È morto ieri Pierre
Carniti, figura di primo piano della storia sindacale di questo
paese, la cui vicenda è legata prima all'epopea dei metalmeccanici,
che dopo l'autunno caldo, riuscirono a realizzare un'unità sindacale
che andava oltre il dialogo e l'accordo tra le Confederazioni Cgil,
Cisl e Uil.
Da segretario della Fim
Carniti partecipò con un ruolo di primo piano a una stagione
complessa, di avanzate e ritirate, ma soprattutto fu protagonista
della costruzione della Flm, la Federazione unitaria dei lavoratori
metalmeccanici che aggregava i sindacati confederali (Fiom, Fim e
Uilm) e sopravvisse qualche anno alle tensioni tra le confederazioni.
Da segretario generale
della Cisl Pierre Carniti ruppe con la Cgil nel 1983 a proposito
della legge voluta dal governo Craxi e concordata con Cisl e Uil (non
con la Cgil), che – tagliando di due punti la cosiddetta “scala
mobile”- sterilizzava l'indicizzazione automatica del salario in
relazione al costo della vita, anticipandone la successiva
abolizione. La stampa padronale (in primis “Il Sole 24 Ore” e “La
Stampa”) oggi gliene rende merito, ma da quella legge partì la
progressiva perdita di valore d'acquisto per molte retribuzioni e
Carniti, pur rimanendo convinto che la norma al tempo fosse
indispensabile, non ha mai considerato quell'accordo e quella rottura
tra i sindacati uno dei suoi meriti più grandi. Quend'era alla testa
della Cisl lanciò la parola d'ordine “Lavorare tutti, lavorare
meno”, che prospettava una riduzione generalizzata dell'orario di
lavoro.
Concluso il suo mandato
di segretario generale Cisl - dopo aver difeso con successo al
referendum abrogativo il taglio della scala mobile – Carniti fu
eletto al Parlamento Europeo prima nelle liste Psi (1989) poi in
quelle del Pds (1994). Fu anche – per un solo anno – senatore:
era entrato a Palazzo Madama nel 1993, come primo dei non eletti del
Psi in Lombardia, al posto di un senatore defunto.
Il testo che qui posto
per ricordarne la figura, poco noto al grande pubblico, risale al
2004, quando – da pensionato – animava una rivista on line sui
temi del lavoroe della solidarietà sociale. Alcuni redattori di
“micropolis” andammo a trovare Carniti nella casa di campagna che
possedeva in Umbria, per porgli in gruppo alcune domande politiche.
L'intervista è datata (non era ancora esplosa la crisi economica
mondiale, al governo in Italia c'era Berlusconi ed era stata appena
approvata una bozza di Costituzione Europea, che poi non ebbe seguito
per il veto francese) e tuttavia mi pare emblematica di uno stile, di
un modo di pensare e di dirigere, di una concezione del sindacato. Il
suo estensore materiale fu, se non ricordo male, Osvaldo Fressoia.
(S.L.L.)
L'appuntamento è alla
Chiesa di Santa Maria in Pantano, annidata in un antico edificio di
epoca romana (ma con portale gotico ed un rosone che ricorda
clamorosamente la non lontana cattedrale di Todi), che ti sorprende
all'improvviso lungo la statale che, usciti dalla superstrada, poco
dopo Collevalenza, si dirige verso Massa Martana. Da qui,
insinuandoci per strade più interne, Pierre Carniti ci conduce nel
suo casale immerso nel verde, dove - sotto un accogliente pergolato
che ci protegge da un sole finalmente estivo - rompiamo il ghiaccio e
iniziamo la discussione.
A Carniti, uno dei più
prestigiosi leader del movimento sindacale italiano negli anni
cruciali della vicenda politica del nostro paese - diventa segretario
generale della Cisl pochi mesi prima dei fatali “35 giorni” alla
Fiat, dopo aver diretto il sindacato metalmeccanico, deputato per due
legislature al Parlamento Europeo - e oggi in pensione, ma
“occupatissimo e pieno di impegni, proprio come chi non ha più un
cavolo da fare”, vogliamo fare domande riguardo a tre blocchi di
problemi: la condizione lavorativa dentro la tendenza, specificamente
italiana, al declino industriale; l'Europa sociale e, infine,
l'Umbria.
