31.10.11

La poesia del lunedì. Gabriele D'Annunzio.

Rondò
Quante volte, in su’ mattini
chiari e tiepidi, io l’aspetto!
Ella ancora ne ’l suo letto
ride ai sogni matutini.

Su la piazza Barberini
s’apre il ciel, zaffiro schietto.
Il Tritone de ’l Bernini
leva il candido suo getto.

I nudi olmi a’ Cappuccini
metton già qualche rametto:
senton giugnere il diletto
de’ meriggi marzolini.
Come il cuor balzami in petto
se colei vedo, che aspetto,
in su’ tiepidi mattini!

Da L’Isottèo. La Chimera (1890)

La ghigliottina di Trapani.

A Trapani il Museo Pepoli, allestito nei locali di un antico convento carmelitano, frutto della confluenza di diverse private collezioni e di materiali raccolti nei monasteri soppressi dopo il 1860, contiene diverse cose notevoli, tali da giustificare una visita: antichi presepi, corone, coppe ed altre gioie, pitture di molti secoli (tra cui un San Francesco di Tiziano e un ministro di Giacomo Balla). Ma a destare curiosità, in un apposito spazio, è anche una ghigliottina, che a Trapani venne adoperata sia durante il regno dei Borboni che nei primi anni della monarchia savoiarda. Venne ritrovata in un convento dove la depositavano negli intervalli tra un'esecuzione e l'altra.
Le ricerche fin qui effettuate testimoniano un uso sporadico della ghigliottina in questione: quattro teste. In età borbonica quelle di un mazzarese e un salernitano insieme giustiziati il 24 luglio 1854, dopo un processo che li riconosceva "briganti e assassini": avevano 22 anni il primo e 20 il secondo. Il 9 gennaio 1864 con il nuovo regno fu decapitato un trentaduenne da Sciacca, giudicato responsabile di quattro omicidi. Neanche quattro mesi dopo, il 28 aprile, la mannaia tolse la vita a un uomo che aveva ucciso nel sonno il marito della propria amante.

28.10.11

“Eugenetica di genere” in India: la scomparsa delle bambine (di Paola Desai)

In India cominciano a circolare i primi dati preliminari del censimento nazionale 2011, e «quello più scioccante è che nel gruppo di età tra 0 e 6 anni il numero di bambine ogni 1.000 ragazzi è appena 914, meno ancora delle 927 registrate nel censimento del 2001», fa notare la giornalista e attivista Kalpana Sharma sul quotidiano «The Hindu». Che così riporta l'attenzione su una delle più terribili violenze mai perpetrate verso il genere femminile: la scelta di non farle nascere. Infatti, nessun dato biologico giustifica che in una società ci siano tanti più bambini che bambine - di solito è proprio il contrario. Se le femmine tra zero e sei anni sono meno dei maschi è per una scelta deliberata, un pregiudizio profondo che porta le famiglie a preferire figli maschi. Non che questo sia prerogativa indiana (ne sappiamo ben qualcosa nella vecchia Europa), ma in pochi altri paesi al mondo questo si traduce della pratica diffusa di sopprimere le bambine prima che nascano, con un aborto «selettivo» - o di discriminare quelle che hanno la ventura di nascere e avranno meno chances di ricevere cibo e cure rispetto ai loro fratelli. Così le bambine indiane continuano a «scomparire», secondo l'espressione usata vent'anni fa dall'economista Amartya Sen.
Ciò che è ancora più scioccante, scrive Kalpana Sharma, è che nei dieci anni trascorsi dall'ultimo censimento il tasso di alfabetizzazione femminile in India è salito, e il gap tra istruzione femminile e maschile si è ridotto. Non solo: l'India è diventata più benestante, la crescita economica dell'ultimo decennio ne ha fatto una nazione «emergente», la classe media si è ampliata. Ma questo non ha migliorato lo status delle donne nella società, né il «valore» attribuito a una figlia, a quanto pare. Al contrario: la "ratio" femmine-maschi in alcuni dei distretti più prosperi del paese è addirittura più bassa della media nazionale.
Diverse leggi in India puntano a impedire la selezione del sesso del nascituro. Kalpana Sharma ricorda che la prima legge del genere è stata varata esattamente 25 anni fa nello stato del Maharashtra, con capitale Mumbai, risultato di una campagna «dal basso» lanciata dal movimento delle donne. Allora in tutto il paese proliferavano laboratori che pubblicizzavano il test dell'amniocentesi in modo esplicito: «meglio 500 ora che 50mila più tardi», meglio spendere 500 rupie per evitare una figlia femmina che 50mila rupie quando dovrai farle la dote. Oggi è più usata la sonografia, meno invasiva, ma la cosa non cambia. Così nell'87 Mumbai, e nel '94 in tutta l'India, le leggi hanno vietato ai medici di rivelare il sesso del nascituro, così che l'informazione non sia usata per eliminare le bambine. Nel 2003 la legge è stata emendata per renderla più efficace. Invano, come dimostra l'ultimo censimento. E non basterà rafforzare le leggi, scrive Kalpana Sharma, «finché l'animo delle famiglie resta così avverso alle bambine». Non solo: «Bisogna chiedersi se la crescita economica e lo status delle donne nella società siamo necessariamente legati», e pare proprio di no. Ecco un aspetto sconcertante della modernità. Infatti, sarebbe rassicurante pensare che una tale violenza contro le bambine sia un retaggio del passato, destinato a scomparire man mano che la società diventa più benestante, istruita, moderna. O non sarà piuttosto, conclude Kalpana Sharma, che «la disponibilità di denaro invece rafforza atteggiamenti regressivi? O altrimenti, perché le bambine continuano a scomparire?».
da “il manifesto” 21.04.2011

Postilla
Immagino che molti di noi, persone della sinistra occidentale, femmine e maschi, vivendo in paesi in cui il pregiudizio contro le femmine non si esprime attraverso aborti che ne impediscono la nascita, restiamo interdetti di fronte al paradosso di siffatte notizie. Propendiamo, quasi tutti, per la “libertà di scelta” della donna in relazione a gravidanze indesiderate e, generalmente, consideriamo un progresso il fatto che ci siano esami in grado di avvisarci non solo sul sesso ma anche su altre caratteristiche genetiche del nascituro, giacché la conoscenza anticipata previene il male e prepara il meglio. Eppure dal combinato disposto di una libertà e di un progresso si produce sorta di “eugenetica di genere”. Sollecito riflessioni, femministe e non femministe. Io non so che cosa dire. (S.L.L.)

Primavera. Una poesia di Carol Ann Duffy

La pietà della primavera è qui, un addolcirsi dell’aria,
la luce di un’ora più luminosa, il tempo
come perdono, concesso nel sussurrato colorarsi
dei fiori, nel mantra della pioggia, sollievo, sollievo, sollievo...

Parla Babini:"Vendola è un fetente, il fascismo, invece, aveva un buon odore"


Sul finire di settembre, il Vescovo emerito di Grosseto Giacomo Babini, dagli ozi di San Sepolcro ha ribadito su Pontifex.Roma una sua antica convinzione: “Berlusconi almeno va con le femmine, Vendola invece va contro natura. Senza voler fare classifiche, è molto più peccatore di Berlusconi”. Babini aveva di recente teorizzato che il fascismo aveva un buon odore: “Era una dittatuta all’acqua di rosa”.

