28.2.19

Se fiorisce la ginestra. Nicola Badaloni ricorda Cesare Luporini (Francesco Erbani)

L'intervista, molto bella e puntuale sui temi politico-filosofici, contiene un'inesattezza che farebbe sobbalzare Marcello Rossi, storico collaboratore di Piero Calamandrei e attuale direttore del “Ponte”, che ha sempre amato evitare confusioni non sempre disinteressate tra chi cercava una “terza via” che conciliasse, annacquandoli, liberalismo e socialismo e chi aspirava a realizzare il massimo di socialismo e il massimo di libertà considerandoli indissolubili.
Il movimento cui Luporini partecipò negli ultimi anni del fascismo, insieme a Walter Binni, Norberto Bobbio e altri non è il movimento “Giustizia e Libertà” fondato dai fratelli Rosselli che visse fino ai primi anni 40, dopo l'uccisione dei fondatori e la partecipazione dei suoi volontari alla guerra di Spagna, ma il movimento liberalsocialista ispirato da un manifesto firmato Aldo Capitini e Guido Calogero nel 1937. Calogero, Bobbio ed altri liberalsocialisti, insieme ai GL, nel 1942 fondarono il Partito d'Azione e successivamente promossero, nella Resistenza partigiana, Brigate Giustizia e Libertà. Non così Capitini, Binni e lo stesso Luporini che mai aderirono a organizzazioni così denominate. (S.L.L.)

Cesare Luporini
Livorno
Cesare Luporini moriva nell' aprile dello scorso anno, a ottantaquattro anni. Da tempo, contrario alla nascita del Pds aveva abbandonato la militanza politica. Come in un percorso circolare, era tornato a studiare Giacomo Leopardi, al quale nel 1947 aveva dedicato Leopardi progressivo. Quel saggio invertì la rotta negli studi sul poeta di Recanati, la figura centrale, più di Marx, più di Heidegger, del tragitto filosofico di Luporini, iniziato in Germania, a metà degli anni Trenta, e proseguito lateralmente rispetto ai grandi filoni del pensiero italiano del dopoguerra.
Di Luporini si parla oggi e domani a Firenze, in un convegno all'Università al quale partecipa, fra gli altri, Norberto Bobbio. Una relazione molto attesa è quella che pronuncia Nicola Badaloni, filosofo come Luporini, e come Luporini intellettuale comunista mai allineato agli obblighi di partito. Ed è con lui che proviamo a ricostruire la personalità di Luporini. Luporini visse gli ultimi anni lontano dalla politica attiva. Su cosa concentrò le sue riflessioni?
"Luporini, e non solo lui, hanno vissuto gli anni più recenti in un isolamento forzato. Ma la passione politica non venne in lui mai meno, come confermano l'interpretazione di Leopardi e la sua critica ad Heidegger. Egli sosteneva che le forze progressiste non dovevano perdere i loro punti di riferimento, la pace, il rifiuto dell'emarginazione. Nell'immediato avrebbe voluto che tutto ciò divenisse motivo di aggregazione. Ogni segnale che indicasse un'unità dei progressisti a questi livelli alti, lo interpretava come segno della permanente, profonda vitalità degli italiani, in cui persisteva a credere".
I rapporti fra Luporini e il Pci furono difficili fin dai tempi in cui con Ranuccio Bianchi Bandinelli e Romano Bilenchi, diede vita alla rivista Società. Che peso ebbero in questa vicenda la sua avversione all'idealismo, allo storicismo, il suo antidogmatismo e quanto, invece, posizioni più strettamente politiche? "I rapporti con il Pci non sono stati facili, ma mai però di rottura. Luporini fu un punto di riferimento per tutti coloro che respingevano chiusure e arroccamenti, ma non volevano rotture. Il Pds fu per lui un'altra cosa, cioè una rinuncia ad approfondire la vastità e profondità della lotta. Luporini non volle condividere questa ritirata".
Torniamo al Luporini filosofo. La sua formazione, diversamente da quella di tanti studiosi italiani, avvenne negli anni Trenta in Germania con Heidegger e Hartmann. Quanto tutto questo inciderà sul suo pensiero? "Il contatto con Heidegger fu decisivo. Da lui ricavò l'idea della finitezza e della drammaticità della situazione umana. Ma questa vicenda tedesca non fu estranea alla filosofia italiana, bensì un modo per stabilire con essa una tensione critica".
Ma in che modo Luporini innestò le esperienze maturate in Germania nel marxismo?
"Durante il fascismo Luporini partecipò, con Guido Calogero, Aldo Capitini e Norberto Bobbio, al movimento di "Giustizia e libertà". La Resistenza e la tendenza di una parte del movimento a chiudersi in partito lo convinsero che la redenzione dell'Italia dal fascismo e il suo progresso dovessero sfociare in un più ampio collegamento di energie della cultura laica e di sinistra con le masse popolari. La lezione di Heidegger si trasformò nell'idea di un più forte nesso fra intellettuali e popolo. Non era un' apertura pedagogica, era piuttosto la percezione che le lotte operaie potessero produrre fermenti utili alla qualità del lavoro intellettuale. Almeno in un primo tempo, Luporini sviluppò la filosofia dell'azione di Marx, le sue audaci previsioni circa la conseguenza del processo di mercificazione, le contraddizioni che lo sviluppo tecnologico non poteva non suscitare, mettendo in rilievo l'alternativa che esso poneva tra una tirannia tecnocratica più o meno mascherata e una società largamente partecipata in senso democratico".
Questa alternativa è oggi di straordinaria attualità... "Luporini approfondì questi temi avendo presenti gli sviluppi più recenti. L'informatica gli appariva come un potente strumento di dominio. La società complessa, quella del capitalismo maturo, doveva essere analizzata con strumenti logici più profondi che non quelli espressi dalla teoria delle astrazioni storiche. Luporini, a differenza di Louis Althusser, rifiutò lo storicismo, perché voleva dare della storia una visione più complessa".
È in questa prospettiva che si colloca l' interesse di Luporini per Leopardi?
"Leopardi è l'autore della Ginestra, che profetizza un mondo di uomini associati contro la matrigna natura. Nei suoi ultimi scritti, Luporini insiste però sull'assoluta assenza di ogni sicurezza e finalità garantite, quali erano immaginate scaturire dalla natura buona. Ogni intenzionalità volta a fine non può che scaturire da individui umani associati, che accettano la sfida e fanno della profezia il risultato possibile di uno sforzo eroico. Heidegger aveva insistito su paura e angoscia come stimoli emotivi profondi in vista di un'esistenza autentica. Ma nella contemporaneità, l'unica componente emotiva che può sollecitare l'azione è l'orrore, un sentimento non analizzato da Heidegger e intravisto da Leopardi. Secondo Luporini, dopo Hiroshima e Auschwitz, l'orrore deve essere uno degli impulsi emotivi che spingono dal profondo l'individuo umano al rifiuto dell'autoritarismo, anche di quello paternalistico, sia perché non ha occhi sulle miserie del mondo, sia perché può fungere da transizione a un dominio più feroce".

