30.6.19

Posso scrivere i versi più tristi stanotte. Una poesia di Pablo Neruda



Posso scrivere i versi più tristi stanotte.

Scrivere, per esempio. “La notte è stellata,
e tremano, azzurri, gli astri in lontananza”.

E il vento della notte gira nel cielo e canta.

Posso scrivere i versi più tristi stanotte.
Io l’ho amata e a volte anche lei mi amava.

In notti come questa l’ho tenuta tra le braccia.
L’ho baciata tante volte sotto il cielo infinito.

Lei mi ha amato e a volte anch’io l’amavo.
Come non amare i suoi grandi occhi fissi.

Posso scrivere i versi più tristi stanotte.
Pensare che non l’ho più. Sentire che l’ho persa.

Sentire la notte immensa, ancora più immensa senza lei.
E il verso scende sull’anima come la rugiada sul prato.

Poco importa che il mio amore non abbia saputo fermarla.
La notte è stellata e lei non è con me.

Questo è tutto. Lontano, qualcuno canta. Lontano.
La mia anima non si rassegna d’averla persa.

Come per avvicinarla, il mio sguardo la cerca.
Il mio cuore la cerca, e lei non è con me.

La stessa notte che sbianca gli stessi alberi.
Noi, quelli d’allora, già non siamo gli stessi.

Io non l’amo più, è vero, ma quanto l’ho amata.
La mia voce cercava il vento per arrivare alle sue orecchie.

D’un altro. Sarà d’un altro. Come prima dei miei baci.
La sua voce, il suo corpo chiaro. I suoi occhi infiniti.

Ormai non l’amo più, è vero, ma forse l’amo ancora.
È così breve l’amore e così lungo l’oblio.

E siccome in notti come questa l’ho tenuta tra le braccia,
la mia anima non si rassegna d’averla persa.

Benché questo sia l’ultimo dolore che lei mi causa,
e questi gli ultimi versi che io le scrivo.

Da Venti poesie d'amore e una canzone disperata  Trad. Roberta Bovaia

Ricordando Mariella Liverani (Carla Mantovani)

Mariella Liverani

Carla Mantovani, che ho avuto l'onore e il piacere di avere tra i miei colleghi al Liceo Ginnasio Annibale Mariotti di Perugia, a lungo insegnò Lettere al Ginnasio in quella scuola, innovando profondamente e con buoni risultati, la didattica delle lingue classiche. Oggi, in pensione, guida a Perugia l'Associazione Amici della Lirica. Fu molto vicina a Mariella Liverani,s pecialmente negli ultimi anni, quando la malattia precoce, prima di toglierle la vita, sottrasse a costei possibilità di movimento, facoltà comunicative e la gioia dell'insegnare (ma anche da bibliotecaria Mariella riusciva ad essere una guida per allievi e colleghi!). Il testo che segue, nato come introduzione agli Atti della giornata inaugurale della mostra “Geometrie dell'anima”(svoltasi tra il dicembre 2004 e il gennaio 2005) editi dalla Fondazione Uguccione Ranieri di Sorbello, è entrato poi a far parte dell'annuario prodotto dal Liceo perugino nel 2007, Cento anni di Liceo di Stato 1905-2005, onde l'ho tratto. Sono stato con Mariella collega di corso ed ho avuto un periodo, purtroppo breve, di collaborazione intensa. Un po' ne scrissi a suo tempo su “micropolis”, ma tante cose ancora vorrei dire di lei, ma per i più – credo - senza l'ausilio del ricordo diretto avrebbero scarso significato. Per una conoscenza di chi fosse Mariella, di quale fosse il suo ruolo e il suo peso nella scuola in cui insegnò e nella città dove scelse di vivere, è molto meglio affidarsi a Carla Mantovani che coglie e comunica l'essenziale, animandolo con il sentimento dell'amicizia che garantisce, per usare il linguaggio di Capitini, una particolare “compresenza” tra morti e viventi. (S. L.L.)


L'immagine di Mariella Liverani, molteplice e unitaria al tempo stesso, che emerge dagli interventi nella Giornata di Studio dedicata a Mariella Liverani in occasione della inaugurazione della Mostra Geometrie dell’anima (4 dicembre 2004) di quanti l’hanno conosciuta direttamente (alunni, amici, colleghi) e indirettamente (chi ha curato la sistemazione di libri, dischi, documenti) è così ricca, viva, coinvolgente, che non credo si possa aggiungere molto.
Vorrei quindi limitarmi a sottolineare pochi elementi che emergono dall’insieme delle testimonianze.
Anzitutto la capacità straordinaria di suscitare interesse, trasmettere entusiasmo, fornire strumenti culturali validi e duraturi mediante una materia «relegata alle aree marginali della didattica liceale». Documentano questa capacità non solo quanti hanno tratto dal suo insegnamento l’impulso a svolgere il proprio lavoro nel campo della Storia dell’Arte o in campi affini, ma anche - direi quasi soprattutto - quanti, attivi in campi culturali e professionali diversi e lontani dalle discipline rustiche, testimoniano di aver ricevuto da lei non solo l’interesse e gli strumenti per accostarsi a un’opera d’arte, ma anche elementi essenziali di una formazione umana e civile. Molte testimonianze in questo senso si trovano nei commenti di ex alunni che hanno visitato questa mostra [n.d.r.-. il riferimento è alla mostra Geometrie dell’anima. Fotografie di Mariella Liverani 1941-2002] e le altre che l’hanno preceduta, moltissime ne ho avute direttamente da persone (magari io non le conoscevo, perché il numero dei suoi alunni era sterminato e pochi, in confronto, erano quelli in comune) che mi chiedevano di portarle il loro saluto e il loro ricordo durante la sua lunga malattia.
In secondo luogo, la centralità della fotografia come mezzo per collegare fra loro i suoi molteplici interessi e farne partecipi gli altri, oltre che come strumento didattico insostituibile. Prima ancora che le mostre organizzate dall’associazione La goccia” ne facessero conoscere l’attività creativa, le sue foto comparvero in ma grande mostra del 1980 sui pozzi e le cisterne medievali di Perugia, in una mostra sulla Rocca Paolina che vedeva le sue foto insieme con quelle degli alunni che avevano svolto la ricerca sotto la sua guida, in mostre all’interno della scuola che documentavano lo studio, suo e di alunni, di alcuni quartieri e monumenti della città (gli album di queste ultime ricerche sono conservati al Liceo “A. Mariotti”, mentre per tutto il resto si può fare riferimento all’archivio della Provincia di cui dirò in seguito). E, accanto a queste attività “maggiori”, tante altre che hanno permesso a molti di venire a contatto con la sua passione: dai video artigianali su luoghi amati (Pantelleria, la Grecia) o su temi che l’affascinavano (il Canto della creazione proiettato durante la mostra) o prodotti in funzione didattica (Forme di luce: dal reale all’astratto), alle riproduzioni di opere d’arte usate per i “compiti ad personam”, alle manifestazioni culturali di cui ho ritrovato immagini riordinando le sue foto (Sega la vecchia alla Sala dei Notari, Nikita Magaloff al Pavone, la Festa d’autunno a Valfabbrica, la Quintana a Foligno...), alle piccole esposizioni di foto di studenti coinvolti in concorsi fotografici, fino alle divertenti documentazioni di cene con alunni e colleghi che regalava ai partecipanti.
E infine Perugia, la “sua” città. Più volte le ho sentito raccontare di quando ci capitò la prima volta in gita scolastica e, guardando la Fontana nella leggera nebbia di una sera d’inverno, decise che prima o poi ci sarebbe venuta a vivere. A Perugia è vissuta dal 1969 fino alla morte, comunicando a tutti quanti la frequentavano questo amore per la città, guidando gli alunni alla scoperta della sua bellezza, dei suoi molteplici aspetti, delle stratificazioni storiche leggibili nei suoi monumenti maggiori e minori, fotografandone angoli, scorci, particolari, panorami che facevano scoprire questa città anche a chi, come me, ci abitava da sempre. Chissà se ci sarà fra i negativi quell'ultima Perugia vista dall’ospedale Silvestrini di cui parla Angela Apponi? Quando la scattò non era più in grado di sviluppare le sue foto...
E a Perugia restano di lei, oltre ai tanti ricordi di studenti, amici, colleghi, alcuni lasciti molto significativi:
- biblioteca e documenti conservati e consultabili presso la Fondazione;
- dischi in vinile raccolti nella Fonoteca Trotta e consultabili secondo le modalità indicate dal dott. Palombini;
- l’archivio fotografico (circa 900 foto b/n stampate da lei, 19 cartelle eli raccoglitori di negativi b/n di vario formato, 13 cartelle di dia a colori), accumulato in anni e anni di attività, di ricerca e di passione; è stato consegnato alla Provincia di Perugia, che prowederà alla sua conservazione e catalogazione, oltre che alla sua digitalizzazione per consentirne la divulgazione e la consultazione via web. Attualmente il materiale è depositato presso il Servizio Attività Culturali Artistiche e Sportive della Provincia;
- le foto della mostra, che verranno collocate nell’Aula Magna del Liceo Classico “A. Mariotti” di Perugia.
Se in qualche modo Mariella potrà sapere tutto questo, credo che sarà contenta, come sarebbe stata contenta, nonostante fosse tanto discreta e schiva, di vedere tante persone riunite per ricordarla.
E forse le farà anche piacere di essere sepolta nel cimitero vecchio della nostra città, proprio quello che lei avrebbe voluto far oggetto di una nuova ricerca con gli studenti, se la malattia non le avesse fatto interrompere l’attività didattica.