Mafie in Umbria. Vengono per restare ("micropolis" - ottobre 2011)

Perugia Ponte san Giovanni. In  primo piano le costruzioni sequestrate
Un libro recente di Giuseppe Carlo Marino, un agguerrito storico siciliano, Globalmafia (Bompiani, 2010), autorevolmente spiega come la mafia e le mafie non siano solo o soprattutto “criminalità organizzata” e quanto una simile definizione sia limitativa, superficiale e deformante. La mafia è soprattutto economia e politica, è soprattutto malaffare; ed è perfettamente inserita nelle reti di potere della finanza globalizzata, come nel suo cervello.
Nel volumetto la postfazione di Antonio Ingroia, magistrato tra i più impegnati nel contrasto a Cosa nostra, racconta del “minore attaccamento alla terra” delle grandi organizzazioni criminali italiane, con “meno investimenti in case e terreni più agevolmente individuabili e quindi più facilmente soggetti a sequestri e confische”. Un po’ per una scelta legata alla globalizzazione, un po’ perché costrette a rimanere sommerse, le mafie si sarebbero finanziarizzate e fatte “liquide”, si sarebbero “deterritorializzate” con il ricorso a massicce “delocalizzazioni”.
E’ un’analisi che ha molte conferme e la cui validità appare sempre più evidente anche ai non addetti ai lavori. Ma forse, con il procedere della crisi economica, questa lettura merita un aggiornamento e il sequestro dei trecento appartamenti a Perugia può suggerire qualche ipotesi da verificare.
Da quel che si legge e apprende da fonti ufficiali, l’intervento economico delle mafie in Umbria è stato finora teso principalmente al riciclaggio dei proventi del narcotraffico e di altri lucrosi traffici illegali. L’acquisizione di imprese, supermercati ed esercizi commerciali, ristoranti, pizzerie sembrava confermare il carattere di “lavanderia” di queste operazioni, mentre la rilevazione qua e là di immobili (case e terreni) dava l’impressione di un fatto episodico, non rientrante in una precisa strategia. A Ponte San Giovanni siamo di fronte a un salto di qualità: la società ginevrina riconducibile al clan dei casalesi ha acquisito da un grande costruttore trecento appartamenti, che difficilmente avrebbe potuto rivendere in blocco, almeno in tempi brevi. Non si tratta dunque di una operazione di mera ripulitura ed è ipotizzabile che non sia l’unico affare del genere che si compie in Italia o nella piccola Umbria.
Si legge che nell’ex Terzo Mondo impazzi il lend grabbing, l’arraffamento di terre da parte di multinazionali; ma forse anche i liquidi d’origine mafiosa, come tutti gli altri, cercano oggi solidità in un reinsediamento decentrato, attraverso la durevole acquisizione di beni immobili. In Italia, come in altri paesi dell’Unione Europea, comincia insomma a funzionare l’arraffapalazzi della finanza mafiosa: conurbazioni senza identità, non luoghi della cementificazione senza qualità se ne trovano a bizzeffe e ottimamente si prestano allo scopo.
Grazie al pentito che ha parlato, ai magistrati e agli investigatori, l’inghippo della ex Margheritelli è stato - a quanto pare - sventato, ma ci sono in abbondanza nel perugino e nella regione altri stecconi e palazzoni semicostruiti e invenduti. Intorno agli appartamenti da rifinire o agli edifici da completare nasce facilmente un’economia, lavorano piccole e piccolissime imprese, girano professionisti della vendita, consulenti del riciclaggio.
Possono emergere consistenti isolotti mafiosi con capacità espansive, organizzazioni in grado di comprare consiglieri e assessori, promuovere liste, eleggere propri consiglieri e imporre propri assessori. Potrebbe accadere. Potrebbe essere già accaduto. A Perugia e altrove.
Occhio!
Salvatore Lo Leggio

Un epicedio per Muammar Gheddafi (di Eros Barone)

Il compagno Barone, che in Lombardia sta combattendo una dura battaglia contro le persecuzioni (giudiziarie e non) della Lega di cui ha denunciato più volte le pulsioni razzistiche, ha scritto una commemorazione intensa ed entusiasta dello scomparso colonnello Gheddafi, che qui propongo.
Io non mi trovo in linea con la sua ammirazione pressoché incondizionata. Condivido l’esecrazione degli assassini del leader nazionalista libico (non importa che siano direttamente gli imperialisti bombardatori o i loro sicari indigeni) e della violenza brutale e idiota fatta al suo cadavere. Condivido la valorizzazione della sua resistenza eroica, anche come reazione verso chi ha ridotto (e tenterà di farlo nella memoria) l’immagine complessa di un Gheddafi a quella di un tiranno sanguinario, ricorrendo alla  menzogna nazisticamente ripetuta.
E tuttavia penso che i processi di liberazione dei paesi e dei popoli oppressi non avranno mai un successo duraturo finché saranno affidati al nazionalismo grande o piccolo (nel caso specifico arabo o libico). Della storia che comincia con i capi della rivolta algerina e con Nasser e dura fino a Gheddafi e oltre bisogna salvaguardare il carattere antimperialista e respingere sdegnosamente il punto di vista neocolonialistico su di essa. Ma - passato il tempo della rabbia, della commozione e dell’omaggio – a questa tradizione occorrerà rivolgere una osservazione rigorosa e impietosa, una critica marxista e internazionalista. Servirà a metterne in luce le grandezze come gli errori, i tradimenti, le contraddizioni e le miserie.  (S.L.L.)

«…dimoreranno in giardini e in mezzo a fiumi, nella pianura della verità, presso un re potentissimo.»
“Il Corano”, sura LIV, vv. 54-55. 

A proposito della morte di Gheddafi i giornali hanno riportato la notizia che il leader libico, nascondendosi in una buca come un topo, avrebbe gridato ai ribelli di non sparare. Altri giornali sostengono invece che sia rimasto vittima di un bombardamento della Nato mentre abbandonava la città di Sirte. Io propendo per questa seconda versione, perché un leone non grida e non chiede pietà nemmeno di fronte ad un fucile spianato. Un leone capace di resistere per mesi sotto una pioggia di bombe non si fa intimorire dai topi di Bengasi e di Misurata.
Gheddafi se ne è andato lottando fino all’ultimo per il suo paese e bagnando con il suo sangue la terra della patria. Berlusconi ha commentato l’evento con una frase latina, “sic transit gloria mundi”, forse pensando alla sorte che attende anche lui o forse, come è più probabile, dando prova di un cinismo raggelante (lui, che era arrivato, soltanto un anno fa, a baciare la mano di Gheddafi!). Comunque sia, se è vero che la gloria del mondo passa, è anche vero che la forza dell’esempio, il coraggio delle idee e la fedeltà ai valori anche nelle situazioni più tragiche, tutto ciò resta e ha un valore immenso.
Il ricordo di Gheddafi vivrà per sempre nella testa e nel cuore di chi non intende piegarsi ad un mondo che basa la sua arroganza sulle falsità e sulle menzogne. Gheddafi era un grande condottiero, certo non immune dalle contraddizioni tipiche dell’uomo di potere il quale, pur di salvare la nazione, non ha esitato a commettere crimini e violenze, ma sempre in nome di princìpi superiori e garantendo al suo popolo benessere e prosperità. Solo le “anime belle”, che per definizione sono stupide, possono credere che, in Libia come altrove, lo Stato si diriga coi fiori e col fioretto, anziché con la spada ed il coltello tra i denti.
Ma di coloro che hanno ucciso Gheddafi che cosa resterà? Abiezione, viltà, ignominia e scelleratezza sono i vizi di cui si sono macchiati coloro che hanno cercato prima di screditarlo e poi di eliminarlo. Immagino, allora, che, giungendo nei verdi prati del paradiso islamico solcati da ruscelli di fresca acqua e cosparsi di alberi ricolmi di frutti, Muammar Gheddafi sia stato accolto con paterna cordialità da Omar al-Mukhtiar, il “leone del deserto”, vittima del colonialismo italiano e martire della resistenza libica. Io desidero ricordarlo avvolgendo il suo corpo ferito e martoriato di combattente nel drappo dell’onore, perché là dove sono i leoni non vi è spazio per le scimmie ammaestrate o le iene ululanti.

