Dalla periferia
dell'impero raccoglie in volume
testi di Umberto Eco già pubblicati in quotidiani e periodici tra il
1973 e il 1976. Quello che segue, un articolo a suo tempo stampato su
“L'Espresso”, merita forse qualche aggiornamento
nell'esemplificazione, ma mi sembra tuttora utile a capire i
significati reconditi di alcune abitudini linguistiche oltre che
molto divertente, come capita spesso con gli scritti di Eco. (S.L.L.)
Facciamo conto di
ricevere una lettera che dica: “A causa della decelerazione del
tasso d’incremento, dopo attenta presa in considerazione da parte
del nostro area manager, si prowede a disdettare l’acquisto dello
stock di container per strumentazioni di installatori termo-idraulici
da voi proposti, della cui affidabilità peraltro non si intrawedono
concrete possibilità. Il nostro buyer, che aveva perfezionato i
precedenti contatti, è stato sollevato dal suo incarico, come da
xerox attergato”.
Il significato della
comunicazione è: “dato che la nostra azienda sta andando a rotoli,
il ragioniere che controlla i nostri commessi viaggiatori in
provincia ha deciso di non comperare più quella rimanenza di scatole
di latta per stagnini - che tra l’altro sembrano attaccate con lo
sputo. Quel disgraziato che aveva preso l’impegno per conto nostro
è stato scaraventato fuori dai piedi come vedete dalla fotocopia
della lettera di licenziamento attaccata qui dietro”.
La seconda lettera ha lo
stesso significato della prima, la quale è praticamente costruita
facendo uso di termini o frasi che sono sinonimi delle altre. Come si
vede, usando i sinonimi si dicono quasi le stesse cose, e sembra di
dirle meglio, o in modo più gentile e scientifico. Il rischio è che
chi riceve la lettera non la capisca, ma sovente questo non è un
male.
Non è nemmeno male,
però, riflettere sull’uso dei sinonimi nella nostra società.
Anzitutto chiediamoci cosa sia un sinonimo.
Secondo l’opinione
comune è una parola che ha lo stesso significato di un’altra, pur
avendo suono diverso, come “ora” e “adesso”, oppure “scuro”
e “buio”. I buoni dizionari sanno tuttavia che di sinonimi
assoluti non ne esistono, e due parole possono dire la stessa cosa
dicendola tuttavia in modo diverso, con diverso accento, da un altro
punto di vista, o addirittura esprimendo due atteggiamenti culturali
e sociali, come accada a uno sciagurato che si permetta di dire
ancora “prora” invece di “prua”.
Sappiamo tutti che oggi,
quando qualcuno dice “la mia barca” intende “il mio panfilo”,
ma è chiaro che si tratta di un panfilo molto più grande del solito
e che chi parla vuol fare sapere che ha parecchi soldi e molta
modestia. In questo caso più che di un sinonimo si tratta di un
eufemismo. D’altra parte i logici, quando hanno cercato di chiarire
il significato di un termine attraverso il ricorso al sinonimo, si
sono accorti che ciò che caratterizza un sinonimo è proprio il
fatto di far scivolare il significato (allargarlo, restringerlo,
deformarlo). Per cui possiamo dire senza esitazioni che un sinonimo
(tranne casi rarissimi) non è mai neutrale. L’uso dei sinonimi è
sempre ideologico. Al minimo manifesta origini e preferenze
regionali, in un paese come il nostro in cui, a causa delle influenze
dialettali, ci sono più sinonimi che in altri paesi: così che
accade che una stessa cosa possa essere uno sfilatino o un filoncino
di pane; un paio di stringhe, di aghetti, di legacci, di legaccioli,
di lacci, di laccetti o di lacciuoli per scarpe; una tapparella, una
serranda o un avvolgibile; una vasca, una tinozza o una bagnarola;
una seconda colazione o un pranzo; un pranzo o una cena; un
succhiotto o una tettarella; uno stagnino, uno stagnaio, uno
stagnaro, un lattoniere, un fontaniere, un lanternaio, un trombaio,
un idraulico o un installatore termo-idraulico (e non conta come lo
si chiami, perché tanto non c’è più e se c’è non viene mai).
