Guido Festinese vive a
Genova, dove – a quanto leggo su Linkedin – insegna Storia ed
Estetica del Jazz al Conservatorio. Fa però molte altre cose: è
giornalista soprattutto in veste di critico musicale, organizza
mostre ed eventi culturali, è uno specuialista di Dea André e di
Tabucchi. Non mi è piaciuto il suo modo di intervistare Camilleri,
che egli cerca di stimolare con citazioni dai suoi autori preferiti
più che con domande che seguono il ragionamento dello scrittore
siciliano. Ma anche in un'intervista siffatta vengono fuori le
qualità di affabulatore di Camilleri, alcuni particolari della sua
affascinante biografia, la sua curiosità per le cose del mondo.
(S.L.L.)
C'è chi si spaventa, a
vedere molti libri assieme, e chi, invece, prova una sorta di
rassicurante senso di protezione a contatto con muri di carta
attorno. Se siete bibliofobi è meglio che non entriate mai nella
casa romana di Andrea Camilleri. È una vertigine incombente di carta
e di inchiostro. Le pareti scompaiono dietro i dorsi di migliaia di
titoli. Strumenti di lavoro, strumenti di piacere e di conoscenza di
una vita. Camilleri ha iniziato a leggere giovanissimo. Con voracità
e velocità. Mandrake e l'Avventuroso si alternavano a romanzi
ponderosi. Andrea Camilleri ha ricevuto di recente dal Comune di
Genova il Grifo d'oro, riconoscimento che va a chi, in qualche modo,
è riuscito a far conoscere un po' meglio la dura città ventosa
della lanterna e i suoi abitanti. Il Grifone, nella mitologia, è un
animale con testa d'aquila, il corpo possente è quello del leone. È
simbolo di lungimiranza e di capacità di protezione, i grifoni
proteggevano i tesori nascosti. Camilleri è un vecchio grifone che
ha protetto, con lungimiranza, il tesoro più prezioso che ci sia per
le persone in questo mondo: l'arte di raccontare storie. Quello che
ci salva, ci preserva. Camilleri ci ha reso un po' più umani. In
questo momento, ad esempio (ma mentre leggerete queste righe può
darsi che l'orologio editoriale sia già andato un po' più avanti) i
libri più recenti sono I Sogni di Camilleri, cofanetto
celebrativo per i suoi radiosi ed affollatissimi novant'anni
regalatogli da Sellerio, La targa, ennesimo affondo in quel
fascismo lontano che fu tragedia e farsa assieme, per gli italiani, e
Le vichinghe volanti, storie scollacciate e vitali della sua
immaginaria e vitalissima Vigata, un attizzatoio della memoria senza
fine.
Se la sorte e i casi
della vita non l'avessero portato a vivere perlopiù a Roma, già ben
lontana da Porto Empedocle - Vigata, Camilleri avrebbe scelto Genova.
Per motivi di misteriosa familiarità:
«Ci arrivai nel 1950,
per le Olimpiadi culturali della gioventù. Genova venne invasa da
giovani speranze di tutti i campi artistici, le giurie facevano
spavento: c'erano Galvano della Volpe, Massimo Bontempelli, Enzo
Ferrieri, Sibilla Aleramo. Vinsi ex aequo il primo premio di poesia.
Mi ci sono perso, a Genova, nel porto, nei carrugi, attaccavo
discorso con la gente. Nell'angiporto sparirono tutti all'improvviso
quando provai a chiedere un pacchetto di sigarette di contrabbando,
pensavano fossi un poliziotto, dall'accento siciliano. Incontrai
anche una bella ragazza Raffaella, che mi chiese di accompagnarla a
Boccadasse, e fu il secondo colpo di fulmine, l'aria, l'odore del
mare. Me ne ricordai per costruire il personaggio di Livia Burlano,
la fidanzata di Montalbano. Il mare di Amburgo non ha lo stesso odore
di quello di Genova, che mi ricordava quello del mio paese, Porto
Empedocle. E provavo una simpatia istintiva per la parlata, per i
tratti di carattere della gente. Giravo imbambolato, come se mi
trovassi in una città tutta mia istintivamente. La stessa
sensazione, devo dire, che provai al Cairo. Arrivai a mezzanotte,
alle tre mi telefonò mia moglie che mi disse “come ti trovi?”
Sono a casa mia, le risposi».
Lo scorso anno è uscito
un bel saggio di Jonathan Gottschall, L'istinto
di narrare / come le storie ci hanno reso umani. Richiama
molto da vicino quanto ha scritto il suo amico Antonio Tabucchi:
“L'uomo ha imparato a vedersi e capirsi ed è entrato nella civiltà
come la conosciamo quando ha imparato il racconto”. Concorda?
«Del tutto.
Raccontarsi non è solo minutamente descrivere. Porta con sé una
sfumatura, un alone, dentro il quale entra l'ascoltatore, un cerchio
magico che crea solo il racconto. La conoscenza reciproca, più che
attraverso la carta di identità, si fa attraverso il racconto di sé
rivolto agli altri». Saramago diceva di aver imparato a narrare dai
racconti di suo nonno bracciante analfabeta. «Io mi facevo
raccontare le storie dal mezzadro di mio nonno, storie contadine
favolose che poi ho ampiamente rubato per i miei libri».
Chi non legge pensando
che sia qualcosa di noioso, cosa si perde?
