7.6.18

“Il mestiere del sindacato”. Intervista a Pierre Carniti (“micropolis”, luglio 2004)


È morto ieri Pierre Carniti, figura di primo piano della storia sindacale di questo paese, la cui vicenda è legata prima all'epopea dei metalmeccanici, che dopo l'autunno caldo, riuscirono a realizzare un'unità sindacale che andava oltre il dialogo e l'accordo tra le Confederazioni Cgil, Cisl e Uil.
Da segretario della Fim Carniti partecipò con un ruolo di primo piano a una stagione complessa, di avanzate e ritirate, ma soprattutto fu protagonista della costruzione della Flm, la Federazione unitaria dei lavoratori metalmeccanici che aggregava i sindacati confederali (Fiom, Fim e Uilm) e sopravvisse qualche anno alle tensioni tra le confederazioni.
Da segretario generale della Cisl Pierre Carniti ruppe con la Cgil nel 1983 a proposito della legge voluta dal governo Craxi e concordata con Cisl e Uil (non con la Cgil), che – tagliando di due punti la cosiddetta “scala mobile”- sterilizzava l'indicizzazione automatica del salario in relazione al costo della vita, anticipandone la successiva abolizione. La stampa padronale (in primis “Il Sole 24 Ore” e “La Stampa”) oggi gliene rende merito, ma da quella legge partì la progressiva perdita di valore d'acquisto per molte retribuzioni e Carniti, pur rimanendo convinto che la norma al tempo fosse indispensabile, non ha mai considerato quell'accordo e quella rottura tra i sindacati uno dei suoi meriti più grandi. Quend'era alla testa della Cisl lanciò la parola d'ordine “Lavorare tutti, lavorare meno”, che prospettava una riduzione generalizzata dell'orario di lavoro.
Concluso il suo mandato di segretario generale Cisl - dopo aver difeso con successo al referendum abrogativo il taglio della scala mobile – Carniti fu eletto al Parlamento Europeo prima nelle liste Psi (1989) poi in quelle del Pds (1994). Fu anche – per un solo anno – senatore: era entrato a Palazzo Madama nel 1993, come primo dei non eletti del Psi in Lombardia, al posto di un senatore defunto.
Il testo che qui posto per ricordarne la figura, poco noto al grande pubblico, risale al 2004, quando – da pensionato – animava una rivista on line sui temi del lavoroe della solidarietà sociale. Alcuni redattori di “micropolis” andammo a trovare Carniti nella casa di campagna che possedeva in Umbria, per porgli in gruppo alcune domande politiche. L'intervista è datata (non era ancora esplosa la crisi economica mondiale, al governo in Italia c'era Berlusconi ed era stata appena approvata una bozza di Costituzione Europea, che poi non ebbe seguito per il veto francese) e tuttavia mi pare emblematica di uno stile, di un modo di pensare e di dirigere, di una concezione del sindacato. Il suo estensore materiale fu, se non ricordo male, Osvaldo Fressoia. (S.L.L.)


L'appuntamento è alla Chiesa di Santa Maria in Pantano, annidata in un antico edificio di epoca romana (ma con portale gotico ed un rosone che ricorda clamorosamente la non lontana cattedrale di Todi), che ti sorprende all'improvviso lungo la statale che, usciti dalla superstrada, poco dopo Collevalenza, si dirige verso Massa Martana. Da qui, insinuandoci per strade più interne, Pierre Carniti ci conduce nel suo casale immerso nel verde, dove - sotto un accogliente pergolato che ci protegge da un sole finalmente estivo - rompiamo il ghiaccio e iniziamo la discussione.
A Carniti, uno dei più prestigiosi leader del movimento sindacale italiano negli anni cruciali della vicenda politica del nostro paese - diventa segretario generale della Cisl pochi mesi prima dei fatali “35 giorni” alla Fiat, dopo aver diretto il sindacato metalmeccanico, deputato per due legislature al Parlamento Europeo - e oggi in pensione, ma “occupatissimo e pieno di impegni, proprio come chi non ha più un cavolo da fare”, vogliamo fare domande riguardo a tre blocchi di problemi: la condizione lavorativa dentro la tendenza, specificamente italiana, al declino industriale; l'Europa sociale e, infine, l'Umbria.
Carniti parla con pacatezza, cercando parole argomenti che non indulgono mai verso la declamazione sloganistica e le semplificazioni di facile presa, ma mal dissimulano l'indignazione e la passione, intatte, del vecchio leader, come quando fa riferimento al governo in carica - “una banda di cialtroni” - o quando gli pare di cogliere in noi una certa sottovalutazione circa i rischi legati alla latente non unità sindacale. In ogni caso appare saldamente ma laicamente ancorato - al di là di singole questioni - alle ragioni, quelle più profonde e genuine, di quel sindacato, la Cisl, che è stato tanta parte della sua vita.

