31.8.11

Per un piatto di maccheroni. In Fiat suicidi collaterali (di Loris Campetti)


Lo stabiimento Fiat a Trmini Imerese

Carmine è un operaio della Fiat, lavorava a Pomigliano d'Arco, catena di montaggio. Ma a Pomigliano sono anni che si lavora a singhiozzo o non si lavora proprio. Quando ha ricevuto la lettera spedita dall'azienda per annunciargli il licenziamento e comunicargli che sarebbe rimasto a casa in cassa integrazione per due anni, e dopo dio solo sa che ne sarebbe stato di lui, ha preso una lama ed è andato in bagno con l'intenzione di suicidarsi. C'è quasi riuscito.
La moglie l'ha trovato agonizzante in un lago di sangue, ora è in rianimazione all'ospedale San Giovanni Bosco di Napoli in condizioni gravissime. La scorsa settimana, invece, Agostino è riuscito nel suo intento. Era operaio alla Fiat di Termini Imerese da dove era stato licenziato per aver compiuto un crimine inaudito: aveva utilizzato il badge di un suo compagno di lavoro in malattia per poter mangiare alla mensa aziendale. L'ha fatto per ben 44 volte producendo un danno alla multinazionale guidata da Sergio Marchionne di ben 55 euro. Agostino un bel giorno non ce l'ha fatta più, forse ha pensato alla moglie casalinga e alla figlia all'università che non avrebbe più potuto mantenere con i lavoretti saltuari trovati dopo il licenziamento e ha preso la pistola, ha sparato alla moglie e alla figlia, poi si è tolto la vita.
La fatica del vivere, ci spiegano, fa perdere la ragione. È la fatica del vivere e lavorare alla Fiat, sarebbe il caso di precisare. Agostino è stato licenziato per un piatto di maccheroni da super manager dei due mondi che guadagnano 500 o 1000 volte più di un loro dipendente. Il pazzo era Agostino, o lo è chi decide in quel modo la vita e la morte di un operaio?
Carmine forse sperava di essere ripescato dalla Fiat nella nuova società, quella scritta sulla carta da Marchionne. Non si può mantenere una moglie disoccupata e due figli di 11 e 18 anni con uno stipendio ridotto per anni a 800 euro dalla cassa integrazione, senza speranza nel futuro. Forse si sarebbe accontentato di essere mandato in trasferta alla Sevel di Atessa dove di lavoro ce n'è per tutti, e lavorando il salario sarebbe aumentato di 400 euro. Invece i cento operai di Pomigliano distaccati in Abruzzo sono stati scelti tra gli amici degli amici di Marchionne. Mica devono mandarci quelli della Fiom, sarebbe stato logico che la scelta fosse ricaduta sugli operai più fragili, quelli che vivono in condizioni materiali di maggiore povertà. Ma il modello Marchionne si regge sulla fedeltà, non sull'umanità.
Il capitalismo degli anni Duemila non è un'opera di beneficenza sennò non si parlerebbe di «spiriti animali». Se n'è sempre parlato, era un modo di dire, una metafora, un'esasperazione della realtà. Oggi, come nell'800 e come alla fine del '900, alla Fiat come in altre grandi aziende - ne sanno qualcosa i dipendenti francesi della Renault - quando si dice «spiriti animali» si intende proprio spiriti animali. Ma forse stiamo delirando, forse Carmine e Agostino sono, o erano, solo dei pazzi. Non erano forse pazzi quei 148 operai di Mirafiori che si suicidarono dopo la sconfitta dell'80, che li espulse dalla fabbrica insieme ad altri 23 mila ex compagni di lavoro?

Carta straccia ad Ascoli. Da Mondadori ai falsi cinesi(Guglielmo Ragozzino)

Sul "manifesto" del 3 agosto scorso Guglielmo Ragozzino, con l'aiuto di un testimone che ne ha vissuto molti passaggi, Enzo Impiccini, racconta una storia triste: di una cartiera d'avanguardia che non esiste più. La sua parabola di speranze deluse potrebbe fare il paio con la dismissione di Bagnoli, raccontata da Ermanno Rea in un suo grande romanzo. Io consiglio vivamente la lettura dell'articolo, di cui qui riprendo un ampio stralcio. (S.L.L.)
Da vent'anni è in corso l'epica lotta tra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi per definire la spartizione della grande Mondadori, quella che comprendeva anche la Repubblica e l'Espresso. All'origine di tutto, due decisioni di diritto, sia pure contrastanti: il famoso Lodo Mondadori che assegnava a De Benedetti l'intero gruppo e la successiva fraudolenta sentenza Metta che alla Corte d'Appello di Roma rovesciava il Lodo stesso assegnando tutto a Berlusconi. Il ventennio ha inizio allora, nel 1991, con la spartizione, voluta da Giulio Andreotti, subìta da Bettino Craxi e operata da Giuseppe Ciarrapico che consegnava Mondadori - libri e riviste - a Berlusconi; la Repubblica, l'Espresso, quotidiani locali e altro ancora a De Benedetti, costretto però a pagare a saldo 400 miliardi di lire. Tra le proprietà che i due personaggi si palleggiavano c'era anche la Cartiera di Ascoli che produceva la carta patinata per le riviste "rotocalco" come si chiamavano in quei tempi. Difficile capire, perché Berlusconi, che ha le riviste patinate, la ceda e perché De Benedetti la prenda. Oggi, luglio 2011, Berlusconi paga 564 milioni di euro per l'imbroglio della sentenza Metta e cita il caso della "sua" Cartiera per sottolineare come la sentenza della Corte d'Appello di Milano che lo ha condannato sia stata ingiusta, suscitando una reazione decisa dell'antagonista. Nessuno fa caso al fatto che la Cartiera di Ascoli non ci sia più. Ancora adesso Berlusconi e De Benedetti se ne disputano il ricordo, ma la Cartiera è smantellata e venduta a pezzi, mentre lo stabilimento, una straordinaria opera di Oscar Niemeyer cade in rovina. Probabilmente i due valenti industriali non sono interessati a ciò che è avvenuto dopo il 1991 ad Ascoli: la Cartiera è tornata loro in mente solo per scambiarsi altri insulti. Così, per informarli, siamo andati ad Ascoli per farcelo raccontare. Le azioni del gruppo Mondadori in mano ai due contendenti, sommate insieme, valevano 2.500 miliardi di lire. La parte relativa alla Cartiera (quotata nel 1988) valeva sui 200 miliardi. Ma cos'era la Cartiera?

1962. Arnoldo, paternalista
«Prima della Cartiera e del "Lodo Mondadori" occorre un passo indietro» ci dice la nostra guida. Svolge il filo del racconto un compagno, Enzo Impiccini, impiegato nella logistica dal 1980, nel consiglio di fabbrica della Cartiera e poi nell'Rsu per la Cgil. Tutto finito, nel 2007. Eppure l'ultimo periodo non è stato inutile: Enzo si è battuto per difendere la Cartiera e per la pista ciclabile che ora attraversa Ascoli...
«La Cartiera nasce per volontà del fondatore della Mondadori, Arnoldo». In quei primi anni sessanta, dai libri si allargava alle riviste e aveva bisogno di carta. Scelse di farla direttamente. Studiò vari siti italiani, decise per Ascoli Piceno. Ebbe 25 ettari, quasi gratis, presso il fiume Tronto e le facilitazioni della Cassa per il Mezzogiorno. Nel 1962, completati rapidamente i lavori, fu inaugurato l'impianto, il più moderno d'Europa. Per fare una Cartiera, prima si appoggiano i macchinari tra cui una continua lunga cinquanta metri e poi si costruiscono i muri e il tetto. Qui l'edificio ha un certo valore architettonico perché lo ha progettato Oscar Niemeyer. Era l'architetto preferito di Arnoldo Mondadori, tanto che ha costruito anche la famosa sede di Segrate, quella, per intenderci che è sospesa sull'acqua di un laghetto artificiale. Sulla facciata c'è ripetuta molte volte (25 per l'esattezza) la M di Mondadori. Le M sono poi le nervature che sostengono il tetto. «Noi lavoratori abbiamo cercato di difendere quella M, mettendoci anche davanti alla fabbrica per salvarla, per non fare demolire i macchinari, bloccare le materie prime che volevano portare via. Questo dalla fine del 2007»...
Arnoldo era paternalista nel senso migliore. Purché lavorasse tanto, un operaio aveva diritto a una serie di benefit. C'era un gran centro sportivo per lavoratori e famiglie; un fondo integrativo sanitario medico; frequenti migliorie contrattuali: la conflittualità sindacale era pressoché inesistente. «Siamo andati avanti così fino alla fine degli anni ottanta».