«Perde innanzitutto
una parte di se stesso. Se è importante sentirsi unità compiuta per
scelta personale, chi non legge non perché non può, ma perché non
vuole, sappia che non vuole scientemente crescere né conoscere se
stesso. Perché attraverso la comparazione di sé con la lettura si
cresce. Io debbo tutto alla medicina: perché quando avevo sei anni
non esistevano i vaccini, e io mi beccavo tutte le malattie infantili
una dopo l'altra. Stare a letto era una meraviglia. Non si andava a
scuola, la tele non era stata ancora inventata, la radio era un
armadio. L'unica cosa che restava era la lettura. Mio padre era
tutt'altro che un intellettuale, ma aveva un fiuto intellettuale
straordinario per i buoni libri. E io gli chiesi, con una sorta di
autocensura, quali potessi leggere, lui mi rispose: “Tutti quelli
che vuoi”. Così io, in primis, tirai fuori La follia di
Almeyer di Conrad, il suo primo romanzo, e me lo lessi
d'un fiato. Le letture per ragazzi le recuperai dopo. A novant'anni
posso dire che, se sono cresciuto, un contributo enorme me lo ha dato
la lettura, oltre che l'esperienza. Aiuta a capire le ragioni degli
altri, che magari non condividi, ma le comprendi. Chi non legge vuole
essere povero».
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Andrea Camilleri con Guido Festinese |
Torniamo a Tabucchi. Lui
diceva che le storie, le ispirazioni provengono o dalla cronaca dei
giornali, o dai racconti di altri, oppure da narrazioni concesse
dagli dei che ci cascano in testa come palloncini.
«Le dico una cosa,
con Tabucchi ci siamo inseguiti per tutta la vita, senza mai riuscire
a incontrarci fisicamente. Qualcosa ha congiurato in tal senso.
Telefonate, cartoline. Comunque, mi riconosco in tutte e tre le
affermazioni. All'inizio della mia scrittura io non sapevo inventarmi
nulla, per cui avevo bisogno di fatti di cronaca che poi
stracambiavo, per i romanzi storici come La mossa del
cavallo parto dalla pagina di un libro di storia, che mi
fa da innesco. Crescendo è cominciata ad arrivarmi qualcosa
dall'alto. Ed è un rischio. Mi capitò di scrivere uno dei
primissimi racconti, e Sciascia lo volle, Capitan Caci. Dopo una
settimana comprai Due storie del porto di Bahia di Jorge Amado,
scrittore che adoro, e con stupore immenso lessi un episodio identico
a Capitan Caci. Telefonai a Sciascia, gli dissi: “Non si può
pubblicare, tutti diranno che l'ho copiato”. Non riuscivo a
spiegarmi il fatto, fin quando un giorno mi trovo a leggere uno degli
ultimi articoli di Calvino, che recensiva un libro di storie
fantastiche della letteratura italiana. E Calvino scriveva che un
racconto, Lo Zio, lo aveva fatto rabbrividire, perché ne aveva nel
cassetto uno suo identico. Forse per gli scrittori esiste una
biblioteca archetipale, dove ogni tanto uno scrittore prende un
libro, lo legge, e lo rimette a posto. Capace che a volte capiti che
due scrittori attingano allo stesso libro archetipale».
Camilleri, De André ha
detto una volta che una lingua nazionale come l'italiano sarebbe già
finita miseramente come lingua per vendere patate e baccalà, se non
si fosse nutrita degli idiomi locali, dei dialetti...
«Non sapevo di avere
un fratello gemello di pensiero. E che fratello. Sottoscrivo in
pieno».
Un nome che ritorna. Lo
scrittore Bajani mette in bocca al Tabucchi degli ultimi giorni la
definizione dell'ignoranza come di un pieno, un muro. E i muri si
possono solo abbattere, o scavalcare.
«Meglio abbatterli. I
muri sono un simbolo di stupidità. Quando sbarcarono gli alleati in
Sicilia, e io disertai, rifugiandomi nella villa di una mia zia, lei
si illuse di tener lontano la guerra dalla sua enorme pistacchiera
con un muro di filo spinato. Gli Sherman americani lo buttarono giù
senza neppure vederlo. Altro che muri. Ancora gente ne deve arrivare.
E forse sarà la nostra salvezza».
Josè Saramago diceva che
non sempre è possibile aver idee originali, già basta averne di
praticabili. È così?
«Sottoscrivo. E
soprattutto che le idee siano praticabili dagli altri, da chi ti
legge e può condividere. È una gratificazione degli ultimi anni
della mia vita che è arrivata inaspettata e immensa».
Camilleri, il
Mediterraneo è in fiamme.
«I pescatori del
Mediterraneo avevano un tempo una lingua esperanto fatta da suoni di
tutte le sponde per capirsi, il Sabir».
Il Suonatore Jones,
personaggio poetico di Edgar Lee Masters sul quale De André ha
scritto una magnifica canzone conclude, dopo aver molto vissuto, di
avere montagne di ricordi,e nessun rimpianto.
«Concordo parola per
parola. Io ho avuto una vita fortunata, ho avuto figli, nipoti e
pronipoti lavorando, e ho lavorato, anche duramente, facendo quello
che mi piaceva fare, il regista, l'insegnante, il produttore, lo
scrittore. Una cosa che capita in sorte a pochi. Scrivere è anche
faticoso, ma io amo la figura della trapezista col sorriso sulle
labbra che non ti fa arrivare nulla del rischio del salto mortale e
dell'allenamento. Il lettore non deve sapere della fatica dello
scrivere. E anche così, dico sempre, è sempre meglio che scaricare
casse alle tre del mattino in un mercato».
Alias il manifesto, 2
gennaio 2016