Un'illustrazione di Angelo Ferraguti per "Rosso Malpelo" (1897) |
“Malpelo si chiamava
così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché
era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un
fior di birbone”.
Vincenzo Consolo |
Così Verga inizia il
racconto. Ma ci accorgiamo subito che non è Verga a narrare, ch’egli
ha ceduto pensiero e parola ai minatori d’una cava di rena, alla
gente delle contrade Monserrato e Carvana presso Catania. E il
linguaggio è quindi di quella gente — Verga ha come stampato il
positivo italiano su un negativo, di vocaboli e di sintassi
dialettali, che potrebbe iniziare così: “Malupilu si chiamava
accussì picchì avìa i capiddi russi: e avìa i capiddi russi
picchi era un carusu malignu e tintu, chi prumittìa di rinèsciri un
ciuri di malacarni”. (Ma Verga non avrebbe mai permesso,
giustamente, che la sua scrittura — segno evidente della sua
conversione letteraria, della sua invenzione stilistica subisse un
simile décalage, una simile regressione naturalistica: “No,
no, caro Di Giovanni, lasci stare i Malavoglia come sono e
come ho voluto che sieno” avrebbe scritto allarmato al poeta
siciliano e sicilianista fervente Alessio Di Giovanni che si sarebbe
proposto come traduttore in dialetto de I Malavoglia.) E dei
popolani catanesi il pensiero, il movimento del discorso. Movimento
che rettilineo non è, ma circolare, chiuso, affidato cioè a una
consequenzialità illogica, a una superstizione. Malpelo si chiama
così perché ha i capelli rossi. Ora, quelli che hanno i capelli
rossi, stabilisce la credenza popolare, sono cattivi, come lo sono i
mancini, i gobbi, gli sciancati, tutti quelli insomma segnati da una
qualche diversità. Malpelo è rosso, è diverso, e quindi è
cattivo, è portatore di male per sé e per gli altri. È “un
monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti
schivavano come un can rognoso”, “era davvero uh brutto ceffo,
torvo, ringhioso e selvatico”. E perciò tagliato fuori da ogni
relazione umana. Persino la madre e la sorella gli hanno negato
amore. Degli unici due legami affettivi, vissuti dentro la cava, col
padre e con l’amico Ranocchio, è stato privato dalla sorte
malvagia. È separato dalla comunità anche fisicamente: come un
appestato, come “un can rognoso” o come l’evangelico
indemoniato di Gerasa che si aggira tra i sepolcri, è obbligato a
vivere dentro o presso la cava, nella desolazione assoluta delle sue
caverne e della sua superficie di sciara (se all’inizio del
racconto egli si reca a casa sua il sabato sera, poi non gli sarà
più possibile, perché la madre e la sorella andranno a vivere
altrove). Nella cava, come il padre mastro Misciu Bestia, Malpelo è
destinato a morire.
Malpelo è dunque
Malpelo, e lui stesso, “Sapendo che era malpelo (ei) s’acconciava
ad essere il peggio che fosse possibile”. È legata, la vita del
piccolo minatore, al colore maledetto di quei suoi capelli. Il rosso
avuto per ventura dalla nascita lo lega, si direbbe, al rosso della
rena della cava, che è tale per immemorabile cataclisma naturale,
per eruzione dell’Etna. Malpelo è dunque una creatura
perfettamente adeguata alla cava (fino alla mimesi: “...con quel
suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa”), adeguata a
quel luogo sotterraneo di rischio e di pena, di quasi metafisica
condanna.
Il destino di Rosso
Malpelo è già tutto racchiuso nella frase d’attacco. Dopo, da
questo primo nucleo, il racconto si svilupperà per cerchi
concentrici, come generati dalla caduta fatale della iniziale sfera
di pietra. I successivi capoversi saranno dunque come il variare,
l’allargarsi del primo tema musicale.
E subito è la morte del
padre. Cottimante, il sabato se n’era rimasto ancora nella cava per
cercare di portare a termine il lavoro, di guadagnare qualcosa
nell’appalto raschiando attorno a un pilastro. E Malpelo gli stava
accanto. “Il padre che gli voleva bene poveretto, andava
dicendogli: — Tirati indietro ! — oppure — Sta’ attento! se
cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa”. Ma
dall’alto cade il nero cielo di quel mondo cunicolare, cade sopra
quel vinto e lo seppellisce.
“Tutt’a un tratto non
disse più nulla e Malpelo che si era voltato a riporre i ferri nel
corbello udì un rumore sordo e soffocante come la rena quando si
rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense”.
Si spense in un soffio la
vita di mastro Misciu (il suo corpo sarà ritrovato tempo dopo,
contratto e pietrificato come uno di quei corpi esumati dagli scavi
di Pompei o Ercolano) e si spegne insieme nel ragazzo Malpelo ogni
fiducia negli uomini. “Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse
entrato il diavolo in corpo”. Si conferma così nell’idea che la
vita, dentro e fuori la cava, non è altro che violenza, da subire e
da infliggere. Si pigliava rimbrotti, dileggi e pedate senza
protestare, e a sua volta sfogava tutta la sua cattiveria sopra lo
sbilenco e macilento asino grigio della cava e sopra gli altri
ragazzi, coi quali “era addirittura crudele e sembrava che si
volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli
avessero fatto, a lui e al suo babbo”.
Un linguaggio di violenza
è quello che stabilisce anche con l’amico Ranocchio, al quale
vuole insegnare che solo facendosi duri come la lava o come il ferro
del piccone si riesce a sopravvivere nella cava, nel mondo.
