31.7.15

Aldo Capitini. Memoria di un maestro (Pio Baldelli)

Ho conosciuto Aldo Capitini quando ancora ero un ragazzo: avevo sentito parlare di lui come di un uomo speciale, una specie di "saggio". Incuriosito, un giorno andai a trovarlo a casa sua e gli chiesi il permesso di seguire le sue lezioni. Dopo un breve colloquio, Capitini mi accettò come allievo-uditore. Quel giorno segnò una svolta nella mia giovane esistenza, incupita dal ricordo di un'infanzia difficile, tra una madre premurosa ma sempre alle prese con la penuria e un padre incattivito dall'abuso del vino.
Oltre che maestro e amico, Capitini divenne presto per me il padre che mi era mancato, e la sua cella-studio mi fece da seconda casa.
Seguivo le sue lezioni, accoccolato in un angolo di quella stanza situata nella torre campanaria del Palazzo Comunale di Perugia. Qui viveva Capitini, mite e fermo antifascista in un mondo di facinorosi aggrappati al potere. Il partito fascista lo aveva sospeso dall'insegnamento all'Università di Pisa in quanto era tra i pochi docenti che avevano rifiutato le regole e la tessera del regime.
Viveva come "sorvegliato" dalla polizia fascista e doveva campare modestamente di lezioni private: tuttavia - benché avesse conosciuto persino il carcere - non ho mai visto in Capitini segni di timore e di cedimento.
Nel piccolo spazio dello studio, alto su Perugia, si avvicendavano non solo gli allievi, ma anche le visite degli amici più cari: Walter Binni, Alberto Apponi, Ernesto Buonaiuti e, via via, tanti altri. Dal mio "osservatorio" nell'angolo mi sembrava di veder passare l'universo della cultura e dell'intelletto che ruotava attorno alla figura dell'amico paterno Capitini.
Dormivo spesso nella vecchia cucina e, ogni tanto, aiutavo l'anziano padre di Capitini a suonare le campane della torre. Il vecchio Capitini era infatti il "campanaro" del Comune, e in quell'epoca le campane si suonavano ancora tirando le corde a mano, cosa che richiedeva forza e abilità, per non beccarsi delle violente (e magari disastrose) "scampanate" in testa. In questo modo, non solo divenni allievo e amico filiale di Aldo Capitini, ma anche l'apprendista-campanaro per suo padre.
La coerenza di cui il mio maestro aveva dato prova con la ferma opposizione nonviolenta al fascismo, si manifestava anche in fatti e atteggiamenti apparentemente secondari ma proprio per questo particolarmente significativi.
Capitini era infatti rigorosamente vegetariano: senza arrivare all'estremismo di chi rifiuta addirittura prodotti di origine "animale" come uova e formaggi, si asteneva comunque da ogni tipo di carne e pesce.
La morte e la sofferenza degli animali gli risultavano inconciliabili con l'ideale della nonviolenza che, lungi dal ridursi ad una teoria utopica, significava per lui esempio e pratica quotidiana, da vivere ad ogni livello.
Non alto, ma forte di costituzione, Capitini era un vigoroso camminatore. Amava le lunghe passeggiate nella campagna aperta e il suo entusiasmo non tardò a contagiare il giovane allievo che ero io. Il gusto per la natura e le camminate all'aria libera imparato da Capitini mi accompagna ancora, anche se sul piano della resistenza ho perso qualche colpo. E guardo con affetto - e quasi con tenerezza - una foto datata 1960, pubblicata dieci anni fa nel volume Sessantotto-mostra foto documentaria (Libreria Rinascita, Firenze), a pagina 50, in alto: rappresenta un momento della Marcia della Pace, con Aldo Capitini in primo piano, sotto un grande striscione che recita: "Marcia della Pace - per la fratellanza dei popoli, Perugia-Assisi". Lo striscione è retto da due giovani: ignoro il nome di quello a sinistra, con la faccia in ombra, ma conosco bene quello a destra - sono io.. Alle nostre spalle, la folla dei "marciatori" si snoda sullo sfondo della bella campagna umbra.
La nascita del COS (Centro di orientamento sociale) mi vide sempre al fianco di Capitini: il maestro mi affidò addirittura parte dell'organizzazione. I "lunedì del COS", svolti in un ambiente del Palazzo Comunale (Sala dei Notari- N.d.R.), divennero presto una vera e propria istituzione della vita sociale di Perugia. A settimane alterne si trattavano temi di vita quotidiana cittadina e problemi nazionali e internazionali.
La gente affluiva numerosa, partecipava con vivo interesse al dibattito: molti che, in passato, non avevano mai avuto modo di esprimere in pubblico il proprio punto di vista su vicende politiche o economiche, imparavano a prendere la parola, a perdere il timore della "brutta figura" di fronte agli altri, a sviluppare il giudizio critico, a dare un contributo personale alla vita pubblica.
Intervenivano studenti e insegnanti, ma anche casalinghe, lavoratori e pensionati: il COS non solo "informava" su quanto stava accadendo a Perugia, in Italia e all' estero, ma, soprattutto, "formava" i cittadini di ogni estrazione sociale educandoli alla partecipazione alla "res publica" e al rispetto dell'opinione altrui. In questo senso, i "lunedì del COS" voluti da Aldo Capitini erano lezioni di nonviolenza e di democrazia.
Nei lunghi anni d'insegnamento universitario ho colto ogni occasione per far conoscere agli studenti la figura e l'opera del mio maestro e amico paterno. Parlando della mia esperienza personale e leggendo brani di qualche opera significativa (ad esempio Le tecniche della nonviolenza) ho tentato di avvicinarli - almeno alcuni di loro - ad un messaggio che, alla luce delle convulsioni del mondo contemporaneo, appare più vitale e necessario che mai.
La nonviolenza insegnata da Capitini resta forse l'unica bussola capace di guidarci moralmente indenni fuori dai meandri di questo fine secolo.

micropolis, maggio 1998

30.7.15

Giorgio Luzzi: Cantiga per Sanguineti (con una nota d'autore)

Enas ribas do lago, u eu vi andar…"
All’hotel “Sponda d’Acheronte” stanno
lì in piedi col dispaccio Ansa
cambiando biancherie, aerando stanze. Il lago
tarda a incresparsi sotto il tuo minimo peso,
non più di una piuma sulla pece. Pronto
quel mezzo bicchiere di bianco, come sempre.
Intanto sto tornando a casa con la mia scorta d’avena
pennello per le arterie. Trovo, a muro,
vecchi post-it mischiati a foto ormai imbarcate:
“Do you like Satie?”. “Bien sûr!”, mi rispondo da anni.
Poi gli anni, via via, diventarono mesi, le arterie ti si allargarono
come strade sciancate da carri di letame. Scrutavamo
a solecchio, astuti marinari, i giorni.
“Maggio è alla fine, allegri!”. C’era
però quell’io tuo che fu sempre un io e in realtà
parlava di tutt’altro, farsi mostro, only you,
per sconfiggere il mostro. Segnale incontestabile
che l’ego può diventare il grande rene, regolatore
di scorie e luce, di proprio e altrui. E infatti tu, Edoardo,
non avevi un’anima, per nostra fortuna. Non so se a altri
sia mai riuscito: chiudere tutto il corpo nella storia,
tutta la storia nel corpo, chiamare Io questo complotto,
poi mettersi da parte, assistendo all’aurea farsa:
il mondo farsi beffe di se stesso.
Giorgio Luzzi
NOTA. Ho scritto questi versi l’indomani della notizia della morte di Sanguineti. Da qualche tempo avevo ripreso a ascoltare le cantigas, antiche melopee protovolgari di area iberico-lusitana del tredicesimo secolo: preghiera, lutto, lontananza. La musica di Satie, viceversa, è tutta l’opposto: irriverenza, quotidianità, carnalità, sperimentalità. Di certo deve essere stata nell’orizzonte di interessi (ma che cosa non lo è stato?) di Sanguineti. In questo mio testo lui compare nella seconda parte e si impadronisce del discorso lasciando parlare me: la religio dell’enciclopedismo, la dialettica dell’eccesso come sguardo simbolico su una forma trascendentale che ha sempre l’umano come fine, l’ego come avanguardia dell’agire storico e carica testimoniale di denuncia permanente. Applicata a noi poeti come sguardo operativo, questa prospettiva dell’io è esattamente l’opposto di ogni conforto autobiografico: è un io prestato alla fase dialettica della negazione. Pensiamoci, d’ora in poi, quando ci rimetteremo a scrivere.