“la Repubblica”, 13 maggio 1994

27.2.19

Quiz televisivi. Le professoresse (Paolo Di Stefano)



Si può discutere, naturalmente, sulla riuscita di un telequiz come L’eredità.
A me piace, e appena posso lo guardo volentieri, cerco di rispondere alle domande, impreco contro i concorrenti che mostrano una cultura meno che elementare (sono parecchi), quelli che collocano il Monte Bianco in Sardegna e il Muro del pianto a Berlino o quelli che ritengono che Hitler sia diventato cancelliere nel 1948 (o nel 1964 o nel 1978, come hanno risposto a raffica tre concorrenti successivi). Liberissimi, in casa propria, di confondere un pronome con un gerundio, ma mi chiedo con che faccia tosta ci si presenti all’Eredità privi di un minimo di cultura generale.
Viceversa, ammiro quei pochi che esibiscono ampie competenze di musica, sport, scienze, grammatica, letteratura, storia e geografia. Tifo per quelli che arrivano al quiz finale dove bisogna individuare la parola che accomuna i cinque vocaboli rimasti in gioco. Non è semplice: ci vuole intuito, cultura, capacità associativa, concentrazione.
Apprezzavo la leggerezza un po’ fanciullesca di Fabrizio Frizzi: mi piace molto meno la chiacchiera invadente e il tono sempre alterato e sopra le righe di Flavio Insinna. Ma quel che mi deprime è il ruolo delle «nostre meravigliose Professoresse!», quattro belle ragazze-vallette chiamate a esibire colpi d’anca, rotazioni di chiome e di braccia, oltre a leggere ogni tanto una decina di righe esplicative (per questo si chiamano Professoresse ma sembrano scolarette) e in chiusura alzare il calice dello sponsor con il vincitore. Mi chiedo come facciano a non deprimersi loro per prime, essendo lì per «proporre la simpatia, i sorrisi e le pillole di curiosità» (dal sito Rai), accompagnate dalla caciara del conduttore.
Sarà una questione di ironia, la presenza delle sexy Professoresse sculettanti e sorridenti? Post o neo ragazze coccodè, parodie di una parodia oppure goffa ripetizione di un’idea nazionalpopolare della donna sciocca e decorativa, mentre sull’altro canale fa dolceamara mostra di sé l’impegno civile dandiniano. Ci si chiede, nell’anno del Me Too, se per una tv pubblica non ci sia una dignitosa via di mezzo tra la retorica patetica e la persistenza sfacciata del cliché. E rimane il dubbio se la trave di Weinstein & Co sia tanto più scandalosa della pagliuzza quotidiana televisiva.

Corriere della Sera, 18 dicembre 2018

Più che puoi. Una poesia di Kavafis



Se non puoi farla come vuoi, la vita,
sforzati almeno più che puoi
di non prostituirla
nei contatti eccessivi con la gente,
con i gesti eccessivi e le parole.

Non la prostituire col portarla
troppo sovente in giro, con l’esporla
ai commerci e alle pratiche
della dissennatezza quotidiana
finché diventi estranea ed importuna.

