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Le Operette morali nella messa in scena di Mario Martone |
Ippolita di Majo è la studiosa e drammaturga che ha curato la messa in scena di Mario Martone delle Operette morali di Leopardi che ha debuttato in aprile a Torino e che da lì ha iniziato il giro per vari teatri e sale d’Italia. In questo articolo pubblicato su “alias” il 7 maggio 2011, ella rintraccia nella straordinaria cultura libresca giovanile la fonte principale delle immagini leopardiane e ricostruisce una sorta di “filosofia del vedere”, che accompagna la ricerca del poeta e pensatore di Recanati e culmina nell’idea di uno sguardo raddoppiato sul mondo e i suoi oggetti”. (S.L.L.)
La seconda vista di Leopardi
La parola poetica crea le immagini, diventa lo spazio, la voce è il luogo della scena. La scena teatrale delle Operette morali è un non luogo, uno spazio vago e indefinito come sono i sogni, denso di contenuti, popolato di «sembianze eccellentissime e soprumane», teatro immaginifico e potente di continue apparizioni.
Sono gli amici con cui Leopardi ha diviso il tempo dell’infanzia e della prima adolescenza, abitano le pagine dei libri amorevolmente custoditi negli scaffali della biblioteca di casa e di tanto in tanto prendono forma per intrattenersi con lui in pensieri e conversazioni, come Tasso col suo genio familiare. Sono dèi, spiriti, uomini in carne e ossa, filosofi antichi e moderni, immagini larvali e fantasmatiche in cui Leopardi riversa il suo molteplice ingegno, la sua folgorante ironia; personaggi della fantasia, del mito e della storia che derivano dalla sconfinata conoscenza, dalla curiosità onnivora, dalla frequentazione accanita di testi classici, letterari, scientifici, dal bisogno di fantasticare. I riferimenti iconografici sono semplici, diretti, presi dai libri di casa: l’Iconologia di Cesare Ripa, gli Emblemata dell’Alciato, e poi repertori di ogni genere e illustrazioni di libri di viaggio, pieni di sogni di fuga e di meravigliose scoperte. Quasi mai attinge alle arti visive, sono pochissimi i ricordi figurativi di Giacomo Leopardi nelle Operette morali e quasi sempre vengono fuori dalle pagine dei libri.
Per l’immagine di Giove, ad esempio, nella Storia del genere umano, può aver contato il «cammeo di giove egioco» a cui accenna nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, una «faccia dignitosa ma serena» che conosceva attraverso la tavola nell’antiporta del volume di Carlo Bianconi, Riflessioni sopra un cammeo antico rappresentante Giove. Anche la rappresentazione della Natura nel Dialogo della Natura e di un Islandese ha origine libresca e si compone nella sua mente grazie alla sollecitazione visiva di un’illustrazione del Voyage autour du monde di Jean François La Pérouse e di alcune medaglie antiche racchiuse nell’austero apparato illustrativo del repertorio settecentesco di Joseph Addison (Dialogues upon Usefulness of Ancient Medals, Londra 1726), effigi che solo la sua portentosa e fanciullesca capacità immaginativa poteva trasfigurare e animare.
Non ci sono altri riferimenti figurativi diretti nelle Operette morali, e non bisogna farsi trarre in inganno anche quando alcuni accostamenti a dipinti o sculture sembrerebbero ovvi. Nella battuta conclusiva del Dialogo di un folletto e di uno gnomo, quando il folletto ironizzando sulla totale indifferenza della Terra per la scomparsa dell’intero genere umano fa il paragone con l’impassibile contegno tenuto dalla statua di Pompeo di fronte alla morte di Cesare, non sta pensando al noto dipinto di Vincenzo Camuccini, che non conosceva, ma alle pagine degli storici antichi, a Plutarco, e forse anche a Voltaire, alla sua tragedia La mort de César. E così pure nel Dialogo della Natura e di un’Anima l’immagine indimenticabile dell’Anima giovanetta che chiede inutilmente a sua madre, la Natura, di non destinarla all’infelicità scaturisce dalle impressioni suscitate in lui dalla lettura della favola di Apuleio («la favola di Psiche, cioè dell’Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazion vera su questa terra») e non dalla Psiche bellissima e pensosa di Pietro Tenerani, una statua che, al tempo della stesura di quel dialogo, Leopardi non aveva mai vista e che solo più tardi potrà ammirare a Firenze in casa dell’amica Carlotta Medici Lenzoni.
