Dal dossier Stalin è morto pubblicato su “l’Unità” del 5 marzo 2003, ho recuperato qui un ampio stralcio da un articolo di Bruno Gravagnuolo sui rapporti tra comunismo italiano e stalinismo. Ecco un breve elenco di post sulla stessa materia o materia analoga in questo stesso blog: http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/10/ricorrenze-da-micropolis-marzo-2003.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/05/dal-quaderno-di-leonardo-sciascia-la.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/11/lucio-magri-perugia-lo-smisurato.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/08/per-trotzkji-68-anni-dalla-uccisione.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/05/il-figlio-del-calzolaio-marzo-53-nenni.html - http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/10/questione-stalin-un-danno-incalcolabile.html .
Sì, il Pci fu stalinista. Ma come, quanto e quando lo fu? In che senso insomma? Prima notazione. A lungo il popolo comunista lo fu, nell’aura dell’edificazione dell’Urss. E in quella di Stalin erede di Lenin. E del «titano» trionfatore a Stalingrado. Come negarlo? Impossibile tacere che quella leggenda divenne una vera e propria religione popolare degli umili in attesa di riscatto e di redde rationem. Dopo la tragedia del fascismo e la rinascita di un partito che seppe coniugare classe e stato, lotta nazionale e mito internazionalista sulle cenerei del nazi-fascismo e sull’onda delle rivoluzioni nazionali e anticoloniali. Del resto lo gridavano i «fratelli e sorelle» a cui Stalin si appellò alla radio prima di Stalingrado: «Za narodna, Za Stalina». Per la Patria e per Stalin. I milioni di fratelli e sorelle falcidiati dagli immani crimini del georgiano. E a quel grido facevano eco in Italia il vissuto e le scelte di quanti intravidero nel Pci di Togliatti un veicolo di riscatto patriottico. «Non mi sentii chiamato da Stalin, ma dalla patria», ha annotato Alfredo Reichlin,giovane intellettuale togliattiano, in un suo recente saggio autobiografico. E c’è da credergli.
Con non minor comprensione per quanti - operai, contadini, popolani - gridavano invece «Viva Stalin, viva l’Italia» negli anni della liberazine dal nazi-fascismo. Quel retaggio restò latente nelle «povere sezioni dalle povere bandiere rosse» di cui ci parlò Pasolini, che pure ebbe un fratello trucidato da partigiani comunisti a Porzjus. Quelle stesse sezioni in cui nell’immediato dopoguerra – prima di dare la parola al compagno del centro - si chiamava alla presidenza simbolicamente il compagno Stalin. Lasciando accanto al relatore di turno una sedia vuota. Quelle sezioni scalcinate che per tanto tempo rifiutarono di togliere il ritratto del «piccolo padre». Dunque, religione popolare. Di un popolo minuto che entrava nella nazione democratica, anche sospinta da quel mito. E la religione politica del Pci? Quella d’élite? Stalinista, sì. Almeno fino al 1956, «anno indimenticabile» e nuovo inizio, costellato di sofferenze e ambiguità. Ma «stalinista» in un senso preciso: il legame con l’Urss.
In quel legame, piaccia o meno, il partito di Gramsci era stato scavato. E in quel legame s’era persino liberato dal settarismo di Bordiga, che non accettava di ricucire con i socialisti un «fronte unico contro il fascismo» vincente, e che convergeva con Trotsky contro Bucharin e Stalin sulla «questione contadina». Bene, fino a che punto, in quel legame asfissiante, il Pcd’I riuscì a dipanare una sua politica e una sua originalità? Quanto riuscì ad essere «errore provvidenziale» - per dirla con Amendola - capace di attecchire in Italia e cofondare civiltà democratica?
Togliatti e Gramsci
Schematizziamo le fasi storiche. Dopo il congresso di Livorno del 1926 il Pcd’I è certamente buchariniano e a modo suo tatticista, benché ancora irretito dentro l’illusione della rivoluzione mondiale e l’immanenza di rivoluzione e guerra. Aderisce al «socialismo in un solo paese» come retrovia di rivoluzione, nonché alla Nep. Ma in questa fase si colloca anche la famosa lettera di Gramsci, prima di venir arrestato, a Togliatti, contro lo sconquasso dentro il bolscevismo e contro una lotta brutale e amministrativa all’opposizione operaia. Togliatti tace la missiva, d’intesa con Bucharin, e lì inizia una deriva obbligata all’insegna dell’interesse supremo dell’Urss. Deriva che nel 1928 conosce una resistenza visibile alla liquidazione della Nep, seguita da conversione repentina di Togliatti alla teoria del «social-fascismo», poi corretta nel 1934 - anche per merito di Togliatti e Dimitrov - nella strategia dei «fronti popolari» (gli anni in cui altresì avvengono le gradi purghe e le sparizioni di massa nel solco della colletivizazzione forzata). Togliatti sapeva?