In altri casi il
preferire il sinonimo più recente al termine desueto indica volontà
politica, come accade a chi dica collaboratrice domestica invece di
serva, portabagagli invece di facchino, netturbino invece di
spazzino, esercente invece di bottegaio, agente di custodia invece di
secondino. E altre volte ancora la variazione riqualifica e corregge
le mansioni, perché una babysitter non è proprio una bambinaia
(come vorrebbero i puristi, gran nemici di molti sinonimi
esterofilizzanti), e tanto per cominciare non allatta e poi fa quel
mestiere solo alcune ore al giorno. E un panificatore non è solo un
panettiere, ma di solito un panettiere potente e cattivo, che imbosca
gli spaghetti.
E che interi repertori di
sinonimi si formano all’interno di linguaggi settoriali e
specializzati e ivi acquistano pesi diversi, nel bene come nel male:
per cui un buon codicillo alla rilettura di un moderno dizionario dei
sinonimi è il libro appena apparso a cura di Gian Luigi Beccaria (I
linguaggi settoriali in Italia, Bompiani) da cui sto traendo la
maggior parte di questi esempi.
Ci sono per esempio
espressioni sinonime con una funzione che il linguista Maurizio
Dardano ha definito “straniante” e che servono a rendere meno
brusco il senso: come dire “si provvede a fare” anziché “si
fa”, “si dà luogo all’ascolto” invece di “si ascolta”,
“si intravvede la possibilità di” invece di “si spera che”.
E queste sono ancora sostituzioni innocue. Ma con un procedimento
analogo si arriva ai tecnicismi economico-politici già lungamente
analizzati, dove un’espressione finge di dire la stessa cosa ma di
fatto la attenua e non la dice. Vedi, specie di questi tempi, le
acrobazie sostitutive per non parlare di svalutazione, indicandola
come allineamento monetario, allineamento selettivo delle monete o
slittamento dei titoli. O l’aumento dei prezzi che diventa
assestamento, ritocco, variazione delle tariffe. O il licenziamento
su grande scala che pudicamente si maschera da piano di
alleggerimento, o vaga minaccia di un aumento della manodopera
disponibile. Mentre la crisi economica, che fa troppo 1929, diventa
decelerazione del tasso d’incremento, recessione o raffreddamento
dell’economia.
D'altra parte i politici
hanno, nel loro gergo specifico, molte espressioni consolatorie, per
cui una secca perdita elettorale diventa emorragia di voti e quando
un gruppo di cittadini li manda a quel paese si parla di sindrome di
rigetto.
In questi casi
l’apparente sinonimo, che sinonimo non è più, ha chiara funzione
di copertura retorica e - come già si è osservato - serve a
comunicare qualcosa da un gruppo di potere all’altro senza che la
massa dei cittadini se ne renda conto. Altre volte il linguaggio
politico conosce sinonimi che, da eufemistici che erano, sono
diventati ora talmente trasparenti da denunciare le origini
ideologiche di chi li usa: vedasi la chiarezza con cui possiamo
individuare l’opinione di chi, parlando dei congolesi, li
classifichi tra i paesi sottosviluppati, i paesi in via di sviluppo,
i paesi non allineati, i paesi del Terzo Mondo, i paesi nuovi o i
paesi sfruttati. Così come possiamo sapere cosa pensa della cultura
chi scelga di indicare gli intellettuali di sinistra come culturame,
compagni di strada, utili idioti, teste d’uovo, borghesi onesti o
intellettuali organici alla classe.
Ci sono poi, sempre
nell’universo politico, parole che hanno struttura omonima e
vengono usate in contesti diversi come sinonimi di qualcos’altro.
Per esempio “rivoluzione” vuole di fatto dire cose diverse. In un
contesto borghese classico è stato sinonimo di “passione,
liberalismo, anarchia, barbarie, male, tradimento, sovversione”,
nel campo marxista sta oggi a significare varie modalità di presa
del potere o di rifiuto del potere altrui, a seconda dei gruppi in
cui viene usato, mentre nell’universo giovanile può persino
significare accettazione dello status quo purché ci sia droga a
sufficienza, e nell’universo consumistico indica ormai tutto, dalla
presentazione di un nuovo rasoio elettrico alle videocassette.
Una sorte non diversa ha
assunto “democrazia”, e basti pensare a due espressioni come
“convergenza democratica” e “protesta democratica”: nel primo
caso sta parlando l’onorevole Moro, nel secondo è un articolo dell
'Unità su una sfilata frontista per il Cile. Tanto che si potrebbe
indicare, come regola di disambiguazione, questo criterio: quando
“democratico” o “democrazia” è accompagnato da un termine
che suona inquietante per i borghesi è una categoria della sinistra
(come in repubblica democratica, forte risposta democratica, pronta
reazione democratica); quando invece è accompagnato da termini presi
a prestito dal linguaggio tecnologico o dall’etica cattolica (come
programma, ordine, solidarietà, vocazione) tutto ciò che è
democratico è anche cristiano. Ma le regole contestuali sono molto
più complesse e spesso il cittadino è indifeso di fronte a questi
omonimi che sono sinonimi di troppe cose.