27.10.11

Calamità morale (di Franco Arminio da "il manifesto")

L'alluvione a Monterosso, in Liguria
Sospeso sulle argille/ di una vecchia collana,/ il paese perde le sue perle,/ frana.
Può essere ottobre o maggio, può essere la Liguria o la Calabria, la scena si ripete e la pioggia porta via i muri, le macchine e qualche volta anche le persone. Ogni volta si leva il lamento sull'assenza di prevenzione, poi cala il silenzio, in attesa della prossima sciagura.
E invece la sciagura è sempre in corso, la frana non finisce mai, lo smottamento è perenne e quando non porta via le case, comunque apre crepe, distende altri fili nella ragnatela delle faglie. L'Italia è un paese fragilissimo che scompare mano a mano che viene costruito. Ogni volta che vedo una betoniera mi viene un dolore allo stomaco, sento che quel cemento va a coprire un altro poco di terra. Ormai siamo una penisola di cemento in mezzo al mare. La terra in certe zone sembra avere le ore contate.
E l'acqua batte ovunque, può essere la capitale o il paese più sperduto dell'Appennino: il risultato è sempre lo stesso: fango nelle cantine, alberi in gita lontano dalle loro radici, un paesaggio rotto, incapace di ricordarci che non è questione di piccole inadempienze, ma di un modo di abitare il mondo che qui da noi ha i tratti conclamati del delirio. Certo, ce la possiamo prendere coi cittadini che si fanno le case in zone pericolose e con chi glielo permette, possiamo immaginare che lo Stato si faccia avaro e non rimborsi i danni, ma comunque non si risolve molto. E piuttosto che dichiarare lo stato di calamità naturale, che va ad alimentare la sempre fertile economia della catastrofe, bisognerebbe dichiarare lo stato di calamità morale. Ed è uno stato ormai perenne, con o senza piogge fa i suoi danni ogni giorno. E li fa nella civilissima Liguria allo stesso modo che nelle terre delle mafie.
L'Italia è divisa su tutto, ma è unita dalla frane. Le frane di cui parliamo fanno scalpore perché ci sono vittime, perché un paese in bilico è a suo modo spettacolare. La frana più grande è stata la fuga degli abitanti dall'Appennino e la discesa a valle dei paesi. Come se chi fosse rimasto avesse bisogno di abitare un luogo che in qualche modo scimmiottasse la città. Praticamente ogni paese alto ha sempre una periferia lungo la strada nazionale. I paesi si sono duplicati. E quello in alto è quasi sempre un museo delle porte chiuse, un gioiello dell'agonia. Oltre alle case, è vuota anche la terra intorno.
Gli italiani hanno fatto di tutto per non essere più contadini e ci sono riusciti. Lo sanno tutti che la terra coltivata attenua l'impatto delle piogge, ma oggi coltivare la terra è un lusso per ricchi. E l'attenzione della politica ai problemi dell'agricoltura è testimoniata dalla nomina del ministro attuale che nella sua vita si è occupato di ben altro. Il panorama è ugualmente desolante se pensiamo alle politiche sui piccoli paesi. Ormai da anni viene approvata una leggina in un ramo del parlamento e poi puntualmente si ferma per strada. L'anno scorso la Camera ne ha approvate due, ma lo stanziamento complessivo è di soli cento milioni di euro. Non mi risulta che il Senato abbia affrontato l'argomento. Nell'italietta televisiva una legge sui paesi non fa gola a nessuno. Sarebbe ora che gli abitanti che sono rimasti sui paesi si sollevassero per reclamare misure a difesa del territorio, ma i paesi sono governati dalle stesse logiche che hanno i dinosauri del parlamento. Una piccola borghesia fangosa che imbratta con furbizie e intrallazzi ogni cosa.
Sarebbe il momento di reclamare alcune semplici norme, prima fra tutte lo stop al consumo di suolo agricolo. Una norma che suona inconcepibile ai tromboni dello sviluppo e della crescita che abitano tutte le contrade politiche. E allora le frane, come gli incidenti stradali e altri disastri ordinari, fanno parte di questa apocalisse diluita che chiamiamo società civile. Nessuno si illuda di essere a riparo, oltre alle frane che muovono la terra, ci sono le frane mediatiche che hanno portato nelle nostre case la poltiglia di un consumismo cieco e avvilente. Non servono solo geologi e opere di ingegneria naturale, serve passione per il bene comune, ardore politico, serve l'ammissione che ogni giornata in un mondo del genere è un fallimento. La pioggia diventa una sorta di marker tumorale, rivela impietosamente che il nostro paesaggio è malato, è malato il nostro modo sempre più autistico di abitarlo. Siccome non possiamo chiedere alle acque di placarsi, siccome non possiamo addomesticarle, allora è il caso di non prendersela coi metereologi che sbagliano le previsioni, dobbiamo prendercela con le leggi che consentono anche a chi non è agricoltore di farsi la casa in campagna. Nei piccoli paesi è rimasta poca gente e se ne vede pochissima in giro perché abitano quasi tutti in campagna, nelle case sparse. Il lavoro nei campi è stato abbandonato, ma la piantagione delle villette non accenna a diminuire.

da “il manifesto” 27 ottobre 2011-10-27

Dello stesso autore in questo blog
http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2011/10/i-paesi-della-decrescita-monteverde-di.html

I paesi della decrescita. Monteverde (di Franco Arminio)

Questo breve pezzo tra il turistico e il sociale, assai interessante e ottimamente scritto da Franco Arminio, l’ho recuperato dal sito di “COMUNITA' PROVVISORIA - terra, paesi, paesaggi, paesologia”, ma è stato pubblicato sul “Corriere della sera” del 14 luglio 2011, nella pagina dei viaggi. (S.L.L.) 
Monteverde (Av), Il castello e il borgo.
È il paese più orientale della Campania. Se Napoli è più a est di Trieste, figuriamoci Monteverde. Quando penso a questo paese mi vengono in mente due cose, due cose che spiccano da lontano: la sagoma del castello e un silos giallo. Per tutto il mese di agosto nel lago San Pietro, da alcuni anni, viene allestito uno spettacolo dedicato alla vita di San Gerardo. È un’operazione che vede coinvolti in forma di volontari anche tanti ragazzi del posto e questa è sicuramente una cosa buona. Monteverde merita di essere raggiunta fin dal mattino. Prima di San Gerardo c’è da godersi il paesaggio che circonda il paese. Da un lato c’è il grano, un grande spazio senza palazzineria, una vera rarità ormai anche in Irpinia. Dietro il paese, per chi viene da occidente, c’è una vera e propria selva ottocentesca. È singolare che un paesaggio di tanta bellezza non sia stato ancora perimetrato come parco. La cosa che colpisce del bosco di Monteverde è il fatto che pur essendo praticamente attaccato al paese, ti dà l’impressione di essere in un tempo lontano. Puoi vedere a spasso i cinghiali, puoi vedere pietre antichissime, reliquie di un’inquietudine geologica che non c’è modo di placare. In un’altra zona si possono ammirare i resti di una cinta muraria, le Mura Pelasgiche.
In questi paesi che adesso sembrano recintati da una mesta agonia, c’è stato un tempo in cui la vita pulsava con vigore. Dall’alto si vede benissimo Melfi, col suo castello firmato da Federico II e col prodigioso campanile. Questa visione ti fa capire che Monteverde si trova nella regione Campania per errore. I ragazzi vanno a scuola a Melfi. E anche per la salute ci si rivolge alla Lucania: agli ospedali dell’Irpinia d’Oriente non ci crede neppure chi ci lavora dentro. Molti non lo sanno ma hanno origini monteverdesi personaggi noti come Santoro e Draghi. Purtroppo da queste parti non è che sia servito a molti avere santi in paradiso.
Monteverde è l’esatto opposto di San Giorgio a Cremano. Dalla massima densità abitativa alla minima. E allora c’è solo da aspettare pazientemente che si compia il travaso, che poco alla volta i campani della costa si decidano a migrare verso l’interno. È un processo inevitabile ed è bene cominciarlo adesso. Ed è anche conveniente. Una casa in Irpinia d’Oriente costa quanto un posto macchina a Napoli. E oltre alla casa si può godere di un luogo in cui l’aria è pulita e non ci sono problemi per parcheggiare. Perfino chi ha gusti estetici raffinati può trovare soddisfazione. Oltre al castello, appartenuto ai Grimaldi di Monaco, c’è una bellissima scalinata, una piccola piazza di Spagna per i neorurali che in Campania stentano a venir fuori. Se Monteverde fosse nel nord Italia sarebbe un paese pieno di turisti. Nella nostra regione siamo ancora troppo legati ai luoghi firmati. La bellezza e la fama di un luogo non sempre bastano a farci stare bene. Qualche giorno fa ero ad Amalfi. Sotto la meraviglia del duomo c’era il solito tappeto di negozi e turisti che si vede ovunque. E poi lì non c’è spazio. Lo sguardo s’infrange contro la montagna. È vero che dall’altra parte c’è il mare, ma il mare non tutti lo capiscono e io sono tra questi. Io capisco la terra, gli spazi vuoti, capisco l’altura. In poche parole capisco luoghi come Monteverde e quando ci vado mi sento assai meglio di come mi sento nei luoghi rinomati. Posso stare sulle panchine assolate della piazza in cima alla scalinata. Posso andare a visitare il laboratorio di costruzione e restauro di organi, uno degli ultimi nell’Italia meridionale. Posso andare sulle rive del lago. A parte lo spettacolo dell’acqua, è un luogo che da solo vale una visita, meglio ancora se ci andate quando non c’è nessuno, cioè in quasi tutti i giorni dell’anno, a parte agosto. Sembra un pezzo di paesaggio canadese. Il bello è che in pochi minuti si cambia scenografia e ci si trova in una sorta di Puglia ad alta quota. E sono proprio i pugliesi, assieme ai lucani, a frequentare maggiormente Monteverde nei giorni in cui c’è lo spettacolo dell’acqua. Gli irpini non ci vanno, sono spaventati dalla distanza. E poi c’è un persistente razzismo demografico: dal paese grande sembra sconveniente andare in quello più piccolo. Una volta c’erano frequenti traffici per matrimoni e per lavoro. Adesso si guarda direttamente alle città. I paesi sono considerati da chi li abita luoghi in cui non c’è niente ed è un errore sempre, un errore particolarmente grave nel caso di Monteverde.
Abbiate cura di andarci, non ci sono attrezzature per turisti. Per mangiare non ci sono problemi, per dormire dovete un poco arrangiarvi, ma il vostro sarà il viaggio di chi cerca qualcosa di meno, non qualcosa di più.