Carniti parla con
pacatezza, cercando parole argomenti che non indulgono mai verso la
declamazione sloganistica e le semplificazioni di facile presa, ma
mal dissimulano l'indignazione e la passione, intatte, del vecchio
leader, come quando fa riferimento al governo in carica - “una
banda di cialtroni” - o quando gli pare di cogliere in noi una
certa sottovalutazione circa i rischi legati alla latente non unità
sindacale. In ogni caso appare saldamente ma laicamente ancorato - al
di là di singole questioni - alle ragioni, quelle più profonde e
genuine, di quel sindacato, la Cisl, che è stato tanta parte della
sua vita.
Partiamo da quello
che ormai viene chiamato declino economico e industriale del nostro
Paese, i rischi che esso comporta ed i possibili rimedi.
Il problema c'è ed è
ancor più grave perché si tratta di declino anche sociale,
culturale e perfino morale. Del resto guardate in che mani siamo. A
questo governo del rilancio industriale non interessa niente; altre,
per esso, come sappiamo, sono le priorità: la “giustizia”, la
riduzione delle tasse (per i ricchi), ecc. Ed è risibile
l'affermazione che Francia e Germania starebbero peggio di noi,
quando la Germania, per esempio, nonostante una crisi economica e
finanziaria indubbia, diversamente da noi, mantiene un apparato
industriale di prim'ordine e la cui quota di mercato mondiale è
cresciuta. Un mero esorcismo, inoltre, si è rivelato, quello di
concentrare quasi esclusivamente sul costo del lavoro, la politica
economica. Ricetta che - dato il carattere mondializzato
dell'economia - può funzionare alcuni mesi, un anno, due... ma poi
si troverà sempre in giro per il mondo qualcuno disposto a lavorare
ancora più a “buon mercato”. Insomma si può rimanere a galla
soprattutto con produzioni ad alto contenuto tecnologico e ad alto
valore aggiunto. Il dramma è che neanche il centro-sinistra pare
avere un piano di rilancio. O se ce l'ha, ce lo tengono ben nascosto.
Le accuse più nette finora rivolte al governo sono state che esso
non avrebbe mantenuto gli impegni, cioè di non aver abbassato le
tasse, tagliando la spesa sociale... Mentre si dovrebbe prima di
tutto spiegare che quel programma è una bufala, e cioè che la
riduzione delle tasse, e il minore gettito che ne deriverebbe,
venendo finanziata col taglio delle spese, sociali o per investimenti
che siano, non potrà determinare alcun rilancio dell'economia. La
riduzione delle tasse potrebbe - dico potrebbe - avere effetti
espansivi, solo se venisse fatta in deficit, cioè senza agire - come
invece vuol fare l'attuale maggioranza - sul versante della spesa
sociale, riducendola. Un po' insomma quello che fece Reagan, che
secondo me aveva l'Alzheimer già quando felicemente regnava, il
quale abbassò enormemente le tasse ai ricchi, perché così si
sarebbero liberate risorse per lo sviluppo e al tempo stesso, aumentò
il deficit commerciale e quello del bilancio federale. Ma va detto,
che da questo punto di vista, i risultati furono assai modesti, tanto
che l'economia è cresciuta più con Clinton che, guarda caso, le
tasse (e le spese sociali) poi le riaumentò. E poi i ricchi, il modo
di ridursi le tasse lo trovano sempre anche da soli.
E la sinistra?