Necrologi. La voce di Corrado (Enrico Menduni)


Se ne va una voce della nostra radio e un volto della nostra tv. Un pezzo della memoria storica nazionale. Colui che dichiarò alla radio la fine della seconda guerra mondiale e la fine della monarchia; ma anche la voce bonaria e ironica che spingeva nell’arena i «dilettanti allo sbaraglio» della «Corrida» radiofonica. Il presentatore de «L’amico del giaguaro», di «Canzonissima», di «Fantastico», di«Domenica In», accanto a volti che si chiamano Marisa Del Frate, Raffaele Pisu, Raffaella Carrà. Il conduttore più centro-meridionale della tv commerciale, a cui aveva offerto la sua legittimità nazional-popolare. Corrado era tutto questo, non solo il sapiente e navigato conduttore di «Il pranzo è servito», game show meridiano delle reti Fininvest in pieni anni ‘80.
Era un signore che era entrato in Rai quando ancora si chiamava Radio Audizioni Italia e la nuova targa, in Via delle Botteghe Oscure e in Via Asiago a Roma, aveva appena sostituito quella dell’Eiar. Era il 1944 e Corrado Mantoni era un annunciatore: uno di quei dicitori dalla voce chiara e senza accento che ancora oggi dicono «La Rai vi ha trasmesso...» in fondo ai giornali radio, ma che una volta erano l’asse portante delle trasmissioni. Il fascismo aveva richiesto voci più roboanti ed enfatiche, tra Mario Appelius e Niccolò Carosio, quelle delicate non gli interessavano (ricordate il film Una giornata particolare di Scola?). In questo senso Corrado era una voce del dopoguerra: nitida ma sorniona, non del tutto priva di un sottofondo linguistico centro-meridionale di quella stessa pasta che avrebbe fatto, Tullio De Mauro insegna, la prima vera lingua nazionale, quella della commedia all’italiana e della tv. Una voce intrisa di una filosofia di vita realistica, capace di ironia anche sferzante.
Corrado era fiero di questo strumento di lavoro, la voce, e mentre tutti i suoi colleghi correvano verso i guadagni e la popolarità della tv cercò di praticarla con moderazione e senza abbandonare del tutto la radio.
Si riteneva forse più adatto ai microfoni che al palcoscenico, sul quale si muoveva con eleganza, ma sempre con grande compostezza, in un epoca in cui tutti ritenevano necessario ballare, saltare, fare capriole. Il suo santuario radiofonico era «La Corrida», in cui gettava in pasto alle belve gli ingenui esponenti di un’Italia provinciale che amava esibirsi in canzoni, romanze, imitazioni e poesie, ignara che i suoi discendenti avrebbero amato mettere in mostra, davanti alle telecamere, litigi condominiali e familiari, ritrovamenti di congiunti scomparsi, corna, provvisorie riappacificazioni. Dopo un pugno di secondi di esibizioni incerte ed esilaranti il candidato veniva interrotto da fischi e rumori, e spesso una sirena metteva definitivamente fine al tentativo. Allora Corrado, conduttore bonario ma non troppo, lo accompagnava metaforica-mente all’uscita.
C’è un episodio fine anni Settanta che lasciò un forte segno su Corrado, un grave incidente automobilistico con la sua Lancia Gamma in cui era rimasto ferito lui stesso, ma che - soprattutto - aveva quasi sfigurato Dora Moroni, che faceva coppia con lui (nella transizione tra valletta e conduttrice) a Domenica In e lo accompagnava nell’automobile. Una vicenda dolorosa e piena di strascichi penosi.
Qualche tempo dopo maturò l’abbandono della Rai per Fininvest, una rete che stava diventando nazionale e, dopo l’acquisizione del piemontese-americano Mike Buongiorno, richiedeva volti e inflessioni che guardavano più a Sud, e insieme una legittimazione e omologazione all’emittente pubblica. Corrado interpretò questo ruolo con sobrietà e misura. Già si era prodotto in spot pubblicitari per casalinghe e adesso ne Il pranzo è servito metteva la sua bonomia al servizio dell’intrattenimento leggero, quello che si consuma preparando i pasti o mangiando attorno al tavolo di cucina. La sua «Corrida» televisiva, riproposta nel 1986 con grande successo di pubblico e replicata ogni anno finché è stato possibile, rappresenta uno dei pochi esempi in cui la trasposizione sul piccolo schermo di un programma radiofonico non ha deluso: l’osservazione, fondata, è di Aldo Grasso. Possiamo dire che è stato così perché, in fondo, la Corrida radiofonica postulava un’arena di crudeli spettatori radiofonici di cui sentivamo i lazzi e i rumori ma intuivamo anche i gesti, la colorita espressività da stadio. La tv ce li mostrava, finalmente, nel loro infierire (per nulla politically correct) sui malcapitati, che peraltro se l’erano ampiamente voluta con il loro esibizionismo.
Forse Corrado avrebbe meritato di più. La sua compostezza, la sua eleganza sobria avrebbe potuto essere messa a disposizione anche di altre cause. Non necessariamente più nobili, ma che avrebbero conferito ulteriori sfaccettature ad una personalità già così professionalmente e umanamente ricca. È un peccato che non sia stato così.

“l'Unità”, 9 giugno 1999

29.6.19

Questioni di stile. Un raccontino in versi (S.L.L.)



