Dal sito de “Il Ponte”, il mensile fiorentino fondato da Calamandrei, recupero con un titolo diverso (lì hanno scelto L'egemonia
della destra) un articolo
in cui molto mi riconosco, non solo per l'acuta rappresentazione del
“fascismo” leghista, ma anche per l'individuazione di uno spazio
di intervento a sinistra.
Una sinistra che voglia resistere e
rilanciarsi ha bisogno di essere – insieme – “basista” e
(almeno) continentale. È difficile? Ma quando mai è stato facile?
(S.L.L.)
Non avendo avuto il tempo
di scrivere per il numero a stampa, farò qualche osservazione
tardiva sulla formazione del nuovo governo: consapevole di come la
mia posizione sia minoritaria all’interno del «Ponte». Io credo
che il governo Conte sia un caso esemplare di quella situazione
politica che Gramsci esprimeva col termine “egemonia”. Un partito
la Lega – che per me ha inconfondibili tratti fascisti – ha
imposto la propria direzione politica di fatto, pur avendo come
alleato un movimento che aveva ricevuto il doppio dei suoi voti. Ai
significanti oscillanti dei Cinquestelle (tra destra e sinistra? Un
po’ di destra, un po’ di sinistra?) ha contrapposto un’ideologia
regressiva dura ed efficace. Ne ho scritto più volte su «Il Ponte»
e dunque sarò sintetico. La Lega è assonante con i fascismi storici
almeno su questi temi: Welfare ristretto rigorosamente ai soli
“indigeni” nazionali; razzismo e creazione di un nemico
“altro”, l’intruso capro espiatorio di ogni conflitto e
fallimento; critica della finanza cattiva e non del capitale
come modo di produzione; l’idea di un popolo-nazione
immaginariamente unificato al di là dei suoi conflitti di classe e
di interesse. L’enfasi anticoloniale costituisce da sempre un punto
di forza dei movimenti populisti, che configurano il nemico in una
nazione egemone (oggi la Germania), invece di contestare il sistema
capitalistico, di cui essa è solo una maschera e una funzione.
Infine, alla garanzia di una certa redistribuzione del reddito
corrisponde l’assicurazione che non saranno minimamente scalfiti i
“fondamentali” dell’economia attuale del capitale.
È una visione politica
che si configura come «rivoluzione passiva» di un programma di
sinistra, una sinistra che ha lasciato cadere o si è lasciata
espropriare di tutti i suoi temi distintivi, che ora vengono ripresi
– nella forma monca o amputata del nazionalismo escludente – dal
governo in carica. Il programma economico di tale governo, in
particolare, riformula proposte una volta di sinistra come il reddito
di cittadinanza, la revisione della legge Fornero, il blocco delle
grandi opere nocive all’ambiente; ma esse vengono inserite in un
contesto razzista e xenofobo, e –presumibilmente – saranno
realizzate in modo limitato, accettando un compromesso coi poteri
forti e la destra tecnocratica che pure è presente nella compagine
del governo.
Nel senso proposto da
Gramsci, in una rivoluzione passiva frammenti della cultura di
sinistra vengono conservati ma distolti dal loro fine essenziale e
dislocati in un contesto diverso e tendenzialmente opposto.
Così, per esempio, i
fascismi italiani hanno collocato in una disposizione gerarchica ed
elitaria elementi che inizialmente appartenevano a richieste
partorite dal principio di uguaglianza. L’assistenza sociale viene
concessa da Mussolini; purché venga subordinata allo statuto delle
corporazioni, alla rinuncia alla trattativa sindacale, alla negazione
di una classe antagonista (naturalmente essa viene accordata entro
certi limiti, meno di quanto era dapprima richiesto dai
socialisti, ma pur sempre più di quanto avrebbe accettato la
vecchia classe dirigente).
La Lega ha tentato di
recente di compiere un lavoro di assimilazione-deformazione per certi
versi simile, attenuando la sua iniziale carica provocatoria.