La sinistra, il
centro-sinistra, dovrebbe invece chiedere voti per un programma
alternativo sia per rilanciare l'economia, sia per una maggiore
equità e solidarietà sociale, concetti che, mi pare, stiano
diventando sempre più quasi delle parolacce. E che invece occorre
rilanciare a partire dalla questione salariale e della
redistribuzione della ricchezza in termini meno generici di come è
stato fatto finora. Dai pochi studi significativi disponibili, emerge
che l'indice di povertà relativa (parametro entro cui viene
collocato chi percepisce un reddito inferiore al 50% del reddito
medio) non sale, è vero, ma oltre al fatto che tale parametro tende,
in una fase di impoverimento economico generale, ad abbassarsi da sé,
è invece significativo vedere che tale parametro si estende fra i
redditi fissi (operai, impiegati e pensionati), mentre diminuisce tra
chi può “destreggiarsi” meglio con il fisco, penso al lavoro
autonomo. Insomma, mentre prima si svalutava la lira, cosa oggi non
più possibile, oggi si svalutano salari e pensioni.
Nell'ultimo
articolo della tua rivista on-line, riprendi la questione
dell'aumento, anche in Italia, dei lavoratori dipendenti che
scivolano nelle fasce di povertà, fenomeno che secondo Cofferati, in
passato non c'era. Che ci dici al riguardo?
Beh, il fenomeno c'è
stato anche in passato: penso ai braccianti delle nostre parti
(Carniti è nato nel Cremonese, ndr), poi, fortunatamente cancellato
dalle grandi conquiste operaie e sindacali. Ma il problema è reale,
con l'aggravante che i lavoratori di oggi saranno ancora più poveri
quando andranno in pensione. E ciò sarà ancora più vero con
l'estendersi del lavoro precario, cioè di tutta quella congerie di
lavori regolati dalle nuove forme contrattuali previste dalla Legge
30. Da una ricerca recente emerge che, all'interno di un sistema che
sarà sempre più “contributivo”, un Co.Co.Co. che avrà la
sventura di lavorare tutta la vita in maniera precaria e
intermittente, pagando i relativi contributi, prenderà, alla fine
della sua “carriera”, una pensione di 360 euro al mese, cioè più
bassa dell'attuale pensione sociale. La realtà è che le pensioni
stanno via via deperendo, legate come sono a parametri che stanno al
di sotto delle dinamiche dell'inflazione, proprio mentre aumenta
l'invecchiamento della popolazione e, ovviamente, i bisogni
soggettivi di chi diventa fisicamente e socialmente più “fragile”.
Le pensioni andrebbero indicizzate, così come i salari andrebbero
difesi dalla loro svalutazione
Si è concesso
forse troppo alle logiche meramente contabili e di mercato, a cui
anche il sindacato non ha saputo fare sufficiente argine...
Gli interventi per il
risanamento dell'economia, fatti dai precedenti governi erano
probabilmente necessari e urgenti, data la situazione di quasi
bancarotta in cui era giunto il nostro paese agli inizi degli anni
‘90; ma - come spesso accade negli stati di necessità - si è
usata l'accetta che, come al solito, è andata a colpire dove è più
facile farlo. Lo stesso accordo del 1993, quello che vide il
sindacato, secondo me responsabilmente, accettare politiche di
moderazione salariale, e poi successivamente la tassa sull'euro,
ecc., andava fatto perché - poche balle - in Europa bisognava
assolutamente andarci (pensate alla liretta, in caso contrario, che
fine avrebbe fatto...). Ma andava fatto con una metodologia diversa,
definendo modi e tempi di verifica certi, anche riguardo al fatto che
tutti facessero la loro parte. La stessa vicenda di Melfi ci dice
questo. Io non so se, 10 anni fa, avrei firmato quell'accordo a
regime differenziato. Una cosa, però, l'avrei certamente fatta:
avrei preteso delle scadenze precise e delle verifiche periodiche,
santo Iddio! Altrimenti la gente giustamente si incazza. Insomma i
contratti, sono a termine, magari possono essere rinnovati, ma non
sono eterni
E invece?