La rivoluzione d'Ottobre. L'editoriale di "micropolis"

E’ questo l’editoriale di “micropolis” oggi (27.10.2011) in abbinamento con “il manifesto” nelle edicole dell'Umbria. E’ senza firma e dunque esprime il punto di vista dell’intera redazione. Ma l’estensore del testo è – se non erro – Renato Covino. (S.L.L.)
In sedici anni è la prima volta che ricordiamo la Rivoluzione d’ottobre. Non lo abbiamo mai fatto convinti che nel 1989 era finito un mondo e che, tenendo conto degli sviluppi e degli esiti del regime sovietico, ci fosse ben poco da celebrare.
Neppure oggi ci sfiora un intento celebrativo, quanto la consapevolezza che le ragioni per cui esplose l’ottobre russo si ripropongono a oltre venti anni dalla fine del regime cui aveva dato vita. Le rivoluzioni, infatti, sono non tanto il frutto di una volontà, ma di una necessità. Ci si ribella e si aspira a un mondo diverso quando si prende coscienza che non ci sono alternative. Nel 1917 era evidente che un sistema economico e politico, che aveva prodotto una guerra con milioni di morti, fame e miseria, fosse giunto al capolinea, o almeno così sembrava.
Oggi siamo in una situazione analoga. Il mondo “progredito” è in crisi e c’è una guerra civile fredda tra banche, finanza, padroni, governi e la stragrande maggioranza dei cittadini dei diversi Stati. Molti si sono stupiti o scandalizzati per gli episodi di violenza nella manifestazione di Roma, in realtà essa stava incubando da mesi ed era destinata a riesplodere. Così è avvenuto durante la Grande guerra, durante la crisi degli anni Trenta, nel secondo dopoguerra. C’è da riflettere se i meccanismi di contenimento del “capitalismo rapace” non siano stati anche il frutto di una presenza, come quella dell’Unione sovietica, che rappresentava, almeno nell’immaginario collettivo, un’alternativa ad un sistema in crisi e un punto di riferimento della ribellione in occidente. C’è da interrogarsi se non nascano proprio come tentativo di contenerne il contagio le esperienze di welfare e le forme di intervento pubblico in economia che nell’ultimo ventennio sono diventate oggetto di un attacco indiscriminato da parte di governi di destra e di sinistra.
Il caso italiano è da questo punto di vista emblematico. Il paese è in crisi e non ha un governo. I 316 voti di fiducia di Berlusconi alla Camera sono il segno di una proterva occupazione del potere che provoca reazioni anche nell’establishement e tra i suoi vecchi sostenitori: le associazioni cattoliche, la Confindustria, le banche si aggiungono all’opposizione nel chiedere all’utilizzatore finale di mettersi da parte, invocando, sempre più irrealisticamente, un governo di decantazione e di unità nazionale.
In questo quadro confuso e impotente l’on. Di Pietro riscopre il suo animo di poliziotto e, di concerto con Maroni, se ne esce con la brillante proposta di riesumare la legge Reale, convinto così di mettere il coperchio sulle tensioni sociali. Tutto, insomma, concorre ad evitare che Berlusconi cada sull’onda di una protesta sociale diffusa, che si giunga ad elezioni anticipate, ma soprattutto che emerga un’alternativa di sinistra, sia pur cauta e ragionevole. Il discredito nei confronti dell’intero sistema politico è crescente e, violenza o meno, sarà difficile governare il dopo Berlusconi. Per questo il tycoon regge ancora e, malgrado le chiacchiere, nessuno ha interesse ad accelerarne la caduta. Il cavaliere è politicamente morto, ma i suoi successori sia a destra, che al centro che a sinistra ancora non si vedono. La politica è sospesa, non riesce a dare risposte convincenti alle domande di lavoratori, giovani, cittadini che sempre più spesso scendono in piazza o che, più semplicemente, esprimono il loro disagio. In una situazione che marcisce senza soluzioni, in cui gli strateghi della sinistra pensano a come coinvolgere il Terzo Polo, piuttosto che fornire una sponda a ciò che si muove nel paese, gli esiti finali non possono che essere di destra. La stella polare saranno le indicazioni della Bce, del Fmi e le valutazioni delle agenzie di rating: privatizzare,
liberalizzare, demolire lo stato sociale per consentire agli Stati di pagare il debito. Non è detto che un sistema senza capacità di produrre e ridistribuire ricchezza e opportunità debba per forza crollare, può sopravvivere a se stesso, continuando a dispensare povertà e ingiustizia.
I caratteri di tale declino emergono anche in una situazione marginale e sonnacchiosa come quella umbra. Il fatto politico più rilevante dell’ultimo mese è il furibondo scontro in Consiglio regionale, nel Pd e nel centrosinistra, per l’elezione della consigliera di pari opportunità, con la conseguente sconfitta ed elezione di una rappresentante del centrodestra. Francamente la cosa, rispetto a quello che sta avvenendo, è ridicola, la sua irrilevanza dà l’idea della pochezza del ceto politico. La soluzione - lo abbiamo scritto fino alla nausea – è esterna, quindi, al sistema politico e dipende dall’emergere di forze diverse e nuove. Il problema è che esse non si scorgono all’orizzonte e che forse non ci sarà il tempo per evitare esiti disastrosi. E qui torna utile il richiamo all’Ottobre. Nei mesi che seguirono la rivoluzione di febbraio, in un’assemblea un socialista moderato affermò che in una situazione difficile come quella nessuno sarebbe stato disponibile a prendere il potere. Lenin prese la parola e fece presente, nell’ilarità generale, che lui e il suo partito erano pronti ad assumersi l’onere.
Ecco, finché in Italia - ma più in generale in occidente - non si alzerà qualcuno a sinistra semmai facendosi ridere dietro) che si dichiarerà disponibile a governare sulla base di una proposta chiara e comprensibile, in un dialogo costante con quello che si muove nella società, la situazione rimarrà in stallo e continuerà ad essere esposta a pericolose derive.