1989-91. Il Lodo.
Non è cambiato niente con gli eredi. Arnoldo morì nel 1977. Il mercato della carta tirava, arrivavano premi di produzione... «insomma diciamo che si stava bene». Poi nel giro di tre o quattro anni, tutto finito. La famiglia Mondadori cominciò ad essere insidiata da altri imprenditori. I due che si davano da fare più di tutti per conquistare la cosiddetta grande Mondadori in cui rientrava anche la Repubblica, erano Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti. Nel gruppo rientrava la Cartiera di Ascoli, società quotata in borsa. Con la spartizione, la cartiera passò a De Benedetti poco interessato all'attività industriale, molto alla quotazione in borsa. «Così si liberò del contenuto e tenne la scatola vuota, dal nome Cartiera di Ascoli, che incorporò anche l'editoriale la Repubblica». In altre parole, per quotare in borsa la Repubblica, De Benedetti la inserì nella Cartiera di Ascoli per poi cambiarle nome.

1991. Il momento di Sottrici
«Con la scissione, ci trovammo all'improvviso a mal partito. Prima eravamo un'impresa con una produzione direttamente legata alla Mondadori. Sul mercato restava da vendere solo metà carta o poco più. Invece ora, con l'industriale Sottrici della Sottrici Binda, un gruppo cartario grande e fragile che si accollò l'onere di gestire la Cartiera, tutto quello che producevi dovevi venderlo; anche a Mondadori che non era obbligata a comprare». Fu un notevole salto indietro. Sottrici non aveva soldi, ma si era servito di un mutuo garantito dallo stesso De Benedetti. Così Sottrici non ha retto il peso del mutuo con le banche creditrici e in meno di tre anni, esattamente nel 1993, ha dichiarato fallimento. «Per noi sono stati guai: benefit che sparivano, contrazioni di stipendio, mancate sostituzioni di persone che andavano in pensione, poca manutenzione, ritmi di lavoro che crescevano in maniera esponenziale. I nostri proprietari erano diventati le banche creditrici. Dissero: facciamo un bel piano di rientro dei nostri crediti e sfruttiamo gli impianti maggiormente remunerativi. Guardavano alla Cartiera di Ascoli che aveva un mercato ancora fiorente».

1993. Le banche padrone
Il debito di Sottrici era di 900 miliardi di lire. «Se non ricordo male il piano di rientro fu studiato da Morgan Stanley ... Noi lavoratori abbiamo sudato lira su lira». I primi creditori erano Comit e Credit. Comit aveva concesso il famoso mutuo garantito da De Benedetti per buttare la Cartiera e tenere il nome quotato in borsa. Nel 1998, cinque anni dopo, le banche erano soddisfatte. A quel punto potevano continuare, ciò che a loro non interessava; o vendere. Hanno cercato un compratore per la Cartiera, che sul mercato stava ancora benissimo. Ogni giorno potevamo spedire trecento tonnellate. La macchina funzionava in continuo. Il magazzino dei resi era sempre vuoto. Molti i clienti, tra cui la stessa Mondadori, che comprava sempre: la carta di Ascoli era considerata la migliore d'Italia.

Ahlstrom, finlandese, multinazionale
Le banche hanno venduto nel 1998 alla multinazionale Ahlstrom, finlandese. Questa ha fatto capire subito di che pasta fosse. «Ha visto la nostra busta paga e ha detto: non ci siamo. La 14ma mensilità fu esclusa per i nuovi assunti e rateizzata per i vecchi; via il premio di produzione mensile . «Entrare in Ahlstrom ci ridette speranze, ma ci toccò nel portafoglio».
Con 60 miliardi comprarono tutto: lo stabilimento, il terreno, il parco, gli impianti sportivi. «Obtorto collo dicemmo sì». La multinazionale all'inizio fece grossi investimenti, soprattutto perché aveva in mente di destinare lo stabilimento di Ascoli alla produzione di carta commerciale, lasciando l'editoria. Per carta commerciale si intende tutte la carta che si vede sugli scaffali del supermercato: gli involucri delle scatole dei biscotti, le etichette del vino o della birra, le caramelle, perfino la carta metallizzata che sta dentro al pacchetto delle sigarette. L'Ahlstrom faceva la stessa produzione anche alla cartiera Bosso di Torino, ed era convinta che il settore fosse promettente. Così non è stato, perché dal 2001/02 è iniziata una fase un po'discendente dei consumi, si sono presentate sul mercato imprese molto più agguerrite, e Ascoli è entrata un po' in sofferenza. Ora la carta di Ascoli doveva sottoporsi a un'ulteriore lavorazione. Mentre con la patinata il ciclo era completo e la carta poteva subito ricevere l'inchiostro per la stampa, nell'altro caso non facevamo più un prodotto finito, ma c'era bisogno che la carta andasse in altri stabilimenti per essere completata. La debolezza di questo mercato risultava sempre più evidente, ma vi erano soluzioni. Gliene avevamo offerte noi alla multinazionale...  Negli ultimi periodi il problema non era l'invenduto, ma una gestione piuttosto dissennata, con troppi dirigenti. Nonostante tutto, quando hanno deciso di chiudere nel 2007, non eravamo sommersi di debiti: avevamo un passivo di 675 mila euro, una sciocchezza per una multinazionale. Bastava rinunciare a 4 dirigenti... e poteva essere un pareggio.

2007. Finlandia, addio
La politica industriale finlandese risparmia su moltissime cose, su voci basilari dello stipendio, ma per quanto riguarda i manager è di manica larga. Un esempio: ai tempi del Lodo Mondadori, nel 1991, avevamo un solo direttore che era anche amministratore delegato, visto che la società era quotata in borsa. Quando ci hanno chiuso, eravamo uno stabilimento, non una società autonoma, con 9 dirigenti, una vera e propria esagerazione. I finlandesi sono durati meno di dieci anni. A fine 2007 hanno convocato a Roma i sindacati nazionali e di fabbrica e hanno detto che lo stabilimento di Ascoli «non era più un loro obiettivo strategico, come del resto l'Europa intera».

Ascoli non è strategica
Ormai puntavano tutto sul Bric, sul Brasile. Cercheremo di vendere Ascoli, hanno assicurato, non abbiamo pregiudizi a vendere a chicchessia, però in questo momento guardiamo altrove...
«Eravamo convinti che a una Cartiera può succedere solo un'altra Cartiera. Il sindacato per due o tre anni si è riempito la bocca con la riconversione industriale, ma riconversione industriale su cosa? Questa è una Cartiera, nasce sulla riva del fiume, con un edificio che è stato costruito per ospitare queste macchine, sorge tra gente che ha una trentennale professionalità per fare la carta e non altro». Quindi la direzione che occorreva prendere doveva essere quella di fare un'altra Cartiera. Fra le altre cose abbiamo anche presentato il «modello argentino», volevamo tentare di autogestirci; e siccome l'Ahlstrom parlava di prezzi così bassi per poterla vendere, abbiamo fatto la nostra proposta. Il sindacato ha dichiarato che era una pazzia. «Un sindacalista della Cisl mi disse: "a mio figlio non consiglierei mai di farlo, con il rischio di rimetterci anche il Tfr, per autogestire una fabbrica"».
Nel 2007, tutti fuori. Eravamo 250, con un indotto di altrettanti, quindi in sofferenza sono andate 500 persone. Gli altri 250 senza i vantaggi degli ammortizzatori sociali: imprese di pulizia, addetti alla mensa, gli stessi carrellisti, quelli della manutenzione, i camionisti....» La Cartiera era buon lavoro per il trasporto locale.