E invece l'accordo del
‘93, continua ad essere vigente, ma in maniera unilaterale. Dopo 11
anni sei rimasto solo tu a pagare, e si continuano a penalizzare le
pensioni e la massa del lavoro dipendente, per cui la concordata
politica dei redditi è diventata, di fatto, una politica dei salari.
Non dimentichiamo che con quell'accordo fu eliminata ogni residua
indicizzazione automatica. Da allora, l'indicizzazione dei salari
avviene, ogni quattro anni, solo tramite contrattazione sindacale,
avendo un suo vincolo nel tetto di inflazione programmata, e una
“finestra” che si apre ogni due anni, per riadeguare
eventualmente i salari con i contratti integrativi aziendali. Ma,
come si sa, solo in un quarto delle aziende ci sono le condizioni per
stipulare tali accordi integrativi, in quanto nella grande
maggioranza di esse, il sindacato non entra, viene ammazzato nella
culla. Ciò è la conseguenza di un altro fatto importante avvenuto
in questi anni, e cioè che è cambiato, in maniera radicale, anche
il mercato del lavoro, per cui se prima la stragrande maggioranza dei
nuovi assunti entravano con contratti a tempo indeterminato, la
situazione si è progressivamente modificata fino al punto che oggi
circa il 70-80% delle nuove assunzioni avvengono con contratti
cosiddetti atipici.
E la cosa,
ovviamente, non è senza conseguenze sul piano della forza
contrattuale del sindacato. Da alcuni anni, la Cgil è stata
costretta a sovraesporsi politicamente, a causa dalla debolezza ed
insipienza delle opposizioni, ed a svolgere anche un compito di
rappresentanza politica più generale. Ciò ha determinato tensioni e
crisi di rapporti, soprattutto con la Cisl che con il “Patto per
l'Italia” e altri accordi separati, soprattutto quello nazionale
dei metalmeccanici, hanno determinato una crisi grave dell'unità
sindacale. Come pensi si possa superare tale situazione, e cosa ne
pensi dell'ormai annoso problema della rappresentanza sindacale?
Il fatto che la Cgil si
sia “esposta” politicamente più del dovuto è dipeso, secondo
anche alcuni dirigenti della “Quercia”, dal fatto che il gruppo
dirigente di quel sindacato ha ritenuto, ad un certo punto, che i Ds
fossero ormai “finiti” e che quindi occorresse, per forza di
cose, assumersi il carico di dare voce alla opposizione politica che
cresceva nel paese contro questo governo, e di fungere, da
costituendo “Partito del lavoro”.
Il tema del
“Partito del lavoro” lo propose esplicitamente il compianto
leader della Fiom, Sabattini.
Idea eccellente, ma in
ritardo di circa 150 anni... In realtà questo non è il mestiere del
sindacato. È
stata, questa,
un'illusione e una forzatura da parte della Cgil. C'è in proposito
una utilissima ricerca effettuata in Lombardia, sui pensionati della
Cgil da cui emerge che circa il 40 % di essi vota Lega, Forza Italia
o altri partiti del centro-destra, che la dice lunga di come sia un
po' complicato surrogare la rappresentanza politica attraverso il
sindacato.
Dicci allora tu,
cosa dovrebbe fare oggi il sindacato
Per fare bene il proprio
mestiere, il sindacato prima di tutto, deve stabilire bene cosa vuole
e dove voglia andare. Come Alice nel Paese delle meraviglie che
chiede al gatto Casimiro, quale strada dovesse da lì riprendere e il
gatto gli risponde: “Dipende da dove vuoi andare”, lo stesso vale
per il sindacato. Se si decide che il proprio compito è
semplicemente quello di fare i contratti, rinunciando ad essere un
sindacato confederale che lotta per obiettivi più generali, di
equità e solidarietà sociale, beh! allora non trovo niente di
strano nel pluralismo organizzativo, né mi scandalizzano accordi, né
tantomeno scioperi separati. Anzi, sul piano delle conquiste
strettamente categoriali, i Cobas, i macchinisti dei ferrovieri,
ecc., sono probabilmente in grado di strappare risultati più ricchi
dei confederali. Il problema sorge, invece, se il sindacato vuole –
non diventare surrettizio alla rappresentanza politica - ma
continuare ad incidere realmente sugli indirizzi di politica
economica e sociale in senso perequativo e di maggiore giustizia
sociale. Rispetto a ciò, l'unità è imprescindibile, senza di che
il sindacato non conta pressoché nulla, e non è in grado di
incidere neanche sui punti da mettere all'ordine del giorno con le
controparte. Tant'è che in questi ultimi anni si è andati sempre a
discutere, non su proprie piattaforme unitarie (che appunto non ci
sono), ma, sulla difensiva e su provvedimenti stabiliti da altri.