Ranocchio è un
ragazzetto che, rimasto sciancato per la rottura di un femore mentre
faceva il manovale, era stato costretto a scendere nel sottomondo dei
cavatori di rena. Dopo la morte del padre, Ranocchio è l’unica
creatura con cui Malpelo riesce ancora a tenere un legame d’affetto.
Sentimento che però esprime picchiando il ragazzo, se questi si
mostra debole, tormentandolo, dicendogli: “To’ ! Bestia! Bestia
sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio
male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da
quello”, (e bisogna mettere qui a confronto la frase in positivo
“Il padre che gli voleva bene, poveretto... ”, con questa in
negativo “.... da me che non ti voglio male” per sottolineare la
discesa verso la sfiducia e la solitudine di Malpelo). E tuttavia
protegge l’amico, lo sostiene nel lavoro, gli dà per companatico
la sua cipolla, gli compra con i suoi soldi riso e minestra calda
quando Ranocchio si ammala, cade infine in una immobile “disperata
rassegnazione", quando il ragazzetto scompare. Dopo non ci sarà
che l’attesa della propria ineluttabile scomparsa. La quale avverrà
letteralmente nei meandri della caverna, dove egli sembra fin
dall'inizio destinato a concludere, ad annullare la sua breve
esistenza.
Dissolvendosi nel buio
fitto di quel labirinto, trapasserà, Malpelo, dalla dura realtà e
verità della storia alla maligna evanescenza della favola, alla
terrifica mitologia dei ragazzi che dopo di lui scenderanno a
lavorare nella cava. “Così si persero persin le ossa di Malpelo e
i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel
sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi
capelli rossi e gli occhiacci grigi”.
Mitologia in cui anche
Malpelo prima di loro aveva creduto, per altri morti che lo avevano
preceduto. “Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e
descriveva come l’intricato labirinto delle gallerie si stendesse
sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là, fin dove potevano
vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come
degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati o smarriti nel
buio, e che camminano da anni e che camminano ancora, senza poter
scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter
udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente”;
“E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutto scavato di
gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che
una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era
uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia
aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. Egli solo ode le
sue stesse grida! diceva, e a quest’idea, sebbene avesse il cuore
più duro della sciara, trasaliva”.
Nella cruda realtà della
cava, c’è dunque un movimento verso il basso insondato, uno
sconfinamento verso un irreale terrifico, verso un abissale,
metafisico mondo di orrore alla Poe.
Fuor della cava, se non è
pena o terrore, è desolazione, è nudo e vuoto, aspro e inospitale
leopardiano paesaggio vulcanico. Su cui gravano sconfortanti notti
senza luna, stridono civette, volano pipistrelli; e nei cui burroni
sono carcami d’asini spolpati da famelici cani.
Da questo piano, da
questa superficie disumana, può partire per l’alto un secondo
movimento, possono partire fantasie, desideri: di fare il manovale e
“lavorare cantando sopra i ponti, in alto, in mezzo all’azzurro
del cielo, col sole sulla schiena”; di fare il carrettiere e andare
per le belle strade di campagna; di fare il contadino, “che passa
la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il
mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa”.
Giovanni Verga |
Pubblicato la prima volta
nell’ agosto del 1878 sul “Fanfulla”, il racconto entrerà
nella raccolta Vita dei campi “spartiacque fra un prima e un
poi della novellistica italiana” (Carla Ricciardi), che sarà
stampato da Treves nel 1881 (una seconda edizione, illustrata da
Arnaldo Ferraguti, uscirà nel 1897).
Malpelo è sicuramente
nato dall’incrocio miracoloso della crisi artistica ed esistenziale
dello scrittore con la presa di coscienza del mondo contadino e
minerario che l’inchiesta di Franchetti e Sonnino del 1876,
Condizioni politiche e amministrative della Sicilia e soprattutto
il capitolo supplementare all’inchiesta, intitolato Il lavoro
dei fanciulli nelle zolfare siciliane,
facendo inorridire, aveva rivelato al mondo come tremenda piaga
sociale. Verga, privo com’era di memoria “zolfifera”, sposta
l'azione del dramma dalla miniera di zolfo alla cava di rena. Un
altro grande scrittore, di conoscenza e memoria delle zolfare,
l’agrigentino Pirandello, riprenderà anni dopo, con altro stile e
altra concezione letteraria, con altra soluzione poetica, il racconto
del caruso di miniera che chiamerà Ciàula (Ciàula scopre la
luna).
Rosso Malpelo dopo
Nedda e Jeli il pastore è la tappa più vicina, con
Cavalleria rusticana, La Lupa, L’amante di
Gramigna, alla perfezione stilistica, alla compiuta poesia de I
Malavoglia.
In Malpelo c’è
ancora una qualche esitazione linguistica, un certo inceppamento
nella restituzione del linguaggio popolare che si evidenzia col
ricorso, per certi modi di dire, al corsivo.
Ma Rosso Malpelo è
certo uno dei capolavori della novellistica verghiana. C’è nel
racconto, nascosta sotto la crosta lavica della impersonalità, una
struggente pietà per il personaggio, c’è un sentimento sepolto
nei meandri profondi della memoria e del cuore.
“Linea d'Ombra”,
febbraio 1992 – già pubblicato da “Rossoscuola”, 1988, nella
rubrica Leggere gli anni verdi
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