Partiamo da quello che ormai viene chiamato declino economico e industriale del nostro Paese, i rischi che esso comporta ed i possibili rimedi.
Il problema c'è ed è ancor più grave perché si tratta di declino anche sociale, culturale e perfino morale. Del resto guardate in che mani siamo. A questo governo del rilancio industriale non interessa niente; altre, per esso, come sappiamo, sono le priorità: la “giustizia”, la riduzione delle tasse (per i ricchi), ecc. Ed è risibile l'affermazione che Francia e Germania starebbero peggio di noi, quando la Germania, per esempio, nonostante una crisi economica e finanziaria indubbia, diversamente da noi, mantiene un apparato industriale di prim'ordine e la cui quota di mercato mondiale è cresciuta. Un mero esorcismo, inoltre, si è rivelato, quello di concentrare quasi esclusivamente sul costo del lavoro, la politica economica. Ricetta che - dato il carattere mondializzato dell'economia - può funzionare alcuni mesi, un anno, due... ma poi si troverà sempre in giro per il mondo qualcuno disposto a lavorare ancora più a “buon mercato”. Insomma si può rimanere a galla soprattutto con produzioni ad alto contenuto tecnologico e ad alto valore aggiunto. Il dramma è che neanche il centro-sinistra pare avere un piano di rilancio. O se ce l'ha, ce lo tengono ben nascosto. Le accuse più nette finora rivolte al governo sono state che esso non avrebbe mantenuto gli impegni, cioè di non aver abbassato le tasse, tagliando la spesa sociale... Mentre si dovrebbe prima di tutto spiegare che quel programma è una bufala, e cioè che la riduzione delle tasse, e il minore gettito che ne deriverebbe, venendo finanziata col taglio delle spese, sociali o per investimenti che siano, non potrà determinare alcun rilancio dell'economia. La riduzione delle tasse potrebbe - dico potrebbe - avere effetti espansivi, solo se venisse fatta in deficit, cioè senza agire - come invece vuol fare l'attuale maggioranza - sul versante della spesa sociale, riducendola. Un po' insomma quello che fece Reagan, che secondo me aveva l'Alzheimer già quando felicemente regnava, il quale abbassò enormemente le tasse ai ricchi, perché così si sarebbero liberate risorse per lo sviluppo e al tempo stesso, aumentò il deficit commerciale e quello del bilancio federale. Ma va detto, che da questo punto di vista, i risultati furono assai modesti, tanto che l'economia è cresciuta più con Clinton che, guarda caso, le tasse (e le spese sociali) poi le riaumentò. E poi i ricchi, il modo di ridursi le tasse lo trovano sempre anche da soli.

E la sinistra?
La sinistra, il centro-sinistra, dovrebbe invece chiedere voti per un programma alternativo sia per rilanciare l'economia, sia per una maggiore equità e solidarietà sociale, concetti che, mi pare, stiano diventando sempre più quasi delle parolacce. E che invece occorre rilanciare a partire dalla questione salariale e della redistribuzione della ricchezza in termini meno generici di come è stato fatto finora. Dai pochi studi significativi disponibili, emerge che l'indice di povertà relativa (parametro entro cui viene collocato chi percepisce un reddito inferiore al 50% del reddito medio) non sale, è vero, ma oltre al fatto che tale parametro tende, in una fase di impoverimento economico generale, ad abbassarsi da sé, è invece significativo vedere che tale parametro si estende fra i redditi fissi (operai, impiegati e pensionati), mentre diminuisce tra chi può “destreggiarsi” meglio con il fisco, penso al lavoro autonomo. Insomma, mentre prima si svalutava la lira, cosa oggi non più possibile, oggi si svalutano salari e pensioni.