2008. La sindrome cinese
Per qualche settimana vi fu una prospettiva cinese. Le navi cinesi che scaricavano merci in Europa non tornavano forse vuote? Un mediatore pensava che uno stabilimento di carta da stampa ascolano avrebbe potuto rifornire mezza Cina, affamata di carta. Non se ne fece niente. Il rebus cinese si è presentato ai tempi dell'ingloriosa fine del governo Prodi. «Paolo Ferrero, allora ministro, venne anche davanti alla Cartiera e cercammo delle strade». A un certo punto una soluzione cinese si materializzò: «c'era un consigliere regionale del Pd che aveva contribuito all'acquisto della Benelli di Pesaro da parte dei cinesi. Era convinto che il mediatore che aveva fatto prendere ai cinesi la Benelli si sarebbe dato da fare anche per noi e montò questa storia con il mediatore, tal Maurizi, ritenendo che doveva far da tramite con il fondo sovrano cinese. A un certo punto la Repubblica scrisse in un articolo "comprata la cartiera di Ascoli dai cinesi" in un elenco di acquisizioni e affari cinesi in Italia. Noi non li abbiamo mai visti e non abbiamo visto neppure il mediatore, il signor Maurizi... Questo fino a febbraio, ci abbiamo passato il natale».

2010/11. Lo smantellamento
Infine ci è arrivata in testa l'ultima tegola: la rottamazione. Eppure, anche in questa vicenda della vendita ai rottamatori, abbiamo avuto l'ultima idea. «Perché non ci uniamo, abbiamo detto a istituzioni, a imprenditori locali tramite l'associazione industriale, al pool di banche, agli stessi lavoratori? Il prezzo di vendita è 4,5 milioni, metà di quanto valgano i soli terreni. Perché non raccogliamo i milioni, liquidiamo il rottamatore, dandogli anche un premio e ricominciamo a fare la carta»? Ci siamo anche pagati, noi lavoratori, uno studio di fattibilità, svolto da Alessandro Grottoli, professore all'Università di Urbino: tipologia d'impianto e di carta, organici, mercato: con certi accorgimenti potevamo farcela, purché un imprenditore si fosse assunto il rischio di tentare. «Non ti sta a sentire nessuno, è tanto chiara la volontà di dismettere, di concludere un'esperienza». E poi siamo arrivati allo smantellamento finale. La ditta si chiama Eurocomet di Brescia specializzata in rottamazione di aziende, nel tirare fuori i metalli, rame acciaio, cavi elettrici. Le interessa soprattutto rendere vuoto questo spazio. «Per chi, per cosa non si sa. Si possono solo fare ipotesi».
«E poi voglio finire con una cosa...  Ho detto sempre, scusa se pecco di presunzione, "noi facciamo la carta. Io ritengo che sia un bene anche della collettività, un bene sociale. Nella carta c'è un contenuto di cultura, d'informazione, d'innalzamento sociale. Se essa viene meno, c'è qualcosa di meno nella società... ».

Liguria, Rifondazione va alla guerra.

C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anzi d’antico. Il 9 agosto ultimo scorso Manlio Dinucci, dalla sua rubrica Finché c’è guerra c’è speranza (il titolo rimanda a un film in cui Alberto Sordi interpretava il ruolo di un mercante d’armi) ci fa sapere che Rifondazione Comunista della Liguria, attraverso un suo esponente locale di grande spicco, trabocca di gioia per la nuova commessa a Fincantieri. Il partito di Ferrero ce la mette tutta per rappresentare politicamente gli operai, ma come molte socialdemocrazie antiche, di prima della Grande Guerra, pensa di rappresentarli difendendo anche l’industria bellica. E’ un passo decisivo verso l’abisso. E’ difficile che un partito operaio – abbandonato l’internazionalismo antimilitarista – rimanga a lungo operaio. Ecco comunque l’edificante articolo di Dinucci. (S.L.L.) 
La fregata Fremm
L'arte della guerra
Mamnlio Dinucci
«Estremamente positivo»: così Giacomo Conti (Rc) - consigliere Fds e segretario della presidenza alla Regione Liguria - definisce il fatto che Fincantieri costruirà una nave da assalto anfibio per l'Algeria. Sarà una boccata di ossigeno per i cantieri liguri di Riva Trigoso e Muggiano, concordano partiti e sindacati. Nessuno si chiede invece perché l'Algeria, che ha un tasso di disoccupazione del 30% e ha appena ricevuto un aiuto di 170 milioni di euro dalla Ue, ne spenda circa mezzo miliardo per acquistare questa nave. Lo spiega indirettamente la marina italiana, che ne possiede tre: essa serve alla proiezione di potenza dal mare. È in grado di sbarcare, con motozattere e motoscafi veloci, 350 uomini e 35 veicoli corazzati, appoggiati da cannoni Oto Melara ed elicotteri da attacco. Una nave da guerra, dunque, utilizzabile in operazioni multinazionali in Nordafrica o altrove, e allo stesso tempo per schiacciare eventuali ribellioni interne. Cresce infatti in Algeria l'opposizione popolare al regime del presidente Bouteflika sostenuto dalle forze armate, che continuano a reprimere duramente i dissidenti. A questo apparato militare l'Italia fornisce una delle più moderne navi da guerra. Naturalmente con il placet del Pentagono: in giugno il gen. Carter Ham del Comando Africa è stato ad Algeri, annunciando lo stanziamento di un milione di dollari annui per l'addestramento di ufficiali algerini negli Usa, mentre il gen. Ahcene Tafer, comandante dell'esercito algerino, è stato ricevuto allo U.S. Army Africa di Vicenza. Il merito della nuova commessa militare per Fincantieri va non solo al governo Berlusconi, ma a quello Prodi: nel novembre 2007 inviò in Algeria una nave della stessa classe, per dimostrarne le eccezionali capacità. Sbarcò anche il sottosegretario alla Difesa Lorenzo Forcieri (Ds-Ulivo), per convincere il regime algerino ad acquistarla. Stesso impegno, oggi, da parte dei massimi esponenti del Pd. Quando lo scorso giugno il ministro della difesa La Russa ha prospettato la riduzione da 10 a 6 delle fregate Fremm che Fincantieri costruisce per la marina italiana (costo 350 milioni di euro l'una), la senatrice del Pd Roberta Pinotti, vicepresidente della commissione Difesa, ha chiesto al governo di mantenere l'impegno di costruirle tutte e dieci. Le ha fatto eco Giacomo Conti, accusando il governo di incapacità e mancanza di progettualità. Meno male che c'è una «sinistra» impegnata perché Fincantieri costruisca altre navi da guerra (finora ne ha prodotte oltre 2mila). Assicurando posti di lavoro ma, allo stesso tempo, facendo lievitare la spesa militare che, salita a 25 miliardi di euro annui, viene fatta pagare ai lavoratori con i tagli alle spese sociali. Costruendo navi per le guerre di aggressione, come le fregate Fremm che nell'assalto anfibio distruggono le infrastruttture terrestri, a 100 km di distanza, con i cannoni Vulcano (http://www.youtube.com/user/ItalianNavy?feature=mhum#p/u/43/jm-khKYUkNQ).
Fabbricati dall'Oto Melara a La Spezia, dove sarà costruita anche la nave da guerra per l'Algeria, dove Forcieri (guarda caso) è stato nominato presidente dell'Autorità portuale. Per meriti acquisiti, di cui fa fede la prestigiosa carica di vicepresidente del Comitato atlantico italiano.

