20.6.18

Scrittori e bambini. Vincenzo Consolo legge "Rosso Malpelo" di Giovanni Verga

Un'illustrazione di Angelo Ferraguti per "Rosso Malpelo" (1897)

“Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone”.
Vincenzo Consolo
Così Verga inizia il racconto. Ma ci accorgiamo subito che non è Verga a narrare, ch’egli ha ceduto pensiero e parola ai minatori d’una cava di rena, alla gente delle contrade Monserrato e Carvana presso Catania. E il linguaggio è quindi di quella gente — Verga ha come stampato il positivo italiano su un negativo, di vocaboli e di sintassi dialettali, che potrebbe iniziare così: “Malupilu si chiamava accussì picchì avìa i capiddi russi: e avìa i capiddi russi picchi era un carusu malignu e tintu, chi prumittìa di rinèsciri un ciuri di malacarni”. (Ma Verga non avrebbe mai permesso, giustamente, che la sua scrittura — segno evidente della sua conversione letteraria, della sua invenzione stilistica subisse un simile décalage, una simile regressione naturalistica: “No, no, caro Di Giovanni, lasci stare i Malavoglia come sono e come ho voluto che sieno” avrebbe scritto allarmato al poeta siciliano e sicilianista fervente Alessio Di Giovanni che si sarebbe proposto come traduttore in dialetto de I Malavoglia.) E dei popolani catanesi il pensiero, il movimento del discorso. Movimento che rettilineo non è, ma circolare, chiuso, affidato cioè a una consequenzialità illogica, a una superstizione. Malpelo si chiama così perché ha i capelli rossi. Ora, quelli che hanno i capelli rossi, stabilisce la credenza popolare, sono cattivi, come lo sono i mancini, i gobbi, gli sciancati, tutti quelli insomma segnati da una qualche diversità. Malpelo è rosso, è diverso, e quindi è cattivo, è portatore di male per sé e per gli altri. È “un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso”, “era davvero uh brutto ceffo, torvo, ringhioso e selvatico”. E perciò tagliato fuori da ogni relazione umana. Persino la madre e la sorella gli hanno negato amore. Degli unici due legami affettivi, vissuti dentro la cava, col padre e con l’amico Ranocchio, è stato privato dalla sorte malvagia. È separato dalla comunità anche fisicamente: come un appestato, come “un can rognoso” o come l’evangelico indemoniato di Gerasa che si aggira tra i sepolcri, è obbligato a vivere dentro o presso la cava, nella desolazione assoluta delle sue caverne e della sua superficie di sciara (se all’inizio del racconto egli si reca a casa sua il sabato sera, poi non gli sarà più possibile, perché la madre e la sorella andranno a vivere altrove). Nella cava, come il padre mastro Misciu Bestia, Malpelo è destinato a morire.
Malpelo è dunque Malpelo, e lui stesso, “Sapendo che era malpelo (ei) s’acconciava ad essere il peggio che fosse possibile”. È legata, la vita del piccolo minatore, al colore maledetto di quei suoi capelli. Il rosso avuto per ventura dalla nascita lo lega, si direbbe, al rosso della rena della cava, che è tale per immemorabile cataclisma naturale, per eruzione dell’Etna. Malpelo è dunque una creatura perfettamente adeguata alla cava (fino alla mimesi: “...con quel suo visaccio imbrattato di lentiggini e di rena rossa”), adeguata a quel luogo sotterraneo di rischio e di pena, di quasi metafisica condanna.
Il destino di Rosso Malpelo è già tutto racchiuso nella frase d’attacco. Dopo, da questo primo nucleo, il racconto si svilupperà per cerchi concentrici, come generati dalla caduta fatale della iniziale sfera di pietra. I successivi capoversi saranno dunque come il variare, l’allargarsi del primo tema musicale.
E subito è la morte del padre. Cottimante, il sabato se n’era rimasto ancora nella cava per cercare di portare a termine il lavoro, di guadagnare qualcosa nell’appalto raschiando attorno a un pilastro. E Malpelo gli stava accanto. “Il padre che gli voleva bene poveretto, andava dicendogli: — Tirati indietro ! — oppure — Sta’ attento! se cascano dall’alto dei sassolini o della rena grossa”. Ma dall’alto cade il nero cielo di quel mondo cunicolare, cade sopra quel vinto e lo seppellisce.
“Tutt’a un tratto non disse più nulla e Malpelo che si era voltato a riporre i ferri nel corbello udì un rumore sordo e soffocante come la rena quando si rovescia tutta in una volta; ed il lume si spense”.
Si spense in un soffio la vita di mastro Misciu (il suo corpo sarà ritrovato tempo dopo, contratto e pietrificato come uno di quei corpi esumati dagli scavi di Pompei o Ercolano) e si spegne insieme nel ragazzo Malpelo ogni fiducia negli uomini. “Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo”. Si conferma così nell’idea che la vita, dentro e fuori la cava, non è altro che violenza, da subire e da infliggere. Si pigliava rimbrotti, dileggi e pedate senza protestare, e a sua volta sfogava tutta la sua cattiveria sopra lo sbilenco e macilento asino grigio della cava e sopra gli altri ragazzi, coi quali “era addirittura crudele e sembrava che si volesse vendicare sui deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo”.
Un linguaggio di violenza è quello che stabilisce anche con l’amico Ranocchio, al quale vuole insegnare che solo facendosi duri come la lava o come il ferro del piccone si riesce a sopravvivere nella cava, nel mondo.
