Il testo che segue, a mio
parere bellissimo oltre che profondo, fu letto il 3 giugno del 2000 a
Chiaramonte Gulfi per un convegno su Serafino Amabile Guastella, il
nobile cultore di storie e tradizioni popolari che proprio lì era
nato e di quel paese, come di tutta la “contea di Modica”, aveva
fatto insieme il suo eremo e il suo punto di osservazione sulle cose
del mondo. Ho recuperato il testo dal bel sito intitolato a Vincenzo
Consolo. (S.L.L.)
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Serafino Amabile Guastella |
“Come gioco di
specchio, mercurio su una lastra”
Nel novembre del 1997,
l’inglese John Berger rispondeva su “Le Monde Diplomatique” con
una lettera aperta a un comunicato di Marcos, il capo dei ribelli del
Chiapas, il quale in vari elementi individuava la situazione attuale
del globo: la concentrazione della ricchezza e la distribuzione della
povertà, la globalizzazione dello sfruttamento,
l’internazionalizzazione finanziaria e la globalizzazione del
crimine e della corruzione, il problema dell’immigrazione, le
forme, legittimate di violenza praticate da regimi illegittimi e,
infine le zone o sacche di resistenza, tra cui naturalmente, quella
rappresentata dall’esercito Zapatista di Liberazione.
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Vincenzo Consolo |
Berger, a proposito di
zone o sacche di resistenza avanzava un esempio storico, un luogo del
Mediterraneo dal profondo cuore di pietra: la Sardegna e, di
quest’isola, l’entroterra intorno a Ghilarza, il paese dove è
cresciuto Antonio Gramsci. “Là” scrive Berger “ogni tanca,
ogni sughereta ha almeno un cumulo di pietre […] Queste pietre sono
state accumulate e messe insieme in modo che il suolo, benché secco
e povero, potesse essere lavorato […]. I muretti infiniti e senza
tempo di pietra secca separano le tanche, fiancheggiando le strade di
ghiaia, circondano gli ovili, o, ormai caduti dopo secoli di usura,
suggeriscono l’idea di labirinti in rovina”. E aggiunge ancora,
Berger, che la Sardegna è un paese megalitico, non nel senso di
preistorico, ma nel senso che la sua anima è roccia e sua madre è
pietra. Ricorda quindi i 7.000 nuraghi sparsi nell’isola e le domus
de janas, le grotti celle per ospitare i morti. Ricorda la
diffidenza dei Sardi nei confronti del mare (“Chiunque venga dal
mare è un ladro”, dicono), della loro ritrazione nell’interno
montuoso e inaccessibile e l’essere stati chiamati per questo dagli
invasori banditi. Dalla profondità pietrosa della Sardegna, dalla
sua conoscenza, dalla sua memoria, si è potuta formare la pazienza e
la speranza di Gramsci, si è potuto sviluppare il suo pensiero
politico.