da "il manifesto" 9 agosto 2011


Ieri come oggi. Giugno 1861: un solo deputato contro i privilegi del Vaticano

Il 28 giugno 2011 Maurizio Lupo dedicava la sua rubrica  Accadeva il… che quotidianamente rievoca fatti e misfatti del 1861, l’anno dell’unificazione d’Italia, a un tema di strabiliante autorità. (S.L.L.) 
Il coro di San Pietro
Accadeva il 28 giugno 1861  
Lo Stato ha bisogno di soldi? Prendiamoli ai preti». E' la proposta che l'estrema sinistra sostiene dal 22 maggio 1861 in Parlamento. La difende il deputato napoletano Giuseppe Ricciardi, mazziniano e anticlericale. Sa di non poterla spuntare. Ma venerdì 28 giugno 1861 la sua linea è l'unica in alternativa a quella governativa, che chiede l'approvazione di un prestito pubblico di 500 milioni, pari a 2 miliardi e 200 milioni di euro. «Questo prestito - insiste Ricciardi - basterà appena quest'anno. E gli anni venturi?». «L'alternativa è l'incameramento della mano morta ecclesiastica». «Nelle province meridionali - ricorda Ricciardi - i soli frati sono più di 33 mila, i preti 60 mila. Le mense vescovili sono di una ricchezza scandalosa. L'arcivescovo di Capua ha una rendita personale annua di 40 mila ducati borbonici» pari a 748 mila euro. «I conventi nella sola terra di Bari possiedono per più di 15 milioni di lire», equivalenti a quasi 66 milioni di euro. «L'Umbria, con 550 mila abitanti, nutre 361 conventi, che posseggono oltre 43 milioni», pari a oltre 187 milioni di euro. «Napoli annovera oltre 100 conventi straricchi. Occupano le migliori posizioni, mentre mancano terreni per erigere case per i poveri». Infine, il Patrimonio di San Pietro: «Sarà nostro fra breve. Renderà enormi rendite alla Nazione». Parole che fanno rabbrividire il Governo. A Roma ci sono ancora i soldati di Napoleone III che vegliano sui beni del Papa.
Maurizio Lupo 

Odio di classe (da Casa Rossa)



Banchieri
Il mio caro amico e compagno Aurelio Fabiani, animatore della spoletina “Casa Rossa”, mi ha mandato sotto il titolo Odio di classe una poesia dal Breviario tedesco di Brecht, del tempo dell’ascesa del nazismo, cui è aggiunto un commento sulla cosiddetta manovra del governo italiano firmata dall’associazione di cui è parte. M’è accaduto in passato, e più volte, di dissentire da Aurelio, le cui posizioni mi sono sembrate un po’ estremiste e settarie. Ma stavolta concordo pienamente e contribuisco a far circolare nella rete, per quel poco che posso, la poesia e il commento dei compagni spoletini. (S.L.L.)
Nel covo
Quelli che portano via la carne dalle tavole
insegnano ad accontentarsi.
Coloro ai quali il dono è destinato
esigono spirito di sacrificio.
I ben pasciuti parlano agli affamati
dei grandi tempi che verranno.
Quelli che portano all’abisso la nazione
affermano che governare è troppo difficile
per l’uomo qualsiasi.
Bertolt Brecht
Operai
Le modifiche alla manovra economica portano il segno inconfondibile dell’odio di classe. Con esse il governo non fa altro che allargare le profonde ferite inferte in questi mesi alle classi popolari. Si cancella il cosiddetto contributo di solidarietà a carico dei privati benestanti, dei ricchi e dei super ricchi e si scarica sui lavoratori un ulteriore pesante fardello. I lavoratori verranno privati dei benefici pensionistici acquisiti riscattando il servizio militare e gli anni di università.  Un furto vero e proprio verso chi è stato obbligato prima a svolgere il servizio militare (lavoro gratuito per lo stato), poi ha pagato per riscattarlo ai fini pensionistici, e verso chi, spesso con enormi sacrifici delle proprie famiglie, ha acquisito una laurea necessaria per lavorare.
Questo governo ruba a chi lavora per riempire le casse vuote dello stato, mentre a chi ruba allo stato esportando ingenti capitali all’estero, regala con lo scudo fiscale miliardi di euro.
Questo è odio di classe.
In queste ore c’è stata una intensa discussione tra lavoratori, molti dei quali saranno colpiti dai provvedimenti antipopolari; l’odio dei ricchi e del loro governo sta facendo montare una rabbia che a sua volta si trasformerà in odio contro coloro che, ricchi da fare schifo, parlano di sacrifici a chi non ce la fa ad arrivare alla fine del mese. La forbice tra ricchi e poveri dal dopoguerra non è stata mai così grande e i diritti sono calpestati. Il 6 settembre non può essere che l’inizio di un autunno caldo di lotte sociali.
Associazione Culturale CASA ROSSA

Lotte sociali

30.8.11

Paradossi italiani. Le discariche abusive aperte dai prefetti.

Una discarica a Siculiana (Ag)
“A sud’europa”, la rivista on line del Centro Studi Pio La Torre del 27 giugno 2011 pubblica un articolo di Giusy Ciavarella dal titolo Seicento le discariche abusive siciliane. Il record a Messina, 250 milioni per sanarle.
Le cifre sono importanti, ma la notizia non sorprende, come non sorprende la storia che si racconta, di scarsa consapevolezza, di ritardi burocratici, di malversazioni se non di ruberie.
Pare che finalmente la Regione abbia stilato un piano programmato di interventi per le discariche mai sanate che contengono rifiuti speciali e pericolosi, specie per quelle che hanno raccolto rifiuti di tipo industriale, spesso “riempite da materiale molto inquinante, in grado di penetrare nelle falde acquifere e di modificare la struttura del terreno”.
Tutto ciò allarma, ma, seppure vagamente, immaginavo che accadesse. In Sicilia ed in altre regioni sono cresciute davanti agli occhi di tutti, governanti, amministratori, giudici, medici, sindacalisti e notai, delle vere e proprie città abusive. Perché dovrebbe meravigliare che vi siano in campagne deserte, occultati dalle colline, siti che raccolgono veleni ed altre robacce?
Ma, a leggere l’articolo, s’intende che le discariche in questione non sono quello che m’immaginavo, cioè ricettacoli inquinati di rifiuti inquinanti depositati di nascosto da potenti mafie, poi scoperti e denunciati dalle forze dell’ordine. Di siffatte discariche ne esistono tante e di quando in quando si legge di carabinieri e finanzieri che le portano in luce, ma non sono quelle di cui parla l’articolo.
Ciavarella piuttosto si riferisce a “discariche aperte dai prefetti durante i periodi delle emergenze che poi, finita l’emergenza, sono spesso finite nel dimenticatoio”. Insomma questi depositi di rifiuti non sono affatto segreti o clandestini, ma perfettamente conosciuti dalle pubbliche autorità e, sebbene abusivi, non sono nati da un abuso, ma da una decisione assunta da un’autorità legittima e motivata da uno stato di necessità. L’abuso è venuto dopo, quando i rifiuti sono stati lasciati senza alcun intervento di protezione dell’ambiente circostante e delle popolazioni. E’ accaduto così un paradosso tipicamente italiano: una misura presa per fronteggiare un’emergenza determina a sua volta altre e più gravi emergenze. Io non conosco bene il ginepraio di leggi, decreti e regolamenti che regola la materia; e probabilmente, in base a qualche comma di chissà quale normativa, la responsabilità di quei siti è demandata alla Regione, o al Comune o a qualche autorità locale, di bacino forse, o magari a un’Agenzia (non di pompe funebri, ovviamente). Vale però anche in questo caso il motto toscano caro a Fanfani: “Chi la fa la copra”. Insomma, di chiunque sia la responsabilità formale, il prefetto che apre una discarica d’emergenza non fa il suo dovere se poi l’abbandona a se stessa e alle mafie e lascia che si producano disastri ambientali. Quel prefetto, benché non sia l’unico responsabile, è di certo tra i maggiori responsabili della sorte di quel sito, se non altro per omissione. Ma i peccati di omissione sono a volte i peggiori.
Di questi tempi è frequente, facile e quasi sempre meritato l’attacco ai ceti politico-amministrativi del Meridione e della Sicilia. Pessimi senza dubbio. Ma non aiuta a sbrogliare la matassa tacere le gravi responsabilità dello Stato centrale: dei suoi governanti e dei suoi funzionari. Nel momento in cui da tante parti si chiede, forse a ragione, l’abolizione delle Province, non guasterebbe riprendere la parola d’ordine di Einaudi: via i prefetti!