Davanti a Lettere più di un'ora fa
due ragazze,
l'una e l'altra gradevoli alla vista.
La più vistosa, con i boccoli,
pantaloni e casacca in seta gialla,
all'altra fa: "Che cazzo devo fare?
Dovrò trovare
un fidanzato per stasera!".

Non ci son più gli eufemismi
dei tempi andati, anzi
l'intercalare volgarotto
è quasi obbligatorio
nella nuova grammatica
dell'uso quotidiano.
Ma non è morto l'eufemismo,
risorge nel fidanzato,
che se la memoria non m'inganna
è una sineddoche, il tutto per la parte,
nei manuali retorici
della mia gioventù.
E quale parte sia non è difficile
indovinare, è ancora in vigore
regola che prescrive di evitare
ripetizioni del cazzo.

Camilleri nel cerchio magico del racconto. Un'intervista di Guido Festinese (2016)

Guido Festinese vive a Genova, dove – a quanto leggo su Linkedin – insegna Storia ed Estetica del Jazz al Conservatorio. Fa però molte altre cose: è giornalista soprattutto in veste di critico musicale, organizza mostre ed eventi culturali, è uno specuialista di Dea André e di Tabucchi. Non mi è piaciuto il suo modo di intervistare Camilleri, che egli cerca di stimolare con citazioni dai suoi autori preferiti più che con domande che seguono il ragionamento dello scrittore siciliano. Ma anche in un'intervista siffatta vengono fuori le qualità di affabulatore di Camilleri, alcuni particolari della sua affascinante biografia, la sua curiosità per le cose del mondo. (S.L.L.)


C'è chi si spaventa, a vedere molti libri assieme, e chi, invece, prova una sorta di rassicurante senso di protezione a contatto con muri di carta attorno. Se siete bibliofobi è meglio che non entriate mai nella casa romana di Andrea Camilleri. È una vertigine incombente di carta e di inchiostro. Le pareti scompaiono dietro i dorsi di migliaia di titoli. Strumenti di lavoro, strumenti di piacere e di conoscenza di una vita. Camilleri ha iniziato a leggere giovanissimo. Con voracità e velocità. Mandrake e l'Avventuroso si alternavano a romanzi ponderosi. Andrea Camilleri ha ricevuto di recente dal Comune di Genova il Grifo d'oro, riconoscimento che va a chi, in qualche modo, è riuscito a far conoscere un po' meglio la dura città ventosa della lanterna e i suoi abitanti. Il Grifone, nella mitologia, è un animale con testa d'aquila, il corpo possente è quello del leone. È simbolo di lungimiranza e di capacità di protezione, i grifoni proteggevano i tesori nascosti. Camilleri è un vecchio grifone che ha protetto, con lungimiranza, il tesoro più prezioso che ci sia per le persone in questo mondo: l'arte di raccontare storie. Quello che ci salva, ci preserva. Camilleri ci ha reso un po' più umani. In questo momento, ad esempio (ma mentre leggerete queste righe può darsi che l'orologio editoriale sia già andato un po' più avanti) i libri più recenti sono I Sogni di Camilleri, cofanetto celebrativo per i suoi radiosi ed affollatissimi novant'anni regalatogli da Sellerio, La targa, ennesimo affondo in quel fascismo lontano che fu tragedia e farsa assieme, per gli italiani, e Le vichinghe volanti, storie scollacciate e vitali della sua immaginaria e vitalissima Vigata, un attizzatoio della memoria senza fine.
Se la sorte e i casi della vita non l'avessero portato a vivere perlopiù a Roma, già ben lontana da Porto Empedocle - Vigata, Camilleri avrebbe scelto Genova. Per motivi di misteriosa familiarità:

«Ci arrivai nel 1950, per le Olimpiadi culturali della gioventù. Genova venne invasa da giovani speranze di tutti i campi artistici, le giurie facevano spavento: c'erano Galvano della Volpe, Massimo Bontempelli, Enzo Ferrieri, Sibilla Aleramo. Vinsi ex aequo il primo premio di poesia. Mi ci sono perso, a Genova, nel porto, nei carrugi, attaccavo discorso con la gente. Nell'angiporto sparirono tutti all'improvviso quando provai a chiedere un pacchetto di sigarette di contrabbando, pensavano fossi un poliziotto, dall'accento siciliano. Incontrai anche una bella ragazza Raffaella, che mi chiese di accompagnarla a Boccadasse, e fu il secondo colpo di fulmine, l'aria, l'odore del mare. Me ne ricordai per costruire il personaggio di Livia Burlano, la fidanzata di Montalbano. Il mare di Amburgo non ha lo stesso odore di quello di Genova, che mi ricordava quello del mio paese, Porto Empedocle. E provavo una simpatia istintiva per la parlata, per i tratti di carattere della gente. Giravo imbambolato, come se mi trovassi in una città tutta mia istintivamente. La stessa sensazione, devo dire, che provai al Cairo. Arrivai a mezzanotte, alle tre mi telefonò mia moglie che mi disse “come ti trovi?” Sono a casa mia, le risposi».

Lo scorso anno è uscito un bel saggio di Jonathan Gottschall, L'istinto di narrare / come le storie ci hanno reso umani. Richiama molto da vicino quanto ha scritto il suo amico Antonio Tabucchi: “L'uomo ha imparato a vedersi e capirsi ed è entrato nella civiltà come la conosciamo quando ha imparato il racconto”. Concorda?
«Del tutto. Raccontarsi non è solo minutamente descrivere. Porta con sé una sfumatura, un alone, dentro il quale entra l'ascoltatore, un cerchio magico che crea solo il racconto. La conoscenza reciproca, più che attraverso la carta di identità, si fa attraverso il racconto di sé rivolto agli altri». Saramago diceva di aver imparato a narrare dai racconti di suo nonno bracciante analfabeta. «Io mi facevo raccontare le storie dal mezzadro di mio nonno, storie contadine favolose che poi ho ampiamente rubato per i miei libri».

Chi non legge pensando che sia qualcosa di noioso, cosa si perde?
«Perde innanzitutto una parte di se stesso. Se è importante sentirsi unità compiuta per scelta personale, chi non legge non perché non può, ma perché non vuole, sappia che non vuole scientemente crescere né conoscere se stesso. Perché attraverso la comparazione di sé con la lettura si cresce. Io debbo tutto alla medicina: perché quando avevo sei anni non esistevano i vaccini, e io mi beccavo tutte le malattie infantili una dopo l'altra. Stare a letto era una meraviglia. Non si andava a scuola, la tele non era stata ancora inventata, la radio era un armadio. L'unica cosa che restava era la lettura. Mio padre era tutt'altro che un intellettuale, ma aveva un fiuto intellettuale straordinario per i buoni libri. E io gli chiesi, con una sorta di autocensura, quali potessi leggere, lui mi rispose: “Tutti quelli che vuoi”. Così io, in primis, tirai fuori La follia di Almeyer di Conrad, il suo primo romanzo, e me lo lessi d'un fiato. Le letture per ragazzi le recuperai dopo. A novant'anni posso dire che, se sono cresciuto, un contributo enorme me lo ha dato la lettura, oltre che l'esperienza. Aiuta a capire le ragioni degli altri, che magari non condividi, ma le comprendi. Chi non legge vuole essere povero».