Traduzione di Nicola Crocetti - Poesia n. 278 gennaio 2013

Virgilio e le Bucoliche. Quando la “natura” diventa paesaggio (Nicola Gardini)



Che cosa significa il termine “natura” per un poeta latino che cerca la sua strada nella prima età augustea e, incapace ancora di affrontare armi e gesta eroiche, imbocca la carriera letteraria proprio con una raccolta di componimenti, le Bucoliche, che danno una certa rappresentazione dello spazio naturale?
Troppo lungo sarebbe ripercorrere la storia dei significati che si associano a “natura” nell’antichità previrgiliana. Qui basti dire che Virgilio aveva alle spalle una tradizione di ricerche sulla physis che iniziava dai presocratici e, passando per Platone, discendeva ad Aristotele, agli stoici e agli epicurei. Il significato di physis si è molto trasformato d’autore in autore, passando dal senso ristretto di proprietà specifica di qualcosa a quello generale di ambito del vivente. Ancora nel poema di Lucrezio, la fonte latina più vicina a Virgilio, il termine “natura” esprime varie idee: è la condizione della corporeità, l’insieme delle leggi che regolano i processi dell’universo, ma è anche la voluptas che perpetua la vita, il dominio totale dei processi generativi e delle operazioni atomiche, l’intelligenza biologica.
Nelle Bucoliche la natura è anzitutto paesaggio: ambiente della familiarità e della proiezione interiore; angolo di paese che sta per il mondo intero, secondo una definizione di Francois Jullien. Potremmo arrivare a dire che le Bucoliche ci hanno fornito il prototipo di paesaggio per eccellenza, irrigidendosi in vero e proprio paradigma, la geografia-casa, destinata a riaffiorare per tutta la nostra storia letteraria, giù giù fin nel cuore del Novecento, secondo molteplici formulazioni linguistiche: uno scenario di elementi caratteristici - vegetali, animali, atmosferici, climatici -, in cui l’individuo umano, emblematizzato nella figura del pastore, si colloca pacificamente e confidenzialmente, pur con qualche sospiro malinconico.
Lo spazio della bucolica tende all’armonia, perché è apolitico, antimilitare, istintuale. È qualcosa che l’uomo guarda ricercandovisi e traendone piacere. I conflitti vi si riducono a gare di canto, la sofferenza a pena d’amore. La fatica è assente, perché la bucolica ricrea l’età dell’oro, sommo ideale di vita comune nella propaganda augustea. La morte non manca neppure lì, ma il lutto si risolve in riti consolatori e nostalgie affettuose, quando non nella divinizzazione del defunto.
Virgilio non è partito da zero. Prima di lui il greco Teocrito ha rappresentato i tratti naturalistici della bucolica. Virgilio, però, ha saputo fissare quei tratti in un codice imperituro, per di più dando alla natura-paesaggio una capacità di partecipazione alle vicende umane che il modello greco aveva solo accennato. L’integrazione segue un doppio senso di marcia. C’è osmosi tra tutti i viventi, corrispondenza biunivoca, capacità di commuoversi gli uni per gli altri indipendentemente dalla specie. Un diffuso senso di appartenenza equipara umani e no, in una sorta di musicale condivisione, anzi, in una vera e propria coscienza ecologica ante litteram.
Vorrei sottolineare che il modello della bucolica virgiliana è tutt’altro che omogeneo e statico, per quanto possa apparire e per quanto lo stesso Virgilio, selezionando e polendo fino all’autocitazionismo o al cliché, abbia raffinato i materiali in sommo grado. La verità è che la lustra maiolica esce dal laboratorio già percorsa da crepe e screpolature che lasciano intravedere profondità cupe e magmatiche, e modelli di natura non solo iperletterari. Il sogno d’evasione e l’idealizzazione atemporale, per cominciare, non escludono una concezione scientifica della natura, che invano si ricercherebbe in Teocrito e che fa di Virgilio un autore pienamente originale. Una coppa che Menalca mette in palio gareggiando con Dameta raffigura due celebri astronomi della storia: Conone, richiamato con tanto di nome (è quello che scoprì la Chioma di Berenice, di cui cantarono Callimaco e poi Catullo), e Archimede, evocato da una perifrasi: «l’altro, / che l’universo tracciò per i popoli con la bacchetta» (Bucoliche 3,40-41). Si noti che una coppa effigiata è anche in Teocrito, proprio nel primo degli Idilli, ma quello che vi è rappresentato non ha alcun contenuto scientifico: vi si vedono una contesa amorosa, un pescatore e una vigna, dove due volpi rubano l’uva e la colazione al giovanissimo guardiano, il quale sta costruendo una gabbietta per grilli.
Con geniale nonchalance Virgilio ha costretto la «visione astronomica» - quella di una natura matematica, misurabile, secondo una prospettiva che arriverà a Galileo Galilei e con lui si imporrà - nello spazio di una minuta ekphrasis. Tuttavia, tanta miniaturizzazione non è solo artistica ironia. Virgilio, infatti, nell’episodio di Menalca sta tenendo a bada la tentazione di un’altra possibile via, quella appunto della poesia astronomica, che altri hai no percorso prima di lui: Empedocle, Arato di Soli e il già ricordato Lucrezio, per citare i più rilevanti. Questa tentazione, d’altra parte, non smette di tentarlo, riapparendo qua e là in tutta la sua opera. Ne abbiamo un esempio nelle stesse Bucoliche, dove Sileno canta niente meno che una cosmogonia (Bucoliche 6,31-40). Il richiamo della poesia astronomica si riaffaccerà ne secondo libro delle Georgiche. Significativo è che questo passo sarà richiamato alla lettera alla fine del primo libro dell’Eneide nel canto di Iopa, il poeta della corte cartaginese, segno che l’ipotesi (forse il rimpianto) di una carriera scientifica in Virgilio neppure in quella fase apicale, l’epos tanto a fatica raggiunto, è del tutto dimenticata. Il confronto con il modello di Lucrezio, in tutto questo, ha certamente contato. L’ideale scientifico torna nel quarto delle Georgiche e riemerge memorabilmente, in ima sorta di testamento (a parlare, non a caso, è Anchise), nel centro stesso dell’Eneide, il sesto libro, in un passo che, ispirandosi alle dottrine dello stoico Posidonio, sottolinea l’unità originaria di tutte le forme viventi.
Torniamo alla terza bucolica. Ho detto del riferimento a Conone e ad Archimede. Poco sotto, in un’altra micro-ekphrasis, pure questa incisa su una coppa, troviamo in bocca a Dameta un’allusione a Orfeo. Anziché due scienziati, viene stavolta citato un poeta. A suo modo, però, Orfeo è uno scienziato pure lui: con la forza del canto è capace di intervenire direttamente sulla natura, di trascinarla perfino. Un buon canto (carmen), infatti, oltre che riportare l’amato a casa (nelle Georgiche Orfeo riuscirà col canto perfino a convincere le divinità della morte a restituirgli la moglie), produce imperativi irresistibili cui le stesse forze vitali non sono in grado di resistere. L’idea di natura implicita è questa: che la natura consta di energie senzienti e intelligenti; che la natura non è strutturalmente fissa ed estranea, ma si realizza nell’interazione con l’uomo, perché vive come l’uomo e perché l’uomo le appartiene. Questa magia verbale, l’incantesimo, di cui troviamo testimonianza in Virgilio, ha già lungo corso. Molta altra strada, d’altronde, avrà davanti, costituendo non solo un filone importante della nostra tradizione magica, ma anche una disciplina in cui poesia e scienza sanno ancora collaborare.