Ho voluto riportare
questo scritto di Berger, questa metafora della Sardegna di Gramsci
che illumina il mondo nostro d’oggi, perché simile alla situazione
sarda – situazione fisica, orografica, e umana, storica, sociale –
mi sembra il mondo della Contea di Modica restituitoci da Serafino
Amabile Guastella. Pietroso è l’altipiano Ibleo, aspro il tavolato
tagliato da profonde cave, duro è il terreno scandito dai muretti a
secco che nei secoli i villani hanno abitato, in grotte hanno
seppellito i loro morti. Guastella non è certo Gramsci, non è un
filosofo, un politico, è un illuminato uomo di lettere, uno studioso
di usi e costumi, tradizioni, linguaggi, un’analista di caratteri,
ma, nel dirci dell’inferno dei villani della sua Contea, della loro
“tinturìa”, ignoranza, durezza, egoismo, empietà, furbizia,
illusione, superstizione, ci dice di quel luogo, di quegli uomini,
della condizione modicana pre e postunitaria, di un’estremità
sociale, che non è presa di coscienza storica, di classe e quindi
rivoluzionaria, ma di istintiva ribellione, di anarchia. Sono sì un
“antivangelo” le Parità e le storie morali, come dice
Sciascia, un “cristianesimo rovesciato”, un “inferno” senza
rimedio, senza mistificazione consolatoria, come dice Calvino. Non
c’è, nel mondo di Guastella, mitizzazione e nazionalismo, scogli
contro cui andarono a cozzare altri etnologi del tempo, da Pitrè al
Salomone Marino, in mezzo a cui annegò il poeta Alessio Di Giovanni:
il suo sicilianismo a oltranza lo portò ad aderire al Felibrismo di
Frédéric Mistral, il movimento etno-linguistico finito nel fascismo
di Pétain. Si legga il racconto dell’incontro a Modica di Di
Giovanni con Guastella, della profonda delusione che il poeta di
Cianciana ne ricava. “Chi potrà mai ridire l’impressione che ne
ricevetti io? Essa fu così disastrosa che andai via senz’altro,
mogio mogio, rimuginando entro me stesso come mai in quella rovina
d’uomo si nascondesse tanto lume d’intelligenza e un artista così
fine e aristocratico”. Vi si vede, in questo brano, come sempre la
mitizzazione è la madre della stupidità. Ma torniamo a Guastella,
all’anarchia dei suoi villani. Si legge, questa anarchia – più
in là siamo alla rottura, al mondo alla rovescia dei Mimì di
Francesco Lanza – la si legge in tutta la sua opera, in Padre
Leonardo, in Vestru, nelle Parità, nel Carnevale,
in questo grande affresco bruegeliano soprattutto, dei pochi giorni
di libertà e di riscatto dei villani contro tutto il resto del tempo
di quaresima e di pena. E, fuori dall’opera di Guastella, la si
trova, l’anarchia, anche nella storia, nei ribellismi dei momenti
critici: nel 1837, durante l’imperversare del colera, in cui il
padre dello scrittore, Gaetano Guastella, si ritrova nel carcere di
Siracusa assieme all’abate De Leva, dove, i due, sono serviti da un
tal Giovanni Fatuzzo, il villano che era stato proclamato re di
Monterosso dalla plebe.
Ribellioni ci sono state,
nel ‘93/94, durante i fasci siciliani; nel 1919 e 1920 in cui il
partito socialista conquistò i comuni di Vittoria, Comiso, Scicli,
Modica, Pozzallo, Ragusa, Lentini, Spaccaforno, e che provocò lo
squadrismo fascista degli agrari. Rispunta ancora l’anarchia e
ribellismo dei villani in tempi a noi più vicini, nel ‘43/44. Nel
Ragusano, allora, si passò dalle jacqueries alla vera e
propria insurrezione armata. A Ragusa e a Comiso si proclamò la
repubblica. “Di preciso si sa solo che furono repubbliche rosse;
non fasciste dunque e neppure separatiste, e si sa anche che a
proclamarle furono sempre rivoltosi contadini, per lo più guidati da
dirigenti locali, a volte essi stessi contadini” Scrive Francesco
Renda.
Dalla rivolta di Ragusa
ci ha lasciato memoria Maria Occhipinti nel libro Una donna di
Ragusa.
La profonda anima di
pietra dei villani della Contea di Modica, quella indagata e
rappresentata da Serafino Amabile Guastella, mandava nel Secondo
Dopoguerra i suoi ultimi bagliori. Ma lui, il barone, uomo di vasta
cultura, illuminista e liberale democratico, con citazioni d’autori,
esempi, dava segni del suo modo di vedere e di sentire quel mondo di
pietra, del suo giudizio sulla condizione dei villani. “Vivendo a
stecchetto dal primo all’ultimo giorno dell’anno, il nostro
villano ha preceduto Proudhomme (sic) nella teoria che la proprietà
sia il furto legale: anzi ritiene per fermo che il vero, il legittimo
padrone della terra dovrebbe essere lui, che la coltiva e la feconda,
non l’ozioso e intruso possessore che ingrassa col sudore degli
altri” scrive nel V capitolo delle Parità. Detto qui per inciso,
quei verbi “coltiva e feconda” ricordano l’istanza di riforma
agraria in Tunisia nel 1885, ch’era detta Diritto di
vivificazione del suolo.
