzo, era anche il più suo, perché era stato scritto agli albori di un autunno incerto, con le nostalgie irreparabili degli anni vissuti e la premonizione nostalgica dei pochi anni che gli restavano da vivere. In nessuno dei suoi libri egli ha lasciato tanto di se stesso, né è riuscito a plasmare con tanta bellezza e tenerezza il senso essenziale della sua opera e della sua vita, vale a dire l’inutilità della vittoria. La morte del suo personaggio, in apparenza così serena e naturale, è la prefigurazione in cifra del suo suicidio.
Quando si convive per tanto tempo con l’opera di uno scrittore, e in un modo così intenso ed intimo, si finisce inevitabilmente per mescolare la sua finzione con la sua realtà. Ho trascorso molte ore di molti giorni leggendo in quello stesso caffè della Place de Saint Michel in cui Hemingway amava scrivere perché lo trovava caldo, pulito e accogliente; e ho sempre sperato di incontrarvi la ragazza che egli vide entrare un pomeriggio di vento gelido, bellissima e diafana, con i capelli tagliati in diagonale come un’ala di corvo. «Sei mia e Parigi è mia», egli scrisse per lei, con quell’inesorabile potere di appropriazione che emana dai suoi libri. Tutto ciò che Hemingway ha descritto, ogni istante che è stato suo, continua ad appartenergli per sempre. Non posso passare davanti al numero 12 di rue de l’Odèon, a Parigi, senza vederlo mentre conversa con Sylvia Beach in una libreria che non è ormai più quella, cercando di guadagnare tempo per arrivare alle sei di sera e vedere se per caso arrivi James Joyce. Nelle praterie del Kenya si impadroniva con una sola occhiata di bufali e di leoni, oltre che dei segreti più intricati dell’arte della caccia. Si impossessava di toreri e di pugili, di artisti e di pistoleri, che sono esistiti per un solo istante: quello in cui gli sono appartenuti. L’Italia, la Spagna, Cuba, mezzo mondo è pieno di luoghi dei quali Hemingway è diventato padrone col solo menzionarli. A Cojimar, un piccolo villaggio vicino all’Avana dove viveva il pescatore solitario de Il vecchio e il mare, hanno costruito un tempietto per commemorare il libro con un busto di Hemingway verniciato d’oro. Alla Finca Vigia, il rifugio cubano dove lo scrittore visse fino a pochissimo tempo prima della morte, la casa è intatta tra gli alberi ombrosi, con i suoi libri dei generi più diversi, i suoi trofei di caccia, il leggìo su cui scriveva, le innumerevoli cianfrusaglie che gli sono appartenute fino alla morte e che continuano a vivere senza di lui, con l’anima che egli vi ha infuso grazie alla sola magìa del suo dominio.
Alcuni anni fa sono salito sull’ automobile di Fidel Castro — che è un tenace lettore di romanzi — e ho visto sul sedile un piccolo libro rilegato in cuoio rosso. «È il maestro Hemingway», mi ha detto Castro. In realtà, Hemingway continua a stare dove meno uno se lo immagina — vent’anni dopo la sua morte — così persistente e al tempo stesso così effimero, come quella mattina, che forse era di maggio, in cui mi disse «Adios, amigo» dal marciapiede opposto del Boulevard Saint Michel.

la Repubblica, 2 agosto 1981 (Copyright Gabriel Garcìa Marquez, 1981)

«Partito della nazione? c’era tutto in Forza Italia». Intervista a Marcello Pera, febbraio 2016 (David Allegranti)


Riprendo - a due anni di distanza - un'intervista di Pagina 99 a Marcello Pera. Mi pare tuttora utile a capire alcuni aspetti della vicenda politica italiana. (S.L.L.)

Marcello Pera sta rimettendo a posto i libri, le scatole. Finisce un trasloco. Lascia Roma e se ne torna in Toscana. Il simbolo del centrodestra oggi? «Eccomi», dice con un sorriso abbozzato, «sono io che torno con le mie carabattole a Lucca… Alla Capitale ho già dato», dice a pagina99. Filosofo, già presidente del Senato, Pera è uno dei professori che nel 1994 stavano con Silvio Berlusconi.