“Il Sole 24 Ore”, 30 settembre 2018

Linguistica. La difficile arte del puntar gli scritti (Lorenzo Tomasin)



Quanta attenzione per la punteggiatura! A lungo trascurata dalla tradizione normativa (molte delle grammatiche anche più esigenti le dedicavano solo qualche cenno elusivo e spesso impreciso e contraddittorio), l’arte del puntargli scritti - come la chiamavano già nel Rinascimento i primi, semisconosciuti teorici - è tornata in Italia ad attrarre l’attenzione da più punti di vista. Lo suggerisce l’apparizione in pochi mesi di almeno tre volumi dedicati a temi su cui anche in tempi di diluvio bibliografico si era prodotto finora assai poco. Tre libri molto diversi, per pubblici piuttosto variegati. Il volume di Leonardo G. Luccone, traduttore ed agente letterario (Questione di virgole. Punteggiare rapido e accorto, Laterza), è il tipico rappresentante d’un filone di manuali di scrittura rivolti a un lettore desideroso di trarre esempi esempi edificanti dalla visitazione di modelli narrativi, accompagnato da una sorta di brillante guida turistica; quello di Paola Baratter (Il punto e virgola. Storia e usi di un segno, Carocci - un intero se pur snello volume dedicato tutto al punto e virgola!) fa tesoro di una sapiente esperienza scolastica e di un accurato scrutinio storico per tracciare la parabola vitale di un segno interpuntivo considerato - forse a torto - moribondo («non si può considerare il punto e virgola in via di estinzione»); quello di un gruppo di studio basato in Svizzera e diretto dalla linguista Angela Ferrari Letizia Lalaetal (La punteggiatura italiana contemporanea. Un'analisi comunicativo- testuale, Carocci) è invece la sintesi d’un ampio e solido progetto di ricerca avviato ormai da anni, che ha fatto della punteggiatura italiana contemporanea uno dei sistemi interpuntivi meglio studiati e meglio teoricamente inquadrati tra quelli delle grandi lingue di cultura, che di fatto rispondono a logiche solo in parte comuni.
Il vademecum di Luccone è dei tre il meno scientificamente ferrato, e sembra dialogare, in un tono d’esibita brillantezza, con aspiranti scrittori alle prese con la revisione del loro testo o con copywriter a caccia di una soluzione originale: di fatto, vi è sottesa un’idea della punteggiatura piuttosto convenzionale, se pur esposta con il piglio dell’editor e del creativo più che con lo specillo del linguista. Il viaggio di Baratter nella storia del punto e virgola (che di fatto inizia con Pietro Bembo e con l’idea di conferire un uso ben codificato al segno che nella grafia greca corrisponde al punto interrogativo) passa in rassegna i modi in cui questo elemento per sua natura intermedio - tra il punto e la virgola - è stato descritto dai grammatici del passato, e dei modi in cui l’hanno usato gli autori letterari, soprattutto durante il Novecento. Ma siamo sempre sicuri che l’uso della punteggiatura sia da attribuire a loro e non, come spesso sarà capitato, alle invadenti pratiche degli editor, capaci spesso di rifare la punteggiatura, e non solo quella, a interi volumi di scrittori anche insigni?
Idea centrale degli studi di Ferrari e dei suoi collaboratori - esperti di una branca oggi particolarmente vivace e propositiva, la linguistica testuale - è che la ratio della punteggiatura italiana vada cercata nelle intenzioni comunicative di chi scrive, non tanto o non solo (come molti pensano) nella delimitazione di strutture sintattiche, che pure spesso la orientano, o in istruzioni per la lettura o addirittura per la respirazione. La punteggiatura italiana contemporanea non è un’espressiva nota di regia: essa articola il testo nelle sue unità semantico-testuali, le gerarchizza. Ha insomma una funzione spesso simile a quella di una matita che sottolinei, o d’altra punta che evidenzi.
In questo senso quella italiana funziona abbastanza diversamente da altre interpunzioni, come ad esempio quella tedesca, rimasta legata a un criterio propriamente sintattico che l’italiano ha ormai superato, pur se non abbandonato totalmente: la differenza balza anche all’occhio del profano appena si consideri che in tedesco appunto sono oggi obbligatorie alcune virgole (per esempio quelle poste davanti a vari tipi di frasi subordinate) che non lo sono in italiano, o che in italiano rispondono a logiche diverse. Non occorre essere esperti di linguistica testuale, in effetti, per capire la differenza tra «gli studenti che hanno passato l’esame son contenti» (relativa restrittiva) e «gli studenti, che hanno passato l’esame, son contenti» (relativa appositiva: tutti promossi!). Come è noto, anche solo una virgola, di cui il gruppo di ricerca svizzero osserva un complessivo «sovra-uso» nell’italiano contemporaneo, può bastare a mutare il senso di un testo. Meglio dunque farne buon uso. Punto.

Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2018

La "fossetta" dove si perde la ragione. Lombroso e i suoi seguaci (Marco Dotti)



Si intitolava semplicemente Come mio padre venne all'antropologia criminale, il saggio che Gina Ferrero-Lombroso dedicò al padre Cesare e al suo programma di positivismo applicato all'ambito sociologico, prima elogiato e infine vituperato dalla comunità scientifica. Pubblicate nel 1921 dall'editore Bocca di Milano - e subito riprese, come era d'uso all'epoca, con altro titolo e da altro editore - le note di Gina ripercorrevano le «scoperte» dello scienziato nato a Verona il 6 novembre del 1835, che, nel corso delle sue ricerche, sosteneva di avere individuato segreto, origine e misteri della natura criminale. Fu osservando il cranio del bandito calabrese Giuseppe Villela - ricorda Gina, divulgatrice di rango che con la sua prosa semplice e ricca di informazioni stupì persino Filippo Turati - che Cesare Lombroso maturò una delle sue pricipali convinzioni: l'indice del potenziale criminogeno e dell'atavismo che rendevano alcuni individui «delinquenti per natura», quindi insofferenti alla pacifica comunità dei «normali» si trovava nella fossetta occipitale.

La teoria dell'atavismo
Nel 1872, quando effettuò l'autopsia sul cadavere di Vilella, Lombroso riscontrò un'anomalia nella conformazione cranica del brigante allora settantenne: una piccola cavità localizzata nella zona dell'occipite. Ne dedusse che la «fossetta» - non presente a suo dire negli individui comuni - costituisse una prova di pazzia, di delinquenza o di atavica brutalità selvaggia. L'atavismo era un'altra delle parole che Lombroso contribuì a far circolare, sovradeterminandola di aspettative e di senso, nel panorama scientifico del tardo XIX secolo. Per la teoria dell'atavismo, certe caratteristiche somatiche, psichiche e comportamentali dell'individuo si trasmetterebbero di generazione in generazione, attestando il legame tra il «delinquente moderno» e uno stadio primitivo e «selvatico» dell'umanità. Come un Rousseau alla rovescia, impregnato di medicina sperimentale e di letture darwiniste, Lombroso ricorda - è sempre Gina a riportarne le parole - come alla vista della conformazione cranica di Vilella, avendo riscontrato la presenza della tanto vituperata fossetta occipitale, «il problema della natura del delinquente mi apparve subitamente illuminato come una vasta pianura sotto un cielo infinito». Era così giunto alla conclusione - importante per lui, ma determinante anche per i riflessi e gli echi irriflessi sul dibattito e le pratiche di un'epoca intera e persino oltre - che «l'uomo delinquente non era altro che il rappresentate attuale dell'uomo primitivo e anche dei suoi predecessori».
Nell'atavismo, che più di una ipotesi era per lui una incontestabile e «scientificamente» incontrovertibile certezza, Cesare Lombroso segnava il passo di un progresso che, nelle discipline criminologiche e sociali, cercava spesso maldestramente di liberarsi dalla metafisica di matrice religiosa, servendosi a suo modo di Darwin e delle ricerche sull'evoluzionismo, mischiate con non poca ingenuità e confusione all'influentissima «legge biogenetica fondamentale» enunciata dal naturalista tedesco Ernst Heinrich Haeckel. Secondo la legge di Haeckel, l'atavismo poteva infatti leggersi come derivazione - ai nostri occhi distorta fin che si vuole - del rapporto tra ontogenesi e filogenesi dove, semplificando, lo sviluppo di ciascun individuo ricapitolerebbe lo sviluppo complessivo della specie.
Ogni individuo, preso in se stesso ma in quanto appartenente alla specie, ricapitolerebbe lo sviluppo della specie stessa cui appartiene, anche se - e qui sta il punto - persino in quella umana permarrebbero alcuni individui, delinquenti e pazzi su tutti, rimasti indietro rispetto al percorso della specie stessa. Era possibile dunque isolare preventivamente questi soggetti, individuandone attraverso screening antropometrici conformazioni craniche e tratti somatici (stigmate) che ne attesterebbero l'appartenenza a uno stadio regressivo dell'evoluzione della specie e, di conseguenza, intervenire anche sul piano del controllo sociale e della repressione. I delinquenti non esercitavano dunque, secondo Lombroso e la sua «scuola positiva», la loro «criminalità» per un deliberato atto di scelta morale, ma perché spinti da una congenita indifferenza il cui indice principale era l'assoluta insensibilità al dolore, proprio e altrui, e la tendenza a tatuarsi il corpo, come nei selvaggi.