In volo o a piedi? (da "micropolis" ottobre 2011)

E’ qui postato con un titolo leggermente diverso l’editorialino di spalla di “micropolis”, oggi in edicola con “il manifesto”. Il pezzo è senza firma, ma è forse attribuibile al direttore Stefano de Cenzo. (S.L.L.)
Forse l’accusa mossa a Massimo D’Alema dai pm della Procura di Roma per “finanziamento illecito ai partiti” verrà archiviata, forse no. L’addebito, come è noto, riguarda cinque voli privati, offerti gratuitamente dalla Rotkopf Aviation di Viscardo Paganelli, uno dei quali effettuato in occasione della campagna elettorale in favore della governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini.
I “passaggi”, di per sé risibili, assumono tuttavia un carattere ambiguo in quanto si inseriscono nella vicenda di tangenti che, in estate, ha portato in carcere Paganelli, il quale ha poi patteggiato, e che vede coinvolti, tra gli altri, Franco Pronzato, ex consigliere di Enac ed ex responsabile nazionale per il trasporto aereo del Pd, anche lui rimasto agli arresti per tre mesi, e Vincenzo Morichini, folignate, amico stretto di D’Alema (per lungo tempo hanno condiviso la barca Ikarus), fundraiser dell’Associazione Italiani Europei, consulente e lobbista, ex dirigente di Ina-Assitalia, al quale Paganelli avrebbe pagato le tangenti. Il legale dell’ex presidente del consiglio ha affermato, fiducioso, che tutto è stato chiarito, che il passeggero era convinto che i voli fossero stati pagati dall’amico di sempre; lo stesso D’Alema in estate, allorché il fatto era diventato di dominio pubblico, aveva sarcasticamente dichiarato: “Se avessi saputo quello che è emerso, sarei di certo andato a piedi”.
A piedi o in volo, il problema rimane ed è quello di una fitta rete di rapporti lobbistici che emerge in presenza di un vuoto della politica o meglio, per essere più precisi, di una politica che continua ad occupare spazi senza svolgere alcuna funzione se non quella di autoconservarsi. In questo contesto è quasi inevitabile che la dimensione affaristica risulti preponderante, se non esclusiva. L’Umbria, non ci stancheremo mai di ripeterlo, non è immune, tutt’altro, e le inchieste giudiziarie in corso (a breve si attende la decisione per l’eventuale rinvio a giudizio degli indagati eccellenti di “sanitopoli”) non fanno altro che portare in superficie la punta di un iceberg.
Una lunga stagione di governo regionale si è ormai chiusa, ma il futuro è alquanto incerto. Da questo punto di vista la crisi economica, per quanto pesante, potrebbe rappresentare un’opportunità di cambiamento di un modello ormai non più proponibile, un investimento per il futuro, sempre che si voglia veramente rompere con il recente passato.

26.10.11

Pagani: tammorra e camorra (di Franco Arminio - da "Comunità provvisoria")

Dal sito “COMUNITA' PROVVISORIA - terra, paesi, paesaggi, paesologia” recupero un post ottimamente scritto da Franco Arminio, una sorta di reportage da Pagani, che cerca di intenderne le costruzioni e le distruzioni, anche attraverso la voce di Isaia Sales, un tempo militante ed esponente della sinistra politica, più di recente autore di libri importanti sulla camorra.
Solo una piccola osservazione. Di Alfonso Maria Liguori, detto Alfonso Maria dei Liguori per nobilitarne le origini, e della sua “casistica” m’è già accaduto di scrivere in questo blog, in un testo dedicato al Cavaliere e a Monsignor Fisichella (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/04/la-casistica-di-fisichella-e-la.html ). Non ho letto La pratica del confessore del santo vescovo campano, ma Carmela, che mi fu a lungo compagna di vita e mi resta carissima, l’aveva fatto nella prima giovinezza: mi diceva che una buona parte del manuale era dedicata agl’interrogatori sul sesso e che pertanto esso risultava una sorta di Kamasutra, ma di molto più morboso. E’ un giudizio di cui mi fido. In ogni caso non basta questo suo cimento da scrittore pornografico o quasi a farne un “Voltaire”: al posto di Arminio darei un giudizio più cauto. (S.L.L.)