Era consapevole? Sapeva e rimuoveva, in ragione di un tragico giustificazionismo finalistico, dove la sua salvezza personale era tutt’uno con la salvezza di quel che restava del Pc (esposto anch’esso alla sorte del partito polacco, a cui Ercoli diede il suo benestare).
Intanto Gramsci in carcere – circondato da silenzio vissuto dal prigioniero come congiura - scrive di Stalin: un «Bessarione Bonaparte», realista e tragicamente necessario. Ma al contempo delinea scenari revisionisti che parlano di mercato, rifiuto dei metodi amministrativi, consenso e direzione egemonica, con gli strati medi da coinvolgere in un socialismo costruito tra società civile e «intellettuale collettivo». Troppo poco? Sì, ma abbastanza per mettere un partito come quello su un’altra rotta. Per dargli spinta a concepire un’altra via. Sinché i fili spezzati tra Gramsci e Togliatti si riannodano.
Già, perché è innegabile che «l’operazione Gramsci» Togliatti la volle con cognizione di causa e metodo. La lanciò con il trasbordo da Mosca dei Quaderni e la loro pubblicazione nel 1947. Certo, un altro socialismo, la «democrazia progressiva» come controllo democratico e antimonopolista sull’accumulazione capitalista. La fondazione di una democrazia post-borghese, il neutralismo
attivo, poi seguito da robuste anticipazioni della «coesistenza pacifica», ben prima di quel Krusciov che Togliatti non amò mai. E che non stimava punto.
Ma era davvero possibile tutto questo, sia pur con quel «partito nuovo»? Era possibile con quel «legame di ferro» mai troncato, neanche quando col Memoriale di Yalta l’Urss divenne in Togliatti retrovia di sfondo e non più faro d’avanguardia? Diciamola tutta. Con quell’assetto del mondo, e con quell’Urss vincolante alle spalle, niente di tutto questo era possibile.
Né basta rammemorare la genialità e l’originalità di Togliatti. Fu sua senza dubbio l’intuizione della «svolta di Salerno». Irrefutabilmente, Togliatti la annunciò per primo a Radio Mosca nel 1943, per poi metterla in frigorifero. Sin quando nel febbraio 44 Stalin non la fece sua: dinanzi al suo «inventore» e a Dimitrov.
Stalinismo «eretico»
E tuttavia lo spazio strategico del togliattismo - ingrediente di base della prima repubblica e non scoria moscovita - era tronco e bloccato. Bloccato da cosa? Dall’appartenenza di campo, che mai venne meno anche di fronte ala drammatica prova dei fatti di Ungheria. Appartenenza che pur riformata non venne meno con Berlinguer, dinanzi ai carri a Praga. E nemmeno con lo strappo del 1982, che in fondo parlava ancora di uno stato bolscevico inaugurale come fonte di legittimazione di una «spinta propulsiva» disseccata.
Insomma la «doppiezza veritiera» di Togliatti stava in questo: immaginare il socialismo radicalmente diverso dentro due ipotesi impossibili (tali almeno fino a Gorbaciov). L’ipotesi di una cooperazione distensiva tra i blocchi. E quella di una riformabilità della casa madre sovietica. Ma è nello spazio immaginario di quella ipotesi strategica «impossibile» che il Pci - in definitiva - intimamente stalinista non fu. Fu semmai pedagogico, storicista, elitario e altresì di massa. Capace di aprire malgrado tutto l’Italia della guerra fredda al mondo. Alla cultura internazionale. All’etica dei diritti sociali e civili che inseriva i ceti subalterni nello stato.
Strana giraffa il Pci. Esteriormente stalinista, interiormente no. Persino nel campo dell’arte. Vero che Togliatti era un passatista. Non amava l’arte astratta e la dodecafonia. Ma vero anche che non era zdanoviano, che detestava «la concezione strumentale dell’arte». E che avrebbe volentieri lasciato Vittorini ad occuparsi degli amati americani e dell’avanguardia. Purché lo scrittore non avesse ambito a scavalcarlo da sinistra in politica.
Ultima osservazione paradossale, a riprova delle bizzarrie della storia. Lo «stalinismo» di Togliatti, salvò l’Italia dalla deriva del sovversivismo e della guerra civile, tenendo aperta una speranza. Infatti lo strano impasto di filosovietismo e gradualismo democratico - legittimato da un «certo» richiamo a Stalin - funzionò contro Secchia e contro quanti volevano una ben diverso approccio al potere. Lo si vide nella scomunica del Cominform alla via parlamentare nel 1947, assorbita con felpatezza e carisma. E nei giudizi staliniani di Togliatti pubblicati dall’Unità del 6 Marzo 1953: «La lotta non richiede la guerra, non richiede che sia turbata la pace degli uomini». Era un giudizio a scala mondiale, senza dubbio. Ma anche a scala immediata e quotidiana, immune da doppiezza. E proprio lì, in piena guerra fredda, si palesava l’inconcepibile eresia: lo stalinismo non violento e riformista.
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