Lo studio del criminale-nato, osserverà Lombroso tra le pagine di uno dei suoi lavori più noti e influenti, L'uomo delinquente, poteva dar luogo a un «progresso» contro l'oscurantismo metafisico delle scienze criminali e umane in genere. Come? Semplicemente sottraendo allo studio e alla repressione del «delitto astratto», l'individuazione e lo studio del «delinquente», intervendo non sulla mistica della «malvagità» del reo, ma su una a questo punto ben più concreta «pericolosità sociale» preventiva. «L'esame del delinquente fatto dall'antropologia criminale» - scriveva a questo proposito Lombroso - «ha stabilito trovarsi in questi, massime nel suo tipo più caratteristico, una quantità di caratteri abnormi, anatomici, biologici e psicologici, molti dei quali hanno significato atavico, perché ripetono le forme proprie degli antenati anche pre-umani dell'uomo. E siccome a questi caratteri atavici si associano tendenze e manifestazioni criminose, e queste sono normali e frequentissime negli animali e nei popoli primitivi e selvaggi, così è legittimo concludere che anche nei criminali queste tendenze siano naturali, nel senso che dipendono necessariamente dalla loro organizzazione, analoga, per inferiorità di struttura e di funzioni fisiche e psichiche, a quella dei popoli primitivi e dei selvaggi e qualche volta degli animali».
Comunque lo si voglia giudicare, per quanto caricaturali appaiano certe sue posizioni, sia nel campo delle scienze criminologiche, sia in quello della psicologia sociale tout court Lombroso rappresenta a tutt'oggi un nervo scoperto per un certo positivismo mal compreso. Progressista nelle intenzioni, probabilmente reazionario nei fatti, nel corso di un decennio Lombroso suscitò un vero e proprio «movimento» di individuazione, catalogazione e analisi delle stigmate della devianza (fossette occipitali e tatuaggi su tutti) che, oltre a essere osservati sul corpo di detenuti, briganti, camorristi o semplici «imbecilli», venivano debitamente fotografati e ritagliati dai cadaveri, puntati su tavolette con degli spilli e inviate a Torino, nel museo a cui lo stesso Lombroso stava dando vita.

In mostra i corpi del reato
Fondato da Lombroso nel 1876, l'anno della prima edizione dell'Uomo delinquente, il Museo di antropologia criminale di Torino nacque come collezione privata e fu allestito al numero 18 di via Po, nelle sale del Laboratorio di Medicina legale dell'Università. Il primo nucleo della collezione, avrebbe scritto Lombroso in un articolo pubblicato sulla «Illustrazione italiana» nel 1906, risaliva proprio ai suoi studi degli anni sessanta del XIX secolo e prese i suoi modelli dall'esercito:«avendovi vissuto parecchi anni come medico militare, prima nel '59 e nel '66 ebbi campo di misurare craniologicamente migliaia di soldati italiani e raccoglierne inoltre crani e cervelli». Lombroso non esiterà a descrivere i materiali reperiti nelle carceri, nei manicomi e negli obitori - circonferenze craniche, pugnali camuffati da crocifissi, nodi scorsoi, ma anche bellissimi mobili intarsiati da mattoidi, vasi, ricostruzioni di scene del crimine e insospettabili «corpi del reato», ma anche feti e lembi di pelle tatuata, il cui stato di conservazione è alquanto problematico - come «poveri trofei», raccolti «prima in una camera da studente, spauracchio continuo delle padrone di casa, poi in una specie di granaio che fungeva da laboratorio nella via Po di Torino.
E finalmente nel '99 nelle ampie sale del Museo Psichiatrico criminale, nei nuovi laboratori biologici nella Università di Torino». Riaperto il 27 novembre scorso in occasione del centenario della morte di Lombroso, dopo anni di lavori, fra le sue collezioni il Museo di Antropologia Criminale oggi situato in via Pietro Giuria 15, e sovrainteso da Silvano Montaldo raccoglie preparati anatomici, disegni, fotografie, scritti e manufatti di internati nei manicomi e nelle carceri del Regno d'Italia, presentandosi quasi come un palinsesto della mentalità dell'epoca e della mente di uno dei suoi più illustri e, al tempo stesso, più contraddittori interpreti. Ironia della sorte, tra i molti reperti conservati, non ultimo è lo stigma dello stesso Lombroso, che per testamento dispose la propria decapitazione post-mortem e la conservazione del proprio cervello in una teca ricolma di positivissima formalina.