Eppure di opere d’arte ne conosceva. Era appena stato a Roma da dove aveva scritto alla sorella Paolina dell’impressione suscitata in lui dall’immensa cupola di San Pietro: «La cupola l’ho veduta io, colla mia corta vista, a 5 miglia di distanza, mentre io era in viaggio, e l’ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce,come voi vedete di costà gli Appennini». Al fratello Carlo, invece, aveva scritto come si fa tra ragazzi e forse con la volontà di sottrarre un po’ di fascino a quella sua avventura romana, così lontana da casa e dai fratelli: «e certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte di più che girare come io fo, attorno all’Apollo del Belvedere o alla Venere Capitolina».
E poi c’era Pietro Giordani che non faceva che parlargli, e scrivergli, dell’utilità politica del bello e dei campioni delle belle arti del suo tempo. Attraverso la mediazione appassionata e civile del Giordani, Leopardi imparava ad amare Canova e molte altre cose dell’arte contemporanea e di quella antica. Al tempo del suo arrivo a Roma, nel novembre del 1822, Canova era morto da appena un mese, per pochissimo Leopardi aveva mancato l’incontro con quell’uomo «veramente singolare e grande» che stava al pari di Raffaello e di Michelangelo e si batteva per riportare in Italia le opere d’arte saccheggiate dai francesi di Napoleone: «Che ti dirò di Canova? – scrive all’amico Pietro Giordani – Vedi ch’io sono pure sfortunato, come soglio, poiché quale sperava di conversare intimamente e di stringer vera e durevole amicizia col mezzo tuo, appena un mese avanti il mio arrivo in questa città piena di lui, se n’è morto».
Percorrendo gli scritti di Leopardi alla ricerca di tracce del suo interesse per le arti figurative, ci si imbatte nei nomi di molti altri degli artisti amati dal Giordani, ci sono Vincenzo Camuccini, Gaspare Landi, Giuseppe Bossi, Andrea Appiani, Pietro Tenerani, ma anche gli eroi dell’arte del passato: Correggio, Raffaello, Michelangelo, Guido Reni, Benvenuto Cellini, e perfino un pittore raffaellesco di seconda fila come Innocenzo da Imola, artista caro al Giordani che gli aveva dedicato ben tre discorsi. Scorrendo poi gli «Elenchi di letture» si incontrano i nomi di alcuni tra i principali autori di trattati e scritti d’arte: da Vasari a Bellori, da Algarotti a Orioli, a Cicognara.
La scultura lo appassiona decisamente di più della pittura, forse anche perché per lui il senso della vista è quello vissuto in maniera più dolorosa, legato come è alla malattia e alla sofferenza: «la vista presto si stanca di colori tutti vivissimi, benché e belli e vari», annota il 3 novembre del 1823. Lo sguardo di Leopardi sull’arte e sugli artisti è sempre di tipo critico, letterario; di Raffaello e Michelangelo, per esempio, lo interessa confrontare la capacità di resa delle anatomie e ragionare sulla considerazione che quest’aspetto della loro opera ha avuto nella letteratura successiva: «È curioso che si riprenda (dagli stranieri particolarmente) Michelangelo per aver troppo voluto dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di nasconder sempre questa scienza nell’arte dello scolpire o del dipingere, ed esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla)».
In una delle prime lettere a Pietro Giordani, al quale Leopardi aveva mandato da leggere l’Inno a Nettuno, un testo che il poeta finge di aver tradotto dal Greco, ma che in realtà ha composto lui stesso, c’è un passaggio sul celebre Cupido dormiente di Michelangelo usato come metafora per giustificare agli occhi dell’amico l’escamotage adoperato e la troppa erudizione di quel testo: «Innamorato della poesia greca, volli fare come Michelangelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credea d’antico portò il braccio mancante».