Andrea Camilleri con Guido Festinese
Torniamo a Tabucchi. Lui diceva che le storie, le ispirazioni provengono o dalla cronaca dei giornali, o dai racconti di altri, oppure da narrazioni concesse dagli dei che ci cascano in testa come palloncini.
«Le dico una cosa, con Tabucchi ci siamo inseguiti per tutta la vita, senza mai riuscire a incontrarci fisicamente. Qualcosa ha congiurato in tal senso. Telefonate, cartoline. Comunque, mi riconosco in tutte e tre le affermazioni. All'inizio della mia scrittura io non sapevo inventarmi nulla, per cui avevo bisogno di fatti di cronaca che poi stracambiavo, per i romanzi storici come La mossa del cavallo parto dalla pagina di un libro di storia, che mi fa da innesco. Crescendo è cominciata ad arrivarmi qualcosa dall'alto. Ed è un rischio. Mi capitò di scrivere uno dei primissimi racconti, e Sciascia lo volle, Capitan Caci. Dopo una settimana comprai Due storie del porto di Bahia di Jorge Amado, scrittore che adoro, e con stupore immenso lessi un episodio identico a Capitan Caci. Telefonai a Sciascia, gli dissi: “Non si può pubblicare, tutti diranno che l'ho copiato”. Non riuscivo a spiegarmi il fatto, fin quando un giorno mi trovo a leggere uno degli ultimi articoli di Calvino, che recensiva un libro di storie fantastiche della letteratura italiana. E Calvino scriveva che un racconto, Lo Zio, lo aveva fatto rabbrividire, perché ne aveva nel cassetto uno suo identico. Forse per gli scrittori esiste una biblioteca archetipale, dove ogni tanto uno scrittore prende un libro, lo legge, e lo rimette a posto. Capace che a volte capiti che due scrittori attingano allo stesso libro archetipale».

Camilleri, De André ha detto una volta che una lingua nazionale come l'italiano sarebbe già finita miseramente come lingua per vendere patate e baccalà, se non si fosse nutrita degli idiomi locali, dei dialetti...
«Non sapevo di avere un fratello gemello di pensiero. E che fratello. Sottoscrivo in pieno».

Un nome che ritorna. Lo scrittore Bajani mette in bocca al Tabucchi degli ultimi giorni la definizione dell'ignoranza come di un pieno, un muro. E i muri si possono solo abbattere, o scavalcare.
«Meglio abbatterli. I muri sono un simbolo di stupidità. Quando sbarcarono gli alleati in Sicilia, e io disertai, rifugiandomi nella villa di una mia zia, lei si illuse di tener lontano la guerra dalla sua enorme pistacchiera con un muro di filo spinato. Gli Sherman americani lo buttarono giù senza neppure vederlo. Altro che muri. Ancora gente ne deve arrivare. E forse sarà la nostra salvezza».

Josè Saramago diceva che non sempre è possibile aver idee originali, già basta averne di praticabili. È così?
«Sottoscrivo. E soprattutto che le idee siano praticabili dagli altri, da chi ti legge e può condividere. È una gratificazione degli ultimi anni della mia vita che è arrivata inaspettata e immensa».

Camilleri, il Mediterraneo è in fiamme.
«I pescatori del Mediterraneo avevano un tempo una lingua esperanto fatta da suoni di tutte le sponde per capirsi, il Sabir».

Il Suonatore Jones, personaggio poetico di Edgar Lee Masters sul quale De André ha scritto una magnifica canzone conclude, dopo aver molto vissuto, di avere montagne di ricordi,e nessun rimpianto.
«Concordo parola per parola. Io ho avuto una vita fortunata, ho avuto figli, nipoti e pronipoti lavorando, e ho lavorato, anche duramente, facendo quello che mi piaceva fare, il regista, l'insegnante, il produttore, lo scrittore. Una cosa che capita in sorte a pochi. Scrivere è anche faticoso, ma io amo la figura della trapezista col sorriso sulle labbra che non ti fa arrivare nulla del rischio del salto mortale e dell'allenamento. Il lettore non deve sapere della fatica dello scrivere. E anche così, dico sempre, è sempre meglio che scaricare casse alle tre del mattino in un mercato».

Alias il manifesto, 2 gennaio 2016

28.6.19

Perugia 1416. La città della guerra (Salvatore Lo Leggio)

È un pezzo a cui tengo molto, pubblicato ieri, 27 giugno 2019, su “micropolis”, il supplemento umbro de “il manifesto”, nella rubrica La battaglia delle idee. Mi pare che quello che sta accadendo nella nostra città, fino a qualche lustro fa esempio di tolleranza, accoglienza, pacifismo, sia degno di attenzione anche fuori dai confini dell'Umbria e perciò lo ripropongo qui agli amici d'ogni dove. (S.L.L.)

Perugia, Rocca Paolina, giugno 2016. Un'immagine dalla  video-stallazione "Perugia folgora"