L'interno della Basilica di sant'Alfonso a Pagani 
Ritorno alla paesologia
Pagani
E’ la prima volta che vado a trovare una persona più che un paese. Isaia Sales mi aspetta all’uscita del casello autostradale. Sa bene che non è facile dare appuntamento a un forestiero al centro del paese, ammesso che uno riesca a identificare il paese in cui è arrivato. Lo seguo in macchina fino a casa sua.
Sales ha abbandonato la politica attiva, ha scritto un libro sulla camorra e uno sui rapporti tra i preti e i mafiosi, ma non ha certo smesso di pensare in termini politici. Io torno dopo molti mesi in uno di quelli che definisco paesi giganti. Vorrei capire meglio cosa è successo negli ultimi cinquant’anni in cui è stato distrutto questo territorio, vorrei capire le ragioni degli artefici, i torti delle vittime. La prima parola che scrivo sul taccuino è “cartuccia”. E’ il soprannome di una persona che abitava in una casa castello nel punto più elevato del paese, qualcosa di simile accadeva anche a Ottaviano con il castello abitato dai familiari di Cutolo.
Qui le visioni si susseguono, il paese ha trentaseimila abitanti, concentrati tutti in pochissimo spazio. Passiamo davanti alla scultura di una grande tammorra. Vorrebbe essere il simbolo di Pagani che l’amministrazione descrive come paese di santi, artisti e mercanti. La tammorra è la protagonista della festa della Madonna delle galline. È una festa nobile e antichissima, all’incrocio tra paganesimo e cristianesimo. Io sono mai stato, ma sono giornate brulicanti di suoni e sudore, in cui tutto il paese è intriso di folklore non ancora annacquato.
Isaia mi porta in alto, verso il valico di Chiunzi. Oltre la montagna c’è un’altra storia: Ravello, Amalfi, Positano. La città stesa sotto di noi potrebbe sembrare una copia arrangiata di Napoli perché c’è il Vesuvio in fondo e poi il mare, invece è la piccola pianura dell’Agro nocerino-sarnese con i paesi che arrivano tutti insieme fino al vulcano e fino al mare. In effetti il Vesuvio è l’unica cosa ferma in questa zona. E se non ci fosse sarebbe più evidente la gigantesca eruzione urbanistica degli ultimi cinquant’anni. Ci sono tra le case piccoli spazi di verde e piccoli quadrati luccicanti delle serre, cemento e concime di un terra che ha rottamato troppo in fretta le sue origini contadine.
A Pagani l’unico spazio vuoto è il campo sportivo. Isaia mi ha portato a vedere uno dei miracoli della civiltà del cemento. Siamo saliti in alto solo per questo, per vedere come i paesi si sono incollati tra loro e si incollano un po’ a caso anche i nostri discorsi. Ora la mia preziosa guida mi parla di un bosco di lucciole sotto Cuma, lucciole futuriste, prodotte dal fatto che lì non si è potuto costruire per la presenza di un depuratore.
Prima di tornare nella pianura passiamo in un posto che si chiama Corbara, è un paese che pare avere la testa sotto la ghigliottina della montagna. Chi vuole scampare la peste della pianura potrebbe venire a vivere qua, ma secondo i geologi questo paese è ad altissimo rischio e nel secolo scorso la montagna è caduta già due volte. Passiamo per un altro luogo appena più in alto rispetto alla pianura, Sant’Egidio. Qui l’aria è un poco dimessa, il paese sembra abitato da un’umanità che non ha il vento in poppa. A volte basta stare cento metri più in alto per essere fuori dall’animoso delirio che ha piantato le case sulla terra come se fossero alberi, alberi che non danno frutto. Le case che vedo già mostrano i segni della precoce vecchiaia del cemento. Quando fra pochi anni lo spazio disponibile sarà completamente esaurito, le palazzine degli anni sessanta avranno un aspetto decrepito. In fondo questa è una zona di rovine. Siamo sulla statale 18 che da Nocera porta a Pompei. La sequenza è questa: Nocera Superiore, Nocera inferiore, Pagani, San Lorenzo, Angri, Scafati. Sales sa bene che ognuno di questi posti ha una sua storia, umori diversi, rivalità e sfumature ignare al visitatore occasionale. Nocera inferiore è assai diversa da Pagani, diversità dovuta a tanti fattori, compreso il famoso manicomio che c’era una volta. Qui lavorava il professor Levi Bianchini, il primo traduttore italiano di Freud. Al cimitero di Nocera fu seppellito l’anarchico Carlo Cafiero dopo il ricovero al manicomio. Sono storie che nulla c’entrano con le storie di oggi, ma sono storie assai diverse dagli ambulanti e di Pagani. Il paese è conosciuto per il grande mercato ortofrutticolo che non è più tanto grande (e solo una piccola parte della merce proviene da queste terre) più che per il santo Alfonso Maria dei Liguori, un santo che non fece miracoli (e per questo non porta turisti) però scrisse anche canzoni, tra cui la famosissima Tu scendi dalle stelle. Un santo che era un intellettuale sofisticato, una sorta di Voltaire cattolico. La grande chiesa che lo accoglie fino a pochi decenni fa era circondata dal verde, adesso esibisce da un lato un auditorium con una facciata copiata dagli outlet, dall’altra parte un gruppo di case sfondate e incredibilmente abitate, una sorta di piaga da decubito aperta nel cuore del paese. Le due ali ai lati della cattedrale sono un perfetto riassunto dello stato dei luoghi, ma qui una cosa brutta è solo la premessa ad ulteriori brutture che sono più avanti. E così arriviamo a Scafati, vera apoteosi della speculazione edilizia. Il paese è attraversato dal fiume Sarno, la più grande fogna d’Italia. Scendiamo dalla macchina, ci fermiamo su un ponte a immaginare molto banalmente come poteva essere bello questo posto prima della guerra scatenata dalle betoniere.
E’ ora di pranzo, torniamo a Pagani. La moglie di Isaia già la conosco, faccio conoscenza con due dei suoi tre figli. Dopo pranzo tutta la famiglia guarda con attenzione il documentario sulla paesologia. Mi fa uno strano effetto vedere i miei luoghi in una casa di Pagani, mi pare di vederli da un altro mondo. Ed è lungo alla fine il discorso sulla Campania che non è mai stata veramente una regione, su Napoli, città mondo, che proprio non vuole saperne di ridursi a capoluogo di regione. Parliamo dell’assenza di veri luoghi di ritrovo. Pagani è un polso tra il gomito della costiera e il palmo della mano rappresentato da Napoli e allora qui passano i nervi, le vene, ma la vita sembra doversi raccogliere altrove. La Napoli borbonica ha fatto la storia di questi luoghi usando le campagne dei cafoni per sfamarsi. Poi è venuta la Napoli democristiana e comunista che ha usato la terra per espandersi. La cosa è evidente a Scafati. Lì tra i palazzi resistono ancora piccoli appezzamenti di terra coltivati. Non sono giardini o piccoli orti, è proprio la vecchia agricoltura che resiste. È un verde provvisorio, con le annate contate. Ogni raccolto potrebbe essere l’ultimo. Oltre alla fertilità del suolo, queste sono anche terre d’ingegno. Basti pensare alle industrie conserviere che esportano in tutto il mondo (i pomodori che mandano in Giappone sono molto più buoni di quelli che riservano al mercato nazionale). In effetti qui la produzione di pomodori è quasi scomparsa e molti immaginavano anche la scomparsa delle industrie. D’estate per due mesi una perenne colonna di tir scarica qui tutti i pomodori che si producono in Puglia. Per lavorarli ci vuole tanta acqua, che qui non manca, ma anche extracomunitari malpagati e una bravura artigianale che i pugliesi non hanno acquisito.
Il figlio di Isaia è molto lucido, si impegna in un associazione di ragazzi che provano a fare politica. Forse sarà dai ragazzi come lui che arriverà il vento nuovo di cui si parla in questi giorni. Mi parla delle televisioni locali, del loro ruolo che è quasi sempre quello di megafono delle amministrazioni. Le televisioni locali hanno clamorosamente smentito l’illusione che l’informazione più vicina ai territori avrebbe aiutato la crescita civile e portato una critica spietata ai governanti del posto.
Torniamo in paese, questa volta per camminare lungo il corso dove entrando in ampi portoni si arriva nei tipici cortili, variamente rimaneggiati: ci puoi trovare case fatiscenti o palazzine e un’umanità costretta ad arrancare alla larga del rispetto delle leggi. Per molti pagare le bollette della luce o dell’immondizia significherebbe affondare il bilancio familiare. E quando si guarda con orrore alle palazzine venute su negli anni sessanta, bisogna considerare che per molti quelle palazzine significavano avere finalmente un bagno in casa e una camera per i ragazzi. Il problema è che l’altezza delle case è stata raggiunta senza una parallela crescita del livello di civiltà. Che senso ha avere una casa meno fatiscente se poi la muffa e l’incuria si trasferiscono nella propria testa? Per vincere le elezioni in questi paesi bisogna chiudere più di un occhio, bisogna credere all’incuria, più che alla programmazione.
Sales riconosce onestamente che nei dieci anni in cui ha governato il suo partito non sono riusciti a imprimere una svolta. Adesso però sarebbe possibile, adesso bisognerebbe amministrare questi comuni con la gomma in mano. Proprio di fronte al municipio di Pagani, accanto alla chiesa della Madonna delle galline c’è un’incongrua palazzina, forse un giorno non lontano a qualcuno verrà in mente di buttarla giù e di creare un po’ di vuoto. Qualche tempo fa una piazza adiacente, piazza Corpo di Cristo, fu intitolata a Marcello Torre, il sindaco ucciso dalla camorra, ma la potente chiesa del posto si oppose e la piazza è tornata al suo vecchio nome.
Questi paesi hanno un disperato bisogno di vuoto, ma ancora non lo sanno. Potrebbe sembrare strano che luoghi così rovinati siano sempre più abitati, ma la forza e il sollievo vengono dal fatto che ci si può spostare. In fondo non si sta a Pagani, ma in un posto che è vicino Napoli, vicino Salerno, vicino Amalfi e a Pompei. La statale, l’ autostrada e la ferrovia attraversano il paese, si vive in un a sorta di tapis roulant, un movimento frenetico che non fa nascere l’idea di fuggire da questi luoghi.

Antico Egitto. La prevenzione della necrofilia (Erodoto, II, 89)


Le mogli degli uomini eminenti, quando muoiono, non vengono subito consegnate nelle mani degli imbalsamatori; e neppure quelle che si siano distinte per bellezza, o per maggiore considerazione: solo quando siano, dalla morte, passati tre o quattro giorni le affidano alle loro cure.
E questo per impedire che gli imbalsamatori possano approfittare di tali donne: dicono, infatti, che uno sia stato sorpreso, per denuncia di un compagno di lavoro, mentre si univa col cadavere di una donna morta da poco.

Cultura umana: una radice comune con quella delle grandi scimmie


Su “Le scienze on line” del 24 ottobre 2011, un articolo siglato gg riporta un’importante notizia pubblicata su “Current Biology”. Una ricerca approfondita e ampia sembra dimostrare come gli Orangutan non solo palesino nello spazio diverse organizzazioni sociali e “culture”, ma siano in grado di trasmettere alle generazioni successive innovazioni culturali durature.
Ciò sembrerebbe dare credibilità a una riflessione leopardiana contenuta nello Zibaldone: “Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, né contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all’estensione, e finché vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti. Può servire per la Lettera a un giovane del 20° secolo”.
Purtroppo c’è una regressione che tenderebbe ad accentuarsi, se – com’è possibile – la crisi del modo di produzione capitalistico, che ormai caratterizza tutte le civiltà umane, assumesse caratteri catastrofici. In quel caso più che associare a sé le scimmie, gli uomini potrebbero regredire ai loro livelli attuali. (S.L.L.)