Proposte della sinistra sociale, come federalismo, autodecisione dei
territori, e perfino quella della cittadinanza dei migranti, vengono
deformate nella loro formulazione originaria e così omologate al
progetto autoritario, assumendo una caratteristica flessione
gerarchica. Prendiamo a esempio il tema dell’immigrazione. Non si
tratta più semplicemente di dire «fuori tutti», «non li
vogliamo», ma piuttosto: li vogliamo nella misura in cui ci servono,
nella misura in cui non tolgono il lavoro agli italiani, nella misura
in cui accettano una cittadinanza dimezzata; a patto insomma, che
l’integrazione si coniughi al comando della razza superiore e al
principio gerarchico.
Tuttavia, a questo
prezzo, a una parte degli immigrati vengono concessi certi diritti e
certe garanzie di lavoro e sopravvivenza (come ai servitori neri nel
Sud degli Stati Uniti di un tempo, o a quelli del colono europeo in
Africa). In un certo senso, l’immigrato può perfino apprezzare
questa parziale concessione di diritti (rispetto alla clandestinità),
che è meno di quanto richiedeva o poteva pretendere, ma più
di quanto i padroni inizialmente erano disposti a concedere. Una
tematica (la cittadinanza piena) che era patrimonio diffuso della
sinistra, che si ispirava all’inclusione e al principio di
uguaglianza, viene “corretta” dal suo assorbimento nella “tesi”
opposta, una costruzione gerarchica del sociale, divisa in signori e
servi (cittadinanza dimezzata).
I Cinque Stelle avevano
una componente che qualcuno definiva di “sinistra” o addirittura
anarchico-libertaria? Se c’era, è del tutto scomparsa dalla scena,
mentre il loro leader – Di Maio – è sovrastato sul piano
mediatico e spettacolare da Salvini. Il nostro presidente della
Repubblica si è molto spaventato per la presenza, in fondo
confermata, di Savona nella compagine di governo: a me spaventa molto
di più Salvini all’interno, con le sue promesse di deportazioni di
migranti, respingimenti violenti e la sua ossessione securitaria (che
proseguirebbe del resto la politica già iniziata da Minniti in
Libia, con la creazione di inumani campi di internamento). Qui si
addensa il nucleo oscuro di un nuovo autoritarismo, che potrebbe
portarci non tanto fuori dall’Europa, quanto verso l’Europa di
Orbàn.
Mi permetto di dire che
sono un po’ sorpreso di come nell’ultimo numero del «Ponte» si
faccia poca menzione di questo pericolo (a parte eccezioni) e del
possibile imbarbarimento dei comportamenti securitari.
Naturalmente occorre che
i rappresentanti della “sinistra” – come è accaduto di recente
agli avatar successivi del partito comunista – siano singolarmente
sprovveduti, incapaci e collusi perché l’opera di passivizzazione
abbia successo: o quanto meno che si ispirino a una cultura politica
obsoleta. La classe dirigente del Pd è corresponsabile della
vittoria del neoliberismo in Italia, della distruzione di ogni
nozione di socialismo, dell’adesione alle misure economiche più
sconsideratamente tecnocratiche della finanza multinazionale europea.
Non possono dunque invocare ora un «Fronte repubblicano».
Occorrerebbe un “Terzo
spazio”, tra europeismo tecnocratico e populismo neofascista, come
ha cercato di definirlo Y. Varoufakis in un suo libro (Il Terzo
spazio. Oltre establishment e populismo, Laterza, 2017). Non
credo che un populismo di sinistra (alla Mélenchon), comunque
ancorato all’idea di Stato nazionale, comunque incline
all’identificazione verticistica nel corpo e nel nome di un “capo”
possa avere la forza di cambiare le cose. Solo un movimento
antagonista radicale a livello transnazionale ed europeo, che
organizzi critica e lotta comune al capitalismo attuale, potrebbe
restituirci qualche speranza. Occorre una sinistra che si riappropri
delle sue parole tradite e deformate: federalismo, internazionalismo,
beni comuni, inclusione, autogestione; che rilanci una stagione di
lotte sindacali coordinate a livello internazionale. Che effetto
avrebbe uno sciopero generale delle ferrovie non limitato alla sola
Francia, come sta accadendo negli ultimi mesi, ma esteso all’Europa
intera? Il termine “sciopero generale”, ora ridotto a un
significato rituale e modesto, riacquisterebbe un suono altamente
minaccioso per i poteri dominanti.
"Il Ponte", 8 giugno 2018
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