L'Indice, luglio-agosto 2010

1998, censura ad Assisi. Anticomunismo o sessuofobia? (“micropolis”)

Ad Assisi, come si spiega in un'altra parte del giornale, un gruppo di artisti, di intellettuali, di giovani entusiasti, coordinato da Claudio Carli, pittore di un certo nome e promotore di cultura, realizza una mostra originale, per contribuire al rilancio culturale e turistico della città in un momento difficile della sua storia. "Assisi, città delle lettere" si intitola e consiste nella collocazione nei luoghi più significativi della città di pannelli con brani epistolari, d'autore e non, per varie ragioni interessanti corredati da immagini e disegni. Il finanziamento è di singoli cittadini e di associazioni, il Comune ha promesso di dare qualcosa, ma ci sono fondati dubbi che non manterrà. Un esempio, dunque, di civismo e di volontariato.
Ma le cose non vanno bene così. Tra le lettere ce n'è una di Antonio Gramsci che parla di rivoluzione, illustrata da una immagine di "Che" Guevara e ce n'è un'altra di un medico di "Medicina senza frontiere", una donna che al proprio amato lontano descrive, peraltro in maniera molto leggera, il proprio culo, illustrata da un disegno di nudo posteriore.
Non si sa bene quale delle due scateni per prima l'ira furente dell'assessore Ferrini, se sia il rosso a farlo diventare un toro o se sia travolto da una crisi di sessuofobia. Certo è che il Ferrini attacca e censura, dichiara senza tema che tutto ciò è incoerente con la seraficità del Poverello.
Ci si consenta un'obiezione ed un'argomentazione per assurdo. Si sarebbe tanto offeso l'assessore se la donna avesse descritto il proprio viso e se il disegno avesse rappresentato i suoi occhi? Crediamo di no. 
Ma San Francesco, quando diceva "godi, fratello corpo", non crediamo che separasse le parti del corpo in gerarchie e possiamo ipotizzare che, essendo il propugnatore dell'umiltà, se proprio avesse dovuto indicare una preferenza, avrebbe scelto le parti basse. E poi anche l'occhio vuole le sua parte e un bel sedere è un bel vedere assai più di certe facce (o ceffi?).

micropolis, gennaio 1998 - Rubrica "Il piccasorci"

L'eterna giovinezza (Franco Fortini)

"Prolungata da interminabili precariati, l'adolescenza si sfiocca e precipita in forme di atonia, ripetizione, futilità; anticipi di vecchiaia. Caricatura dell'uomo del futuro (disegnato, forse per scherzo, da Marx) che avrebbe dovuto alternare varie attività nella sua giornata, i lavori saltuari non consentono alcuna professionalità".

 Da Insistenze, Garzanti, 1986

"La Settimana enigmistica", democratica e conservatrice (Luciano Del Sette)

In occasione degli 80 anni della Settimana Enigmistica, il magazine del "manifesto", "Alias", dedicò una serie di servizi al popolare periodico. Riprendo qui l'articolo introduttivo di Luciano Del Sette e un piccolo box. (S.L.L.)
Ottant'anni fa, 23 gennaio 1932, primo decennio dell'Italia fascista. Lo stipendio di un operaio ammonta a 300 lire, quello di un impiegato tra le 300 e le 600, un dirigente riscuote l'ambito salario di lire mille, che Gilberto Mazzi, nel 1939, metterà in musica con Se potessi avere mille lire al mese, sogno economico piccolo borghese. Il conto della spesa è di una lira e 73 centesimi per il pane, 80 centesimi per il latte, un paio di lire per un chilo di pasta. Un pollo, autentico lusso, costa dieci lire. Piccoli vizi come il caffè al tavolino di un bar si pagano 2 lire e cinquanta; un posto al cinema, una lira in meno. Le trasgressioni amorose comportano multe severe comminate dal moralismo di regime: 10 lire se baci in pubblico la fidanzata e persino la moglie. Così va la vita anche quel 23 gennaio 1932, ottant'anni fa, quando, chi abitualmente fa sosta all'edicola per acquistare un quotidiano, si sente apostrofare dal giornalaio, «Guardi cosa è uscito!», oppure nota, tra le altre messe in fila sulle rastrelliere, una nuova rivista che ha in copertina un cruciverba con il ritratto di Lupe Vélez, star messicana di Hollywood. Sedici pagine, cinquanta centesimi, giorno di uscita il sabato, si chiama “La settimana enigmistica”, sottotitolo «periodico di giochi, enigmi, parole crociate, scacchi, dama, bridge, sciarade, ecc.». L'ha inventata, a Milano, nella redazione di piazza Cinque Giornate, il nobiluomo Giorgio Sisini di Sorso, già Conte di Sant'Andrea, che la dirigerà fino alla sua morte, il 21 giugno 1972. Gli succederanno alla direzione Raoul de Giusti, e poi un discendente della famiglia, Francesco Baggi Sisini. Il successo è immediato, la Settimana diventa appuntamento fisso per decine di migliaia di enigmisti in erba o navigati. Ogni tentativo di scimmiottarla si rivelerà vano, e sulla prima pagina, in alto, anni dopo, compariranno a turno due orgogliose dichiarazioni: «La rivista che vanta innumerevoli tentativi d'imitazione», «La rivista di enigmistica prima per fondazione e per diffusione». Le pagine aumenteranno, fino a divenire le quarantotto che ancora oggi continuano a scandire la sequenza di parole crociate, giochi enigmistici variamente complicati (alcuni a premi), quesiti basati sulla logica matematica, rebus, quiz polizieschi (Proteus, Il signor Brando in Suspense!) e legali (Se voi foste il giudice), le domande di cultura dell'“edipeo enciclopedico”, aneddoti e barzellette, rubriche per i piccoli lettori.
Ligia fin dalla nascita alla regola di non accettare alcuna pubblicità la Settimana si limita tuttora a riprodurre le immagini dei premi in palio per giochi quali Il quesito con la Susi e Il corvo parlante. Bisognerà aspettare il 1995 perché il colore faccia la sua comparsa, interrompendo l'egemonia del bianco e nero, comunque con misura. Cambia, poi, anche il giorno di uscita. Dal sabato si passa al venerdì, e infine al giovedì. Gli inevitabili compromessi richiesti dai Tempi Moderni impongono un sito internet. Ed ecco, allora, Aenigmatica II Sudoku impazza. Va bene, ma a patto di essere i migliori con Mondo Sudoku. Arrivano anche gli spot radiofonici e televisivi. Il 31 luglio 2010, numero 4088, si infrange un mito, quello dell'infallibilità. Ai redattori, più maniaci che puntigliosi nel leggere e rileggere le pagine, scappa un refuso, il primo da settantotto anni. Nella barzelletta dell'ultima pagina, la didascalia recita «possono testimoniano», anziché «possono testimoniare». Inutile dire che la svista fa il giro di tutti i blog, finisce nei notiziari tv, trova ampia eco sui giornali. E questo non fa altro che confermare la celebrità della Settimana, un gigante in termini di vendite, tra le ottocentomila e il milione di copie ogni numero, cui soltanto “Famiglia Cristiana” tiene testa. Ma per il periodico fondato dal Cavalier (e altri titoli a seguire) Giorgio, le parrocchie sono le edicole: nelle città nei paesi, nell'unica rivendita di giornali di un borgo, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti. Il giovedì, la pila della Settimana è in bellavista, a farsi beffe persino dei giornali di pettegolezzi più diffusi. E se arrivi il pomeriggio, dovrai aspettare il giorno dopo per farla tua. Conservatrice, e involontariamente democratica, la Settimana Basta mettersi su un treno per averne prova. Durante un giro lungo i vagoni, la si vede sul tavolino che sta di fronte a un'anziana signora armata di matita e gomma per cancellare, a un giovane con l'ipod nelle orecchie, a un uomo di affari che provvisoriamente si astiene dagli impegni di lavoro, a un capotreno che ci si tuffa dentro fra una stazione e l'altra. Buon compleanno, vecchia i signora nata con una faccia un po' triste, che ci hai fatto combattere con le diaboliche definizioni delle parole crociate a schema libero di Piero Bartezzaghi e Giancarlo Brighenti, che ci fai dannare per colpire il centro enigmistico del Bersaglio, che ci sorprendi a balbettare a mezza voce la soluzione di un rebus, che ci spremi gli occhi con Aguzzate la vista, che hai fatto della Susi con il suo quesito una Dorian Gray in pantaloni neri e maglietta a righe, che non sei mai riuscita a farci ridere davvero con le tue barzellette, che ci mandi in paesi mediamente orribili con «Una gita a...», che ci hai interrogato ben prima di Lascia o Raddoppia con domande astruse da vecchio professore di liceo. Buon compleanno, vecchia signora. E continua così.
RIGORE MATEMATICO. La Settimana cataloga, attraverso numeri progressivi, tutti i suoi quesiti e tutte le sue voci. La cifra che compare sulle parole crociate della prima pagina, in alto a sinistra, indica il numero complessivo dei giochi pubblicati. Fino al 1995, la numerazione continuava nelle pagine interne. A partire dal 1995, i giochi interni vengono contrassegnati da un numero composto come segue: le prime due cifre corrispondono alle ultime due del numero della rivista, le altre dal numero d’ordine che quel gioco ha nella rivista, con uno zero riempitivo per i primi nove.