Ranocchio è un ragazzetto che, rimasto sciancato per la rottura di un femore mentre faceva il manovale, era stato costretto a scendere nel sottomondo dei cavatori di rena. Dopo la morte del padre, Ranocchio è l’unica creatura con cui Malpelo riesce ancora a tenere un legame d’affetto. Sentimento che però esprime picchiando il ragazzo, se questi si mostra debole, tormentandolo, dicendogli: “To’ ! Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’animo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il viso da questo e da quello”, (e bisogna mettere qui a confronto la frase in positivo “Il padre che gli voleva bene, poveretto... ”, con questa in negativo “.... da me che non ti voglio male” per sottolineare la discesa verso la sfiducia e la solitudine di Malpelo). E tuttavia protegge l’amico, lo sostiene nel lavoro, gli dà per companatico la sua cipolla, gli compra con i suoi soldi riso e minestra calda quando Ranocchio si ammala, cade infine in una immobile “disperata rassegnazione", quando il ragazzetto scompare. Dopo non ci sarà che l’attesa della propria ineluttabile scomparsa. La quale avverrà letteralmente nei meandri della caverna, dove egli sembra fin dall'inizio destinato a concludere, ad annullare la sua breve esistenza.
Dissolvendosi nel buio fitto di quel labirinto, trapasserà, Malpelo, dalla dura realtà e verità della storia alla maligna evanescenza della favola, alla terrifica mitologia dei ragazzi che dopo di lui scenderanno a lavorare nella cava. “Così si persero persin le ossa di Malpelo e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi”.
Mitologia in cui anche Malpelo prima di loro aveva creduto, per altri morti che lo avevano preceduto. “Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva come l’intricato labirinto delle gallerie si stendesse sotto i loro piedi dappertutto, di qua e di là, fin dove potevano vedere la sciara nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati o smarriti nel buio, e che camminano da anni e che camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente”; “E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutto scavato di gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli bianchi, e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessuno poteva udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quest’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva”.
Nella cruda realtà della cava, c’è dunque un movimento verso il basso insondato, uno sconfinamento verso un irreale terrifico, verso un abissale, metafisico mondo di orrore alla Poe.
Fuor della cava, se non è pena o terrore, è desolazione, è nudo e vuoto, aspro e inospitale leopardiano paesaggio vulcanico. Su cui gravano sconfortanti notti senza luna, stridono civette, volano pipistrelli; e nei cui burroni sono carcami d’asini spolpati da famelici cani.
Da questo piano, da questa superficie disumana, può partire per l’alto un secondo movimento, possono partire fantasie, desideri: di fare il manovale e “lavorare cantando sopra i ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schiena”; di fare il carrettiere e andare per le belle strade di campagna; di fare il contadino, “che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi, e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa”.
Giovanni Verga
Pubblicato la prima volta nell’ agosto del 1878 sul “Fanfulla”, il racconto entrerà nella raccolta Vita dei campi “spartiacque fra un prima e un poi della novellistica italiana” (Carla Ricciardi), che sarà stampato da Treves nel 1881 (una seconda edizione, illustrata da Arnaldo Ferraguti, uscirà nel 1897).
Malpelo è sicuramente nato dall’incrocio miracoloso della crisi artistica ed esistenziale dello scrittore con la presa di coscienza del mondo contadino e minerario che l’inchiesta di Franchetti e Sonnino del 1876, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia e soprattutto il capitolo supplementare all’inchiesta, intitolato Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane, facendo inorridire, aveva rivelato al mondo come tremenda piaga sociale. Verga, privo com’era di memoria “zolfifera”, sposta l'azione del dramma dalla miniera di zolfo alla cava di rena. Un altro grande scrittore, di conoscenza e memoria delle zolfare, l’agrigentino Pirandello, riprenderà anni dopo, con altro stile e altra concezione letteraria, con altra soluzione poetica, il racconto del caruso di miniera che chiamerà Ciàula (Ciàula scopre la luna).
Rosso Malpelo dopo Nedda e Jeli il pastore è la tappa più vicina, con Cavalleria rusticana, La Lupa, L’amante di Gramigna, alla perfezione stilistica, alla compiuta poesia de I Malavoglia.
In Malpelo c’è ancora una qualche esitazione linguistica, un certo inceppamento nella restituzione del linguaggio popolare che si evidenzia col ricorso, per certi modi di dire, al corsivo.
Ma Rosso Malpelo è certo uno dei capolavori della novellistica verghiana. C’è nel racconto, nascosta sotto la crosta lavica della impersonalità, una struggente pietà per il personaggio, c’è un sentimento sepolto nei meandri profondi della memoria e del cuore.

“Linea d'Ombra”, febbraio 1992 – già pubblicato da “Rossoscuola”, 1988, nella rubrica Leggere gli anni verdi

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