Sì, teoricamente è
così, ma sul piano concreto, a fronte di posizioni molto distanti e
di atteggiamenti che negano ai lavoratori di poter scegliere fra una
linea e l'altra, come nella vertenza per il contratto dei
metalmeccanici ...
Questo è, quasi sempre,
l'alibi del ceto sindacale per non andare ad una piattaforma comune.
La realtà è che se già si parte da piattaforme differenti, è
anche molto più probabile che si producano accordi separati. Ho
passato più di un quarto della mia vita fra i metalmeccanici ed
anche per questo, mi fa rabbia la superficialità e la stupidità
culturali di chi - anche forse in buona fede - sottovaluta il rischio
di andare separati ad una battaglia sindacale ed alla debolezza che
ciò determina poi in sede di trattativa. Questo è un punto
fondamentale.
Il contratto deve
essere validato da tutti i lavoratori, o solo dagli iscritti? Su
questo, fra Cgil e Cisl, ci sono posizioni differenti e non da oggi,
ma che sono storiche e culturali.
So bene che esistono
delle differenze antiche sulla questione, riducibili a due distinti
modelli sindacali: uno di tipo privato-collettivo, in cui l'azione
del sindacato e delle controparti si svolge in un terreno dove lo
Stato se ne sta alla larga, l'altra di tipo pubblicistico, ove
l'azione sindacale, in quanto riconosciuta di utilità sociale,
quindi “pubblica”, viene regolata da leggi. Io, per ragioni
soprattutto pratiche, non tanto derivanti dalla mia storia e
provenienza, sono contrario, in linea di massima, ad una legge sulla
rappresentanza, proprio perché credo che la legittimità del
sindacato debba provenire soprattutto dalla credibilità guadagnata
sul campo verso i lavoratori e dalla capacità con cui esso riesce a
coinvolgerli e renderli protagonisti, e non dall'esterno. Neanche da
una legge di un Parlamento “amico” che poi inevitabilmente
condizionerebbe la tua azione autonoma, e che poi potrebbe essere
cancellata dal governo successivo... Il sindacato ha raggiunto il
massimo della sua forza e del suo potere proprio quando non c'era
alcuna legge di questo tipo. Ciò non toglie naturalmente che si
possa e si debba trovare un approdo anche sul terreno legislativo,
come del resto fu fatto nel 1971-72 con lo Statuto dei lavoratori,
quando già anche allora esistevano simili discussioni “teologiche”
che spesso nascondono, ne sono convinto, il “cazzismo” del ceto
sindacale, di qualunque sponda.
La mancanza di una
legge sulla rappresentanza nuoce alla difesa e al rafforzamento della
democrazia sindacale?
Per quanto riguarda la
democrazia nel sindacato, le sue forme e i suoi strumenti, dico che
non è facile stabilire le regole che possano garantire, in ogni
situazione, la correttezza delle procedure. Penso che occorra evitare
atteggiamenti feticistici, verso questi stessi strumenti. Penso, in
particolare al referendum, che non può essere brandito come la
panacea in grado di certificare in maniera assoluta la volontà reale
dei lavoratori. Ve lo dice chi di referendum ne ha fatti per 40 anni.