Senatore, perché nel centro destra non nasce qualcosa di nuovo?
Penso che la domanda sia mal posta, se riferita a Forza Italia. In quella parte del centro destra lì è già nato qualcosa: è nato Renzi. E se a Renzi riuscirà di fare un altro po’ di cammino con l’eliminazione di ciò che di comunista è rimasto nel suo partito, quel centro destra sarà tutto renziano. Per capirlo si deve guardare a Verdini.

Verdini?
Sì, se uno guarda a Verdini senza l’odore dello zolfo che gli hanno spruzzato addosso i grandi giornali, i quali, dopo Dell’Utri e Previti, hanno ancora bisogno di un demonio per palpeggiarsi l’anima bella, capisce che l’evoluzione di buona parte dell’elettorato di Forza Italia va esattamente nella sua direzione. Verdini va visto come un umore, un sentimento, e una politica. È un vero berlusconiano, uno che annusa il tartufo e lo scava in silenzio e con perizia. Non è solo furbo come lo dipingono, è intelligente come neanche sospettano.

Ma che c’entra Verdini con la rivoluzione liberale e la rivoluzione liberale con Renzi?
Parliamo ancora di Forza Italia. Che cosa voleva il grosso del suo elettorato, composto di ex–dc, ex–psi e cani sciolti, allo sbando dopo la caduta del Muro, e a piede libero dopo la mannaia di Mani Pulite? Voleva dare uno schiaffo ai sindacati. Renzi l’ha fatto. Voleva dare una strattonata ai magistrati. Renzi l’ha fatto. Voleva non farsi schiacciare dall’alta burocrazia dello Stato, corrotta assai più dei politici e dell’italiano medio. Renzi l’ha fatto. Voleva non pagare l’imposta sulla casa. Renzi lo fa. Naturalmente, quello stesso elettorato voleva anche le transazioni in contanti per evadere, voleva controllare la tv di Stato per garantirsi il potere, voleva le manette agli evasori a parole, voleva ridurre le tasse a chiacchiere. Bene, tutto questo lo vuole anche Renzi. E si può scendere nei particolari. Berlusconi prometteva le dentiere gratis, Renzi promette ai giovani un sussidio annuo per le discoteche gratis. Berlusconi doveva difendere la sua famiglia. Renzi, oltre alla sua, deve difendere anche la famiglia Boschi. Il club Mediaset prima, il circolo catto–demo–massonico adesso. Non è continuità col centro destra questa? Vogliamo poi parlare dei cosiddetti diritti civili di donne e omosessuali? Forse che Mara la pensava diversamente da Maria Elena? Forse il centro destra non aveva i suoi bravi cattolici? C’era già tutto in Forza Italia, comprese le Cirinnà.

Dimentica l’Europa e il populismo. Lì c’è rottura.
Non lo dimentico. Vi risulta che in Forza Italia siamo mai stati europeisti alla Ciampi, alla Prodi, alla Monti, alla Letta? Ci chiamavano euroscettici perché non ci piaceva il Reich, esattamente come Renzi adesso. E avevamo ragione. L’Europa non sta più ritta neppure sugli stecchi. Quanto al populismo è vero, c’è rottura. Ma neppure adesso quelli di Forza Italia sono populisti. Semplicemente, è accaduto che, entrata in crisi la leadership di Berlusconi, i leghisti hanno fatto di rimbalzo un passo indietro, verso i ruggiti delle origini, e lo stesso hanno fatto i missini, verso il nazionalismo, pensando entrambi non a governare ma a raccogliere voti. Sfortuna vuole che Salvini non sia politicamente dotato come Bossi, e la Meloni non così astuta nella gestione del potere di rendita come Fini”.

Tutto questo suona paradossale. È come se lei dicesse che il centro destra è vivo e vegeto!
Tanto vegeto non mi pare, perché Renzi non ha ancora portato a termine il suo disegno, che è il partito della nazione, e rischia di saltare prima. Per mano della magistratura o mano europea, con un golpe tipo Napolitano–Monti. E non mi pare neanche tanto vivo, perché la classe politica di Renzi non ha ancora espresso un partito suo proprio e non è sicuro che ce la faccia. A Renzi potrebbe accadere da un momento all’altro quello che è successo a Berlusconi: di soccombere prima di aver costruito un’egemonia politica e culturale stabile. E forse si è già pentito di non essere andato al voto subito dopo le elezioni europee, per chiedere quello che ha sempre chiesto Berlusconi: di dargli il 51% per completare l’opera.