Nell'ultimo articolo della tua rivista on-line, riprendi la questione dell'aumento, anche in Italia, dei lavoratori dipendenti che scivolano nelle fasce di povertà, fenomeno che secondo Cofferati, in passato non c'era. Che ci dici al riguardo?
Beh, il fenomeno c'è stato anche in passato: penso ai braccianti delle nostre parti (Carniti è nato nel Cremonese, ndr), poi, fortunatamente cancellato dalle grandi conquiste operaie e sindacali. Ma il problema è reale, con l'aggravante che i lavoratori di oggi saranno ancora più poveri quando andranno in pensione. E ciò sarà ancora più vero con l'estendersi del lavoro precario, cioè di tutta quella congerie di lavori regolati dalle nuove forme contrattuali previste dalla Legge 30. Da una ricerca recente emerge che, all'interno di un sistema che sarà sempre più “contributivo”, un Co.Co.Co. che avrà la sventura di lavorare tutta la vita in maniera precaria e intermittente, pagando i relativi contributi, prenderà, alla fine della sua “carriera”, una pensione di 360 euro al mese, cioè più bassa dell'attuale pensione sociale. La realtà è che le pensioni stanno via via deperendo, legate come sono a parametri che stanno al di sotto delle dinamiche dell'inflazione, proprio mentre aumenta l'invecchiamento della popolazione e, ovviamente, i bisogni soggettivi di chi diventa fisicamente e socialmente più “fragile”. Le pensioni andrebbero indicizzate, così come i salari andrebbero difesi dalla loro svalutazione

Si è concesso forse troppo alle logiche meramente contabili e di mercato, a cui anche il sindacato non ha saputo fare sufficiente argine...
Gli interventi per il risanamento dell'economia, fatti dai precedenti governi erano probabilmente necessari e urgenti, data la situazione di quasi bancarotta in cui era giunto il nostro paese agli inizi degli anni ‘90; ma - come spesso accade negli stati di necessità - si è usata l'accetta che, come al solito, è andata a colpire dove è più facile farlo. Lo stesso accordo del 1993, quello che vide il sindacato, secondo me responsabilmente, accettare politiche di moderazione salariale, e poi successivamente la tassa sull'euro, ecc., andava fatto perché - poche balle - in Europa bisognava assolutamente andarci (pensate alla liretta, in caso contrario, che fine avrebbe fatto...). Ma andava fatto con una metodologia diversa, definendo modi e tempi di verifica certi, anche riguardo al fatto che tutti facessero la loro parte. La stessa vicenda di Melfi ci dice questo. Io non so se, 10 anni fa, avrei firmato quell'accordo a regime differenziato. Una cosa, però, l'avrei certamente fatta: avrei preteso delle scadenze precise e delle verifiche periodiche, santo Iddio! Altrimenti la gente giustamente si incazza. Insomma i contratti, sono a termine, magari possono essere rinnovati, ma non sono eterni

E invece?
E invece l'accordo del ‘93, continua ad essere vigente, ma in maniera unilaterale. Dopo 11 anni sei rimasto solo tu a pagare, e si continuano a penalizzare le pensioni e la massa del lavoro dipendente, per cui la concordata politica dei redditi è diventata, di fatto, una politica dei salari. Non dimentichiamo che con quell'accordo fu eliminata ogni residua indicizzazione automatica. Da allora, l'indicizzazione dei salari avviene, ogni quattro anni, solo tramite contrattazione sindacale, avendo un suo vincolo nel tetto di inflazione programmata, e una “finestra” che si apre ogni due anni, per riadeguare eventualmente i salari con i contratti integrativi aziendali. Ma, come si sa, solo in un quarto delle aziende ci sono le condizioni per stipulare tali accordi integrativi, in quanto nella grande maggioranza di esse, il sindacato non entra, viene ammazzato nella culla. Ciò è la conseguenza di un altro fatto importante avvenuto in questi anni, e cioè che è cambiato, in maniera radicale, anche il mercato del lavoro, per cui se prima la stragrande maggioranza dei nuovi assunti entravano con contratti a tempo indeterminato, la situazione si è progressivamente modificata fino al punto che oggi circa il 70-80% delle nuove assunzioni avvengono con contratti cosiddetti atipici.

E la cosa, ovviamente, non è senza conseguenze sul piano della forza contrattuale del sindacato. Da alcuni anni, la Cgil è stata costretta a sovraesporsi politicamente, a causa dalla debolezza ed insipienza delle opposizioni, ed a svolgere anche un compito di rappresentanza politica più generale. Ciò ha determinato tensioni e crisi di rapporti, soprattutto con la Cisl che con il “Patto per l'Italia” e altri accordi separati, soprattutto quello nazionale dei metalmeccanici, hanno determinato una crisi grave dell'unità sindacale. Come pensi si possa superare tale situazione, e cosa ne pensi dell'ormai annoso problema della rappresentanza sindacale?
Il fatto che la Cgil si sia “esposta” politicamente più del dovuto è dipeso, secondo anche alcuni dirigenti della “Quercia”, dal fatto che il gruppo dirigente di quel sindacato ha ritenuto, ad un certo punto, che i Ds fossero ormai “finiti” e che quindi occorresse, per forza di cose, assumersi il carico di dare voce alla opposizione politica che cresceva nel paese contro questo governo, e di fungere, da costituendo “Partito del lavoro”.