E quindi, più avanti,
parlando del concetto e pratica del furto dei villani, scappa, al
nostro barone, una parola marxiana, “proletario”. “…perocchè
è conseguenza logica e immediata dei compensi escogitata dal
proletario” scrive. Nel capitolo VI, illustrando ancora la pratica
del furto, scrive: “Le idee del furto nel villano non essendo
determinate dal concetto legale della proprietà di fatto, ma da
quello speculativo della proprietà naturale, che ha per norma il
lavoro, ne sussegue che i convincimenti di lui corrano in direzione
opposta delle precisazioni dei codici. Il capitolo X delle Parità
attacca così: “Il padre Ventura, lodando la politica cristiana di
O’Connel, la definì col famoso bisticcio di ubbidienza attiva e di
resistenza passiva; ma se i nostri villani non hanno inventata la
formula, l’hanno però messa in pratica molto tempo prima di
O’Connel, e del padre Ventura”. Cita qui, Guastella, Daniel
O’Connel, detto il grande Agitatore, capo della rivolta contro gli
inglesi e padre dell’indipendenza dell’Irlanda; l’O’Connel
lodato dal filosofo e teologo palermitano padre Gioacchino Ventura.
Fin qui l’intellettuale Guastella. Ma occorre soprattutto dire
dello scrittore, di quello che si colloca, afferma Sciascia, tra
Pitré e Verga.
“Se fossi un romanziere
non parlerei certo di don Domenico, il gendarme con le stampelle,
perché in questo racconto ha una parte secondarissima, ma non
essendo uno scrittore!…” scrive Guastella in Padre Leonardo.
Credo che questa frase sia la chiave di lettura di tutta l’opera
del barone di Chiaramonte. Uno scrittore, il Guastella, diviso tra la
vocazione, la passione del narrare e l’impegno, il dovere quasi,
culturale e civile, dell’etnologia; diviso tra la poesia e la
scienza, l’espressione e l’informazione, l’obiettività e la
partecipazione, la rappresentazione e la didascalia. Ma è già, in
quel racconto, un po’ più vicino alla narrazione e un po’ più
lontano dalla scienza; o almeno, l’etnologia, là, è come inclusa
e sciolta nella narrazione, implicitamente dispiegata, e meno
esemplificata e scandita, come al contrario avviene nelle Parità. In
quel racconto, l’autore, consapevole dello slittamento verso la
narrazione, mette subito in campo nel preambolo una mordace
autoironia facendo parlare il protagonista: ”Io, fra Leonardo di
Roccanormanna, umilissimo cappuccino, morto col santo timor di Dio il
giorno 7 marzo 1847, […] senza saper come, nel marzo del 1875 mi
trovai risuscitato per opera di un imbrattacarta, il quale non ebbe
ribrezzo di commettere quel sacrilegio in tempo di santa quaresima e
in anno di Giubileo […]”. E con questa bricconata d’intento […]
il mio persecutore mi ha costretto ad andare per il mondo […] O
Gesù mio benedetto, datemi la forza di perdonarlo!”
Il padre Leonardo si
muove tra Roccanormanna e Vallarsa, suscita e fa muovere, come
Petruska nel balletto di Stravinskij, altri personaggi: fra Liborio,
padre Zaccaria, don Cola, mastro Vincenzo…
Ognuno d’essi suscita
ancora altri personaggi, illumina luoghi, ambienti,
storie,istituzioni, usi, costumi, linguaggi… Attraverso loro
conosciamo conventi, chiese, confessori e bizzocche, giudici e
sbirri, tempi di feste e di colera, dominanti e dominati, cavalieri
grassi e villani dannati in abissi di miseria. Attraverso quel don
Gaetano, sopra citato, e il cugino fra Zaccaria, costretto a fare un
viaggio fino a Napoli, conosciamo l’ottusa, feroce violenza del
governo borbonico, di Ferdinando e del suo ministro Del Carretto. E
non possiamo non confrontare, questo viaggio a Napoli di fra
Zaccaria, con quelli a Caserta, Capodimonte, Portici, Napoli del
principe di Salina, il quale annota soltanto, oltre la volgarità
linguistica di Ferdinando, di quelle regali dimore, “architetture
magnifiche e il mobilio stomachevole”.