Mi sembra un altro paradosso. A sentir lei, sembra che Renzi continui la rivoluzione liberale.
Qui bisogna essere onesti. La rivoluzione liberale è stato uno slogan felice, che coglieva un’esigenza. Berlusconi e Renzi hanno tentato di tradurlo in pratica per quel tanto che è possibile in un paese che non è liberale e di autenticamente liberale vuole ben poco, salvo la libertà di fare i cavoli propri, il che però non è liberale. Ha notato che liberale è una pacca sulle spalle che si danno alcuni bravi commentatori e intellettuali per dirsi l’un l’altro che loro sono i più intelligenti di tutti? Che non hanno colpe? Che lo sapevano e l’avevano detto prima? Solo che, prima, erano muti o stavano sempre da un’altra parte, quella di sinistra, che fa così tanto chic. Oltre che onesti, bisognerebbe anche essere modesti: ciò che si può fare di liberale in un paese storicamente anomalo come il nostro è ammodernarlo alla meglio, come si può e si riesce, un pezzettino per volta. [...]

Pagina 99, 27 febbraio 2016

Che ne sai tu di un campo di grano (Martina Liverani)

Una coltivazione di grano tenero della varietà Gentil Rosso

Tra gli appassionati di panificazione, pasticceria, pizza e lievitati in genere, da qualche anno circola il tormentone “grani antichi”, che sta a indicare la farina ottenuta da grano che non ha subito incroci varietali naturali per migliorarne le caratteristiche produttive. Al di là dell’agronomia, tali grani sono interessanti dal punto di vista storico, organolettico e paesaggistico (le spighe sono alte o nane, con una gamma di colori che va dall’oro al rosso, dal verde al marrone scuro) ma, sebbene sia molto di moda, la dicitura convenzionale non deve invitare a generalizzare. Perché la novità è proprio questa: un grano al plurale, con tante declinazioni territoriali.
L’Italia è da sempre un granaio pieno di diversità, al punto che si potrebbe creare una mappa regionale con le differenti tipologie di grani locali. A moltiplicare questa varietà ha contribuito Nazareno Strampelli, l’agronomo marchigiano che all’inizio del secolo scorso si occupò del miglioramento genetico dei grani, praticando incroci naturali tra semi italiani e semi stranieri per ottenere specie più forti e produttive. Il lavoro di Strampelli – che da un lato creò nuove varietà poi diffuse rapidamente in tutto il Paese (tra cui il Senatore Cappelli, celebre tra i gourmet), ma dall’altro fu il primo tassello verso l’abbandono delle varietà autoctone – venne poi superato dalle coltivazioni industriali, standardizzate e a resa ancora più alta.
L’inversione di tendenza si è avuta negli ultimi quindici anni, quando alcuni piccoli agricoltori italiani hanno ricominciato a seminare i grani dimenticati. Giuseppe Li Rosi (terrefrumentarie.it), agricoltore siciliano, preferisce parlare di grani locali: la sua regione vanta un primato di diversità, tutte raccolte alla Stazione Sperimentale di Granicoltura di Caltagirone (granicoltura.it), che dal 1927 si occupa di preservare le cinquanta specie di grani siciliani. Grazie al lavoro di agricoltori come Giuseppe, negli ultimi anni i grani locali stanno tornando nei campi con un’opera culturale e ambientale che fa bene al territorio e anche a chi se ne nutre: «Il frumento locale non ha bisogno di essere difeso dalle piante infestanti con diserbanti chimici, né di funghicidi, ma è in grado di badare a se stesso: le spighe si difendono da sole le une con le altre».