Il tema del “Partito del lavoro” lo propose esplicitamente il compianto leader della Fiom, Sabattini.
Idea eccellente, ma in ritardo di circa 150 anni... In realtà questo non è il mestiere del sindacato. È
stata, questa, un'illusione e una forzatura da parte della Cgil. C'è in proposito una utilissima ricerca effettuata in Lombardia, sui pensionati della Cgil da cui emerge che circa il 40 % di essi vota Lega, Forza Italia o altri partiti del centro-destra, che la dice lunga di come sia un po' complicato surrogare la rappresentanza politica attraverso il sindacato.

Dicci allora tu, cosa dovrebbe fare oggi il sindacato
Per fare bene il proprio mestiere, il sindacato prima di tutto, deve stabilire bene cosa vuole e dove voglia andare. Come Alice nel Paese delle meraviglie che chiede al gatto Casimiro, quale strada dovesse da lì riprendere e il gatto gli risponde: “Dipende da dove vuoi andare”, lo stesso vale per il sindacato. Se si decide che il proprio compito è semplicemente quello di fare i contratti, rinunciando ad essere un sindacato confederale che lotta per obiettivi più generali, di equità e solidarietà sociale, beh! allora non trovo niente di strano nel pluralismo organizzativo, né mi scandalizzano accordi, né tantomeno scioperi separati. Anzi, sul piano delle conquiste strettamente categoriali, i Cobas, i macchinisti dei ferrovieri, ecc., sono probabilmente in grado di strappare risultati più ricchi dei confederali. Il problema sorge, invece, se il sindacato vuole – non diventare surrettizio alla rappresentanza politica - ma continuare ad incidere realmente sugli indirizzi di politica economica e sociale in senso perequativo e di maggiore giustizia sociale. Rispetto a ciò, l'unità è imprescindibile, senza di che il sindacato non conta pressoché nulla, e non è in grado di incidere neanche sui punti da mettere all'ordine del giorno con le controparte. Tant'è che in questi ultimi anni si è andati sempre a discutere, non su proprie piattaforme unitarie (che appunto non ci sono), ma, sulla difensiva e su provvedimenti stabiliti da altri.

Sì, teoricamente è così, ma sul piano concreto, a fronte di posizioni molto distanti e di atteggiamenti che negano ai lavoratori di poter scegliere fra una linea e l'altra, come nella vertenza per il contratto dei metalmeccanici ...
Questo è, quasi sempre, l'alibi del ceto sindacale per non andare ad una piattaforma comune. La realtà è che se già si parte da piattaforme differenti, è anche molto più probabile che si producano accordi separati. Ho passato più di un quarto della mia vita fra i metalmeccanici ed anche per questo, mi fa rabbia la superficialità e la stupidità culturali di chi - anche forse in buona fede - sottovaluta il rischio di andare separati ad una battaglia sindacale ed alla debolezza che ciò determina poi in sede di trattativa. Questo è un punto fondamentale.

Il contratto deve essere validato da tutti i lavoratori, o solo dagli iscritti? Su questo, fra Cgil e Cisl, ci sono posizioni differenti e non da oggi, ma che sono storiche e culturali.
So bene che esistono delle differenze antiche sulla questione, riducibili a due distinti modelli sindacali: uno di tipo privato-collettivo, in cui l'azione del sindacato e delle controparti si svolge in un terreno dove lo Stato se ne sta alla larga, l'altra di tipo pubblicistico, ove l'azione sindacale, in quanto riconosciuta di utilità sociale, quindi “pubblica”, viene regolata da leggi. Io, per ragioni soprattutto pratiche, non tanto derivanti dalla mia storia e provenienza, sono contrario, in linea di massima, ad una legge sulla rappresentanza, proprio perché credo che la legittimità del sindacato debba provenire soprattutto dalla credibilità guadagnata sul campo verso i lavoratori e dalla capacità con cui esso riesce a coinvolgerli e renderli protagonisti, e non dall'esterno. Neanche da una legge di un Parlamento “amico” che poi inevitabilmente condizionerebbe la tua azione autonoma, e che poi potrebbe essere cancellata dal governo successivo... Il sindacato ha raggiunto il massimo della sua forza e del suo potere proprio quando non c'era alcuna legge di questo tipo. Ciò non toglie naturalmente che si possa e si debba trovare un approdo anche sul terreno legislativo, come del resto fu fatto nel 1971-72 con lo Statuto dei lavoratori, quando già anche allora esistevano simili discussioni “teologiche” che spesso nascondono, ne sono convinto, il “cazzismo” del ceto sindacale, di qualunque sponda.