"alias - il manifesto", 21 gennaio 2012 

Le basi strutturali del razzismo (S.L.L. - da "micropolis" luglio 2015)


Non è difficile individuare e riconoscere elementi razzistici nella campagna che Lega, Casa Pound, Forza Italia e altri stanno conducendo in questa caldissima estate contro gli immigrati, facendo un fascio di questioni che sarebbe ragionevole esaminare ordinatamente, con tutte le distinzioni del caso: nuovi sbarchi con i connessi problemi di accoglienza, campi rom, immigrati irregolari che tolgono lavoro e regolari che tolgono la casa, terrorismo islamico, rapine. Tutto fa brodo. Cascami razzistici si avvertono peraltro anche dove non si connettono ad una organica impostazione ideologica: negli allarmi di certi sindaci Pd come in certe sparate di Grillo (sul finire di giugno, per rivendicare elezioni immediate prospettava il rischio che Roma fosse sommersa da "topi, spazzatura e clandestini").
Le denunce di codeste ambiguità come della esplicita xenofobia della destra si fanno sempre più deboli; qualcosa è cambiato nel modo di pensare del popolo minuto e contano sempre meno le tradizioni in cui ci si riconosceva: l'ecumenismo caritatevole dei cattolici o l'internazionalismo del movimento operaio socialcomunista. 
Probabilmente non esiste una grave "emergenza immigrati" sul piano statistico: nonostante la crisi libica, il numero degli arrivi pare non superi di molto quello degli anni passati; ma qualcosa si è rotto nella coscienza dei cittadini più deprivati, di quelli più bisognosi di lavoro e di reddito. Non è possibile, del resto, far crescere a dismisura e senza conseguenze una presenza di "irregolari" ricattabili nel mercato del lavoro, soprattutto in un paese dove i controlli erano rari già prima e sono stati resi quasi inutili da una legislazione sempre più permissiva a favore dei datori di lavoro. Ed è ridicolo pensare – come un tempo si diceva - che gli immigrati irregolari facciano solo lavori che gli italiani non vogliono più fare: dopo l'esplosione della crisi si trovano italiani disposti a fare qualunque lavoro. Caso mai è vero che l'irregolare è talora disposto ad accettare condizioni di sfruttamento inverosimili per garantirsi una sopravvivenza.
In verità la contemporanea esistenza di un “esercito di riserva” di immigrati e di un doppio mercato del lavoro ha agevolato la sottrazione massiccia di redditi e di diritti, ha favorito una devastazione. E la rabbia per una concorrenza giudicata sleale, per una specie di crumiraggio che, quando non toglie il lavoro, ne peggiora le condizioni, si trasforma, passo dopo passo, in xenofobia, bellicismo e razzismo.
Nel marzo del 1870 Marx, in una Comunicazione confidenziale al Consiglio Generale della Prima Internazionale, spiegava che “il comune operaio inglese odia quello irlandese in cui vede un concorrente che comprime i salari e il livello di vita”... ”. Qualche settimana dopo, in una lettera a due attivisti dell'Internazionale, Vogt e Meyer, scendeva nei dettagli: “Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, i proletari inglesi e i proletari irlandesi. L'operaio inglese medio odia l'operaio irlandese come un concorrente che abbassa il suo livello di vita. Rispetto al lavoratore irlandese egli si sente un membro della nazione dominante... Si nutre di pregiudizi religiosi, sociale e nazionali contro il lavoratore irlandese. La sua attitudine verso di lui è molto simile a quella dei poveri bianchi" verso i "negri" degli antichi Stati schiavisti degli Stati Uniti d'America... Questo antagonismo, artificialmente mantenuto e intensificato dalla stampa, dagli oratori, dalle caricature, in breve da tutti i mezzi di cui dispongono le classi dominanti, è il segreto dell'impotenza della classe operaia inglese...”.
Qualche anno dopo, in occasione della guerra russo-turca, debuttò nel movimento operaio inglese una corrente chiamata gingoismo: chiedeva al governo inglese di dare addosso ai russi, ma anche agli irlandesi, agli asiatici, con tutti i mezzi disponibili e fu particolarmente attiva durante la guerra contro i boeri. Hobson, lo studioso “fabiano” che studiò tra i primi l'imperialismo lo definì “un cieco impulso di odio e di vendetta suscitato artificialmente”. Il movimento operaio inglese, in ogni caso, ne uscì quasi distrutto.
Pare che il nome venisse dall'espressione “by Jingo”, un intercalare che può rendersi “per Giove!”, contenuta in una canzoncina diffusa in birrerie e music-hall in quel 1877, per rivendicare l'intervento inglese nella guerra in atto a fianco dell'Impero Ottomano. Faceva così: “Noi non vogliamo combattere / ma se - by Jingo! - dobbiamo farlo / abbiamo navi e abbiamo cannoni / abbiamo denaro”. L'Italia d'oggi di denaro non ne ha molto, ma sotto traccia una grande guerra è già in atto nel mondo e dalle guerre i governanti italiani sono stati sempre attratti. La loro “tentazione muscolare” potrebbe sposarsi con la velleità “popolare” di ricacciare in Africa i barbari invasori. Ne nascerebbero disastri.

Nella rubrica La battaglia delle idee  

29.7.15

Cristianesimo e impero romano (Friedrich Engels)

Il confronto (indiretto) tra cristianesimo e socialismo qui proposto da Engels contiene implicazioni che solo la variante stalinista del marxismo ha valutato in tutta la loro portata: un grande moto e un grande partito di rivoluzione sociale non possono realizzare i loro obiettivi se non sanno diventare “religione popolare”, se non permeano di sé la vita quotidiana, se non producono fede, ritualità, capacità di testimonianza, che a volte giunge fino al martirio.
Quella variante tuttavia, insieme alle potenzialità implicite nella modificazione (un “partito capace di aderire a tutte le pieghe della società” diceva Togliatti, nell'elaborare la via italiana allo stalinismo), conteneva il rischio di una chiesa dogmatica e autoritaria governata da una burocrazia clericale (i preti rossi). Ne derivarono degenerazioni che alla lunga hanno fatto morire di asfissia il progetto di trasformazione egualitaria del mondo iniziato con la Rivoluzione russa. Perfino il Partito fascista e il Partito nazionalsocialista poterono far proprie, da destra, con basi sociali e progetti assolutamente divergenti, alcune caratteristiche di quel modello, caso accentuando il fideismo acritico fino al “Duce tu sei la luce” o alla elaborazione di Credo e catechismi.
La domanda che qui propongo è se non sia possibile un “socialismo” come “religione aperta”, secondo la felice formula di Capitini, o se non sia piuttosto necessario, cosa assai più difficile, fare come diceva Leopardi, cioè portare la “filosofia”, il pensiero che critica le religioni, tra il “volgo”, in modo che diventi senso comune e alimenti l'onesto e retto conversar cittadino, la giustizia e la pietade. (S.L.L.)

