Monsignor Rino Fisichella era tre anni fa, in concorrenza con Vincenzo Paglia, candidato alla successione di Ruini come Vescovo vicario di Roma. Entrambi bene introdotti negli ambienti “politici” al tempo del “partito dei cattolici” e dei suoi fasti erano stati entrambi filo democristiani: Paglia, direttore spirituale della Comunità di S.Egidio, più cosmopolita e internazionalista, era vicino alle correnti di sinistra del partitone democristiano, non senza frequentazioni dorotee; Fisichella era, dal canto suo, meglio introdotto nella cerchia di potere burocratica, affaristica e militare ove si alimentava e sguazzava, come pesce nell’acqua, l’andreottismo.
Ratzinger alla fine aveva scartato l’uno e l’altro, preferendo il vicariato più “pastorale” che politico di Vallini. Contro Paglia aveva giocato la sua eccessiva vicinanza con il Pontefice precedente (il vescovo di Terni fu tra i pochissimi ammessi alla presenza del papa polacco negli ultimi giorni di malattia), contro Fisichella la sua troppo evidente simpatia per la destra.
Costui ha fatto buon viso a cattivo gioco e nel suo triplice ruolo di Rettore dell’Ateneo Lateranense, di Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, di Cappellano dei Parlamentari è stato in prima linea ad orientare deputati e senatori (non solo della destra) nelle “guerre culturali” care a Ferrara. Al prelato interessa la vita umana ma solo in alcuni casi (negli embrioni soprannumerari congelati, nei corpi mantenuti per anni in coma permanente dalle macchine, nelle persone malate che rifiutano invasioni e atroci sofferenze) senza molto interesse per le vittime tuttora numerosissime della guerra e della fame. Altro chiodo fisso del protoaccademico è il rifiuto di ogni riconoscimento giuridico per le convivenze, sia omosessuali che eterosessuali. Per le donne costrette a ricorrere all’aborto il pretone romano esige esecrazione ed emarginazione, anche incoraggiando l’obiezione. Guai poi ad introdurre metodi che “banalizzerebbero” la loro colpa riducendo la sofferenza. Forse si augura che torni una legge che le riconsegni all’illegalità, alle mammane e ai cucchiai d’oro.
L’altissima moralità del prelato ha trovato un ascolto privilegiato nei politici della Lega che, dopo la parentesi celtica e paganeggiante del dio Po e i lavacri nelle sue acque sacre, sembrano tornare a riti e simboli del Medioevo cristiano, alla simbologia guerriera del Carroccio, che aveva come personaggio chiave un vescovo benedicente: ci deve essere lo zampino di Fisichella nel recupero leghista di un immagine dell’infedele islamico seguace di Macometto, visto come la sentina di ogni vizio, la personificazione stessa della malvagità. Nei primi giorni del mese non stupì pertanto l’encomio solenne del vescovo verso Cota, appena eletto alla presidenza del Piemonte, per la sua pretesa di lasciare nei magazzeni la pillola abortiva Ru486. Mentre scrivo non si è ancora celebrata la funzione, ma io sospetto più di un incoraggiamento leghista nella presenza sacrificale e oracolare del celebre monsignore a Torino, che si esibirà nella Messa e nella contestuale ostensione della Sacra Sindone davanti a 85 parlamentari guidati dall’ineffabile Schifani.
L’ultima presa di posizione pubblica di Fisichella è tuttavia la più divertente, anche se mi pare d’origine più controriformistica che medievale.
La Comunione eucaristica concessa a Berlusconi al funerale di Raimondo Vianello, nonostante la sua condizione di divorziato non sposato e la recente conferma ratzingeriana del rifiuto dei sacramenti a siffatti pubblici peccatori, aveva suscitato proteste ed alimentato il sospetto che anche tra i preti si vogliano riservare al Cavaliere trattamenti ad personam. E’ intervenuto proprio Fisichella, da fine causidico del diritto ecclesiastico, a mettere fine alla polemica: “Non e' stata fatta nessuna eccezione. La Chiesa non ha mai cambiato idea: i divorziati che si sono risposati una seconda volta civilmente non possono accostarsi alla comunione. Con la separazione dalla seconda moglie, Berlusconi è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante. E' il secondo matrimonio civile, da un punto di vista canonico, a creare problemi perché è solo al fedele separato e risposato che è vietato comunicarsi, perché sussiste uno stato di permanenza nel peccato”. L’impressione è che con affermazioni di codesto tipo si torni alla casistica (o casuistica) cara al Seicento gesuitico, quella che scatenò la finissima ironia giansenistica del grande Pascal nelle Lettere Provinciali. I confessori e i canonisti del tempo concedevano facilmente perdono a gravissime colpe purché trovassero una “valida” giustificazione. Così, per esempio, l’omicidio per vendetta di un plebeo era per un nobiluomo un peccato solo se eseguito con odio, ma non rappresentava una colpa quando il suo fine fosse il mantenimento delle gerarchie sociali.
Nel caso specifico, a giustificare l’ammissione ai sacramenti del Cavaliere potrebbe essere l’equiprobabilismo di un celebre moralista settecentesco, autore di un Manuale del confessore che nella parte dedicata agli interrogatori sul sesso è più eccitante del Kamasutra: Alfonso Maria de Liguori, che fu anche musicista e autore di Quanno nascette o ninno (in italiano Tu scendi dalle stelle). Egli sosteneva che, nel caso in cui vi fosse un qualche dubbio, anche assai vago, sull’interpretazione della legge si poteva e doveva perdonare (specie quando si fosse trattato di una qualche autorità). E non importa che il Cavaliere, che con Veronica non convive più, attiri nelle sue dimore allegre ragazzine e faccia birichinate con questa e con quella vantandosene per telefono, in pubblico e in privato. Quelle sono colpe giustificate. L’esuberanza e la potenza sessuale sono elementi del suo carisma, strumenti di governo, cooperano a conformare “il corpo mistico del capo” e dunque garantiscono l’ordine sociale che è voluto dalla Provvidenza. C’è chi sospetta che, quando si ritira in camera con la escort di turno, il Cavaliere non cavalchi affatto e nell’oscurità utilizzi un attrezzatura posticcia, di porcellana.
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