Un'approfondita analisi delle differenze nei modelli comportamentali in nove popolazioni di orangutan indica che esse non sono spiegabili dai soli fattori genetici e ambientali

Negli esseri umani e nelle scimmie antropomorfe la cultura ha le stesse radici evolutive. A dimostrarlo è una ricerca condotta dall'antropologo Michael Krützen, l'Università di Zurigo, che con i suoi collaboratori ha mostrato come le grandi scimmie abbiano non solo la capacità di apprendimento sociale ma anche che le innovazioni comportamentali vengono trasmesse culturalmente da una generazione all'altra per un gran numero di generazioni.
Una decina di anni fa, gli etologi avevano osservato in grandi scimmie allo stato naturale variazioni geografiche nei modelli di comportamento che non sembravano spiegabili se non attraverso la trasmissione culturale di innovazioni, proprio come negli esseri umani. Queste osservazioni hanno innescato un intenso dibattito tra gli scienziati che ha visto contrapposti quanti sostenevano appunto che tali variazioni geografiche costituissero differenti culture e quanti le considerano il risultato di fattori genetici e influenze ambientali.
Nel nuovo studio, pubblicato sulla rivista “Current Biology”, i ricercatori hanno utilizzato il set di dati più grande mai compilato per una specie di grandi scimmie. Hanno analizzato oltre 100.000 ore di dati comportamentali, creato profili genetici di oltre 150 oranghi selvatici e, grazie anche a immagini satellitari e avanzate tecniche di telerilevamento, hanno misurato le differenze ecologiche tra nove popolazioni di orangutan di Sumatra e del Borneo.
"La novità del nostro studio - ha detto Carel van Schaik, uno dei coautori - è che, grazie alle dimensioni senza precedenti del nostro set di dati, siamo stati i primi a misurare l'influenza genetica e dei fattori ambientali sui differenti modelli comportamentali tra le varie popolazioni di oranghi."
Dall'analisi di questa grande messe di dati i ricercatori hanno potuto concludere che i fattori genetici e le influenze ambientali non erano in grado di spiegare i modelli di comportamento nelle diverse popolazioni.
"Sembra che la capacità di agire culturalmente sia dettata dalla lunga aspettativa di vita delle scimmie e dalla necessità di essere in grado di adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali", ha osservato Krützen. "Ora sappiamo che le radici della cultura umana vanno molto più in profondo di quanto si pensasse: essa è costruita su una solida base vecchia di molti milioni di anni e condivisa con le altre grandi scimmie". 
gg) 

25.10.11

La cultura figurativa delle "Operette morali" (di Ippolita di Majo)