Quando è sciolto,
Guastella, da preoccupazioni scientifiche o didascaliche, quando
sopra la testa di cavalieri e villani, capedda e burritta, osserva il
cielo, la natura, scrive allora pagine alte di letteratura, di
poesia: “Dalle montagne sovrapposte a Roccanormanna scendea una
nebbia fittissima, che prima invadeva le colline, poscia il paesello,
indi un tratto della montagna, mentre dalla parte opposta, in cielo
tra grigio e nerastro correvano nuvole gigantesche a forma di draghi,
di navi, di piramidi, di diavolerie di ogni sorta: e sotto quelle
diavolerie il sole ora si nascondeva, ora riapparia come un bimbo
pauroso dietro le vesti materne. Finalmente privo di splendore e di
raggi come una lanterna appannata, andò a tuffarsi in mare…”
Questo brano, ecco, è speculare a quello ipogeo profondo, a
quell’onfalo d’orrore, a quel Cottolengo, cronicario o Spasimo
asinino della celebre pagina delle Parità in cui si parla della
fiera di Palazzolo.
Ma torno, per finire, a
quel Berger da cui sono partito, alla Sardegna pietrosa e alla
Ghilarza di Gramsci quale metafora storica delle sacche di resistenza
nella globalizzazione economica di oggi.
A Ghilarza, appunto, c’è
un piccolo Museo Gramsci: fotografie, libri, lettere; in una teca,
due pietre intagliate a forma di pesi. Da ragazzo, Gramsci si
esercitava a sollevare quelle pietre per rafforzare le spalle e
correggere la malformazione della colonna vertebrale. Sono un
simbolo, quelle due pietre, simbolo che, cancellato in questo
contesto sviluppato, affluente e imponente, riappare nei luoghi più
pietrosi e disperati del mondo.
Nel Museo dell’olio
di questo paese, di Chiaramonte, ho visto un altro oggetto simbolico:
uno scranno, una poltrona di legno, il cui sedile, ribaltato, è
fissato alla spalliera con un lucchetto. Su quello scranno poteva
sedere soltanto il cavaliere, il proprietario del frantoio, che
deteneva la chiave del lucchetto, giammai il villano. Il simbolo mi
dice, ci dice questo: da noi, nel mondo sviluppato, la partita è
chiusa col lucchetto, la chiave la tiene il gran potere economico che
governa il mondo. Ma quel potere, e noi con lui, dovrà fare i conti
con le pietre di Ghilarza, con i pesi di Gramsci.
Noi, se non vogliamo
essere dominati, essere espropriati di memoria, conoscenza, essere
relegati nelle grotte degradanti e alienanti della produzione e del
consumo delle merci, se vogliamo essere liberi, non possiamo che
anarchicamente ribellarci, resistere e difendere il nostro più alto
patrimonio: la cultura, la letteratura, la poesia.
Claude Ambroise,
presentando insieme a Sciascia, a Milano, nel ’69, la collana delle
opere più significative della cultura siciliana tra il Sette e
l’Ottocento, pubblicata dalla Regione Siciliana, ebbe a dire che
senza la conoscenza, senza il possesso di quel substrato, di quel
patrimonio morale, avremmo rischiato di camminare, di procedere nel
vuoto. In quella collana era stato ristampato Le parità e le
storie morali dei nostri villani, prefato da Italo Calvino.
Guastella, ecco, è una
pietra, e fra le più preziose, della nostra ribellione, della nostra
sacca di resistenza culturale.