2.5.10

Dal "Quaderno" di Leonardo Sciascia. La prova superata. Con una mia riflessione su Paolo Robotti, lo stalinismo e l'Urss ("L'Ora", 5 giugno 1965)

In un mio libro di circa dieci anni fa raccontavo questo breve aneddoto: “Un comunista, autore di un libro sulla vita sovietica, venne una volta a Regalpetra, ai contadini limpidamente spiegò cosa un colcos fosse: l’effetto fu straordinario, ad avere buono orecchio si poteva sentire lo sciamare dei voti verso partiti che i colcos promettevano, il Pc ebbe il suffragio più basso che mai a Regalpetra si sia registrato”.
Qualche mio amico comunista ha individuato l’oratore di cui non facevo il nome, mi ha rimproverato di avere scherzato su uno degli uomini più seri ed onesti del Partito Comunista. In realtà io non scherzavo per niente: il fatto che Paolo Robotti (perché si trattava appunto di lui) avesse dato un preciso ragguaglio sulle fattorie collettive sovietiche, senza tener conto delle convenienze elettorali, senza considerare l’effetto negativo che le sue parole potevano avere nella particolare psicologia dell’elettorato cui si rivolgeva, a me pareva facesse onore all’uomo e al comunista.
Ora quest’uomo che dice la verità – quale che sia la circostanza, la convenienza, l’ambiente – ritrovo alle pagine de La Prova, il libro in cui Robotti racconta la sua vita dal 1931 al 1947 (Leonardo Da Vinci editore, Bari). Di questo lungo racconto due brani sono stati pubblicati da un rotocalco recentemente e sono quelli su cui si appunterà l’attenzione dei recensori di destra e forse la disattenzione di quelli di sinistra. Poiché sono un resoconto della atroce esperienza vissuta da Robotti nelle carceri russe, nel più acuto periodo dello stalinismo: esperienza che per il protagonista si risolve nella riconferma del proprio ideale, della propria fede; ma nel lettore di buona fede provoca più profonde inquietudini di quante non sia riuscita mai a provocarne tutta una letteratura deliberatamente diretta a mostrare di che lacrime e sangue grondasse il mito di Stalin.
E l’inquietudine non viene dalla rivelazione dei sistemi inquisitori, peraltro ormai noti anche per opera kruscioviana, ma dalla fermezza, dalla resistenza, dalla integrità dell’uomo che soffre l’inquisizione, la tortura. E’ umano – si chiede il lettore – che una persona non abbia il minimo dubbio, che almeno per un momento non vacilli e non si smarrisca e non si rivolti al sistema che consente una inquisizione così vasta ed atroce? Dov’è l’Europa della ragione, l’Europa della libertà e della giustizia, tutto un patrimonio di lotta, di sangue, di idee, in quest’uomo che, in piedi per quarantotto ore di fronte a un imbecille ufficiale di polizia, afferma la propria innocenza e al tempo stesso la propria fede nel sistema di cui l’ufficiale fa parte?
Queste domande che mi inquietano io non pongo nel senso che da uno che abbia vissuto quell’esperienza la risoluzione più giusta sarebbe stata quella del rifiuto e dell’apostasia, ma piuttosto in questo altro senso: del dubbio cui aveva diritto, cui abbiamo diritto. E d’altra parte so bene che la forza e la grandezza del comunismo è stata ed è in uomini come Robotti: e che la sua prova oscuramente ripetuta da tanti altri uomini, in un tremendo momento, è la prova stessa da cui l’idea comunista è uscita dolorosamente vittoriosa.
(da “L’Ora” 5 giugno 1965)
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Nota. Il dio che è caduto (S.L.L.)
I testi di Sciascia, semplici nel dettato, spesso concentrano una riflessione complessa e perfino contraddittoria (Contraddisse e si contraddisse è, del resto, il motto che scelse come epitaffio per sé stesso). Questo breve ragionare sulla vicenda di Paolo Robotti è emblematico. 
A lungo cognato di Palmiro Togliatti, Robotti (ma non accadde a lui soltanto) fu insieme stalinista e vittima dello stalinismo. Negli anni più tetri dell’inquisizione sovietica, gli anni dei processi agli oppositori e della caccia alle streghe, anche lui, rivoluzionario professionale tra i più coerenti con la disciplina kominternista, entrò nella rete dei “sospetti”. L’ipotesi di reato principe in questi casi era il tradimento, ma perché l’ipotesi si realizzasse non era necessaria una intesa con il nemico: Vishyinski, l’orribile procuratore degli speciali processi ai comunisti della vecchia guardia, aveva inventato la “responsabilità oggettiva”, che trasformava in complice dei nemici di classe chiunque ne favorisse l’azione, anche senza volerlo e senza saperlo. Nelle indagini spesso si celebrava il trionfo del sistema inquisitorio che, come nei controriformistici processi di stregoneria, era la confessione dell’imputato, non importa con quali mezzi ottenuta, e il coinvolgimento di altri. 
Sciascia lucidamente intravede in questa storia una terrificante concatenazione di contraddizioni: c’è una rivoluzione che si proclama figlia di Marx e per quella via figlia dell’Europa della ragione, della libertà e della giustizia e che nel suo realizzarsi nega in radice i suoi stessi fondamenti; c’è un uomo che, in nome di quei valori fondanti, alla rivoluzione s’è votato e che, come nel romanzo di Kafka, è tuttavia spinto in un ingranaggio che può distruggerlo senza dargli alcuna spiegazione. La prova che Paolo Robotti superò conteneva in realtà molte prove: per la sua tempra fisica e psichica che resse alle torture e alle pressioni morali e alla fine piegò gl’inquisitori in caccia di confessioni; per la sua intelligenza storica che di certo si accorgeva della incompatibilità tra i principi e la realtà dello stalinismo; per la sua stessa fede, che non era solo fede nell’idea, ma anche nella Chiesa staliniana che l’incarnava.
Sciascia attribuì alle prove superate da Robotti e da altri uomini del suo spessore e della sua natura un significato più ampio: proprio attraverso di loro l’idea comunista aveva superato la terribile fase dello stalinismo e aveva vinto. Oggi sappiamo che (pur senza le terribili carneficine degli anni 30) l’Urss non superò mai lo stalinismo e che (è la mia convinzione) fu proprio l’incapacità di superare quella prova (le ultime possibilità si aprirono proprio negli anni Sessanta) a determinarne qualche decennio più tardi la fine ingloriosa. 
La fine della Chiesa ha determinato la fine dell’idea? Io spero di no, perché di comunismo il mondo continua ad avere un grande bisogno. E’ certo però che in quella laica religione che si chiamò comunismo l’esistenza dell’Urss aveva una parte importante, era come la prova provata dell’esistenza di Dio. Anche per questo, caduta l’Urss, anche il Dio è caduto. Risorgerà? (S.L.L.)

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