In Romagna, Lucia Ziniti (cantinasanbiagiovecchio.com) ha ripreso la coltivazione del Gentil Rosso, che da quei terreni era sparito a seguito dell’adozione delle varietà inventate da Strampelli. Come la maggior parte dei grani antichi locali, il Gentil Rosso ha un basso contenuto di glutine e la sua farina ha minor elasticità rispetto a quelle comuni a cui siamo abituati, ma in compenso è più digeribile e organoletticamente più ricca. A piena maturazione, le spighe sono alte fino a 1,60 metri e sembrano giganti rispetto alle spighe delle coltivazioni commerciali, che arrivano strategicamente all’altezza di 90 centimetri (perfetta per la trebbiatura). Nelle Marche, Massimo Mancini (pastamancini.com) ha costruito il suo pastificio in mezzo ai campi su cui coltiva sia varietà moderne che grani antichi turanici, così chiamati perché originari del Khorasan – regione a Nord-Est dell’Iran – e presenti in Italia prima di essere dimenticati in tempi moderni. La resa è molto inferiore rispetto ai grani “moderni”: si va dai 45 ai 55 quintali per ettaro per questi ultimi, contro i 15 quintali per i grani turanici. Una scelta di qualità, tutela e conservazione, che ha un costo.
Oltre che per le rese minori, le farine ottenute dai grani antichi hanno prezzi superiori rispetto alle farine ottenute da varietà moderne perché ogni passaggio della filiera è più costoso rispetto al processo industriale. Spesso sono macinati a pietra, come accade al Mulino Marino (mulinomarino.it) di Cossano Belbo nelle Langhe, dove dall’inizio del Novecento si usano ancora le macine a pietra naturale per la lavorazione dei grani “primordiali” (questa è la definizione che Fulvio Marino ama usare); tale macinazione permette di preservare le caratteristiche organolettiche, ma se con un impianto industriale a cilindri si possono macinare fino a 3 mila chili di farina ogni ora, le macine a pietra naturale producono dai 150 ai 200 chili, e ciò incide al rialzo sul prezzo finale.
Anche gli chef amano la farina di grani antichi, sia per i loro cestini di pane che per le creazioni di pasticceria, un po’ per moda, un po’ per le richieste del cliente sempre più attento alla questione della digeribilità. In Alta Badia, Andrea Tortora lavora come pasticcere nella brigata di Norbert Niederkofler presso il ristorante stellato Rosa Alpina e dice: «Parte del mio lavoro sta proprio nella ricerca di grani antichi e locali, che uso perché hanno meno glutine e sono quindi più digeribili».
Al di là della digeribilità, piacciono tanto perché in fondo rappresentano un legame con la civiltà rurale a cui apparteniamo.