Si è conclusa il 16 giugno la quarta edizione di “Perugia 1416”, la kermesse che pretende di rievocare con scenografie, gare tra rioni, tornei, cortei in costume e altro ancora, i giorni, non si sa quanto felici, di Braccio Fortebraccio da Montone, un capitano di ventura che fu per qualche tempo Signore della città.
Molto s'è detto nel tempo, da parte degli oppositori e dei critici, sui costi spropositati, sulla stravaganza di una tradizione senza radici nella memoria collettiva, sulle incongruenze storiche - al limite dello sfondone - presenti nella rievocazione, sulla scarsa attrattiva turistica di una manifestazione senza passato e autenticità; ma niente ha fermato gli ideatori, organizzatori, consulenti e aggregati, guidati dall'assessore Severini, la vispa Teresa, espressione della tradizionale borghesia cittadina con un interessante passato enologico. Romizi peraltro, annunciandone il rilancio nel vivo della campagna elettorale, ha voluto fare della parata medievaleggiante il fiore all'occhiello della sua prima sindacatura, l'emblema di una peruginità che rompe con un passato di ibrido cosmopolitismo. Dopo il voto ne ha commentato i fasti più rilassato e a chi gli diceva del sollievo per la sua rielezione dei tanti “rionali” preoccupati di perdere il giocattolo, rispondeva magnanimo: “Ma no! Nessuno oserà sopprimere, né ora né in futuro, una manifestazione che riscuote un così forte gradimento”. E con occhi luminosi di soddisfazione aggiungeva: “Ho visto i ragazzini, i bambini impegnarsi con entusiasmo. Sono loro la garanzia di futuro per Perugia 1416”.
Intanto, mentre da settimane campeggiano sui muri cartelloni e poster preannuncianti il medioevo imminente, all'altra ricorrenza perugina, quella più antica e collaudata del 20 giugno, sono rimasti gli angolini: qualche locandina qua e là con un programma di iniziative dell'associazionismo e una forte impressione di residualità. Tutto il contrario della festa grande che Raffaele Rossi, padre nobile della sinistra novecentesca, aveva promosso e caldeggiato! “Lello”, nei suoi “discorsi sulla città”, sembrava compiacersi della felice coincidenza di data tra la violenza assassina compiuta nel 1859 dalle truppe mercenarie svizzere su Perugia, ricondotta al potere assoluto del Papa Re, e la sua liberazione dai nazifascisti nel 1944 da parte degli alleati affiancati dai partigiani resistenti. Questo fatto – a suo dire - riscattava la ricorrenza dall'ipoteca massonica e ne inverava la lettura data da Aldo Capitini e Walter Binni, i quali individuavano nel coraggio della libertà, nell'avversione per la crudeltà, nella diffidenza verso un potere imposto il manifestarsi di un alto sentimento civile. Perugia, conosciuta già nell'Ottocento in Europa e negli USA come “la città del 20 giugno”, martire dell'oppressione assolutistica, poteva ora dare a quella data un valore più inclusivo che in passato, tale da garantire la riconciliazione tra laici e cattolici e la partecipazione del cosiddetto “contado”, poteva volersi e vedersi come la città dell'orgoglio democratico, della tolleranza, dell'accoglienza e della pace.
Era difficile che il mito del 20 giugno e la connessa narrazione identitaria resistessero intatti all'ondata revisionistica della cosiddetta seconda repubblica. Un ruolo di punta di lancia lo ha svolto nei primi anni Duemila la rivista “Diomede”, pensatoio della sognata riscossa aristocratico-borghese: per snobbare la ricorrenza del 20 giugno non ci si attaccava più ai residui di anticlericalismo, ovviamente “vieto”, ma se ne denunciava il carattere troppo “di sinistra”, e per ciò stesso antiquato. Non era però un indigeno, né tanto meno proveniva però dalla cerchia antica il vero e proprio profeta della nuova “peruginità” militaresca, era piuttosto un immigrato di successo: si tratta di Alessandro Campi, ammanicato politologo della destra nazionale e locale.
A suo tempo costui aveva definito “eroe” e “campione di italianità” uno dei mercenari italiani sequestrati e uccisi in Iraq, il povero Quattrocchi, per via della sua ultima frase autoconsolatoria su come muoiono gli italiani; più di recente Campi aveva organizzato, nel nome di Machiavelli, una mostra sulla tradizione perugina dei capitani di ventura, di cui Braccio Fortebraccio rappresenta un esempio tra i più fortunati. Da consumato ideologo ben sapeva il Campi, già prima della conversione italianista della Lega, che le piccole patrie, le spesso meschine identità locali non indeboliscono, ma corroborano il nazionalismo statolatrico.
È grazie a questa cultura consapevolmente contrapposta alla nonviolenza e al pacifismo capitiniani (ovviamente “buonisti”) e non sempre adeguatamente contrastata, che la città nei giorni deputati trabocca di militarismo, ben al di là della criticatissima e finta sassaiola: questa è solo un elemento marginale, popolaresco, dell'apologia della violenza che “Perugia 1416” organicamente incarna. Quella che qui viene esaltata è la figura del professionista della violenza, dell'uomo d'armi, del guerriero e più ancora quella del comandante in capo, del duce. Il pensiero non può non correre a quel “capitano” alla guida della destra, uno che ama indossare le divise e a tutto si dice pronto pur di fermare l'invasore, magari sul bagnasciuga.
Ci sono aspetti inquietanti in questa mascherata grottesca, primo fra tutti il simbolo raffigurato nelle bandiere blu che ornano il centro cittadino: le catene. In piazza Matteotti un barbuto dall'aria bonaria, tipo vecchietto del West, invita i bambini ad entrare nello spazio del cimento per abbattere, lancia in resta, un cattivo, un saraceno non a a caso. Alla Rocca Paolina pannelli esaltano le glorie della cavalleria, crociate incluse, e vengono offerte in visione spade, picche, lance, maglie metalliche e pesanti armature (il tutto rifatto ovviamente, ma generalmente luccicante). Il clou si raggiunge in una saletta, dove un'istallazione video dal titolo Perugia folgora promette una full immersion nella città medievale, mentre una didascalia, la canonica excusatio non petita, avverte che non bisogna pretendere veridicità e precisione da quella che è solo un'elaborazione artistica, di fantasia. Segue una escalation di edifici, immagini artistiche di guerra, intrecciati giochi di luce, in cui spesso la croce si fa spada e che culmina nell'apparizione di un'ombra che sovrasta la città, a proteggerla e ad ammonirla, un guerriero con l'arma sguainata che ricorda il simbolo leghista. Non c'ero, ma mi hanno raccontato che a fine festa il finto Braccio volendo comunicare la morale della favola come invasato urlava: “La tradizione è cultura! La tradizione è identità, la tradizione è bellezza”. Che poi anche la tradizione sia rielaborazione fantastica per costoro è secondario.
Pagliacciate? Dicevano così anche nel secolo scorso i benpensanti, quando i balilla armeggiavano coi moschetti finti, i podestà intravedevano nell'armeggiare un futuro luminoso e Mussolini si metteva in posa con l'armatura di Bartolomeo Colleoni. Si sa come andò a finire. Non pochi di quei balilla, dopo, da partigiani, in cerca di pace e libertà rivolsero le armi contro i fascisti. Ma non era meglio risparmiarsela una così grande carneficina?

“micropolis – il manifesto”, 27 giugno 2019

27.6.19

Aspetto, e cosa aspetto ? Una poesia di Maram al-Masri



Aspetto,
e cosa aspetto?
Un uomo carico di fiori
e di parole dolci.
Un uomo
che mi guardi e mi veda.
Che mi parli e m’ascolti.
un uomo che pianga
per me.
Provo pietà per lui
e l’amo.

Non ho peccato abbastanza. Antologia di poetesse arabe contemporanee, Mondadori, 2007

Vincenzo Cardarelli (Andrea Camilleri)

Vincenzo Cardarelli

Quando frequentavo come allievo regista l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica a Roma negli anni 1949-1950, per un certo periodo andai ad abitare in un grande appartamento nei pressi di piazzale Flaminio assieme a tre amici che sarebbero diventati famosi: il regista Mario Ferrero, il commediografo e regista Giuseppe Patroni Griffi e Bill Weaver che si esercitava nelle prime traduzioni dall’italiano all’inglese. Verso sera convenivano altri futuri famosi come il regista Francesco Rosi, lo scrittore Raffaele La Capria, il giovane Vittorio Gassman e tanti altri ragazzi e ragazze. Possedevamo un grammofono che mandavamo a tutto spiano e facevamo le ore piccole ballando, scherzando e ridendo. Immancabilmente verso l’una di notte squillava il campanello della porta di casa, qualcuno andava ad aprire e si trovava davanti al poeta Vincenzo Cardarelli, in pigiama, che abitava al piano di sotto e che non riusciva a prendere sonno per il chiasso che noi facevamo. Una sera Mario Ferrero lo invitò a unirsi a noi, inaspettatamente egli accettò si sedette su una sedia in un angolo dello stanzone e si mise a osservarci con occhi sprezzanti. Dopo una mezz’oretta ci chiese una coperta, tremava dal freddo, e dire che era una serata caldissima, ci si avvolse e si sedette di nuovo senza cambiare espressione. Dopo un po’ si alzò e parlò a voce alta:
«Posso dire una cosa?».
«Certamente, Maestro» rispondemmo.
«Siete giovani di merda» fece con aria solenne e si avviò alla porta sempre avvolto nella coperta.
Da quel momento in poi non salì più a protestare. Un giorno che lo incontrai per le scale mi disse che si era munito di batuffoli di cotone e cera molle che si infilava nelle orecchie e con questo espediente riusciva a prendere sonno.
Cardarelli non aveva un carattere facile. Quando per esempio a Roma si seppe che Alessandro Pavolini, segretario del Partito fascista repubblicano, era stato ucciso dai partigiani egli, incontrando il figlio del fratello di Pavolini gli disse:
«Di’ a tuo padre che io godo delle sue presenti sventure».
Pativa il freddo anche in pieno solleone, una volta io assistetti a una scena incredibile. Stavo in piazza del Popolo davanti al Bar Luxor che poi sarebbe diventato Canova, era quasi l’una, il sole a picco, un caldo e un’afa difficili da sopportare, da Porta del Popolo vidi avanzare Cardarelli: aveva il cappello in testa, una sciarpa di lana attorno al collo, un cappotto invernale pesantissimo, i guanti e camminava come se si trovasse su lastre di ghiaccio. A quei tempi anche i grossi automezzi potevano traversare il Corso, arrivò infatti un camion che incontrò il poeta proprio in mezzo a piazza del Popolo, l’autista del camion frenò di colpo e scese. Era in mutande e chiaramente fuori di sé per la temperatura che doveva sopportare dentro la cabina di guida. Alla vista di Cardarelli, vestito in quel modo, prima diede in escandescenze, cadde in ginocchio urlando e bestemmiando, poi si alzò di colpo e si avventò sul poeta cominciando a spogliarlo. Con una manata gli fece volare via il cappello e poi prese a sbottonargli il cappotto mentre Cardarelli con voce acutissima invocava aiuto. Mi precipitai in suo soccorso con altri passanti ma fu assai difficile liberare il poeta dalla presa delle possenti braccia del camionista che ormai manifestava intenzioni omicide.
Una volta liberato non manifestò nessuna gratitudine, mi spinse da parte con un braccio e se ne andò rivestendosi di tutto punto.
Pare, ma non so se questa sia una leggenda metropolitana, che prima di morire le ultime parole del poeta siano state:
«Sento un gran caldo».