La guerra alla droga come guerra al Sud del mondo (di Grazia Zuffa)

Sul “manifesto” del 3 agosto 2011 la rubrica “Fuoriluogo” è affidata a Grazia Zuffa che ragiona di narcoeconomia e geopolitica. Mi pare che la sua conclusione, della “guerra alla droga” come guerra al Sud del mondo, sia ipotesi ben argomentata e perciò credibile. (S.L.L.)
Del narcotraffico sappiamo tutto quello che vogliono farci sapere: le azioni spettacolari delle forze dell'ordine nell'azione di contrasto, le enormi quantità di droga sequestrata, i colpi inferti al Big Enemy, come lo chiamano gli americani, i trafficanti senza scrupoli che insidiano e appestano il vero spirito (drug free) delle nazioni sane. Rimane nell'ombra l'altro versante della barricata: le rotte del traffico, la vitalità di un business in grado di fronteggiare la repressione, l'innesto dell'economia della droga nel tessuto socioeconomico dei paesi poveri, cosiddetti "produttori", ma anche dell'Occidente ricco "consumatore". Soprattutto quest'ultimo aspetto, l'intreccio e la collusione fra economia illegale e legale, è scarsamente conosciuto dall'opinione pubblica. Tra i pochi libri che cercano di coprire questa lacuna è Narconomics, il volume curato da Matteo Tacconi, scritto da Stefania Bizzarri, Cecilia Ferrara e Enza Roberta Petrillo, oltre che dallo stesso Tacconi (appena uscito per Lantana Editore). Gli autori seguono la scia economica e finanziaria di cocaina ed eroina, dalle lontane campagne dove coltivare l'oppio o la coca è parte integrante di una economia di sopravvivenza, fino ai quartieri alti della finanza internazionale. C'è molto da imparare da questa narrazione, come si è detto, e alcune pagine sono particolarmente stimolanti: come quelle che analizzano il ruolo della droga e dell'economia criminale nella disgregazione della ex Jugoslavia. Questo sguardo "oltre le linee nemiche" ci rende scettici circa le magnifiche sorti della war on drugs, naturalmente; più importante, ci restituisce come in uno specchio la dimensione propagandistica dell'informazione ufficiale sulle droghe. Un'informazione "di guerra" per l'appunto: quella in cui si nascondono le verità scomode mentre i rapporti ufficiali delle agenzie internazionali non esitano a inventare dati rassicuranti a tavolino: basti pensare al millantato declino della produzione di cocaina. Svelare gli inganni è importante, ma viene anche la voglia di capirla meglio questa guerra, di scavare fino a comprenderne la funzione sociale e geopolitica (l'unica che può spiegare la sua sopravvivenza a fronte dell'evidente fallimento del suo obiettivo dichiarato, quello di "ridurre fino ad eliminare" l'offerta di droga). Come spiega l'antropologo Axel Klein nel libro Drugs and the world (Reaktion Books, 2008), alla base della proibizione è la rappresentazione della droga come il «nemico che viene da fuori»: cento anni fa erano l'oppio dei cinesi e la marijuana dei messicani che inducevano alle licenze sessuali, minacciando la moralità delle donne bianche e i "valori" delle società puritane; oggi sono la ganja dei neri giamaicani e la coca dei latinos ad insidiare i "paesi consumatori". Chi cede alla sostanza corruttrice va punito sì, ma sempre meno dei "produttori di morte". Se non ci fosse questa costruzione sociale, che si alimenta di discriminazione etnica, sarebbe tollerabile la militarizzazione di intere aree dell'America Latina, con migliaia di contadini costretti a sfollare dalle proprie terre avvelenate dai pesticidi antidroga? La war on drugs è un tassello importante nel rapporto conflittuale fra nord e sud del mondo. La sua fine, con ogni probabilità, si consumerà nell'evoluzione di questo scenario geopolitico globale.

Vongole e lupini (da un poemetto gastronomico di Eduardo De Filippo)

A quanto leggo in un “prossimamente” di Mirella Appiotti, su “Tuttolibri” del 30 luglio 2011, Si cucine comme vogli’i è un poemetto in quartine di Eduardo De Filippo (rintracciato e spiegato dalla moglie Isabella) che è diventato un piccolo best-seller per Guido Tommasi, editore di gastronomia e culinaria curiose e colte. 
Il poemetto io l’ho ritrovato nel sito “semi al vento” e non so dire se il testo di questa diffusione reticolare coincida in tutto e per tutto con l’edizione ufficiale di Tommasi. Ma le due strofette citate da Appiotti sugli spaghetti all’aglio e oglio ci sono, precise precise, e credo che basti ad avvalorare l’attendibilità del sito. 
Qui ne estraggo il passaggio che confronta due pastasciutte, quella con le vongole e quella coi lupini, come a Napoli chiamano le telline (o patelle o arselle). Uguale il procedimento, diversa la pasta: con le vongole e’ pertose (dovrebbero essere quelle di maggiore pregio) lingue di passero (o linguine che dir si voglia), con i lupine vermicellini (o spaghettini). Buon appetito. (S.L.L.)
Quatte vongole 'e pertose
e nu sicchio d'acqua 'e mare:
quann’a rena se ne care
tann'e miett'a cucenà.

Aglio, uoglio e petrusino,
tutt’e ccorne ntesecate,
lengue 'e passere sculate:
cchiù so' ttoste e meglio so'.

Ma si ncuocce 'o piscatore
c’o catillo d'e lupine,
'i'’a menà 'e vermicielline:
cala e aìza, nun sbaglià!

'O lupino tu ll'agguste
cchiù d'a vongola 'e pertosa:
'o sapore è n'ata cosa,
nun se po' paragonà.

Nota:
Ad attesecare o 'ntesecare, cioè a farsi ritti e tesi sono i tentacolini della vongola, la cui forma rammenta le corna.