Sono passati quasi esattamente 1.600 anni da quando nell'impero romano agiva ugualmente un pericoloso partito sovversivo. Esso minava la religione e tutte le basi dello Stato; esso negava per l'appunto che il volere dell'imperatore fosse la legge suprema; esso era senza patria, internazionale; si estendeva in tutte le terre dell'impero, dalla Gallia all'Asia, e al di là dei confini dell'impero. Esso aveva fatto per un lungo periodo di tempo un lavoro segreto, sotterraneo, di disgregazione; ma da parecchio tempo già si sentiva abbastanza forte per mostrarsi alla luce del sole. Questo partito sovversivo, conosciuto col nome di cristianesimo, era anche fortemente rappresentato nell'esercito: intiere legioni erano cristiane. Quando erano comandate a prestar servizio d'onore alle cerimonie dei sacrifici della Chiesa di Stato pagana, i soldati sovversivi spingevano la temerità sino a porre sui loro elmi in segno di protesta dei distintivi particolari: delle croci. Persino le abituali vessazioni di caserma dei superiori erano vane.
L'imperatore Diocleziano non poté più assistere passivamente al modo come l'ordine, l'obbedienza e la disciplina venivano minali nel suo esercito. Egli prese misure energiche, mentre vi era cui cora tempo. Promulgò una legge contro i socialisti, volevo dire contro i cristiani. Le riunioni dei sovversivi vennero proibite; i loro locali vennero chiusi o addirittura demoliti; i distintivi cristiani, croci, ecc., vennero proibiti come i fazzoletti rossi in Sassonia. I cristiani vennero dichiarati incapaci a coprire cariche di Stato; essi non potevano nemmeno essere caporali.
Siccome allora non si disponeva ancora di giudici cosi ben addestrati alla « considerazione delle persone », come li prevede il disegno di legge del signor von Koller si proibì puramente e semplicemente ai cristiani di domandar giustizia davanti ai tribunali. Anche questa legge eccezionale rimase senza effetto. I cristiani la strapparono dai muri per scherno; anzi, si dice che a Nicomedia essi avrebbero incendiato il palazzo in cui si trovava l'imperatore. Allora questi si vendicò con la grande persecuzione dei cristiani dell'anno 303 dell'era nostra. Essa fu l'ultima del genere. E fu cosi efficace che diciassette anni dopo l'esercito era composto in gran maggioranza di cristiani, e che il successivo autocrate di tutto l'impero romano, Costantino, dai preti detto il Grande, proclamò il cristianesimo religione dello Stato.


Da Marx ed Engels, Scritti scelti, Editori Riuniti, 1966

Caponata di melenzane

Ingredienti e dosi per 6 persone
• tre melenzane medie, viola, rotonde (all'incirca un chilo)
• un mazzo di sedano, meglio quello piccolo e più aromatico
• un vasetto da 50 o 60 grammi di capperi sotto sale
• un etto di olive verdi disossate
• 1 bicchiere (180 ml) di semplice salsa di pomodoro già preparata
• Circa 150 ml (ma la dose è indicativa) di aceto bianco da diluire con circa 80 ml di acqua.
• 4 cucchiai circa di zucchero bianco
• olio d'oliva 80 ml. Più quello necessario alla frittura delle melenzane
• sale q.b.

Preparazione
Mettere sotto sale per almeno un’ora le melenzane tagliate a disco e sistemarle con un peso sopra in modo da agevolare la perdita del liquido amaro. Prendere il mazzetto di sedano, togliere le foglie più dure e lasciare il tenero, insieme ad un po’ di foglie. Lavare bene i capperi, un vasetto sotto sale. Sciacquare per bene e lasciarli in acqua fredda per un'ora almeno. Sciacquare le olive verdi disossate.
Ridurre le melenzane a dadini e friggerle in olio di oliva bollente che interamente le ricopra, in modo che risultino tenere e croccanti. Conservandole in un piatto con la carta assorbente.
Sottoporre il sedano a dadini, i capperi, le olive a una brevissima precottura (5 o 6 minuti in acqua bollente). Separatamente. Poi asciugare bene e soffriggere insieme a fuoco basso (ma non troppo – devono indorarsi senza perdere acqua). L'ideale è un padellone bombato. Aggiungere le melenzane fritte. 
Intanto, in un bicchiere grande, avrete diluito l’aceto di vino bianco con l'acqua e aggiunto lo zucchero, mescolando bene. L’unico modo per dosare esattamente è “assaggiare!”. Lo zucchero non deve prevalere, ma si deve sentire. Tre o quattro minuti dopo le melenzane versare nel padellone il contenuto del bicchiere, alzando la fiamma per fare evaporare. Aggiungere dunque la salsa di pomodoro e, dopo aver mescolato, far sobollire per 5 minuti a fuoco medio-basso.
Versare il tutto in un contenitore di vetro o ceramica e fare freddare. Mia madre avverte che, se si assaggia quando è ancora caldo, si sente troppo l’aceto e il tutto non risulta bene amalgamato. Bisogna far freddare con pazienza e servire almeno dopo 6/8 ore. Meglio dopo un giorno di frigorifero.

P.S.
La ricetta è quella di mia madre, con una marginalissima variante legata ai miei gusti. Ho preferito la forma meno usata del plurale di melanzana, perché rammenta il carattere composito del nome (“mela insana”) e fa meglio risaltare la tradizione agricola mediterranea che con le sue selezioni e ibridazioni ha trasformato un ortaggio indigesto e talora tossico in una grande risorsa culinaria e gastronomica. (S.L.L.)

27.7.15

1942. Una perquisizione politica in casa di Luigi Russo

Luigi Russo, in una cartolina del 6 novembre 1942 diretta al suo allievo Walter Binni, commentando una imprecisata disavventura del comune amico Aldo Capitini, che era stato arrestato e rilasciato a Firenze nel gennaio, parla di una “grossa noia, analoga” che egli stesso aveva avuto “chiusasi felicemente nel giro di tre ore e mezza”. Per Lanfranco Binni e Raffaele Ruggiero che hanno curato la pubblicazione del Carteggio Luigi Russo – Walter Binni (Edizioni della Normale, 2014) potrebbe riferirsi alla perquisizione della sua casa il 14 aprile di quell'anno, sulla quale scrive nello stesso giorno in una lettera indirizzata ad Adolfo Omodeo e tuttora inedita (il carteggio Russo-Amodeo è in preparazione).
Binni e Ruggiero ne pubblicano in nota il frammento che qui riporto, dimostrativo delle qualità di scrittore del grande italianista di Delia, maestro anche di ironia. (S.L.L.)
Luigi Russo in una foto del 1941
Io penso che questa perquisizione abbia avuto uno scopo esplorativo. Poiché mi dicono che ci sono stati degli arresti a Bari, devono aver voluto indagare su me direttore degli Scrittori d'Italia. Tutto sommato, io sono stato contento di questa esplorazione che ha sventato qualsiasi possibile diceria sul mio conto. Oggi le dicerie sono un po' su tutti. Il contegno del commissario e degli agenti è stato sempre gentilissimo, e direi, perfino, amabile. La mia tranquillità deve averli persuasi che si trovavano di fronte a un uomo, che non aveva da nascondere nulla. Hanno rovistato anche il mio portafoglio, e vi hanno trovato trenta lire, dei biglietti da visita, e l'abbonamento ferroviario. Poi hanno finito con l'ammirare la mia biblioteca. Hanno esplorato le camere delle figliuole, e io speravo che venisse fuori qualche lettera d'amore. Nemmeno quelle! La camera di Lallo (il nome familiare di Carlo Ferdinando, n.d.r.) e lì son saltati fuori fogli e fogliacci del filologo classico novizio. "Ma come? Scrive anche il suo figliolo?". "In questa casa scriviamo tutti!". Venne fuori una lettera di Alda (Croce, n.d.r.), e stupirono nel sentire chi era. "Scrive anche questa signorina?". "Anche questa signorina! E' un'assai valente ispanista e ha pubblicato un bel volume sul teatro dell'Ottocento!". Ti racconto questi particolari perché tu ti renda conto come tutto è finito in nulla.

La poesia del lunedì. Hsu Chi Mo (1897 - 1931)

Nuovo addio a Cambridge
Sottovoce, me ne vado via così come sono venuto.
Sottovoce agito la mano
che dice addio alle nubi dell’Ovest.

Lungo le sponde del fiume i salici d’oro sono giovani spose nel tramonto.
Le loro figure, delicate nell’onda luminosa,
si cullano anche sul mio cuore.
Le lemne che crescono nel limo
oscillano tutte verdi nell’acqua.

Come vorrei in queste molli onde del Cam
essere un’erba acquatica.
Sotto le foglie degli olmi lo stagno
non è pura sorgente; l’arcobaleno
si frantuma fra le alghe
e vi depone un sogno variopinto.
Andare alla ricerca di quel sogno? Con un lungo ramo
remo verso la più verde delle erbe.
E ben presto la mia barra si carica di luci di stelle
su cui ho voglia di cantare a piena voce.

Ma non posso cantare a voce spiegata;
sottovoce, ecco i flauti dell'addio.
Anche gli insetti dell'estate tacciono per me,
silenzioso è il Cambridge di questa sera.
Sottovoce me ne vado via,
cosi come sono venuto.
e scuoto le mie maniche
per non portarmi via neanche una nuvola.

Postilla
Riprendo la poesia da “l'Unità”, 16 luglio 1957, che – come anteprima – pubblicò alcuni testi dalla Antologia della poesia cinese dalle origini ai nostri giorni, a cura di Patricia Guillermaz (edizioni Seghers). Il poeta Hsu Chi Mo (la grafia oggi prevalente è Xu Zhimo) soggiornò per un paio di anni negli Stati Uniti, che alla fine trovò “insopportabili”, e subito dopo, nel 1921-22, studiò nel Collegio Reale di Cambridge, ove si appassionò alla lirica romantica inglese. (S.L.L.)