da Esercizi di memoria, Rizzoli, 2018

Camilleri comunista e terrone (Alfonso Maurizio Iacono)



L’ironia di Camilleri? 
Un messaggio d'intelligenza e umanità 
che rende stupida e innocua 
ogni possibile, inutile cattiveria

Dopo le feroci scritte circolate sui social nei confronti di Andrea Camilleri, avevo postato questo su Facebook: “Di Andrea Camilleri amo tanto la trilogia delle metamorfosi, anche se, come dice il mio amico Giovanni Taglalavoro, il Re di Girgenti è la sua opera più grandiosa. Un’epopea dove c’è tutto Andrea. Ma amo anche Montalbano. All’inizio aveva più o meno la nostra età e i nostri stessi problemi esistenziali. Poi l’ha fatto ringiovanire. La sua Marinella è quella della mia infanzia. La vedo, la riconosco. Camilleri ha la narrazione nel sangue. Tutte le volte che l’ho incontrato mi ha riempito di storie, bellissime, con quel modo di parlare che sentivo come un’aria di famiglia. Ebbe dalla mia Facoltà, me preside, la laurea honoris causa. Ne feci l’elogio, come accademicamente si usa fare e lui la lectio magistralis. Fu una bellissima giornata. E poi, da me presentato, venne a fare l’intervista impossibile al Galileo. A cose fatte, teatro strapieno, andammo a cena. E lì ancora storie. Mi sembrava di stare in un bar all’aperto a Porto Empedocle e per la verità una volta vi stetti. 
Alfonso Maurizio Jacono
Un’altra volta, dopo una lezione alla Scuola Normale, circondato da politici e sottosegretari di vario tipo, si mise ostentatamente e ironicamente a parlare in siciliano, anzi in agrigentino, con me, creando un piccolo, sottile, imbarazzato sconcerto in persone troppo abituate a essere ascoltate. Quello che hanno scritto sui social non lo sfiora minimamente. Non mi fa neanche rabbia, ma solo tristezza. La sua ironia è sempre stata un messaggio di intelligenza e di umanità che rende stupida e innocua ogni possibile, inutile cattiveria”.
Non avevo ancora letto Vittorio Feltri, al quale manca proprio l’ironia. Quel che si mostra come modo crudo e sincero di dire le cose, nasconde in realtà la mancanza di ironia. Apprezza Camilleri come scrittore ma lo detesta perché è comunista e terrone, due cose che non riesce a sopportare. Detesta anche Salvo Montalbano, un commissario di polizia che è anche un po’ comunista nel senso in cui lo erano i comunisti siciliani di un tempo, antimafiosi e uomini delle istituzioni e della legge. Ma soprattutto è terrone. Lo è nel modo di rispondere al telefono, in quel suo mettere prima il cognome e poi il verbo (“Montalbano sono!”), nel gusto sensuale della cucina siciliana, nell’attrazione verso le belle donne, specie se di carattere, che egli trattiene, ma che si scatena nel suo alter ego, il vicecommissario Mimì Augello, nel rapporto con il mare che sommerge la verità dei morti annegati, quello che sta al confine tra l’Europa e l’Africa, un confine così distante dal Nord.
Molti dicono che Montalbano è un prodotto di consumo. Alcuni critici letterari storcono il naso. Vincenzo Consolo se ne fece una malattia. Anche fosse? L’ironia di Camilleri allenta lo stereotipo del siciliano. Se è detestato da Feltri perché comunista e terrone, è, allo stesso modo, amato da mezzo mondo, perché questo comunista terrone, pieno di fragilità e di contraddizioni umane, tiene fermi i principi senza moralismo e non si gira dall’altra parte di fronte all’ingiusta morte dei migranti in mare. È popolare ed è ciò che dà fastidio a Feltri, il quale usa spesso, come anche in questo caso, la frase “ha rotto i coglioni”. In effetti “coglione” è un termine familiare nel bergamasco. Si dice perfino “coglione di Bergamo”. Il grande condottiero Bartolomeo Colleoni si chiamava in realtà Coglione. Allora questa parola era un vanto. Poi, come tutti sanno, divenne ed è sinonimo di stupido. Chissà perché. Il grande lombardo Dario Fo, il genio dello zanni, l’uomo di Mistero buffo, avrebbe potuto rispondere.
Andrea, mi piace essere comunista e terrone come te.

Da Il Tirreno, 25 giugno 2019

Il rogo dei libri. Una poesia di Bertolt Brecht



Quando il regime ordinò che in pubblico fossero arsi
i libri di contenuto malefico e per ogni dove
furono i buoi costretti a trascinare
ai roghi carri di libri, un poeta scoprì
- uno di quelli al bando, uno dei meglio - l’elenco
studiando degli inceneriti, sgomento, che i suoi
libri erano stati dimenticati. Corse
al suo scrittoio, alato d’ira, e scrisse ai potenti una lettera.
Bruciatemi!, scrisse di volo, bruciatemi!
Questo torto non fatemelo! Non lasciatemi fuori! Che forse
la verità non l’ho sempre, nei libri miei, dichiarata? E ora voi
mi trattate come fossi un mentitore! Vi comando:
bruciatemi!