L'inventore del sassofono (di Marco Zatterin)

Un articolo di Marco Zatterin  su “La stampa” del 17 ottobre 2010 dà notizia del primo museo dedicato allo strumento nella città belga di Dinant, dove nacque il suo inventore. Per l’occasione Zatterin mette in fila notizie e curiosità su Adolphe Sax e sullo strumento che da lui prese nome, che qui in gran parte riprendo. (S.L.L.)
Adolphe Sax è ancora qui, nella via che ora porta il suo nome, seduto su una panchina davanti al numero 37 dove è nato quasi due secoli fa. Ha un aspetto severo che ricorda Giuseppe Verdi, se non fosse per lo strumento che stringe in grembo come fosse un figlio. Il sassofono fuso nel metallo pesante rende meno grave la figura, al fianco della quale si siedono rapidi i pochi turisti che sfidano la pioggia sottile dell'autunno belga che sembra già quasi inverno. Una foto abbracciati alla venerata statua scura, tutti magari intenti a chiedersi come sia stato possibile che quel signore con la barba nato a Dinant, all'ombra della cittadella che difendeva il ponte sulla Mosa, sia riuscito a modellare con uno degli ottoni più rivoluzionari in cui uomo abbia mai soffiato.
«Non suonarlo, lascia che sia lui a suonare te», amava ripetere il jazzista americano Charlie Parker, apostolo del culto del sassofono. A suo modo, e non senza falsa modestia dato il talento sregolato dell'uomo, la frase di «Bird» riproduceva la teoria elaborata intorno ai trent'anni da Antoine-Joseph Sax, detto Adolphe: «Il timbro di un suono sia determinato dalle proporzioni della colonna d'aria piuttosto che dal materiale del corpo che la contiene». Era figlio d'arte, sin da ragazzo aveva lavorato nella bottega del padre, gran progettista di clarinetti e fagotti. Nel 1840, a 26 anni, concepì un concetto ibrido sposando l'ancia del clarino, le chiavi dell'oboe e del flauto, e il cono di metallo. Gli parve straordinario e gli diede il suo nome. Saxophone! Centosettanta anni più tardi il Belgio ha deciso di celebrarlo come si deve…
Il geniale Adolphe visse poco a Dinant, aveva meno di un anno quando nel 1815 Guglielmo I d'Orange lo fece trasferire a Bruxelles, designandolo quale fornitore ufficiale di strumenti per l'esercito. Fu nella capitale che Adolphe immaginò le sue creature sonore. Eppure il successo arrivò solo a Parigi, dove si trasferì nel 1842 e morì nel 1894, povero in canna dopo una lunga serie di costose dispute per difendere il suo modello registrato. In riva alla Senna … l'incontro col compositore francese Hector Berlioz gli regalò la popolarità che cercava. Adottato dalle orchestre e poi dalla bande militari, lo strumento è diventato indispensabile col jazz nel secondo dopoguerra ed è rinato col rock. Oggi anima un universo che spazia da Parker a Bill Clinton, passando per Wayne Shorter (Weather Report), Fausto Papetti (trash italico anni settanta) e Zoot, il sassofonista coi capelli in genere blu del Muppet show. Mica poco. E' anche per questo che la piccola Dinant - «Citta' della Musica» - prova a riappropriarsi del suo figlio, organizzando di concerti ed eventi (Europ'A. Sax, 1-13 novembre) e inaugurando nella giornata finale il museo della «Maison Sax» ... Sulla strada sette alti totem sassofonici in altrettante tonalità, dal contrabbasso al sopranino. Il piano terra è angusto, le luci soffuse. Sul pavimento l'architetto ha disegnato un sax di otto metri. Tre stanze in tutto, foto, progetti, brevetti, strumenti dalle fogge che il profano troverà impensabili. In fondo quattro grandi pagine mobili dal quaderno dell'inventore. Suoni e suggestioni moderne incastrate nel passato...
Il severo Adolphe potrebbe trovar il tutto divertente. Era un uomo di spirito, si racconta, come il suo strumento. Certo gli sarebbe piaciuta la scusa con cui Jack Lemmon in versione Dafne cerca di smarcarsi dall'appiccicoso Osgood in «A qualcuno piace caldo». «Ho un passato terribile - dice - ho vissuto per tre anni con un sassofonista». Forse pensava a Parker morto di vizi. Oppure al suono di uno strumento che, come pochi altri, cambia le vite senza possibilità di ritorno. Sax, potendo, avrebbe sottoscritto entrambe le versioni.

Dal Belice alla Tav, tornano «i ministri dal cielo». Un manuale di democrazia.

Torna in libreria, con nuovi attualizzanti interventi di presentazione, un libro di Lorenzo Barbera sulle lotte dei terremotati nella valle del Belice. La prima edizione risale a quasi 40 anni fa, ma può insegnare tuttora molte cose. Qui “posto” la recensione di Andrea Inzerillo, dal “manifesto” del 10 agosto 2011. (S.L.L.)
Il grande affaire del terremoto
Il Belice tra speculazioni e repressione
Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 un terremoto sconquassa i paesi della valle del Belice, nel trapanese. Le lotte degli abitanti di quella zona e il tentativo di una ricostruzione partecipata sono al centro del bel libro di Lorenzo Barbera, I ministri dal cielo, opportunamente riedito dall'editore :duepunti di Palermo, e che ci riguarda ancora molto da vicino per diversi motivi. Il primo, se si vuole, è di strettissima attualità, e riguarda le ragioni, le modalità, le caratteristiche di una lotta come quella portata avanti dal movimento No Tav in Val di Susa. Goffredo Fofi ne parla nella sua prefazione; lo stesso Barbera ha insistito sulle analogie che legano questi due movimenti popolari distanti nel tempo ma compagni nella volontà di partecipazione democratica per la gestione del proprio territorio e delle sue sorti. E la vicinanza riguarda anche da un punto di vista più generale le strategie statali di disinnesco delle cariche sovversive dei movimenti, che rimangono - proverbiale mancanza di fantasia degli apparati repressivi - identiche a quarant'anni di distanza: manganelli, arresti, provocazioni, infiltrazioni.
I black block di oggi sono i «maoisti» tramite cui la Dc di ieri giustificava le cariche della polizia sui manifestanti inermi. Le gesta di quei contadini e di quelle lotte, prosieguo diretto delle battaglie cominciate negli anni '50 da Danilo Dolci per la costruzione della diga dello Jato, hanno dunque un interesse che eccede il semplice dato storico e assume un carattere atemporale. Da questo punto di vista il libro di Barbera è un manuale di educazione alla democrazia e di propedeutica della resistenza. Il fatto poi che sia ambientato in una terra che storicamente di resistenza ne ha conosciuta poca rende la lotta di quei protagonisti particolarmente epica: ma l'epopea non deve far dimenticare che è sulla pelle di quelle persone, attraverso la loro diretta esposizione, che le battaglie si sono potute vincere. Il tutto nell'Italia degli anni '70, quella in cui il legame tra mafia e istituzioni sembrava pressoché invincibile e in cui si sperimentavano alleanze politiche che mettevano freni anche a quelle forze più progressiste che invece di prendere le parti dei più deboli preferivano tacere prudentemente.
Ancora una volta, ogni eco contemporanea è dimostrazione della forza del libro e di quella vicenda: le cariche dei terremotati dell'Aquila davanti a Montecitorio non sono altro che la ripetizione di un identico scenario avvenuto anni prima qualche centinaio di chilometri più a sud. (E più in generale una politica ricondotta a reazione alle emergenze, più interessata a gestirle che a prevenirle: anche questo ci dice molto, dall'immondizia alla proliferazione dei commissari straordinari fino al business della protezione civile).
I ministri che sbarcano con gli elicotteri a stringere mani e a promettere benefici sono lo stesso terreno di coltura dei presidenti del consiglio che sbarcano nelle isole, acquistano ville e promettono casinò. I ministri dal cielo è dunque attualissimo per tutte queste ragioni, e insieme inattuale perché racconta una storia che fin dalla nascita della repubblica caratterizza la società italiana e che probabilmente avrà molto ancora da insegnare di qui in futuro. Il libro vale anche come possente e duraturo promemoria, insomma. C'è tuttavia una differenza preoccupante: quei contadini, quei terremotati, si ribellavano più di quanto la nostra contemporaneità sia abituata a vedere. E i meccanismi di criminalizzazione dei dissenzienti, meccanismi che quei manifestanti erano capacissimi di identificare e bravissimi a rispedire al mittente, sembravano molto più chiari allora di quanto non appaiano oggi agli occhi della popolazione. Forse bisogna guardare a quelle lotte per recuperare una capacità di analisi delle situazioni e reinventare modalità di azione collettiva.
Un ultimo punto, tra i tanti: l'emigrazione. Possiamo credere che le cifre presenti nel libro riguardino il passato, chiudendo gli occhi su una drastica e crescente emigrazione in un'unica direzione, come se i biglietti gratuiti di sola andata dal sud verso il mondo intero non fossero mai finiti. Possiamo credere, come il ministro Donat-Cattin voleva dare a intendere ai contadini del Belice, che si tratti di una scelta di libertà («Volete forse impedire alla gente di emigrare dove vuole? Oggi abbiamo la democrazia e la libertà»). Ma è evidente a tutti, come dice Ciccio Giovenco in preda a furorica esaltazione, che si tratta della libertà del lupo contro la pecora. Che la drammatica attualità di una perenne questione meridionale sia una delle urgenze più improcrastinabili della vita politica di tutti gli italiani, al di là di ogni anniversario patriottico, è cosa talmente evidente da non meritare neanche un'eccessiva discussione. Ciò che invece merita di essere discusso è la modalità di azione per invertire immediatamente questo lento salasso delle risorse della nazione. Il libro di Lorenzo Barbera ha il grande merito di rimettere sotto gli occhi di tutti l'urgenza di questa necessità.