Al massimo può capire
quando una espressione è sinonimo di “gli Altri” e cioè “i
cattivi”: tale è il significato complessivo di espressioni come
“revisionismo, frammentarismo, opportunismo, deviazionismo,
pressappochismo, moderatismo, scissionismo, aperturismo,
avventurismo, immobilismo, riformismo”. In tutti questi casi si può
dire al cittadino smarrito di intendere “quelli che non la pensano
come noi” e come primo orientamento è sicuro di non sbagliare.
Ma il sinonimo non
trionfa solo in politica come strumento di copertura retorica.
Imposto dalla società dei consumi, dalla divulgazione dissennata,
dal linguaggio snobistico, esso è a disposizione dell’utente
incauto come sinonimo illecito. Si veda quanto succede per la
terminologia psichiatrica e psicanalitica entrata nell’uso comune:
chiunque sia di malumore è un nevrotico, se non gli piacciono i
fagioli ha un complesso, se non ha capito una cosa ha un blocco
mentale, se l’ha capita e ci pensa sempre è paranoico, se cambia
idea è schizofrenico, se è strambo è psicotico, se dice bugie è
mitomane; sino al punto in cui viene usato come sinonimo l’antonimo,
e cioè la parola di significato opposto, come accade a molti che per
dire che qualcuno ha una passione per qualcosa dicono che “ha una
fobìa per”.
Infine il linguaggio
della cronaca giornalistica ci ha abituati a dei sinonimi che
definiremo tuttofare. Ma più che sinonimi sono verbi o aggettivi
sclerotizzati che aderiscono ad altri termini con tale passiva
tenacia da aver perso ogni significato. Di questi aveva dato tempo fa
un gustoso dizionarietto Cesare Garelli nel suo La burolingua
quotidiana, il coltello da cucina usato per commettere il delitto
sarà sempre “acuminato”, il discorso dell’uomo politico è
“abile”, o “acuto” (il che vale anche per il saggio del
“brillante sociologo” - dove sociologo è qualsiasi intellettuale
non crociano); “arzillo” sarà sempre il vecchietto di cui si
celebra l’avanzata età, “bianca coltre” la neve annunciata dai
telegiornali, “brillante” l’operazione dei carabinieri,
“delicato” l’intervento chirurgico, “squallido” il rapporto
degli amanti suicidi, “esemplare” la sentenza, “in fase di
avanzato approntamento” il disegno di legge, “ingenti” i danni,
“innominabile” l’atto di un “turpe individuo”,
“movimentato” l’inseguimento (talora anche “rocambolesco”).
“Per cause non accertate” avvengono i tragici incidenti, al
compier dei quali si offre agli occhi degli astanti un
“raccapricciante spettacolo”, “rigoroso” è il riserbo degli
inquirenti, “signore” è la persona con cui si polemizza,
“spettacolare” l’incidente stradale che non dà luogo a
raccapriccianti spettacoli, “stringente” l’interrogatorio,
“valente” il giornalista la cui scomparsa provoca “profondo
cordoglio” e che di solito ha contribuito a diffondere le
espressioni appena elencate.
E che la lingua, nella
sua duttilità e complessità, provvede soluzioni sia per chiarire un
discorso che per occultare i fatti e complicare meglio un problema; e
provvede anche sinonimi per evitare le espressioni sclerotizzate. E
dunque che esistano sinonimi non è male: ma certo è male usarli
senza chiarirne le implicazioni e peggio ancora è rimanerne vittima.
Per cui, meglio di un dizionario dei sinonimi, sarebbe diffondere un
dizionario degli antonimi, e cioè delle espressioni che significano
ormai il loro contrario. Così che anche i bambini a scuola sappiano
che se un giovane morto in guerra “si è offerto in olocausto”,
ciò vuol dire che qualcun altro lo “ha sollevato dall’incarico”
di vivente. E che lui non era d’accordo, ovvero che “non
manifestava una assoluta identità di vedute” con gli stati
maggiori.
In Dalla periferia
dell'impero, La nave di Teseo,
Milano, 2016 (prima edizione 1977)