Pagina 99, 20 febbraio 2016

Il caso Céline. Mea culpa, mea minima culpa (Giampiero Mughini)


Scrittore proibito: quale fu il vero peccato di Céline? Essere antiborghese, anticomunista o antisemita? Ma poi: fu veramente un grande scrittore?

Tanto secco e acuminato quanto Bagatelle per un massacro era ridondante e farraginoso, il Mea culpa del ’37, adesso tradotto in italiano dalla Guanda (in un volume unico assieme al posteriore Les beaux draps), è il pamphlet più importante di Louis-Ferdinand Céline, quello che segna il passaggio del grande scrittore francese all’antisemitismo e alla successiva «tentazione fascista».
La casa editrice milanese sfida così nuovamente il veto di Lucette Almanzor, vedova Céline, a pubblicare i pamphlets, veto valido in tutto il mondo e che è già costato alla Guanda il sequestro di Bagatelle per un massacro, non prima di averne venduto 4500 copie. Il sequestro sta per scattare anche per questo secondo libro. Céline rimarrà così un autore dimezzato, perché leggibile solo nei romanzi e non in quei pamphlets che documentano le grandezze e le miserie del suo tragitto ideale. Con gran gioia dei librai antiquari: a Parigi, una copia dell’edizione del Les beaux draps, uscito da Denoel nel '41, è stata pagata 750 mila lire.
Mea culpa, pubblicato nel marzo ’37, è il risultato del viaggio in Urss compiuto da Céline nel settembre ’36 allo scopo di consumarvi i diritti d’autore del Viaggio al termine della notte, pubblicato in Francia nel ’32, che era stato tradotto in russo da Elsa Triolet.
Il Viaggio aveva reso Céline prediletto a sinistra. Lev Trockij, esule in Francia, gli aveva dedicato un celebre saggio. Nel secondo volume delle sue memorie, Simone De Beauvoir annota: «Il libro che contò di più per noi, quell’anno, fu il Viaggio al termine della notte di Céline. Ne sapevamo a memoria un sacco di passaggi. Il suo anarchismo ci sembrava molto vicino al nostro (...) Céline aveva forgiato uno strumento nuovo: una scrittura viva come la parola. Che liberazione, dopo le frasi marmoree di Gide, Alain, Valéry! Sartre la prese a modello».
L’amico di Sartre e suo compagno di studi universitari, Paul Nizan, parlò in termini altamente elogiativi del romanzo di Céline sul quotidiano del Pcf.
Il rifiuto del sistema, l’anarchismo, il pacifismo, la critica sprezzante della borghesia, tutti tratti costitutivi del Viaggio, erano valori molto quotati alla borsa della sinistra. Céline non li rinnegherà mai, né dopo il viaggio in Urss né dopo il traghettamento sulla sponda del collaborazionismo filohitleriano. In Urss era difatti andato a cercare un paese dove la borghesia fosse stata fatta a ragù e i «padroni» presi a calci.
Scrive Céline, nel bruciante avvio di Mea culpa: «I padroni, che schiattino! All’istante! Putridi rifiuti! Tutti insieme, o uno alla volta! Ma subito! Subitissimo! In quattro e quattr’otto! Neanche un secondo di pietà! Di morte atroce o soave! Me ne fotto! Ah, non sto nella pelle! Soldi per salvarli, tutta quanta la razza, non ce n’è più! Al carnaio, sciacalli! Nei tombini! Perché stare a gingillarsi? Han mai rifiutato, quelle belve!, un solo povero ostaggio a Re Profitto?».
Invece di trovare la festa gioiosa di proletari finalmente liberati, Céline trova quella che giudica una lugubre caserma e che descrive in termini fulminanti, quali non verranno mai raggiunti da nessun altro viaggiatore occidentale: al confronto, il celebre Ritorno dall’Urss di André Gide, pubblicato pochi mesi prima, appare come una raccolta di cartoline illustrate.
La delusione è grande, e lo rende célinianamente furente. Scrive a un’amica, nell’ottobre ’36: «Sono tornato dalla Russia, che orrore! Che bluff ignobile! Che sudicia stupida storia! Come tutto questo è grottesco, teorico, criminale! Insomma!». Da quella delusione scatta un’equazione, «comunismo» = «giudaismo», che sarà mefitica per Céline. Un’equazione cui darà corpo nelle Bagatelle per un massacro, del dicembre 1937, dove sono tuttavia stupende le cento pagine che ricordano personaggi e momenti del viaggio in Urss.
Si fissa così, per sempre, la povera e allucinata ideologia di Céline. Avevano concorso a formarla la delusione per non avere vinto il Goncourt del ’32 («un premio ebraizzato», scrisse), la rottura sentimentale con Elizabeth Craig (divenuta la compagna di un ricco ebreo americano), il suo bisogno di vivere nell'estremo.
Quanto poi al rapporto tra l'uomo e le idee che professava, valga quest'episodio. Nel 1938, in Normandia, durante le vacanze estive, incappò in un'amica ebrea conosciuta a Vienna: si precipitò ad abbracciarla. Quella rimasta immobile, Céline arrossì e si allontanò.

Europeo, 3 Maggio 1982

La rivoluzione gentile delle “serve” colombiane (Fabio Bozzato)