Le Operette morali nella messa in scena di Mario Martone
Ippolita di Majo è la studiosa e drammaturga che ha curato la messa in scena di Mario Martone delle Operette morali  di Leopardi che ha debuttato in aprile a Torino e che da lì ha iniziato il giro per vari teatri e sale d’Italia. In questo articolo pubblicato su “alias” il 7 maggio 2011, ella rintraccia nella straordinaria cultura libresca giovanile la fonte principale delle immagini leopardiane e ricostruisce una sorta di “filosofia del vedere”, che accompagna la ricerca del poeta e pensatore di Recanati e culmina nell’idea di uno sguardo raddoppiato sul mondo e i suoi oggetti”. (S.L.L.)
La seconda vista di Leopardi
La parola poetica crea le immagini, diventa lo spazio, la voce è il luogo della scena. La scena teatrale delle Operette morali è un non luogo, uno spazio vago e indefinito come sono i sogni, denso di contenuti, popolato di «sembianze eccellentissime e soprumane», teatro immaginifico e potente di continue apparizioni.
Sono gli amici con cui Leopardi ha diviso il tempo dell’infanzia e della prima adolescenza, abitano le pagine dei libri amorevolmente custoditi negli scaffali della biblioteca di casa e di tanto in tanto prendono forma per intrattenersi con lui in pensieri e conversazioni, come Tasso col suo genio familiare. Sono dèi, spiriti, uomini in carne e ossa, filosofi antichi e moderni, immagini larvali e fantasmatiche in cui Leopardi riversa il suo molteplice ingegno, la sua folgorante ironia; personaggi della fantasia, del mito e della storia che derivano dalla sconfinata conoscenza, dalla curiosità onnivora, dalla frequentazione accanita di testi classici, letterari, scientifici, dal bisogno di fantasticare. I riferimenti iconografici sono semplici, diretti, presi dai libri di casa: l’Iconologia di Cesare Ripa, gli Emblemata dell’Alciato, e poi repertori di ogni genere e illustrazioni di libri di viaggio, pieni di sogni di fuga e di meravigliose scoperte. Quasi mai attinge alle arti visive, sono pochissimi i ricordi figurativi di Giacomo Leopardi nelle Operette morali e quasi sempre vengono fuori dalle pagine dei libri.
Per l’immagine di Giove, ad esempio, nella Storia del genere umano, può aver contato il «cammeo di giove egioco» a cui accenna nei Ricordi d’infanzia e di adolescenza, una «faccia dignitosa ma serena» che conosceva attraverso la tavola nell’antiporta del volume di Carlo Bianconi, Riflessioni sopra un cammeo antico rappresentante Giove. Anche la rappresentazione della Natura nel Dialogo della Natura e di un Islandese ha origine libresca e si compone nella sua mente grazie alla sollecitazione visiva di un’illustrazione del Voyage autour du monde di Jean François La Pérouse e di alcune medaglie antiche racchiuse nell’austero apparato illustrativo del repertorio settecentesco di Joseph Addison (Dialogues upon Usefulness of Ancient Medals, Londra 1726), effigi che solo la sua portentosa e fanciullesca capacità immaginativa poteva trasfigurare e animare.
Non ci sono altri riferimenti figurativi diretti nelle Operette morali, e non bisogna farsi trarre in inganno anche quando alcuni accostamenti a dipinti o sculture sembrerebbero ovvi. Nella battuta conclusiva del Dialogo di un folletto e di uno gnomo, quando il folletto ironizzando sulla totale indifferenza della Terra per la scomparsa dell’intero genere umano fa il paragone con l’impassibile contegno tenuto dalla statua di Pompeo di fronte alla morte di Cesare, non sta pensando al noto dipinto di Vincenzo Camuccini, che non conosceva, ma alle pagine degli storici antichi, a Plutarco, e forse anche a Voltaire, alla sua tragedia La mort de César. E così pure nel Dialogo della Natura e di un’Anima l’immagine indimenticabile dell’Anima giovanetta che chiede inutilmente a sua madre, la Natura, di non destinarla all’infelicità scaturisce dalle impressioni suscitate in lui dalla lettura della favola di Apuleio («la favola di Psiche, cioè dell’Anima, che era felicissima senza conoscere, e contentandosi di godere, e la cui infelicità provenne dal voler conoscere, mi pare un emblema così conveniente e preciso, e nel tempo stesso così profondo, della natura dell’uomo e delle cose, della nostra destinazion vera su questa terra») e non dalla Psiche bellissima e pensosa di Pietro Tenerani, una statua che, al tempo della stesura di quel dialogo, Leopardi non aveva mai vista e che solo più tardi potrà ammirare a Firenze in casa dell’amica Carlotta Medici Lenzoni.
Eppure di opere d’arte ne conosceva. Era appena stato a Roma da dove aveva scritto alla sorella Paolina dell’impressione suscitata in lui dall’immensa cupola di San Pietro: «La cupola l’ho veduta io, colla mia corta vista, a 5 miglia di distanza, mentre io era in viaggio, e l’ho veduta distintissimamente colla sua palla e colla sua croce,come voi vedete di costà gli Appennini». Al fratello Carlo, invece, aveva scritto come si fa tra ragazzi e forse con la volontà di sottrarre un po’ di fascino a quella sua avventura romana, così lontana da casa e dai fratelli: «e certo che il parlare a una bella ragazza vale dieci volte di più che girare come io fo, attorno all’Apollo del Belvedere o alla Venere Capitolina».
E poi c’era Pietro Giordani che non faceva che parlargli, e scrivergli, dell’utilità politica del bello e dei campioni delle belle arti del suo tempo. Attraverso la mediazione appassionata e civile del Giordani, Leopardi imparava ad amare Canova e molte altre cose dell’arte contemporanea e di quella antica. Al tempo del suo arrivo a Roma, nel novembre del 1822, Canova era morto da appena un mese, per pochissimo Leopardi aveva mancato l’incontro con quell’uomo «veramente singolare e grande» che stava al pari di Raffaello e di Michelangelo e si batteva per riportare in Italia le opere d’arte saccheggiate dai francesi di Napoleone: «Che ti dirò di Canova? – scrive all’amico Pietro Giordani – Vedi ch’io sono pure sfortunato, come soglio, poiché quale sperava di conversare intimamente e di stringer vera e durevole amicizia col mezzo tuo, appena un mese avanti il mio arrivo in questa città piena di lui, se n’è morto».
Percorrendo gli scritti di Leopardi alla ricerca di tracce del suo interesse per le arti figurative, ci si imbatte nei nomi di molti altri degli artisti amati dal Giordani, ci sono Vincenzo Camuccini, Gaspare Landi, Giuseppe Bossi, Andrea Appiani, Pietro Tenerani, ma anche gli eroi dell’arte del passato: Correggio, Raffaello, Michelangelo, Guido Reni, Benvenuto Cellini, e perfino un pittore raffaellesco di seconda fila come Innocenzo da Imola, artista caro al Giordani che gli aveva dedicato ben tre discorsi. Scorrendo poi gli «Elenchi di letture» si incontrano i nomi di alcuni tra i principali autori di trattati e scritti d’arte: da Vasari a Bellori, da Algarotti a Orioli, a Cicognara.
La scultura lo appassiona decisamente di più della pittura, forse anche perché per lui il senso della vista è quello vissuto in maniera più dolorosa, legato come è alla malattia e alla sofferenza: «la vista presto si stanca di colori tutti vivissimi, benché e belli e vari», annota il 3 novembre del 1823. Lo sguardo di Leopardi sull’arte e sugli artisti è sempre di tipo critico, letterario; di Raffaello e Michelangelo, per esempio, lo interessa confrontare la capacità di resa delle anatomie e ragionare sulla considerazione che quest’aspetto della loro opera ha avuto nella letteratura successiva: «È curioso che si riprenda (dagli stranieri particolarmente) Michelangelo per aver troppo voluto dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di nasconder sempre questa scienza nell’arte dello scolpire o del dipingere, ed esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla)».
In una delle prime lettere a Pietro Giordani, al quale Leopardi aveva mandato da leggere l’Inno a Nettuno, un testo che il poeta finge di aver tradotto dal Greco, ma che in realtà ha composto lui stesso, c’è un passaggio sul celebre Cupido dormiente di Michelangelo usato come metafora per giustificare agli occhi dell’amico l’escamotage adoperato e la troppa erudizione di quel testo: «Innamorato della poesia greca, volli fare come Michelangelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credea d’antico portò il braccio mancante».
È un passaggio significativo per la comprensione del suo rapporto con l’antico e con le arti figurative. L’uso letterario dell’aneddoto michelangiolesco serve infatti a Leopardi a costruire il registro meraviglioso su cui fonda, con solida consapevolezza, il mito dell’imitazione dei classici. Come Michelangelo e poi come Canova, il giovane Leopardi, filologo accanito, imita quei testi fino allo spasimo e aderisce ad essi con passione per reincarnarne la verità e la bellezza. Gli aspetti teorici del dibattito sulle arti lo interessano in modo particolare e di continuo ne ragiona per iscritto rifiutando di aderire pienamente ai principi dell’estetica neoclassica come a quelli dell’estetica romantica: «pittura, o scultura, o poesia, per bella, efficace, elegante, e pienissimamente imitativa ch’ella sia, se non esprime passione […]è sempre posposta a quelle che l’esprimono, ancorchè con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non possono esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle, e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime per la ragione contraria. Che vuol dir ciò? non è dunque la sola verità dell’imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia sentire gagliardamente. L’uomo odia l’inattività, e di questa vuol esser liberato dalle arti belle. Però le pitture di paesi, gl’idilli ec. ec. saranno sempre d’assai poco effetto; e così anche le pitture di pastorelle, di scherzi ec. di esseri insomma senza passione: e lo stesso dico della scrittura, della scultura, e proporzionatamente della musica».
La musica, arte dell’immaginario per eccellenza, lo colpisce profondamente; sopra tutti gli piace Rossini, le sue opere provocano in lui «effetti veementissimi di commozione»; ama l’allegra malinconia di quel compositore nato così poco lontano da casa sua. «La musica – scrive –, se non è la mia prima, è certo una gran mia passione, e dev’esserlo di tutte le anime capaci d’entusiasmo».
Tornando alle arti figurative, un tema che lo affascina è quello dei sepolcri. Piange davanti al sepolcro di Tasso, «coperto e indicato non da altro che da una pietra», e ne scrive al fratello: «tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua spoltura». Guarda alle antiche vestigia e ai solenni monumenti funerari come a testimoni nobili e silenziosi delle «grandi illusioni onde gli antichi erano governati, e l’amor della gloria che in lor bolliva».
Lui stesso, autore a vent’anni della celebre canzone Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, scriverà più tardi due canzoni direttamente ispirate da monumenti sepolcrali di Pietro Tenerani (Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in atto di partire, accomiatandosi dai suoi e Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima). Immagini e ricordi visivi di sculture e monumenti funebri sono anche nelle Operette morali, ma qui la funzione dei sepolcri di eternare la virtù e di proporla come monito ai viventi è richiamata in chiave decisamente ironica, rovesciando il canone romantico in favore di un registro schiettamente comico e fantastico. Nel Dialogo di Timandro e di Eleandro, per esempio,
Eleandro discute sarcasticamente «Circa la perfezione dell’uomo», alla quale non vuole e non può credere, e finisce con l’affermare, con grande ironia e gusto del paradosso, di voler lasciare per testamento la propria «roba ad uso che quando il genere umano sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblicamente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzato un tempietto all’antica, o una statua, o quello che sarà creduto a proposito». Nell’incredibile finale del Dialogo della Natura e di un Islandese, invece, il registro comico si nutre di panorami ampi e indeterminati, di elementi naturali incontrollabili e del richiamo fantastico alle sepolture dell’antico Egitto, e così l’Islandese, travolto dall’intensità del suo stesso disperato soliloquio, scompare poco a poco sepolto
nella sabbia: «un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città di Europa».
Diverso è il caso del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, un testo indimenticabile per visionarietà, densità argomentativa e ironia. Qui Leopardi pur conoscendo esattamente, attraverso l’éloge de monsieur Ruysch di Fontenelle, il contenuto del gabinetto di curiosità del grande scienziato e imbalsamatore olandese – «si abondant e si riche, qu’ont l’eùt pris pour le Trésor d’un Soverain» – non indugia neanche un attimo sulla descrizione di quegli oggetti e di quelle mummie: niente piante rare, niente conchiglie, né rami di corallo o animali strani, niente mirabilia,ma solo voci, parole di straordinaria sostanza lirica. La scena è ridotta all’assoluto di una visione interiorizzata, un paesaggio dell’anima, allo stesso tempo macabro e sublime.
Sono immagini straordinarie che derivano a Leopardi dalla cultura erudita e letteraria di cui si è nutrita la sua fantasia di ragazzo, e vengono poi trasfigurate con un procedimento creativo ed emotivo descritto lucidamente negli appunti: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono di una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita [... ]che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione». Sono di questa seconda natura le immagini delle Operette morali: «doppie», arcaiche, immagini che rimandano a un altrove fortemente simbolico e a volte perturbante. Rapportarsi a Leopardi vuol dire provare a lasciare lo spazio perché quei paesaggi dell’anima possano ancora affiorare.

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