26.7.15

Caltanissetta, luglio 1957. L'arresto di Peppe Di Cristina ("l'Unità")

Da caporale a boss
In una antica pagina di cronaca da "l'Unità" (16 luglio 1957), trovo casualmente la notizia di un arresto nel Nisseno: alcuni mafiosi praticavano il caporalato per le assunzioni in una importante miniera di zolfo. La vicenda è emblematica, anche perché segnala un legame storico tra mafia, Democrazia Cristiana e Cisl.
Il nome dell'ultimo arrestato è famoso. Giuseppe Di Cristina, dopo un periodo di confino a Torino negli anni 60, con la copertura dell'impiego come dipendente nella società mineraria della Regione (SOCHIMISI – Società chimico mineraria siciliana), diverrà un boss di prima grandezza in Cosa Nostra. Coinvolto nei grandi traffici di droga e nelle guerre di mafia, finirà ucciso nel 1978, per ordine dei corleonesi. Ai suoi funerali, oltre a una gran folla di concittadini di Riesi, sarà registrata la presenza di politicanti di peso, Dc e non solo. (S.L.L.)

Di Cristina  con la sigaretta in bocca e le manette ai polsi

Estorcevano danaro al disoccupati
Sette arresti nella gang della “Trabia Tallarita,,
CALTANISSETTA (Falci). 15. — Una vera e propria gang che agiva all’interno della miniera Trabia Tallarita estorcendo somme di danaro ai disoccupati in cambio dell’assunzione al lavoro è stata scoperta a conclusione di attive e diligenti indagini, ed i suoi componenti tratti in arresto.
Gli arrestati sono:
1) Biagio Rindone. capo ufficio della miniera, iscritto alla DC. Il Rindone viene descritto come il cervello della combriccola: egli peraltro si distingueva nell’opera di sfacciato favoritismo delle organizzazioni minoritarie, tendendo in ogni occasione a perseguire gli operai che aderivano alla CGIL; 2) Capostagno Filippo, segretario della CISL di Riesi e componente il comitato direttivo della Federazione minatori aderente alla CISL; 3) Lauri a Giuseppe, membro della C.I. del cosiddetto Fronte unico aderente alla CISL; 4) Lembro Gaetano, guardia giurata alle dipendenze della società Valsalso; 5)Ligotti Gaetano; 6) Salamone Giovanni; 7) Di Cristina Giuseppe. Questi ultimi tre sono tutti militanti nelle file della CISL di Riesi.
Non è dato ancora conoscere con esattezza i reati che vengono imputati ai sette arrestati; si dà comunque per certo che essi dovranno rispondere di associazione per delinquere.

Fuoriclasse. Giacinto Facchetti (Luigi Cavallaro)

E' probabile che il magistrato Luigi Cavallaro, collaboratore del “manifesto” su questioni di teoria economica e di sport, sia interista e che la sua rievocazione del terzino, occasionata dalla biografia scritta dal figlio, contenga qualche esagerazione dettata dal tifo, ma credo che Giacinto Facchetti resti per molti versi una figura importante, quasi esemplare, della tradizione calcistica italiana ormai in declino. (S.L.L.)

Fresco di vittoria del Bancarella Sport 2012, è davvero un bel libro quello che Gianfelice Facchetti ha scritto per ricordare suo padre Giacinto, che il 18 luglio scorso avrebbe compiuto 70 anni (Se no che gente saremmo. Giocare, resistere e altre cose imparate da mio padre Giacinto, Longanesi, ).
È un libro gentile, delicato, in cui le emozioni e i sentimenti, per quanto intensi, non sono mai gridati, ma solo dolcemente raccontati, non di rado ricorrendo alla grammatica della similitudine, della metafora: perché, anche se è vero che le parole non possono mutare la natura delle cose, non è meno vero che possono addolcirla. Se ne dovette accorgere anche il nonno di Gianfelice, Felice Facchetti, classe 1900, terzino sinistro ribattezzato «ammazzacristiani» per il suo modo di marcare, quando rimproverava il figlio agli esordi perché non era altrettanto deciso con gli avversari: «Entra più duro, Giacinto!», gli gridava, dimenticando che se uno chiama un figlio col nome di un fiore non può poi chiedergli di rompere le caviglie all'avversario.
È un libro difficile da scrivere, perché racconta del passaggio di consegne insito nel rapporto tra un figlio e un padre. Ma è un libro che serve (e tanto anche) per ricostruire la straordinaria rivoluzione compiuta dal calciatore Facchetti. Perché per tutti noi appassionati di calcio fu questo, Giacinto Facchetti, prima d'ogni altra cosa: un calciatore rivoluzionario.
Proviamo a spiegarci. Quando arriva aMilano, nel 1960, sulla panchina nerazzurra siede già Helenio Herrera e la sua Inter, che non ha ancora vinto nulla, gioca come molte squadre italiane con il classico WM: 3 difensori marcano a uomo, 4 centrocampisti costruiscono la manovra, 3 attaccanti la finalizzano. Nonostante ne sbagli sistematicamente il cognome (lo chiama «Cipelletti»), il Mago intuisce subito le qualità del giovane terzino e decide di farlo esordire neanche ventenne contro la Roma, sul finire della stagione 1960-61. Una prestazione maiuscola contro l'uruguaiano Ghiggia e un gol col Napoli in casa la domenica successiva sembrano dargli ragione, ma in realtà il giovane gigante di Treviglio non si inserisce appieno nel disegno tattico dell'Inter e viene ripetutamente fischiato nella stagione successiva, mentre i nerazzurri concludono il campionato al 2° posto. Rispetto al 3° posto dell'anno prima è un progresso, ma Herrera capisce che non può bastare e decide di cambiare modulo, passando dal WM al catenaccio. L'operazione non è semplice. Il WM è organizzato intorno al quadrilatero di centrocampo, dove giocano un mediano incontrista, un mediano di raccordo, una mezzala e un regista; il catenaccio, invece, prevede 4 difensori, 3 centrocampisti e 3 attaccanti. Non si tratta, beninteso, di un 4-3-3 ante litteram: non solo perché i difensori marcano a uomo (il 2 sull'11, il 5 sul 9, il 3 sul 7), ma soprattutto perché non tutti sono disposti in linea. In linea giocano il terzino destro, lo stopper e il terzino sinistro, mentre alle loro spalle opera il libero, con il compito di recuperare e spazzar via tutti i palloni filtrati alle spalle dei difensori e/o all'occorrenza di raddoppiare la marcatura sugli attaccanti avversari. Ora, se ai 3 difensori del WM si vuole aggiungerne un quarto con funzioni di libero, bisogna stabilire a quale reparto sottrarlo e ridislocare conseguentemente l'intera squadra.
Ed è qui che entra in gioco la «variabile Facchetti». Dotato di una progressione formidabile (il suo primato personale sugli 80 metri è di 8”9, un decimo di secondo in meno di quello che allora è il record italiano) e di un tiro preciso e potente, Facchetti è capace all'occorrenza di proporsi come vero e proprio attaccante aggiunto. Di conseguenza, Herrera si trova nella condizione di poter rinunciare a un centrocampista (Picchi) per metterlo alle spalle dei difensori, e perfino di arretrare Suarez, perché grazie alle discese di Facchetti l'inferiorità numerica a centrocampo durante le ripartenze può essere facilmente recuperata con la scalata di un attaccante (si tratterà per lo più di Jair, ma talvolta anche di Mazzola), senza per ciò sottrarre efficacia al contropiede. Si spiega così quello che diventerà il peculiare movimento del terzino nerazzurro in strettissime marcature a uomo frustra sistematicamente il possesso avversario, costringendolo per lo più pervie orizzontali; recuperata palla, la squadra si distende immediatamente in avanti e, grazie all'incursione offensiva di Facchetti, si trova addirittura in superiorità numerica nelle corsie centrali, perché il tornante avversario dovrà pur sempre controllare Corso e la rigidità con cui vengono allora concepite le marcature rende improbabile che qualcun altro dei difensori avversari possa staccarsi dall'attaccante di riferimento per prendere in consegna il terzino nerazzurro. Che non a caso spesso segnerà dopo essersi ritrovato solo davanti al portiere. Ricorda Gianfelice che già nel 1963, in un'intervista concessa ad Antonio Ghirelli (siamo nella stagione della consacrazione ufficiale, che culminerà con lo scudetto), l'allora 21enne Facchetti si mostra affatto consapevole del suo ruolo di attaccante aggiunto e alla precisa domanda dell'intervistatore, che gli chiede se preferisca segnare o impedire agli avversari di far gol, risponde sorridendo e senza esitazione: «Segnare!».
Quell'anno i gol saranno 4, come l'anno dopo; nella stagione 1965-66 saranno addirittura 10, e a fine carriera ammonteranno a 59 in 476 gare di campionato (e a 79 nelle 728 gare disputate tra campionato, coppe e Nazionale). Numeri straordinari, se appena si pensa che un esterno difensivo moderno come Paolo Maldini ne ha segnati appena 33 in 902 gare ufficiali.
Helenio Herrera si è vantato spesso di aver inventato lui il catenaccio, prima ancora di Karl Rappan e Gipo Viani. Probabilmente esagerava, ma su un punto bisogna dargli ragione: nessuna delle squadre che adottò quel modulo riuscì mai a riproporre le dinamiche offensive della Grande Inter. «Ho messo Picchi a fare il libero, questo è vero», disse una volta il Mago, «ma non va dimenticato che avevo anche Facchetti, il primo terzino capace di segnare tanti gol quanti un attaccante». È perfino possibile che abbia ragione Andy Roxburgh (ora direttore della Football Development Commission dell'Uefa) a suggerire che, in realtà, «nessuno come Facchetti ha distrutto il catenaccio italiano»; è certo comunque che - per dirla ancora con Roxburgh - ci troviamo di fronte ad «uno di quei rari giocatori il cui talento e istinto hanno incoraggiato lo sviluppo di un nuovo tipo di gioco».
Non c'è da stupirsi se un sondaggio condotto lo scorso anno fra oltre 400.000 collezionisti delle figurine Panini l'abbia individuato come il terzino sinistro della squadra di calcio ideale degli ultimi 50 anni, insieme a campioni assai più vicini alla nostra contemporaneità come Baggio, Zidane o Del Piero: se la modernità nel calcio è la capacità di interpretare una pluralità di ruoli (di «fare le due fasi», come usa dire adesso: quella difensiva e quella offensiva), davvero Facchetti è stato il primo difensore moderno della storia del calcio italiano.
C'è un gol, fra tutti quelli della sua quasi ventennale carriera, che racconta al meglio la straordinaria qualità dei suoi inserimenti: è il terzo gol che l'Inter segna al Liverpool, il 12 maggio 1965, nella semifinale di ritorno a San Siro che fa da prologo alla vittoria della seconda Coppa dei Campioni. L'azione si sviluppa in 4 tocchi, da Picchi a Mazzola e quindi a Corso, che serve al limite dell'area inglese per l'accorrente Facchetti: gran destro e gol. Salvo che Picchi è sulla sua trequarti e Facchetti è poco più avanti a lui quando parte il primo passaggio per Mazzola, e da quel momento al tiro esploso dal terzino nerazzurro trascorrono appena 9 secondi, durante i quali egli percorre circa 70 metri di campo. Una progressione impressionante, specie considerando che arriva al 62', dopo oltre un'ora di strenua battaglia con i Reds, decisi logicamente a difendere fino all'ultimo il doppio vantaggio dell'andata. E che spinge il Times, il giorno dopo, a scriverne come di un gol «meritevole di vincere qualsiasi partita del mondo». Facchetti stesso lo ricorderà come il più bel gol della sua carriera, che chiuderà nel 1978, rinunciando alla convocazione in Nazionale per il Mondiale in Argentina. Giovanni Arpino, che ne aveva fatto il protagonista del suo romanzo Azzurro tenebra, scriverà in quel frangente di un gesto inusuale per «un popolo di disaffezionati, di renitenti, di protestatari, di gente che non si dimette mai, neppure quando sta per essere trascinata in tribunale».
È stato solo l'ultimo degli insegnamenti del calciatore Facchetti, la cui vicenda pubblica si concluderà di fatto il 12 maggio di 41 anni dopo, quando Gianfelice lo sentirà al telefono dall'ospedale di Treviglio «un po' sorpreso e spaventato, come chi a tutto pensa tranne che a qualcosa di estraneo nel proprio sangue». Di lì in poi, sino al 4 settembre dello stesso anno, saranno solo le «piccole immense cose» che possono accadere in una famiglia che assiste incredula al precipitare di una malattia rapida quanto era stato Giacinto sul campo di gioco. Restano giustamente nascoste dietro il nero su cui scorrono i titoli di coda.