Maria Roa Borja

Medellin (Colombia)
«Molte domestiche si comportano male, a volte rubano le cose o maltrattano i bambini quando i proprietari di casa sono via», dice d’un fiato la signora che si è appena seduta al nostro stesso tavolo, in un bar del barrio Aranjuez a Medellin. Sorseggiando il suo tinto con leche, il caffè macchiato, non ha potuto non ascoltarci. Ed è stato più forte di lei infilarsi nella conversazione.
Lasciato il discorso a metà, Maria Roa Borja la guarda di sguincio girando appena il capo, fasciato da uno dei suoi foulard colorati. Gli occhi, che per un momento si erano fatti durissimi, cedono in tenerezza. Sorride, senza dir niente. Così l’altra aggiunge: «Guardi che anch’io sono per i diritti delle domestiche».
Maria Roa Borja sa sfoggiare il suo sorriso come un’arma. La sua risata è contagiosa e calda. Gli occhi seducenti. Entrando al bar, per mano il figlio più piccolo, non c’è avventore che non si sia girato. Per un attimo il vociare si è spento, mentre dalla tivù il reggaeton continuava a gran volume come al solito.
Con lo stesso piglio Maria Roa Borja si è messa alla testa di una rivoluzione gentile che sembrava impensabile in Colombia. A dicembre se n’è accorto anche il New York Times. Tre anni fa questa trentaseienne di Medellin ha creato la Unione sindacale delle lavoratrici domestiche. Sono partite in 28. Ora sono 150. Mano a mano hanno strappato una serie di riforme che hanno esteso diritti e regole sindacali per le oltre 750 mila persone che in tutto il paese si calcola lavorino nelle case colombiane. Quasi tutte donne, quasi tutte nere. E quasi tutte di “strato sociale” 1 e 2, come qui si numerano le classi, come fosse qualcosa di normale.
Maria Roa Borja ricorda quando è dovuta fuggire dalle campagne coltivate a banane di Apartadó, nella regione di Antioquia, dove infuriava la guerra e «dove il sangue gira più dell’acqua», mormora con gli occhi lucidi. Là ha lasciato tutto, compreso il corpo di una sorella, uccisa dalla guerriglia. Aveva 18 anni quando è arrivata a Medellin. E quasi dieci li ha passati a fare la domestica. «Non so nemmeno in quanti posti. Però ricordo l’ultimo».
Viveva in casa con la famiglia che accudiva, come fa quasi la metà delle domestiche. Si arriva il lunedì mattina e si va via il sabato sera. «Era una coppia di professionisti, con due figli. Mi alzavo alle 4. Colazione veloce. Svegliavo i bambini e li preparavo fino a farli salire in autobus. Poi c’era la colazione per i signori che se ne andavano al lavoro. Il pranzo doveva essere pronto alle 12 e la cena alle 18. L’intera casa da pulire e tanta roba da stirare. La sera lavavo le uniformi dei ragazzi e finivo di sistemare tutto alle 23». Così per anni. «Mi prendevo cura come una madre ormai solo dei loro bambini. Quasi dimenticavo di averne anch’io. Quando gli ho chiesto di avere il week end libero per stare con loro, me l’hanno negato. Era troppo. Mi son detta: ora basta».
Due anni fa l’associazione di afro–colombiani Carabantú ha realizzato a Medellin un’inchiesta tra le empleadas domesticas assieme alla Ens, la Scuola nazionale del sindacato. È stato come dire a voce alta qualcosa che tutti sapevano, ma di cui nessuno tutt’ora parla volentieri in pubblico. Così è emerso che l’ 85,7% delle domestiche non ha un contratto, ma solo un accordo verbale. Il 97.6% ha figli e sono madri sole o separate.
E ancora. Quasi due terzi vengono dalle campagne e per un quarto sono desplazadas, profughe interne fuggite dalle scorribande di esercito, paramilitari e guerriglia. Il 54,8% di queste lavoratrici dice di sentirsi discriminata per il colore della pelle. Lavorano tra le 10 e le 18 ore al giorno, per un salario che per la maggior parte varia tra i 300 mila pesos e i 566 mila al mese, vale a dire tra i 100 e i 200 euro. Tutti dati molto simili a quelli raccolti anche dal Dipartimento nazionale di Statistica.
Un quadro terribile. E fuori controllo. Alla Ens spiegano che in tutta la città le ispezioni di lavoro nel 2013 sono state 5, contro le 4 mila del settore del commercio.
Che fare dunque? Un sindacato? Il fatto è che fino a poco tempo fa sindacato faceva rima con sovversivi. Gli uffici governativi riconoscono che tra il 1986 e il 2013 sono stati oltre 12 mila i sindacalisti vittime del conflitto, assassinati, minacciati o oggetto di attentati. Per questo non poteva che essere pazza l’idea di Maria Roa Borja e delle altre 27 empleadas. Figurarsi fare un sindacato dentro le case della classe alta e medio–alta. Forse per questo loro stesse preferiscono parlare più di «progetto» che di sindacato: «Ci incontravamo ogni domenica al parco San Antonio. Ci raccontavamo solo di soprusi e disgrazie. Non ne potevamo più».