“il manifesto”, 5 gennaio 2010

25.2.19

La poesia del lunedì. Salvatore Quasimodo (Modica 1901 - Napoli 1968)



In questa città

In questa città c’è pure la macchina
che stritola i sogni: con un gettone
vivo, un piccolo disco di dolore
sei subito di là, su questa terra,
ignoto in mezzo ad ombre deliranti
su alghe di fosforo funghi di fumo:
una giostra di mostri
che gira su conchiglie
che si spezzano putride suonando.
E in un bar d'angolo laggiù alla svolta
dei platani,qui nella mia metropoli
o altrove. Su, già scatta la manopola.

da La terra impareggiabile (1958) in Tutte le poesie, Mandadori 1971

Umanità di Rosa. Le lettere della Luxemburg a Leo Jogiches (Mario Spinella)



«Una casa nostra, dei mobili nostri, una nostra biblioteca, un lavoro sistematico e tranquillo, le passeggiate assieme, di tanto in tanto l’opera, una ristretta cerchia di amici da invitare ogni tanto a cena, ogni anno un mese di vacanze d’estate, in campagna, senza ombra di lavoro!... E forse anche un piccolo, un bambino? Non mi sarà mai concesso? Mai?».
Chi scrive queste righe in una lettera all’uomo amato? Vedo già il settario oggi alla moda storcere il naso innanzi a una simile effusione «piccolo-borghese», come egli direbbe. Eppure, a scrivere queste righe è una tra le maggiori, se non la maggiore rivoluzionaria del nostro secolo, Rosa Luxemburg, e non negli anni sognanti della adolescenza, ma il giorno dopo aver compiuto i ventinove anni, quando già da tempo si è fatta conoscere per i suoi articoli sulla situazione polacca, e anzi è già, da qualche mese, redattore capo di uno dei più importanti organi di stampa della socialdemocrazia tedesca, la Sachsische Arbeiterzeitung di Dresda.
Bene ha fatto Lelio Basso, profondo conoscitore ed estimatore del pensiero e dell’azione di Rosa Luxemburg, dovendo operare una scelta nel ricchissimo carteggio tra Rosa e Leo Jogiches, un militante e dirigente socialista polacco da lei amato, a concentrare l’attenzione su quelle tra le lettere dalle quali meglio risultasse il profilo «umano» della grande rivoluzionaria. Basso non si perita di scrivere, nella prefazione all’edizione italiana (e noi siamo totalmente d’accordo con lui): «Al fondo della personalità di Rosa Luxemburg, al fondo anche del suo intransigente impegno rivoluzionario, c’è un bisogno infinito di amare, di amare la vita e di amarla in tutte le creature. Nonostante tutte le esegesi “scientifiche”, credo che alla radice di molte scelte rivoluzionarie, anche dei più grandi rivoluzionari, al fondo di tante ribellioni giovanili che poi influenzano tutta una vita, ci sia un sentimento di profonda rivolta contro le sofferenze, le iniquità, la miseria e un sentimento di amore per chi ne è la vittima». E cita, tra l’altro, Basso, un’espressione di Rosa, ancora nel febbraio 1917, dopo le vicissitudini che le avevano fatto conoscere sia il ruolo di dirigente del movimento operaio, sia quello di perseguitata, imprigionata, oppressa: «Io mi sento di casa in tutto il mondo, ovunque siano nuvole e uccelli e lacrime umane ». Ed è proprio, argomenta Basso, «questo amore immenso per gli uomini, per la natura, per la vita nelle sue molteplici manifestazioni» che «così come le darà una forza straordinaria per sopportare le condizioni più avverse, le dà in pari tempo un grande desiderio di gioire, di godere in pienezza di gioia le ricchezze della vita, di ristabilire sempre un equilibrio fra sé e l’ambiente di vita, fra il mondo interno e il mondo esterno ».
In tal modo, anche se l’edizione italiana delle Lettere a Leo Jogiches (Milano, Feltrinelli 1973) contiene solo una parte delle 891 tra lettere e cartoline pubblicate dal curatore polacco, Feliks Tych, essa non solo non ci appare monca, ma contribuisce a mettere a fuoco — al pari e più delle migliori biografie — il nocciolo vitale della personalità di Rosa quale emerge nel lungo arco di vita che va dai suoi ventiquattro anni (1894), sino al 1905 (poche sono infatti le lettere successive a questa data).