“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 2012

25.7.15

Sicilia, terra di vita e morte. Il mistero e l'attrazione (Nicola Tranfaglia)

C’è una poesia nel terzo volume delle Opere di Leonardo Sciascia pubblicate nel 1991 da Bompiani che lo scrittore di Racalmuto dedica alla sua terra e di cui vale la pena riprodurre qualche brano per un discorso sull’isola. «Come Chagall - scrive Sciascia - vorrei cogliere questa terra dentro l’immobile occhio del bue. Non un lento carosello di immagini, una raggiera di nostalgie: soltanto queste nuvole accagliate, i corvi che discendono lenti; e le stoppie bruciate, i radi alberi che si incidono come filigrane». E ancora. «Il silenzio è vorace sulle cose. S’incrina se il flauto di canna tenta vena di suono: e una fonda paura di rama».
Vita e morte, insomma, legate tra loro nelle sensazioni di chi vive in Sicilia. Potrei continuare la citazione ma credo che il lettore possa coglierne il sapore. La terra siciliana comunica a chi c’è nato, o a chi c’è stato tante volte amandola e insieme avendone emozione, il senso di un mistero e di un’attrazione sottile. La sua lunga storia, i popoli che ci sono arrivati e poi rimasti per tanto tempo come gli arabi, lasciandovi tracce importanti, i contrasti della sua natura solare, i misteri che la circondano, sono tutti elementi che ne aumentano il fascino e la seduzione.
Chi può dire perché, proprio in quell’isola, la mafia sembra esser nata e cresciuta non si sa ancora quando e perché tutti quelli che l’hanno combattuta fino alla morte (o che l’hanno studiata per tanti anni o magari per tutta la vita) hanno contratto un così forte rapporto con lei?


“l'Unità”, 9 dicembre 2009

Quattro poesie perugine di Lodovico Scaramucci

Passato remoto
La padrona di casa con premura:
“Dite, com'è l passato de verdura?”:.
Risponde Giambattista Repanai:
“L passato di verdura è verdurai”.

L fijol prodigo
Quanno che s'avverò quel lieto evento
del figlio che tornava, finalmente,
chi fu, secondo te, l meno contento?”.
“Per me l vitello grasso certamente”.

L'albero genealogico
“L'albero genealogico pé n cane
è na cosa importante come l pane.
Per questo de conoscelo conviene”-
“Guarda: pél mio gni albero va bene”.

L'eredità
Aperto dall'erede l testamento
trova scritto “Ti lascio” solamente.
Lu gira l fojo senza fa' n commento,
ma però dietro non c'è scritto niente.

da L mèjo d i poeti perugini, Morlacchi editore, 2012

La scuola e noi (Pietro Li Causi)

L'articolo che segue, di Pietro Li Causi, scritto in polemica con una apologia della “buona scuola” di Renzi apparsa su “Il Sole-24 ore”, è stato pubblicato con il titolo Oliva, la scuola italiana e Rieducational Channel nel sito “La letteratura e noi” diretto da Romano Luperini, l'11 luglio scorso. Il sarcasmo che usa, a mio avviso assai efficace, non è piaciuto a qualcuno che ha impedito i link su facebook del testo considerato offensivo: una censura gravissima. Io riprendo l'articolo in questo blog con un titolo modificato. Lo linkerò su fb: chissà se ci sarà anche stavolta qualcuno di quelli che s'offendono con tanta facilità a censurarlo. (S.L.L.)  

In un suo articolo del 10 luglio 2015, a ridosso dell’approvazione alla camera della cosiddetta ‘Buona scuola’ di Renzi, Attilio Oliva, presidente della Fondazione TreeLLLe, sul Sole24Ore prende le difese dell’esecutivo e bolla come ‘conservatrici’ le resistenze dei milioni di cittadini che in questi ultimi mesi hanno manifestato e protestato contro il provvedimento e che, di fatto, sono rimaste inascoltate: Secondo Oliva il modello di scuola che genitori, alunni e docenti hanno difeso è indifendibile e cerca di dimostrarlo per punti. Ognuno dei punti è introdotto da una martellante ripetizione anaforica dell’espressione ‘Lo sapevate?’, che pretende di essere rivelatoria e didascalica, ma che in realtà – alla memoria del teleutente medio – non può che ricordare un famoso sketch di qualche anno fa di Vulvia, alias Corrado Guzzanti, che imitava parodicamente il tono dei voiceover documentaristici («Lo sapevate? Sapevatelo! Su Rieducational channel!»). Al di là del tono fastidioso e bacchettante, le argomentazioni addotte da Oliva meritano, comunque, punto per punto, una risposta.