Come ci sono riuscite? Forse hanno colto il momento giusto, un’opinione pubblica più attenta, il defluire del conflitto ideologico e hanno incontrato le persone perfette, tra cui alcune attivissime congressiste. Qualche mese prima, nel dicembre 2012, il Parlamento aveva approvato una legge considerata tra le migliori su questo fronte in Sudamerica. Un orario di lavoro ordinario di 8 ore, l’obbligo della previdenza sociale e assicurativa, il salario minimo. Secondo il Ministero del lavoro con le nuove norme le domestiche sotto l’ombrello della protezione sociale sono passate da 5 mila a 106.480.
Insomma, quell’aprile 2013 era davvero il frangente per uscire allo scoperto. Perché una legge non ha gambe se non c’è un doppio lavoro: uno dentro le case per far germinare il sindacato e uno fuori approfittando dei cambiamenti della società colombiana. Una rivoluzione gentile infatti vive di alleanze tra donne e poi con ricercatori, giornali e parlamentari, rivolgendosi ai giovani con un linguaggio franco e senza livore: «Spesso i nostri datori di lavoro li chiamiamo ancora patrones», racconta Maria Roa Borja, «anche se li ringraziamo per i vestiti di seconda mano che ci regalano, ora sappiamo che non sono barattabili con i nostri salari. E anche se ci affezioniamo ai loro figli, noi abbiamo i nostri da amare».
È stato anche grazie all’irruzione delle domestiche sulla scena pubblica se il Governo ha sottoscritto la Convenzione internazionale sul lavoro nel 2014. La Corte Costituzionale, in un simile clima, ha riconosciuto il valore aggiunto apportato da queste lavoratrici alla ricchezza delle famiglie dove lavorano, definendo «irrazionale e in violazione del diritto all’eguaglianza» il mancato pagamento della tredicesima.
Detto, fatto. Le parlamentari Ángela Robledo, Angélica Lozano e la senatrice Claudia López, tutte e tre di Alianza Verde, hanno fatto approvare a dicembre, in prima lettura, la legge sulla tredicesima, che da quest’anno (o dal prossimo) verrà pagata metà a giugno e metà a fine anno, una mensilità in proporzione al salario. «Le resistenze ci sono», spiega a pagina99 Angélica Lozano, «dicono che così aumenterà il costo del lavoro e in molte verranno licenziate, c’è chi teme che tutti possano chiedere gli stessi benefici, come i manovali nell’edilizia. Ma stiamo parlando di diritti, non di favori. Il problema è che la nostra è una società permeata di un classismo quasi feudale». Qui l’eredità coloniale è dura da estirpare. «Nella testa di tante persone l’immagine della domestica e quella della schiava si confondono», ripete Maria Roa Borja.
Tuttavia, negli ultimi anni qualcosa nel corpo sociale si è strappato. Nel 2011 il settimanale spagnolo Hola pubblicava un reportage sulle famiglie più ricche di Colombia. In tanti se lo ricordano ancora. Sedute sul divano di una casa lussuosa di Cali, si vedono le donne di quattro generazioni della famiglia Zarzur, a capo di un enorme patrimonio immobiliare e di molte grandi fincas, le tenute agricole della regione. Alle loro spalle, due domestiche nere in grembiule e cappellino bianchi, in mano i vassoi del caffè, si guardano immobili. Nel giro di qualche ora la foto suscitava una tale indignazione nei social network che nessuno poteva nascondere. Accusata di razzismo e di classismo, la matriarca dei Zarzur era costretta a scusarsi.
Nessuno poteva immaginare che quattro anni dopo una domestica-sindacalista avrebbe tenuto una lezione ad Harvard, raccontando la storia sua e quella delle altre, sotto gli occhi compiaciuti di Noam Chomsky. Tesa, sguardo perduto e fogli tremanti, Maria Roa Borja raccoglieva un applauso scrosciante dagli studenti–bene del Centro Rockefeller. Solo a quel punto non ha più trattenuto le lacrime. «Sono solo entrata negli Stati Uniti dalla porta principale, per una volta non come addetta alle pulizie», ha detto tornando a Medellin.
Ora corre da una riunione all’altra, concorda interviste, coinvolge altre donne, incontra parlamentari, avvocati e associazioni. «Mi piacerebbe se diventasse davvero il mio lavoro», sussurra. Perché quello messo in moto da questa donna ha ben pochi precedenti. Camminando verso la metro Tricentenario, tra le case abitate da centinaia di desplazados, Maria Roa Borja si sistema il foulard, apre le braccia e sfodera il suo sorriso: «Abbiamo solo cominciato a parlare di diritti».

Pagina 99, 20 febbraio 2016