28.11.09

Lucio Magri a Perugia. Lo smisurato intervento.


Comprerò Il sarto di Ulm di Lucio Magri. Compagni affidabili mi dicono che il libro è bello e che vale la spesa e il tempo per leggerlo, ma la presentazione l’altro ieri sera del libro a Perugia più che promuovere scoraggerà l’acquisto.
Il leone è visibilmente invecchiato e, credo, molto intristito da un lutto recente. Deve poi avergli fatto male il lungo periodo di assenza da un qualsiasi tipo di impegno militante: l’esperienza della “rivista del manifesto”, che Magri dirigeva, si è chiusa ormai da sei anni. Raccontano che da molto più tempo rifugga da riunioni pubbliche e frequentazioni politiche per dedicarsi alla preparazione e alla scrittura del libro da poco uscito, la cui stesura ha richiesto fatica e passione. Quindici anni di solitudine.
Si comprende perché l’autore sia così profondamente affezionato al suo testo. Gli ha affidato un messaggio che ritiene vitale: il bilancio del comunismo del ventesimo secolo, indispensabile a suo avviso per rompere l’accerchiamento feroce delle rimozioni e dei silenziamenti, per mettere le cose al loro posto, per riaprire un discorso di prospettiva. Lo ha detto anche a Perugia, con rabbia: “Questo non è un libro di ricordi, meno che mai un libro sul vissuto. E non è soltanto un libro di storia”.
La presentazione è cominciata, come d’uso, con un discorsetto del moderatore Goretti. Sembra un bravo ragazzo e dice cose che alla fine potrebbero essere di buon senso (“quel po’ di sinistra che resta dovrebbe incontrarsi, dibattere, unirsi”); purtroppo l’orizzonte linguistico- politico è quello del sociologismo e dello psicologismo imperanti nella sinistra “oltrista”: l’orizzonte della metafora e dell’individuo desiderante.
Parla poi un ricercatore relativamente giovane, Pasquino. Ricorda il Pci, la sezione piena di manifesti, la mamma che diffondeva “l’Unità”, le feste in cui bambini ci si muoveva con libertà, circondati da persone affidabili che davano sicurezza, i “compagni”. La cifra è la nostalgia: il partito-comunità, un po’ chiesa se si vuole, ma una delizia rispetto alla politica politicante del tempo nostro.
Tocca a Carnieri. Per stile e per abitudine avrebbe bisogno di percorrere tutti i passaggi di un ragionamento, si trova un po’ a disagio nei limiti di tempo che gli sono stati assegnati. Spiega come il Pci praticasse anche al suo interno “l’unità nella diversità” e come tra le tante importanti culture che vi confluivano, a volte su basi regionali, un posto abbia avuto anche l’Umbria” e accenna alle ragioni interne della crisi finale del Pci.
A questo punto prende il microfono Magri e non lo lascia più. Un’ora e un quarto dopo, quando sono dovuto andare via, sembrava ancora ai preliminari. Mi dicono che, poi, è intervenuta un’altra giovane ricercatrice, Diosono, più o meno sulla stessa lunghezza d’onda di Pasquino e che Covino ha cercato di tirare i remi in barca individuando le due o tre questioni centrali.
Torniamo a Magri. L’inizio è quello “antipatizzante” che a Magri era caro anche da giovane. “Mi sento fuori posto – dice - non sono venuto a proporvi il libro che ho scritto. In libreria si vende benissimo e lo stanno già traducendo in quattro lingue”.
Nel primo, efficace, quarto d’ora, rivela le intenzioni e le ambizioni de Il sarto di Ulm. Ha voluto analizzare dal di dentro il grande esperimento del comunismo novecentesco dal novembre del 17 al novembre dell’89. Lo ha fatto raccontando soprattutto il Pci, non solo per la maggiore facilità, ma anche per l’unicità di quella esperienza all’interno del “movimento comunista internazionale”, di un partito che osò progettare “la rivoluzione in Occidente”. Rompere la congiura del silenzio, demistificare la favolistica propaganda dei vincitori spacciata per verità. Fa un esempio efficace: il Berlusconi che parla di un’America che ha vinto la seconda guerra mondiale e di una Russia ammessa al tavolo dei vincitori. “Basta – dice – dare un’occhiata alle date. L’arrivo degli alleati in Europa si verifica quando la guerra per Hitler è già persa a Stalingrado. E basta dare uno sguardo al numero dei morti nel conflitto, ai venti milioni di morti sovietici”. Demolisce un altro radicato luogo comune: il Novecento secolo della violenza e della distruzioni a causa dello scontro tra la democrazia liberale e i totalitarismi. Falso e insensato. La prima guerra mondiale ha come principali antagonisti l’Inghilterra e la Germania, entrambi paesi capitalistici, di cui il più democratico, con il suo suffragio universale (maschile) che nel Regno Unito non c’è, è il secondo. La seconda guerra mondiale ha come sua base i conflitti all’interno dell’imperialismo.