  1. Oliva ricorda che la nostra scuola è quella che in Europa ha più insegnanti rispetto al numero degli studenti (1:11 contro 1:15 della media europea) e che l’età media dei docenti è di oltre 55 anni (a fronte dei circa 40 della media europea). I due dati vengono citati come parte di un medesimo argomento, ma andrebbero in realtà scorporati. Partiamo dall’ultimo: è probabilmente vero che l’età media dei docenti italiani è alta. Questo, però, non è un demerito dei docenti: la scuola italiana è zeppa di insegnanti anziani che vorrebbero volentieri andare in pensione, ma non possono (perché l’età pensionabile è progressivamente aumentata negli anni) e di giovani che invece vorrebbero insegnare e si trovano impastoiati nei TFA, nel precariato e nelle mille contraddittorie regole di ingaggio create nell’ultimo ventennio dai governi di centro-destra che si sono succeduti alla guida del paese (governo Renzi compreso). Attribuire alla scuola italiana la responsabilità dell’elevata età media è un modo di indicare la luna e guardare il dito o, ancora peggio, di scaricare sulla scuola e sui suoi attori responsabilità che sono invece di tutta una classe politica (e, soprattutto, di un modello economico imperante che ha avvelenato i patti e i meccanismi di alternanza generazionali). Quanto al rapporto docente-discenti, dovremmo invece essere lieti del fatto che in Italia sia più basso che in altri paesi. Il rapporto ideale dovrebbe essere di un docente ogni dieci alunni e non certo di un docente ogni cinquanta! Virare verso le medie degli altri paesi occidentali significa andare sempre di più verso le classi pollaio. Evidentemente, però, ad Oliva non interessa tanto l’efficacia dell’insegnamento o la ‘sostenibilità’ dell’eco-sistema classe, quanto l’economicità del rapporto. È chiaro infatti che quanti più insegnanti ci sono, tanti più stipendi devono essere pagati. È una questione, si direbbe in inglese, di accountability (rendicontazione). Ma possiamo parlare della scuola e della trasmissione dei saperi e delle competenze soltanto in termini di rendicontazione?
  2. Oliva lamenta il fatto che il reclutamento degli insegnanti “avviene per lo più grazie a sanatorie, senza alcuna attenzione né alla selezione di giovani laureati motivati né ad una valutazione dei precari sulla base della loro prova sul campo”. Ancora una volta, l’argomento mostra degli elementi di verità, ma viene presentato in maniera tendenziosa. Innanzitutto, bisognerebbe ricordare che la maniera migliore di reclutare un docente dovrebbe essere quella del concorso pubblico (il concorso del 2000 era durissimo, e le prove, soprattutto quelle scritte, sono state davvero selettive). Una volta reclutato, un docente viene assunto in prova e, alla fine dell’anno di prova, il suo operato viene valutato da una commissione di docenti della scuola in cui ha prestato servizio. Questa era e dovrebbe essere ancora la norma. Una norma che – sia detto per inciso – ha garantito e tuttora garantirebbe una professionalità e un’efficienza elevatissime. Il fatto è però che, dal 2000 fino al 2012, anno di indizione del concorso Profumo, non ci sono stati concorsi degni di questo nome. La politica italiana ha di fatto aumentato il numero delle ore di lavoro e diminuito il numero degli insegnanti, ha pasticciato inventandosi, anno dopo anno, percorsi di abilitazione e di reclutamento sempre più nuovi, inusitati e farraginosi, ha creato la selva di un precariato multiforme e, da ultimo, con il ministro Profumo, ha bandito parodie di concorsi in cui i posti di lavoro effettivi erano, alla fine dei conti, infinitamente minori rispetto a quelli messi al bando (per quanto io ricordi, pochissimi hanno raccontato di questo scandalo degli ‘esodati’ della scuola italiana!). Il punto è che se si impedisce ai docenti anziani di andare in pensione, se si riducono le ore settimanali di lezione, se si tagliano posti di lavoro, è chiaro che salta anche il sistema del ricambio generazionale, e che non può esserci più alcuna selezione a mezzo di concorso. Semplicemente perché non ci sono posti da bandire. E se non c’è selezione, ci sono solo i passaggi di ruolo che tappano le falle dei pochissimi che finalmente giungono all’agognato ritiro. Chiamare questi passaggi di ruolo ‘sanatorie’ è, tecnicamente, una metafora, ma in pratica è anche – è doveroso dirlo – una vera gaglioffaggine. Come Oliva sa bene, la sanatoria è un istituto del diritto amministrativo italiano che rende legale un atto illegittimo in quanto privo dei requisiti essenziali previsti dall’ordinamento. Si sanano le case abusive, e non i posti di lavoro legittimi. Chiamare sanatorie i passaggi di ruolo significa implicitamente considerare ‘abusivi’ gli insegnanti che nella scuola lavorano a pieno titolo e con merito (un merito che non si dovrebbe misurare con i criteri economicistici e aritmetici o con le triple A di Standards & Poor, ma che forse ha a che fare con quella ‘qualità’, impalpabile sfuggente per sua natura, di cui parlava Robert Pirsig in Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta).
  3. Oliva ricorda che «la nostra è la scuola d’Europa con più abbandoni (circa il 20%) e dove le assenze degli studenti sono oltre il doppio rispetto alla media». Il problema messo in rilievo è complesso, la risposta che viene data, invece, mi sembra semplicistica e, ancora una volta, denigratoria e lesiva della dignità degli insegnanti: «sarà forse perché le attività» che si svolgono a scuola «non riescono a coinvolgerli e interessarli?». È chiaro che ogni volta che un alunno abbandona gli studi (o semplicemente chiede un nullaosta per trasferirsi in un’altra classe o in un altro istituto), l’insegnante dovrebbe interrogarsi sul suo operato. Ma siamo sicuri che puntare il dito soltanto sulle responsabilità della scuola aiuti a risolvere il problema? Gli abbandoni, spesso, non hanno a che fare soltanto con l’insuccesso educativo o con l’inefficacia dei metodi di insegnamento. Lo sanno bene, del resto, tutti quegli insegnanti che operano in zone disagiate e degradate del nostro Paese (lo Zen, il Cep e lo Sperone a Palermo, Scampia in Campania). In molti casi, gli abbandoni non sono dovuti all’inefficacia degli interventi didattici, ma alla desolazione sociale, alla disintegrazione e all’assenza dello Stato in territori che sono lasciati in balia di quella stessa criminalità organizzata che spesso – nei momenti chiave della vita politica del nostro paese – ha operato come serbatoio e bacino di voti. Non mi è chiaro quali siano i piani del governo Renzi per fronteggiare il disastro e il degrado sociale del nostro territorio. Mi è un po’ più chiaro, invece, come abbia operato per il caso De Luca in Campania. Qualcuno direbbe che questi discorsi non hanno nulla a che fare con la scuola. Ma ne siamo proprio sicuri?
  4. Oliva lamenta il fatto che «il 95% degli studenti frequenta scuole statali mentre quelle paritarie chiudono l’una dopo l’altra, perché le famiglie non riescono a sostenerne i costi». E aggiunge «si è manifestato contro una immaginaria “privatizzazione”, contro un attacco alla scuola pubblica, mentre ci si avvia di fatto al monopolio statale, con tutti i difetti di ogni monopolio». Ancora una volta mi pare che vengano confusi i piani e che, sulla base di un uso un po’ peloso delle metafore aziendalistiche, si proietti sulla scuola un modello violentemente e inopportunamente economicistico. Come Oliva sa bene, il termine monopolio indica (cito da Wikipedia) «una forma di mercato, dove un unico venditore offre un prodotto o un servizio per il quale non esistono sostituti stretti (monopolio naturale) oppure opera in ambito protetto (monopolio legale, protetto da barriere giuridiche) .Consiste insomma nell'accentramento dell’offerta o della domanda del mercato di un dato bene o servizio nelle mani di un solo venditore o di un solo compratore». Il fatto è però che la scuola non è (o meglio, non è ancora) ‘un mercato’. E se in una situazione di mercato la concorrenza fra aziende che offrono prodotti può rivelarsi positiva per i consumatori, nel mondo della scuola la competizione fra le agenzie educative porterà solo al disastro e a un aumento dello squilibrio sociale. Nel campo dell’istruzione, non vedo alcun rischio in quello che Oliva chiama ‘il monopolio di stato’ e che io invece chiamerei semplicemente ‘scuola della costituzione’. Bisognerebbe invece ricordare che chi difende le scuole private difende, nella maggior parte dei casi, dei diplomifici in cui torme di insegnanti sono costrette spesso a lavorare quasi gratis (o addirittura pagando da sé i propri contributi) per non rimanere indietro in quella vergognosa corsa a punti che è diventato il precariato. Ci sarebbero, su questo punto, moltissimi ragionamenti da fare, ma per amore di brevità, mi limito a rimandare Oliva e il mio lettore ad un ripasso della Costituzione italiana.