Da Poesie di Svedborg (1939), in Poesie, Einaudi, 2014

Esercizi spirituali (Leonardo Sciascia)

Un albergo sulle pendici dell'Etna

Mi sono trovato una volta, d’estate, in un albergo di montagna dove ogni anno si riuniscono, per gli esercizi spirituali, gli ex allievi di un convitto religioso; uno di quei convitti che fanno «classe», e perciò vi si arrampicano anche quelli che appena possono permettersi di pagarne la retta (cioè: i padri vi arrampicano i figli, che certo preferirebbero le squallide e invigilate «stanze in famiglia», ma finiscono poi con l’affezionarsi e, una volta fuori, col riconoscere il vantaggio dei legami stabiliti coi maestri e coi compagni in quegli anni di clausura).
Arrivavano, gli ex allievi, alla spicciolata: e nello spiazzo davanti all’albergo, scendendo dalle loro grandi automobili, si incontravano con espressioni di sorpresa e di gioia, scherzosi insulti, abbracci e manate. E magari si erano lasciati la sera avanti, giù in città: ma il ritrovarsi all’appuntamento di ogni anno, tutti insieme, svegliava in loro una compagnoneria facile e sguaiata: che sarebbe stata, pensandoci bene, l’unica contropartita e risorsa alle lunghe ore di messa, predica e preghiera che li attendevano. Qualcuno arrivava accompagnato dalla moglie: ma soltanto fino alla soglia del ritiro; e lasciato lì, la valigia accanto, col viatico di due sororali baci sulle guance e di una frettolosa raccomandazione riguardo al freddo della sera e al golfino o alle medicine da prendere al pasto.
E lei se ne ripartiva lestamente, dando l’impressione, nel virare l’automobile nello spiazzo, nel festoso rombo del motore, nello slancio con cui usciva dal cancello, che, avendo consegnato il marito a un luogo in cui si celebrava lo spirito, libera, leggera, ilare corresse a luoghi dove invece si celebrava la materia. Una di quelle situazioni che provocano e suscitano immaginazioni che si sogliono dire boccaccesche ma che meglio sarebbe, in questo caso, dire maupassantiane (malpassantiane, preferiva Savinio): lei che corre all’alcova segreta e nel frenetico impatto, tra un bacio e l’altro, mentre il partner, come Mario Cavaradossi, la discioglie dai veli, dice: «ho lasciato quel porco ai suoi esercizi spirituali». Quel porco! E qualcuno, tra i venuti al monte dello spirito, lo era davvero: forse anche nella vita coniugale, certamente in quella pubblica. Malversazione, peculato, interesse privato in atti di ufficio: nero su bianco in rubrica giudiziaria. E molti altri ce n’erano, non mai o non ancora rubricati, di cui si diceva illecita la ricchezza, torbida l’incredibile ascesa. Avevo insomma sotto gli occhi, adunati all’insegna dello spirito, con apparente allegria costituitisi (verbo perfettamente in taglio) alla meditazione e alla preghiera, non pochi esponenti di una classe di potere.
La meditazione, la preghiera. Alla fine di ogni predica, dovevano ritirarsi ciascuno nella propria camera, a meditare. Uno che dopo la predica si attardava nell’atrio, fu severamente rimproverato da un prete: « Avvocato, mi meraviglio di lei! Vada a meditare in camera»; e l’avvocato filò in camera, mortificato. La sera, tutti insieme, recitavano il rosario: andavano su e giù nello spiazzo avaramente illuminato, a passo svelto, con dei dietrofronti improvvisi, confusi, aggrovigliati; e quanto più si aggrovigliavano tanto più levavano le voci nei pater, negli ave, nei gloria. Con una nota di isteria, di paura. E in quel momento, anche chi (come me) li vedeva nell’abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era qualcosa di vero, qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale, in quel loro andare su e giù al buio, in quel biascicare preghiere, in quel confondersi e aggrovigliarsi: quella nota di isteria, di paura; quasi che per un attimo si sentissero, disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. Appunto come nella dantesca bolgia dei ladri. E che l’attimo potesse diventare eternità.
Debbo confessarlo: quel piccolo, momentaneo contrappasso che sentivo si realizzava tra loro, in loro, mi appagava e rassicurava. Che credessero nell’inferno, che ne avessero paura. «Se ci credi, c’è; se c’è, ci andrai». E capisco perché un mio amico, che non ci crede e non ci andrà, ogni volta che incontra un prete domandi: «c’è ancora, l’inferno?». Ma pare che in questi ultimi tempi non riesca ad ottenere risposte soddisfacenti, e cioè affermative.

Nero su nero, Einaudi, 1979

Lasciami sciolte le mani ... Una poesia di Pablo Neruda



Lasciami sciolte le mani
e il cuore, lasciami libero!
Lascia che le mie dita scorrano
per le strade del tuo corpo.
La passione – sangue, fuoco, baci –
m’accende con vampate tremule.
Ahi, tu non sai cosa significa questo!

È la tempesta dei miei sensi
che piega la selva sensibile dei miei nervi.
È la carne che grida con le sue lingue ardenti!
È l’incendio!
E tu sei qui, donna, come un legno intatto
ora che vola tutta la mia vita ridotta in cenere
verso il tuo corpo pieno, come la notte, di astri!

Lasciami libere le mani
e il cuore, lasciami libero!
Io solamente ti desidero, io solamente ti desidero!
Non è amore, è desiderio che inaridisce e si estingue,
è precipitare di furie,
avvicinarsi dell’impossibile,
ma ci sei tu,
ci sei tu per darmi tutto,
e per darmi ciò che possiedi sei venuta sulla terra –
come io son venuto per contenerti,
e desiderarti,
e riceverti!

Poesie erotiche, Guanda, 2006, traduzione Roberta Bovaia

26.6.19

Erice, un paese diverso (Leonardo Sciascia)

Erice. La piazza Umberto I con il Municipio, il Museo e la Biblioteca Comunale

Nella biblioteca comunale di Erice si trovano, manoscritti di nitida grafia, di paziente ordine tanti fascicoli che riguardano la storia della città: repertati, per categorie sociali, economia, costume giurisdizioni, avvenimenti pubblici, cronache criminali. Santo Uffizio dell’Inquisizione, Cronaca criminale ericina, Delinquenza del clero: e così via. Li ha lasciati il bibliotecario Antonino Amico, morto qualche anno fa, vecchissimo. Prete e canonico, me ne parlano come di un uomo molto intelligente, libero e tagliente nei giudizi, vivace, spregiudicato. Carlo Levi lo conobbe nel 1955, e ne ha fermato un ritratto ne Le parole sono pietre: « Ha ottanta anni, è quasi cieco e continua il lavoro di tutta la sua vita, di ricerca, di archivio, di collazione di antiche carte, di trascrizione di documenti, sì da lasciare agli studiosi un materiale prezioso per la storia di Sicilia. Ha l’aspetto del suo lavoro, col corpo incurvato e secco, lo sguardo lucente nel viso rattrappito, diverso come Erice da ogni cosa circostante, venerabile e raro, come se fosse un contemporaneo di quelle nebulose figure di Saturno, dei Ciclopi, di Bute, e della Venere Ericina». Chi sa che effetto fece, al canonico, che Levi lo vedesse contemporaneo anche della Venere Ericina.
Si sarà sentito tanto vecchio e al tempo stesso tanto giovane, forse. Certo è che non era uomo da scandalizzarsene: e si vede dalla leggerezza ed arguzia con cui tratta di «reità veneree», di tresche, di corna. Senza compiacenza: ma il divertimento c’è innegabile. Il culto della Venere Ericina, sembra dire il canonico, in questo luogo è continuato anche nei tempi di più oscura sessuofobia, e specialmente da parte di coloro che della sessuofobia avrebbero dovuto essere ministri ed esempio.
Ecco dunque un uomo che ha fatto bene il proprio lavoro: tutti questi fascicoli che forse nessuno pubblicherà mai, che pochissimi leggeranno. Ma ci sono: e offrono un vivace affresco della vita di un paese siciliano tra il Cinquecento e il Seicento; di un paese, come giustamente dice Levi, diverso.


da Nero su nero, Einaudi 1979

Meno cultura, meno eguaglianza. L'università massacrata dalle riforme (Roberto Monicchia)


Articolo-recensione di tre anni fa, ma tuttora utilissimo a comprendere le origini e gli sviluppi di un degrado sempre più evidente, (S.L.L.)