Dopo perde il filo e forse, un po’, il controllo. Dice di non voler fare il bigino sulla storia del comunismo, in realtà lo compila e continua imperterrito anche quando qualcuno lo richiama ai tempi. Si parva licet componere magnis, viene in mente l’incidente occorso ad Althusser a Terni, nell’aprile del 1980, quando a una tavola rotonda sul marxismo intervenne in modo chiassoso, provocatorio e lunghissimo, dopo uno dei suoi periodi di depressione. Dell’episodio a lungo si preferì tacere; solo Cesare Luporini fece un accenno estremamente discreto dieci anni dopo. In Magri non ci sono gli stessi risvolti patologici, ma c’è come lo stesso debordare dopo un diuturno silenzio.
Così racconta la crisi della socialdemocrazia nel primo Novecento, la Rivoluzione d’Ottobre, quasi incruenta, l’anarchia che ne seguì, la terribile “guerra civile” (ma non troppo vista la consistenza delle truppe straniere nella Guardia bianca), lo scontro Trotzki-Stalin. la costruzione del socialismo in un solo paese. L’intervento è lungo, ma il tentativo di metterci tutto obbliga a semplificazioni da Bignami. Solo su un passaggio si ferma, forse per il gusto della provocazione: sa che una delle associazioni organizzatrici, Segno critico, ha una ormai lontana ascendenza trotzkista. “Dopo la vittoriosa guerra civile c’era una forte Armata rossa e un paese distrutto nelle sue strutture portanti e nella sua economia, la scelta era se usare quest’armata per sollecitare e stimolare le rivoluzioni in Occidente o, piuttosto, stabilizzare l’Unione Sovietica, governarla, localizzare la Rivoluzione definendo un “campo socialista”. Magri ricorda che a sostenere la seconda ipotesi non era solo Stalin, ma prima di lui Lenin, Gramsci e Togliatti. E lascia intendere che fosse la più razionale.
Da questo momento il tono della “lezione” si è fatto apologetico, al limite del giustificazionismo. A me è sembrato perfino che ci fosse qualche contatto con un testo famigerato per alcune grossolane falsificazioni: la Storia del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (breve corso), compilato sotto la personale supervisione di Stalin. La tentazione era quella di gridargli che, considerati gli esiti, aveva ragione Trotzkij.
Al prolungato intervento di Magri la reazione del pubblico meno giovane (i due terzi dei presenti, tra sala e anticamere più di ottanta) era generalmente infastidita. Perfino Leandro Battistoni, storico dirigente di Italia Urss, cui il discorso non doveva dispiacere, si lamentava: “Sono cose che il militante medio conosce, assolutamente inutili”. Pare che tra i più giovani non tutti fossero scontenti della lezione. Certo che un’esposizione di questo tipo non giova a porre le domande decisive. Ne propongo alla rinfusa alcune, tagliate con l’accetta: che cos’è propriamente la formazione economico-sociale costruita negli anni Trenta? si può chiamare socialista? o come altro? come funzionava? quando diventa irriformabile? come incide questa storia sui partiti comunisti di tutto il mondo, Italia compresa? come sui movimenti di liberazione? attraverso quali percorsi questo meccanismo ottiene (perché li ottenne) straordinari successi? quando e per quali ragioni entra in crisi?
Eppure, se non si prova a costruire a questi interrogativi una risposta teorica senza rimuovere i problemi andando “oltre”, sarà difficile superare gli orribili effetti della sconfitta del comunismo del XX secolo.





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