La mancanza di una legge sulla rappresentanza nuoce alla difesa e al rafforzamento della democrazia sindacale?
Per quanto riguarda la democrazia nel sindacato, le sue forme e i suoi strumenti, dico che non è facile stabilire le regole che possano garantire, in ogni situazione, la correttezza delle procedure. Penso che occorra evitare atteggiamenti feticistici, verso questi stessi strumenti. Penso, in particolare al referendum, che non può essere brandito come la panacea in grado di certificare in maniera assoluta la volontà reale dei lavoratori. Ve lo dice chi di referendum ne ha fatti per 40 anni. Come durante la vicenda complicata e tragica che furono i 35 giorni alla Fiat, quando si andò a sottoporre l'accordo ai lavoratori. Ricordo che alle Meccaniche dovetti battagliare aspramente con quella parte di lavoratori, per così dire “più militanti” e che avevano fatto, più di tutti, i picchetti, i quali sostenevano che coloro i quali invece non vi avevano partecipato, o non a sufficienza, non avevano diritto a votare. Insomma voglio dire che anche per il referendum occorre usare soprattutto il buon senso e attribuirgli un valore orientativo, tenuto conto che in fabbrica esso si svolge non come nelle votazioni istituzionali, con le cabine, il segreto del voto, ecc., ma per alzata di mano.

E quando le posizioni sono distanti, come si fa a fare l'unità sindacale?
Mah! Anche questa delle differenti posizioni mi sembra che si tratti, spesso, di un alibi. Le differenze, anche profonde, ci sono sempre state. E per fortuna! Non riesco ad immaginare un sindacato confederale in divisa, dove non esista una dialettica di posizioni. In realtà, sono convinto che la difficoltà a raggiungere una base comune unitaria dipende quasi sempre dal ceto sindacale, in quanto tale, il quale spesso si rafforza e sopravvive proprio attraverso le diatribe fra le organizzazioni, utilizzate come strumento di compattamento interno e con cui poi è più facile azzittire le voci non allineate. Questo del ceto sindacale è un problema reale. Esso non avrebbe nulla da guadagnare da una eventuale unità anche organizzativa del sindacato, perché ciò sarebbe destabilizzante e metterebbe “pericolosamente” in discussione le posizioni acquisite. Questo è l'ostacolo più grosso, secondo me, all'unità. Molto più delle “grandi” opzioni culturali e politiche che andrebbero un pochino relativizzate invece che presentate come “teologiche”, quando, in realtà, c'è sempre lo spazio per raggiungere compromessi che non mortifichino nessuno.

Cambiamo, un po', argomento: il fatto che Montezemolo, oggi alla guida di Confindustria, abbia mandato al diavolo Berlusconi, può significare, almeno in parte, una certa consapevolezza della necessità di un nuovo modello di sviluppo, dando quindi ragione alla resistenza del sindacato che non ha mai cessato di rivendicarla?
Non esagererei. Credo che più che per la resistenza del sindacato, molto più semplicemente, Montezemolo sia stato eletto quale rappresentante di un'idea più dialogante e pragmatica delle relazioni sindacali, e di quel disagio crescente in una larga fetta di industriali, nei confronti di una politica, inutilmente “sanguinosa” (per tutti) e inconcludente come quella dell'ex presidente D'Amato, ed a cui Berlusconi teneva bordone. È cresciuta insomma la consapevolezza, fra gli industriali che le “guerre sante”, come quella per sull'articolo 18 (di nessuna utilità per le aziende) combattute in termini di scontro frontale e ideologico, con l'obiettivo di dare un colpo mortale al sindacato, non servono a niente. Di suo Montezemolo ha introdotto, certamente, elementi di stile, di buone maniere e anche di buon senso, quello per cui, se si vuole innalzare il livello di competitività del sistema paese e superare un tornante difficile, come l'attuale, per l'economia italiana, occorre investire in innovazione e, soprattutto, migliorare i rapporti sociali complessivi, cercando di “fidelizzare” e motivare i lavoratori, più che ricorrendo ai vantaggi della precarietà. Cose certamente significative, ma non mi spingerei oltre. Non è che Montezemolo sia diventato improvvisamente di sinistra. Certo, il sindacato potrebbe dargli una mano a fare più chiarezza, prima di tutto dentro di sé, soprattutto riguardo al rilancio del dialogo, della concertazione e della contrattazione. Sarebbe il caso di smetterla con l'uso intercambiabile di tali concetti, che sono invece tre cose ben distinte. Non si può confondere il dialogo, le buone maniere, e la disponibilità a mettersi intorno ad un tavolo, con la contrattazione in cui si confrontano e si scontrano obiettivi e piattaforme diverse, o con la concertazione che invece riguarda un tipo di rapporto triangolare per problemi, come per esempio, l'ingresso nell'Euro, ove un soggetto non può decidere e/o muoversi da solo, ma necessariamente insieme ad altri.