È un passaggio significativo per la comprensione del suo rapporto con l’antico e con le arti figurative. L’uso letterario dell’aneddoto michelangiolesco serve infatti a Leopardi a costruire il registro meraviglioso su cui fonda, con solida consapevolezza, il mito dell’imitazione dei classici. Come Michelangelo e poi come Canova, il giovane Leopardi, filologo accanito, imita quei testi fino allo spasimo e aderisce ad essi con passione per reincarnarne la verità e la bellezza. Gli aspetti teorici del dibattito sulle arti lo interessano in modo particolare e di continuo ne ragiona per iscritto rifiutando di aderire pienamente ai principi dell’estetica neoclassica come a quelli dell’estetica romantica: «pittura, o scultura, o poesia, per bella, efficace, elegante, e pienissimamente imitativa ch’ella sia, se non esprime passione […]è sempre posposta a quelle che l’esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione contraria. Che vuol dir ciò? non è dunque la sola verità dell’imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L’uomo odia l’inattività, e di questa vuol esser liberato dalle arti belle. Però le pitture di paesi, gl’idilli ec. ec. saranno sempre d’assai poco effetto; e così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e proporzionatamente della musica».
La musica, arte dell’immaginario per eccellenza, lo colpisce profondamente; sopra tutti gli piace Rossini, le sue opere provocano in lui «effetti veementissimi di commozione»; ama l’allegra malinconia di quel compositore nato così poco lontano da casa sua. «La musica – scrive –, se non è la mia prima, è certo una gran mia passione, e dev’esserlo di tutte le anime capaci d’entusiasmo».
Tornando alle arti figurative, un tema che lo affascina è quello dei sepolcri. Piange davanti al sepolcro di Tasso, «coperto e indicato non da altro che da una pietra», e ne scrive al fratello: «tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua spoltura». Guarda alle antiche vestigia e ai solenni monumenti funerari come a testimoni nobili e silenziosi delle «grandi illusioni onde gli antichi erano governati, e l’amor della gloria che in lor bolliva».
Lui stesso, autore a vent’anni della celebre canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, scriverà più tardi due canzoni direttamente ispirate da monumenti sepolcrali di Pietro Tenerani (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima). Immagini e ricordi visivi di sculture e monumenti funebri sono anche nelle Operette morali, ma qui la funzione dei sepolcri di eternare la virtù e di proporla come monito ai viventi è richiamata in chiave decisamente ironica, rovesciando il canone romantico in favore di un registro schiettamente comico e fantastico. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, per esempio,
Eleandro discute sarcasticamente «Circa la perfezione dell’uomo», alla quale non vuole e non può credere, e finisce con l’affermare, con grande ironia e gusto del paradosso, di voler lasciare per testamento la propria «roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto all’antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito». Nell’incredibile finale del Dialogo della Natura e di un Islandese, invece, il registro comico si nutre di panorami ampi e indeterminati, di elementi naturali incontrollabili e del richiamo fantastico alle sepolture dell’antico Egitto, e così l’Islandese, travolto dall’intensità del suo stesso disperato soliloquio, scompare poco a poco sepolto
nella sabbia: «un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa».
Diverso è il caso del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, un testo indimenticabile per visionarietà, densità argomentativa e ironia. Qui Leopardi pur conoscendo esattamente, attraverso l’éloge de monsieur Ruysch di Fontenelle, il contenuto del gabinetto di curiosità del grande scienziato e imbalsamatore olandese – «si abondant e si riche, qu’ont l’eùt pris pour le Trésor d’un Soverain» – non indugia neanche un attimo sulla descrizione di quegli oggetti e di quelle mummie: niente piante rare, niente conchiglie, né rami di corallo o animali strani, niente mirabilia,ma solo voci, parole di straordinaria sostanza lirica. La scena è ridotta all’assoluto di una visione interiorizzata, un paesaggio dell’anima, allo stesso tempo macabro e sublime.
Sono immagini straordinarie che derivano a Leopardi dalla cultura erudita e letteraria di cui si è nutrita la sua fantasia di ragazzo, e vengono poi trasfigurate con un procedimento creativo ed emotivo descritto lucidamente negli appunti: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono di una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita [... ]che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione». Sono di questa seconda natura le immagini delle Operette morali: «doppie», arcaiche, immagini che rimandano a un altrove fortemente simbolico e a volte perturbante. Rapportarsi a Leopardi vuol dire provare a lasciare lo spazio perché quei paesaggi dell’anima possano ancora affiorare.