29.8.11

La poesia del lunedì. Fausto Maria Martini (1886 - 1931)

Dorme

Annie dorme: un chiaror discreto
avvolge come in un segreto
la bruna testa, china giù
sullo scrittoio d'acajù.

Nell'ombra, un suo braccio scoperto
ancora tocca un libro aperto:
intorno a quella nudità
rosea, trema l'oscurità...

Annie, per quale lontananza
la dolce anima tua s'avanza,
mentre riposi, china giù
sullo scrittoio d'acajù?

Il digiuno di Trappeto e la mafia. Una lettera di Vittorini a "L'Espresso"(1956)

Elio Vittorini
Danilo Dolci, in Sicilia, ispirandosi a Gandhi inventò e promosse già negli anni 50 forme di lotta sociale non violenta. Suscitò qualche clamore il digiuno collettivo di massa, organizzato in un luogo pubblico e aperto come la spiaggia di San Cataldo, nelle vicinanze del paese di Trappeto. Le forze dell’ordine  cercarono di impedirne lo svolgimento. Il 6 febbraio del 1956 Elio Vittorini inviò la seguente lettera al direttore de “L’Espresso”, il settimanale che era nato l’anno prima e a quel tempo era diretto da Arrigo Benedetti. (S.L.L.)
La spiaggia di San Cataldo a Trappeto (Pa)
Leggo nell’ultimo numero dell’Espresso il servizio di Carlo Falconi sul digiuno dei mille siciliani di Trappeto, Balestrate e Partinico. Vi leggo che la polizia ha impedito loro, con uno spiegamento di 500 uomini, di farlo in pubblico sulla spiaggia detta di San Cataldo. Ma non vi leggo contro che cosa in particolare Danilo Dolci e i suoi "mille" volessero protestare con quel digiuno. Invece è importante dirlo. Lungo la costa a ponente di Palermo ha luogo con maggiore insistenza che altrove, e con effetti molto più gravi, la pratica criminosa della mafia di mare, e cioè dei motopescherecci che pescano "a traino", o addirittura a mezzo di esplosivi, nelle acque di poco fondo prossime alle rive. A causa di tale pratica, che peraltro distrugge il pesce appena nato e pregiudica ogni giorno di più le possibilità future della pesca in generale, i pescatori poveri dei villaggi costieri, con le loro piccole reti da superficie e con delle barche a remi che non consentono loro di cercarsi un compenso in altomare, si trovano ridotti letteralmente alla fame. La legge proibisce ai motopescherecci di pescare nelle acque costiere. Ma i padroni dei motopescherecci di Castellammare, Palermo, ecc., non hanno mai tenuto conto di quello che la legge proibisce. Né sembra che le autorità locali abbiano mai fatto un serio tentativo di imporre il rispetto della legge ai padroni dei motopescherecci. Danilo Dolci voleva, col digiuno suo e dei mille che gli sono associati, protestare appunto (nell’interesse dei pescatori poveri) contro i padroni dei motopescherecci che non rispettano le leggi sulla pesca. Ed ecco le stesse autorità che tollerano ogni giorno la trasgressione affamatrice della mafia marittima, mettersi d’impegno per impedire, con ben 500 uomini di polizia, che le vittime di quella trasgressione ne denunciassero, digiunando in pubblico, lo scandalo.

Danilo Dolci in Sicilia. Con una testimonianza di Giuseppe Casarrubea.


La Marcia per la Sicilia Occidentale (1967)
Nel sito “Epicentro Belice” ho trovato una sintetica ricostruzione dell’attività di Danilo Dolci in Sicilia dagli anni 50 agli anni 70, da quando nei primi anni 50 arrivò a Trappeto e iniziò la sua attività di denuncia non violenta delle condizioni di povertà della Sicilia. Dolci suggeriva e praticava forme originali di lotta sociale. Tali furono il digiuno collettivo di contadini e pescatori sulla spiaggia di Trappeto  e lo sciopero alla rovescia, cioè lavorando (“perché se uno è disoccupato come può scioperare? Non astenendosi dal lavoro ma mettendosi al lavoro!”).
(http://www.epicentrobelice.net/)
Nel sito si ricorda, con il corredo di antiche fotografie, anche il processo contro Dolci per la partecipazione allo sciopero alla rovescia, ove ebbe come difensore per sé e per gli altri arrestati Piero Calamandrei. Sulla personalità di Danilo Dolci resero testimonianza Norberto Bobbio, Lucio Lombardo Radice e Carlo Levi.
Una delle chiavi su cui Dolci costruiva partecipazione di base e movimento era l’obiettivo della piena occupazione da realizzarsi attraverso la cosiddetta “pianificazione partecipata”. La parola rimandava all’Urss, alla sua economia, ai rigidi Piani Quinquennali che ne scandivano lo sviluppo; ma i piani di sviluppo di Dolci si costruivano dal basso, nelle valli dello Jato o del Belice, per esempio sconfiggendo la prepotenza e la mafia attraverso la partecipazione più ampia possibile alla mappatura delle risorse, alla loro possibile utilizzazione e gestione democratica.
In un convegno del 1957 sulla piena occupazione, Dolci presenta gli esiti di una ricerca sulle possibilità di pieno impiego in 10 comuni della Sicilia Occidentale condotta  da alcuni giovani (tra i quali Lorenzo Barbera). A Mosca gli viene assegnato per quest'azione il premio Lenin per la Pace,16 milioni di lire, una cifra importante per il tempo che è utilizzata per costituire, con sede centrale a Partinico, il Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione: in diversi paesi comitati guidati da giovani pianificatori raccolgono dati sulla situazione sociale e ascoltano i cittadini aiutandoli ad auto-organizzarsi.
Saranno particolarmente importanti le attività condotte dal comitato di Roccamena, in cui dal 1960 emerge la figura di Lorenzo Barbera. Il comitato guiderà una grande battaglia per l’acqua, affermando la necessità di costruire una diga sul fiume Jato, tema di una lunga battaglia sociale e politica.
Le lotte degli anni Sessanta confluirono nel 1967 in una marcia per la Sicilia occidentale e per un nuovo mondo.
Dopo il terremoto del 1968, che ebbe proprio nella valle del Belice il suo epicentro, Dolci  sostenne i tentativi di una ricostruzione pianificata dal basso e le lotte delle popolazioni: alle consuetudinarie forme di protesta (assemblee, marce, una veglia tra i ruderi di Gibellina in occasione dell’anniversario del terremoto, mozioni, comunicati stampa) si aggiungevano anche il rifiuto di pagare le tasse a un governo considerato “fuori-legge” e il rifiuto non-violento della leva. Quella mobilitazione purtroppo non avrebbe ottenuto che risultati assai parziali e non avrebbe impedito che sulla ricostruzione si stendessero le mani dell’affarismo.
Del 1970 è il primo esperimento di Radio Libera su frequenze non pubbliche: fu realizzata  a Partinico da Danilo Dolci e Pino Lombardo, accompagnati dal flauto di Amico Dolci. Il titolo fu Sos Belice, il tema i racconti disperati e i mille bisogni del dopoterremoto: «si marcisce di chiacchiere e di ingiustizie, la Sicilia muore».
Sull’esperienza di Dolci trascrivo qui una importante testimonianza, sul filo della memoria, di Giuseppe Casarrubea, uomo di scuola e storico di valore. Rimando al suo blog per l’intero scritto. (http://casarrubea.wordpress.com/2008/08/31/danilo-dolci-sul-filo-della-memoria/ ) (S.L.L.)