Università di Pisa. La Camera delle Meraviglie nel Museo di Storia Naturale
Perché un luogo di trasmissione della conoscenza è diventato uno straordinario concentrato di stupidità in cui l'automazione frenetica delle pratiche svuota il significato delle azioni quotidiane?” Muovendo da questo interrogativo, attraverso un racconto che spazia dal diario alla satira al pamphlet, il filologo e storico della letteratura Federico Bertoni delinea un quadro chiaro e convincente del vicolo cieco in cui decenni di riforme hanno cacciato l'università italiana (Universitaly. La cultura in scatola, Laterza, Roma-Bari 2016). Di più: la presunta separatezza del mondo dell'accademia appare a ben vedere una specie di illusione ottica: invece che una torre eburnea l'università si rivela di più come uno specchio che riflette dinamiche generali, a cominciare dalla sanzione delle diseguaglianze come qualcosa di inevitabile e naturale.
Il discorso prende il via dal racconto della giornata tipo del professore universitario, che conferma l'ossessiva presenza dell'amministrazione nella vita dell'individuo moderno: nello specifico si tratta di richieste di validazioni, partecipazione a peer review (revisioni tra pari), produzione di abstract in inglese dei propri “prodotti scientifici”. Caratteristica comune del sistema di valutazione di impronta anglosassone, adottato dall'università italiana, è il tentativo di formalizzare e quantificare il complesso lavoro di ricerca e didattica che - nonostante tutto - nelle università si continua a fare. Alla crisi dei paradigmi epistemologici, i sistemi scolastici e universitari reagiscono con una farsesca pretesa di oggettività. Non è in gioco solo lo spaesamento del docente che non ritrova in questi metodi di valutazione la sostanza del suo effettivo lavoro quotidiano, né si tratta di un semplice errore di approccio scientifico: il sistema di valutazione formalizzato, sorta di neopositivismo volgare dominante, ha il potere di “colonizzare l'organizzazione e gestione della ricerca”, orientando la gerarchia dei finanziamenti alle diverse università e facoltà, legittimando tagli e aumenti di tasse, guidando, in una parola, la mutazione genetica in atto nel sistema accademico italiano.
Il meccanismo è tanto potente da autoriprodursi come “microfisica del potere”: molti docenti diventano esecutori di una massa pulviscolare di funzioni amministrative, moltiplicando così la logica di autoriproduzione e indifferenza ai fini propria di ogni struttura burocratica.
Bertoni, che sottolinea la propria estraneità (anagrafica e politica) all'università del passato, rinviene il punto di partenza della trasformazione nella riforma Berlinguer del 1999, alla base della quale vi era la condivisibile volontà di affrontare problemi storici del sistema accademico italiano: il basso numero di laureati e quello troppo alto di fuori corso, la vetusta disposizione dei curricoli. Ma la nuova organizzazione (il 3+2, i crediti, la classificazione delle discipline tra “base”, “caratterizzanti”, “affini e integrative”) è stata mal disegnata e soprattutto pessimamente applicata, producendo un'irrazionale proliferazione di sedi e corsi che giustificherà i successivi tagli indiscriminati. All'interno delle facoltà si evidenzia una lotta al coltello per il riconoscimento di più crediti o l'accesso alle discipline “caratterizzanti”; un meccanismo che non intacca, anzi rafforza le tradizionali cordate di potere, mentre svalorizza tanto la ricerca quanto la didattica.
La logica che presiede al 3+2 ha due errori di base: uno teorico, consistente nella malintesa idea di professionalità, per cui occorre liberare l'università da una base teorica, vissuta come una zavorra; l'altro “psicologico”, per cui la maggior parte dei docenti usano la nuova organizzazione come strumento di separazione tra una base larga da trattare come “mandria” e un'élite da cui ricavare il meglio. In questo modo l'università torna ad essere un meccanismo che conferma e allarga privilegi e diseguaglianze. È una logica che si diffonde come “senso comune”, alimentando la frenetica corsa a “riformare la riforma”. Caratteristica comune, indipendente dagli orientamenti politici dei governi, delle leggi successive è l'applicazione “senza nuovi oneri”: così la politica dei tagli viene sistematizzata, aumentando ancor di più la distanza tra atenei, e tra indirizzi di studio.
Più in generale, e fatte salve le contraddizioni e le resistenze, l'università italiana si sta incamminando verso il modello già sperimentato negli Usa, e descritto da Bill Readings nel 1996. Il modello classico humboldtiano di istruzione superiore, che coniugava ricerca e didattica, è sostituito da una consumer oriented corporation, con gli studenti ridotti a clienti e i docenti a burocrati, mentre il potere si concentra nelle mani di rettori-tecnocrati. Alla centralità (e complessità) della crescita culturale si sostituisce l'idea senza contenuto dell'“eccellenza”, del tutto conforme ai canoni del capitalismo neoliberista. Nel caso italiano, dietro il mito della “internazionalizzazione” e del confronto con le università di tutto il mondo, lo scenario che si prepara prevede pochi atenei “di eccellenza” concentrati al nord, circondati da una massa di “liceoni” dequalificati, privi di risorse né prospettive.
Se questa abdicazione al ruolo costituzionale democratico dell'istruzione universitaria è la posta in gioco della trasformazione, c'è da chiedersi come mai il processo incontri una resistenza tutto sommato blanda, sia dal punto di vista sociale, sia da parte di chi nell'università vive e opera. Per rispondere a questa domanda Bertoni usa gli strumenti della critica letteraria e dell'analisi linguistica, risalendo al meccanismo che - analogamente a quanto avviene per i sistemi economici - costruisce un paradigma interpretativo semplificato, una “narrazione che formatta la realtà” adeguandola all'ideologia dominante. Nel caso specifico l'esempio è il trattamento mediatico della riforma Gelmini (2010): all'immagine della volontà modernizzatrice della ministra si contrapponeva una massa di baroni che difendevano i loro atavici privilegi. Gli oppositori venivano inchiodati a questa immagine, anche quando indicavano dati precisi, come la realtà dell'Italia che diminuiva le spese per l'istruzione, pur essendo l'ultimo paese Ocse da questo punto di vista.
Nella realtà, lungi dall'aver “tagliato le unghie” ai baroni, la riforma ne ha rafforzato il potere, affidando le commissioni di concorso ai soli ordinari e all'Anvur, organismo di diretta nomina politica, l'intera valutazione, da cui dipendono le selte di finanziamento dei diversi atenei.
Più in generale il meccanismo di mistificazione ideologica attraverso la “narrazione” si costruisce attorno a tre parole chiave: il merito, l'eccellenza e la valutazione.
Dietro la retorica del merito, ribadita senza differenze da Berlusconi a Renzi, si nasconde l'accettazione delle differenze sociali e culturali di partenza, ovvero una pesante restaurazione antiegualitaria. Anche l'eccellenza, che già come termine richiama l'ancièn régime, rimanda ad una trasformazione di finalità di un'istituzione chiusa in se stessa che risponde solo a stakeholders e finanziatori. Chiude il cerchio la “mistica” della valutazione, che assolve ad un duplice compito: ridurre la complessa attività di giudizio ad una classificazione quantitativa, facendone poi la base presunta “oggettiva” per distribuire le (declinanti) risorse agli atenei.

“micropolis” luglio 2016