  5. Con il punto cinque arriviamo addirittura alla paranoia: «lo sapevate che una famiglia interessata a trovare una buona scuola non dispone ad oggi di nessuna informazione ufficiale e deve affidarsi al “passaparola”? E che questo avviene perché la scuola statale è in realtà un luogo “privatissimo”». La scuola pubblica italiana, addirittura, sarebbe una sorta di Spectre, in cui non circolano informazioni e in cui c’è quasi bisogno di agenti del controspionaggio per sapere qualcosa sui piani dell’offerta formativa e sulle programmazioni didattiche (che sono invece pubblici!). Il fatto è però che i genitori e gli alunni, più che ai piani delle offerte formative e alle programmazioni didattiche, guardano anche e soprattutto alle competenze relazionali degli insegnanti, alla loro ‘umanità’, ovvero a tutta una serie di atteggiamenti, modi di porsi e di essere che nessun esito di prova INVALSI, nessun piano dell’offerta formativa e nessuna programmazione disciplinare ufficiale riuscirebbe a tradurre in numeri o in lettere. E le informazioni sul ‘versante umano’ della docenza le cercano, in privato e con il passaparola, sia i genitori che mandano gli alunni nelle scuole pubbliche sia quelli che li mandano nelle scuole private. Oliva, sempre al punto 5, lamenta poi che «della qualità degli insegnanti non si riesce a sapere quasi nulla» (e forse se lo domanda perché non ha mai letto un libro come Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, che spiega benissimo perché la ‘qualità’ sia qualcosa di così intrinsecamente sfuggente e relativo); quindi, in un capolavoro di disinformazione, arriva a sottolineare che gli insegnanti «ruotano “a domanda”fra una scuola e l’altra per circa il 20%», chiedendosi dove sia «l’attenzione per l’auspicabile “continuità didattica”». Data l’estrema sinteticità del periodare, risulta un po’ difficile divinare quale sia, per Oliva, il problema. Mi sembra comunque di capire che ciò che lo preoccupa è che gli insegnanti possano addirittura presentare domande di trasferimento da un istituto all'altro! Se così fosse – ma tutto ciò contrasterebbe con l'idea stessa di una scuola-azienda, essendo la mobilità uno degli ingredienti della competitività – Oliva auspica un ‘insegnante-servo-della-gleba’, legato a vita al suo istituto. Sia detto per inciso, se così fosse, anche molti insegnanti forse ci metterebbero la firma! Quello che non si dice è però che il numero spaventoso di esuberi determinati dai tagli del Ministro Gelmini ha portato moltissimi insegnanti (anche di ruolo) a girovagare di anno in anno da una scuola all’altra, alla faccia della continuità! Quello che poi non si racconta – ma qui in fondo la continuità rischia di diventare il minore dei mali – è lo scenario che si profila in una scuola dominata da presidi-padroni, in cui gli spazi di democrazia saranno sempre più ristretti, se non inesistenti.
  6. Non poteva non mancare l’attacco di rito alle materie umanistiche: «lo sapevate che i nostri curricoli hanno un carattere enciclopedico (facile all’oblio) e una forte prevalenza delle materie cosiddette umanistiche rispetto a quelle scientifiche e tecniche? Che sono così rigidi da non permettere alcuna opzionalità per gli studenti? Che perfino il latino, che è opzionale in tutti i paesi del mondo, in Italia (e in Grecia) è invece materia obbligatoria per circa il 40% degli studenti delle secondarie?». Sul carattere enciclopedico dei nostri curricoli si potrebbe in fondo essere d’accordo. E in fondo potrebbe forse essere vitale e necessario sollevare un dibattito (serio, e non ‘all’amatriciana aziendalistica’) sul paradigma storicistico (e scarsamente cooperativo e interattivo) cui sono uniformati i nostri insegnamenti. Per il resto, mi sembra normale che il latino sia una materia opzionale in paesi come il Camerun, la Cina, il Qatar. Ma non riesco davvero a capire perché debba diventare opzionale proprio nel nostro paese, in cui la lingua latina fa parte del nostro heritage culturale. A meno che non si pensi che il latino e il greco (e che so io? il Partenone, il Colosseo, Pompei) siano i veri responsabili del debito pubblico, come sembra voler suggerire maliziosamente l’accostamento fra l’Italia e la Grecia che Oliva fa. Trovo poi discutibile la stessa distinzione fra materie umanistiche e materie scientifiche, che è figlia del crocianesimo gentiliano e che è stata foriera di disastri (non solo scolastici). Sul punto sei, comunque, ci sarebbe ovviamente molto da dire. Per il momento mi preme di rimandare soltanto alla lettura di Not for profit di Martha Nussbaum, che sottolinea la centralità degli studi umanistici per la salvaguardia della cultura democratica del mondo occidentale. Al di là di quello che dice la Nussbaum, comunque, ho il sospetto che nessuna scienza è davvero utile se non è anche‘umanistica’, e che, per converso, un umanesimo concepito soltanto come formalismo ed estetica fa forse tanti danni quanti ne può fare l’economicismo. Ma questi punti – lo ammetto – potrebbero essere sviluppati meglio. E forse un articolo come quello di Oliva non è il migliore punto di innesco per intraprendere un simile dibattito.
  7. Al punto settimo, Oliva lamenta che la didattica della scuola italiana è «prevalentemente “trasmissiva” e che buona parte del tempo scuola è impegnato da lezioni ed interrogazioni, senza un coinvolgimento più motivante e interattivo degli studenti?». Su questo, confesso di concordare. Non concordo però sulla soluzione proposta da Oliva, che va nella direzione dei test. Scegliere la via dei test significa abolire completamente, dalla scuola pubblica, le competenze espressive, la capacità di prendere la parola e di esprimere il proprio pensiero, il proprio punto di vista ed eventualmente il proprio dissenso. Significa, in altri termini, smettere di essere cittadini attivi. A tale proposito, mi permetto di rimandare ad un esperimento didattico (per l’insegnamento del latino!) da me proposto ad una mia classe quinta, che prevedeva, al contrario, l’aumento delle attività di scrittura e delle competenze analitiche ed espressive, su un versante potentemente inter-attivo e cooperativo.
  8. Il punto 8 non ammette sconti: «lo sapevate che nelle varie indagini Pisa dell’Ocse, che riguardano circa sessanta paesi, le competenze degli studenti quindicenni italiani sono sempre risultate sensibilmente al di sotto della media?». Non c’era bisogno che Oliva ce lo ricordasse, lo sapevamo. Mi permetto però di controbattere con una predizione e con una scommessa per il futuro:«scommettiamo che, una volta che la ‘Buona scuola’ entrerà a regime i risultati della scuola italiana peggioreranno ulteriormente?»
  9. Con il punto 9, infine, l'articolo si chiude con una riflessione di natura marcatamente economica: «lo sapevate che tutte queste anomalie e ritardi non dipendono dalla lamentata carenza di risorse finanziarie, visto che la percentuale del Pil destinata alla nostra scuola è del 3%, cioè in media europea, e soprattutto che il nostro “ costo per studente” è addirittura più alto? Il problema sta tutto nella loro cattiva allocazione: troppe risorse al personale addetto (con stipendi più bassi, ma per un numero di addetti troppo alto) e troppo poche per la qualità del servizio (edilizia, premialità agli insegnanti e presidi meritevoli, assenza di un sistema di valutazione esterno delle scuole, pochissima ricerca)». Ometto il mio commento sulla logica premiale e sul sistema di valutazione proposto dalla ‘Buona scuola’. In fondo già molto, in merito, è stato scritto. Quanto al resto, non saprei da dove Oliva abbia tratto i suoi dati (anche perché non cita la sua fonte). Le cifre più aggiornate di cui dispongo io sono quelle pubblicate il 26 febbraio del 2015 su OrizzonteScuola. Ovviamente, sarei felice di essere smentito e di sapere che nel frattempo qualcosa è cambiato. Ma temo che non sarà così, anche perché mi consta che la spesa pubblica per la scuola diminuirà ancora, in Italia, nei prossimi quindici anni. Lo dice un articolo del “Corriere della Sera” del 10 aprile 2015: «Lo sapevate?», direbbe il comico, «sapevatelo! su rieducational channel!».


Dal sito “La Letteratura e noi”