Come durante la vicenda complicata e tragica che furono i 35 giorni
alla Fiat, quando si andò a sottoporre l'accordo ai lavoratori.
Ricordo che alle Meccaniche dovetti battagliare aspramente con quella
parte di lavoratori, per così dire “più militanti” e che
avevano fatto, più di tutti, i picchetti, i quali sostenevano che
coloro i quali invece non vi avevano partecipato, o non a
sufficienza, non avevano diritto a votare. Insomma voglio dire che
anche per il referendum occorre usare soprattutto il buon senso e
attribuirgli un valore orientativo, tenuto conto che in fabbrica esso
si svolge non come nelle votazioni istituzionali, con le cabine, il
segreto del voto, ecc., ma per alzata di mano.
E quando le
posizioni sono distanti, come si fa a fare l'unità sindacale?
Mah! Anche questa delle
differenti posizioni mi sembra che si tratti, spesso, di un alibi. Le
differenze, anche profonde, ci sono sempre state. E per fortuna! Non
riesco ad immaginare un sindacato confederale in divisa, dove non
esista una dialettica di posizioni. In realtà, sono convinto che la
difficoltà a raggiungere una base comune unitaria dipende quasi
sempre dal ceto sindacale, in quanto tale, il quale spesso si
rafforza e sopravvive proprio attraverso le diatribe fra le
organizzazioni, utilizzate come strumento di compattamento interno e
con cui poi è più facile azzittire le voci non allineate. Questo
del ceto sindacale è un problema reale. Esso non avrebbe nulla da
guadagnare da una eventuale unità anche organizzativa del sindacato,
perché ciò sarebbe destabilizzante e metterebbe “pericolosamente”
in discussione le posizioni acquisite. Questo è l'ostacolo più
grosso, secondo me, all'unità. Molto più delle “grandi” opzioni
culturali e politiche che andrebbero un pochino relativizzate invece
che presentate come “teologiche”, quando, in realtà, c'è sempre
lo spazio per raggiungere compromessi che non mortifichino nessuno.
Cambiamo, un po',
argomento: il fatto che Montezemolo, oggi alla guida di
Confindustria, abbia mandato al diavolo Berlusconi, può significare,
almeno in parte, una certa consapevolezza della necessità di un
nuovo modello di sviluppo, dando quindi ragione alla resistenza del
sindacato che non ha mai cessato di rivendicarla?
Non esagererei. Credo che
più che per la resistenza del sindacato, molto più semplicemente,
Montezemolo sia stato eletto quale rappresentante di un'idea più
dialogante e pragmatica delle relazioni sindacali, e di quel disagio
crescente in una larga fetta di industriali, nei confronti di una
politica, inutilmente “sanguinosa” (per tutti) e inconcludente
come quella dell'ex presidente D'Amato, ed a cui Berlusconi teneva
bordone. È cresciuta insomma la consapevolezza, fra gli industriali
che le “guerre sante”, come quella per sull'articolo 18 (di
nessuna utilità per le aziende) combattute in termini di scontro
frontale e ideologico, con l'obiettivo di dare un colpo mortale al
sindacato, non servono a niente. Di suo Montezemolo ha introdotto,
certamente, elementi di stile, di buone maniere e anche di buon
senso, quello per cui, se si vuole innalzare il livello di
competitività del sistema paese e superare un tornante difficile,
come l'attuale, per l'economia italiana, occorre investire in
innovazione e, soprattutto, migliorare i rapporti sociali
complessivi, cercando di “fidelizzare” e motivare i lavoratori,
più che ricorrendo ai vantaggi della precarietà. Cose certamente
significative, ma non mi spingerei oltre. Non è che Montezemolo sia
diventato improvvisamente di sinistra. Certo, il sindacato potrebbe
dargli una mano a fare più chiarezza, prima di tutto dentro di sé,
soprattutto riguardo al rilancio del dialogo, della concertazione e
della contrattazione. Sarebbe il caso di smetterla con l'uso
intercambiabile di tali concetti, che sono invece tre cose ben
distinte. Non si può confondere il dialogo, le buone maniere, e la
disponibilità a mettersi intorno ad un tavolo, con la contrattazione
in cui si confrontano e si scontrano obiettivi e piattaforme diverse,
o con la concertazione che invece riguarda un tipo di rapporto
triangolare per problemi, come per esempio, l'ingresso nell'Euro, ove
un soggetto non può decidere e/o muoversi da solo, ma
necessariamente insieme ad altri.