 Danilo Dolci e la storia della Repubblica
Roccamena 1964. In prima fila tra gli altri Danilo Dolci e Ignazio Buttitta
Nell’inverno del 1964, non so come, ebbi un posto di insegnamento a Roccamena: corso post-elementare per analfabeti di ritorno. Una corriera traballante avrebbe dovuto lasciarmi in piazza. Si fermò un po’ prima e l’autista mi disse che potevo scendere per proseguire a piedi. Avevo già prenotato una stanza in affitto e così mi accingevo a disfare le valige per sistemare le mie cose per l’indomani. Non ebbi il tempo di farlo perché all’improvviso mi giunse un coro di voci lontane. Prestai un po’ d’attenzione pensando che qualcuno, chissà in quale via, tenesse la radio ad alto volume. Avevo la curiosità di sapere dove si fosse sintonizzato. Esclusi che si potesse trattare di un canale nazionale perché sentivo adesso distintamente canti di lavoratori, cori in dialetto siciliano, inni di partigiani interrotti da un vociare insolito. Mi rimisi la giacca a vento, chiusi la porta e mi indirizzai seguendo le voci che mi giungevano all’orecchio sempre più vicine. Così capii perché l’autista, quella sera non aveva potuto lasciarmi in piazza. Era occupata da una folla enorme di persone disposte tutte a cerchio attorno a un fuoco; molte s’erano munite di sedie, altre stavano sedute a terra. Guardai più attentamente e tra i bagliori delle fiamme scorsi uno accanto all’altro Danilo Dolci e Ignazio Buttitta. Conoscevo entrambi. Danilo more solito sventolò in aria le sue mani come fossero bandiere per salutarmi, Ignazio si dimostrò al solito suo apparentemente più chiuso, ma affabilissimo nel momento in cui gli strinsi la mano. Due caratteri diversi, due mondi che si incontravano e si capivano, e lottavano assieme in quel luogo sperduto della Sicilia dominato da una mafia meno visibile di quella di Partinico, Corleone o Castellammare del Golfo. Mi sentii rincuorato, avvertii che uscivo dalla solitudine e da certo gramsciano pessimismo che mi confermava tuttavia il dovere dell’ottimismo della volontà. Erano le prime lotte per la costruzione della diga sul Garcia, che tanti lutti, battaglie e sangue doveva costare negli anni a venire. Ricordo le numerose iniziative di allora in quell’entroterra ancora feudale: le sfilate interminabili dei contadini sui loro muli, i sit-in in quella piazza dove molte finestre restavano chiuse per l’intero anno, e stavano a guardarci come giganteschi occhi di fantasmi di pietra, le iniziative del Centro Studi curate da Lorenzo Barbera, la proiezione, in una vecchia sala cinematografica, del film di Rosi Salvatore Giuliano (1961). Mi rendevo conto che Danilo, modulava dai grandi dirigenti delle lotte contadine ammazzati dalla mafia, gli schemi delle azioni rivendicative che essi avevano condotto negli anni delle occupazioni delle terre. Mi venne spontaneo l’accostamento delle famose “cavalcate” nella Sciacca di Accursio Miraglia con quelle manifestazioni altrettanto plateali che ridavano adesso ai latifondi seminati a grano l’antica anima di un tempo. Sapevo che Miraglia era una figura centrale di Spreco.

Sul finire del 1968 feci le valige e me ne andai in Piemonte a cercare lavoro. E qui, tra Verbania e Stresa, al rientro dalla Scuola, mi ero dato dei tempi di riflessione sulla Sicilia, i suoi uomini e i suoi misteri. Sentivo tale bisogno come una sorta di dovere etico e confesso che Danilo era quasi sempre al centro dei miei pensieri. Perciò anche se a distanza di duemila chilometri, non potevamo fare a meno, talvolta, di comunicare. Ero stato ed ero un suo collaboratore volontario, avevo creduto nella sua azione e volevo dare a questa un mio contributo tangibile. Pertanto non percepivo una lira dal Centro Studi per la piena occupazione che lui dirigeva a Partinico, in quel vecchio edificio ottocentesco di proprietà degli Scalia. Volevo essere disinteressato e impegnato. Così mi sentivo in qualche modo forte e pago. Con una carica positiva dentro che mai prima mi era stato dato di avere.

Approfittai delle vacanze di Natale di uno di quei “caldi” inverni che avevano visto, tra piazza Gramsci e la Rhodiatoce di Verbania Intra, imponenti manifestazioni operaie, per tornare a Partinico e consegnargli un lavoro dattiloscritto su di lui. Erano pagine arricchite da un’appendice di incontri e seminari tenutisi a “Borgo di Dio”, il Centro di Trappeto che egli aveva fondato con i primi aiuti di Elio Vittorini. Lo lesse in un paio di giorni. Poi mi telefonò e mi fissò un incontro. Andai a trovarlo di mattina presto, sapendo che egli alle otto era in piedi già da quattro ore. Aveva l’abitudine dei contadini, di quei braccianti agricoli che se volevano sopravvivere dovevano alzarsi prima dell’alba per essere poi ingaggiati per una giornata di lavoro. Aveva imparato da loro e aveva così appreso uno stile di vita che sin dai primi anni della sua attività a Trappeto prima e a Partinico dopo, aveva costituito per lui un valore fondamentale, così grande da plasmare anche il suo carattere. Dunque l’andai a trovare di buon’ora e mi ricevette nel suo studiolo: una stanzetta umile e un po’ umida piena di libri contenuti in scaffali di tavole e laterizi, con una vecchia scrivania piena di altri libri e carte in un angolo. Ma c’era dell’altro, c’erano i suoi grandi interrogativi che egli affiggeva sistematicamente al muro, in grandi dazebao scritti a caratteri cubitali. Ne ricordo alcuni che costituirono per anni enigmi anche per me. Fino a quando, quasi trent’anni dopo, non me ne sono dovuto occupare nelle mie ricerche di storia. Leggevo: “Che successe nel baglio dei Parrini?”, “Chi ha ucciso Vincenzo Campo ad Alcamo?”, “Perché è stato ucciso Nardo Renda?”. Non era usuale allora entrare in una qualsiasi sede di partito e trovare, non dico affisse al muro, ma sussurrate in qualche sensibile orecchio, analoghe domande. In queste, mi sono reso conto ora, c’era la storia di cinquant’anni della nostra Repubblica.
Giuseppe Casarubbea