Spiegati meglio
Tanto per capirci, riguardo alle pensioni, non c'è alcuna concertazione da fare, ma invece una contrattazione, e dura, con una controparte ben precisa che è il Governo. Quando sempre il signor Governo, decide unilateralmente gli sgravi contributivi alle imprese, io devo interromperlo subito e ricordargli che neanche deve permettersi di dire una cosa simile, perché non si tratta di sgravi alle imprese, ma invece di riduzione di salario, del mio salario, differito e contrattato con la controparte.

Sempre nella tua rivista on-line, parli di occupazione senza crescita, che si accompagna a fenomeni di redistribuzione selvaggia del lavoro che andrebbe governata. Puoi spiegarci cosa intendi?
La crescita occupazionale con cui il governo si autocelebra, se fosse vera sarebbe un brutto segno, perché quando l'occupazione cresce in presenza di un Pil che invece sta fermo, significa che diminuisce la produttività e che quindi il nostro sistema è meno competitivo. In realtà il fenomeno è più complesso, la regolarizzazione di circa 700 mila immigrati, l'emersione del lavoro nero (che è comunque un fatto positivo), ecc., ha determinato una redistribuzione del lavoro selvaggia, per cui, per esempio, invece di due lavoratori a tempo pieno, si occupano cinque persone a tempo parziale, magari con una sperequazione, fra loro, molto alta di orario, per cui magari, uno lavora 5 ore la settimana, un altro 35. Quello che sostengo è che varrebbe la pena che il sindacato negoziasse e contrattasse una distribuzione più equa di orario anche fra questi lavoratori.

Un tuo giudizio sulla Costituzione europea appena approvata che ha, secondo noi, una chiara impronta liberista (privatizzazione dei servizi anche di quelli sanitari, delle assicurazioni sociali, ecc.) pur se temperata da alcune affermazioni di principio contenute sulla Carta sociale.
Più che ad una Costituzione, assomiglia ad un trattato, e su cui il mio giudizio è simile al vostro. Inoltre, il giudizio è ancora più negativo se si considera che su molte materie importanti è rimasto il vincolo della unanimità che, di fatto, blocca qualsiasi decisione e rende sterile, in molti casi, la battaglia politica. Si aggiunga la mancanza di un bilancio federale consistente dato che ogni Stato contribuisce appena per lo 0,75 % del proprio Pil (quando negli Usa è del 15%!), che rende oggettivamente difficile fare una politica economica di un certo peso, e che la Ue non si occupa delle singole politiche sociali (anche se inique) che ogni paese decide di adottare, (perché l'importante è stare dentro i parametri economici di Maastricht), e si spiega la scarsa partecipazione alle ultime elezioni europee ove i cittadini europei si sono sentiti esclusi da questioni così decisive

Si è fatto tardi, ma un ultima, domanda, vorremmo farla sull'Umbria...
Beh! l'Umbria me la racconterete voi un'altra volta. Comunque speriamo che il tempo regga. Un modo elegante per dribblare la domanda, o una risposta metaforica? Comunque ci mettiamo tutti a ridere, e ci salutiamo, promettendoci nuove occasioni di incontro.

Nota
All'incontro hanno partecipato per “micropolis” Osvaldo Fressoia, Salvatore Lo Leggio, Franco Morrone, Pino Tagliazucchi.

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