Spiegati meglio
Tanto per capirci,
riguardo alle pensioni, non c'è alcuna concertazione da fare, ma
invece una contrattazione, e dura, con una controparte ben precisa
che è il Governo. Quando sempre il signor Governo, decide
unilateralmente gli sgravi contributivi alle imprese, io devo
interromperlo subito e ricordargli che neanche deve permettersi di
dire una cosa simile, perché non si tratta di sgravi alle imprese,
ma invece di riduzione di salario, del mio salario, differito e
contrattato con la controparte.
Sempre nella tua
rivista on-line, parli di occupazione senza crescita, che si
accompagna a fenomeni di redistribuzione selvaggia del lavoro che
andrebbe governata. Puoi spiegarci cosa intendi?
La crescita occupazionale
con cui il governo si autocelebra, se fosse vera sarebbe un brutto
segno, perché quando l'occupazione cresce in presenza di un Pil che
invece sta fermo, significa che diminuisce la produttività e che
quindi il nostro sistema è meno competitivo. In realtà il fenomeno
è più complesso, la regolarizzazione di circa 700 mila immigrati,
l'emersione del lavoro nero (che è comunque un fatto positivo),
ecc., ha determinato una redistribuzione del lavoro selvaggia, per
cui, per esempio, invece di due lavoratori a tempo pieno, si occupano
cinque persone a tempo parziale, magari con una sperequazione, fra
loro, molto alta di orario, per cui magari, uno lavora 5 ore la
settimana, un altro 35. Quello che sostengo è che varrebbe la pena
che il sindacato negoziasse e contrattasse una distribuzione più
equa di orario anche fra questi lavoratori.
Un tuo giudizio
sulla Costituzione europea appena approvata che ha, secondo noi, una
chiara impronta liberista (privatizzazione dei servizi anche di
quelli sanitari, delle assicurazioni sociali, ecc.) pur se temperata
da alcune affermazioni di principio contenute sulla Carta sociale.
Più che ad una
Costituzione, assomiglia ad un trattato, e su cui il mio giudizio è
simile al vostro. Inoltre, il giudizio è ancora più negativo se si
considera che su molte materie importanti è rimasto il vincolo della
unanimità che, di fatto, blocca qualsiasi decisione e rende sterile,
in molti casi, la battaglia politica. Si aggiunga la mancanza di un
bilancio federale consistente dato che ogni Stato contribuisce appena
per lo 0,75 % del proprio Pil (quando negli Usa è del 15%!), che
rende oggettivamente difficile fare una politica economica di un
certo peso, e che la Ue non si occupa delle singole politiche sociali
(anche se inique) che ogni paese decide di adottare, (perché
l'importante è stare dentro i parametri economici di Maastricht), e
si spiega la scarsa partecipazione alle ultime elezioni europee ove i
cittadini europei si sono sentiti esclusi da questioni così decisive
Si è fatto tardi,
ma un ultima, domanda, vorremmo farla sull'Umbria...
Beh! l'Umbria me la
racconterete voi un'altra volta. Comunque speriamo che il tempo
regga. Un modo elegante per dribblare la domanda, o una risposta
metaforica? Comunque ci mettiamo tutti a ridere, e ci salutiamo,
promettendoci nuove occasioni di incontro.
Nota
All'incontro hanno
partecipato per “micropolis” Osvaldo Fressoia, Salvatore Lo
Leggio, Franco Morrone, Pino Tagliazucchi.
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