Questa eccezionale vitalità è testimoniata in pieno dal carteggio: la piena dei sentimenti non solo non impedisce a Rosa di impegnarsi a fondo nel movimento rivoluzionario, ma sembra, al contrario, sollecitarla a dare tutto di sé. Si vedano, a questo proposito, le lettere del 1894 e 1895 da Parigi, ove Rosa si era recata per dar vita a un periodico destinato a sostenere la causa operaia polacca. È tutto un fervore di lavoro, di domande, di revisione e di controllo degli articoli; e nel frattempo Rosa produce, spesso con la collaborazione di Jogiches, volantini ed opuscoli, incontra gente, si occupa della tipografia, della spedizione, persino dell'imballaggio, tiene conferenze. E ben presto comincerà a collaborare alla prestigiosa Neue Zeit, mentre prepara la sua tesi di laurea su Lo sviluppo industriale della Polonia.
Una seconda serie di lettere ha inizio dal maggio 1898. Rosa si è trasferita in Germania, Leo Jogiches è rimasto a Zurigo. Con uno stratagemma (un matrimonio in bianco) ella ha assunto la cittadinanza tedesca: una scelta che risulterà decisiva per la sua vita, e che le permetterà di militare (e di emergere) in quello che era allora il maggior partito socialista della Seconda Internazionale. Sorprende, sin dalle prime lettere di questo periodo, la sicurezza della giovane donna, che non si perita di tener testa, sulla questione polacca sulla quale — come scrive — era «meglio informata» di loro, ai massimi dirigenti del partito tedesco che allora — aggiunge — ritenevano che «non si può fare agli operai polacchi della Slesia altro che germanizzarli». Rosa sa bene quello che vuole («Preferirei "agire” all’inizio su un palcoscenico più in vista — a Berlino — e non in qualche buco dell’Alta Slesia»), ed ha piena coscienza del proprio valore («a Bebel non scriverò nulla, è superfluo: mi conoscerà dai fatti»); ma sa essere anche una militante («A proposito del mio lavoro, ieri per tutta la giornata, dalle otto del mattino fino alle 8 di sera, abbiamo girato la zona di Wolny per distribuire volantini e schede elettorali. Questo genere di lavoro a te può sembrare umiliante, come sembrava a me quando ero a Berlino, e perciò ero tanto scontenta di dover andare in Alta Slesia. Qui però sono arrivata alla conclusione opposta: un lavoro di questo tipo mi onora...»).
È con questo spirito che affronterà, nei mesi successivi, il non facile compito di affrontare direttamente il revisionismo di Bernstein, in una serie di articoli che saranno alla base del suo opuscolo Riforma sociale o rivoluzione? e che le conquisteranno la stima di Mehring e di altri esponenti del partito. Cosi, in pochissimi mesi, la giovane donna polacca esule a Zurigo si inserirà tra i quadri politici e teorici del grande movimento operaio tedesco: al quale sarà fedele sino alla morte.
Questi pochi esempi e commenti si limitano a dare un’idea, anche se pallida, dello straordinario interesse di questa scelta di lettere; che certo contribuirà a meglio far conoscere la grande rivoluzionaria polacco-tedesca e a chiarire, in modo diretto e indiretto, perché Rosa Luxemburg diverrà comunista e come tale sarà assassinata dalla reazione.

“l'Unità”, sabato 16 febbraio 1974

“Le più crude invenzioni sono citazioni”. Karl Kraus e «Gli ultimi giorni dell'umanità» (Piero Violante)

Piero Violante
Dello Swinging Palermo di Piero Violante in questo blog c'è più di una traccia: libro assai bello, di cui raccomando la lettura e anche la rilettura, al fine di scoprire paesaggi e percorsi seminascosti, sfuggiti al primo sguardo. Biografia culturale” della capitale siciliana negli anni tra Sessanta e Ottanta del '900, ne racconta e ne interroga figure, momenti, musiche, teatri, prendendo partito per le battaglie di cultura e di civiltà (quasi tutte concluse con la sconfitta) condotte da una straordinaria “intelligenza” d'opposizione, la cui memoria va tenuta viva in questi tempi oscuri. Ma il libro è anche una “autobiografia intellettuale”, il racconto di come il suo autore – secondo me il più colto, poliedrico e curioso tra i miei magnifici compagni di Sessantotto – trovi il suo posto in una città complicata, inquieta ed inquietante. Accade così che nella sua trama possano rintracciarsi, brevi e sugosissimi, dei veri e propri saggi. 
Così quello che qui riprendo, su Karl Kraus e Gli ultimi giorni dell'umanità, lettura convincente dell'opera-mondo del “pontefice della verità” con “corazza da guerriero”, una delle figure più eminenti di quella Vienna prima e dopo la fine dell'impero, che tra i Settanta e gli Ottanta divenne oggetto di una diffusa nostalgia. Piero Violante, che in Swinging Palermo dà conto di un suo soggiorno viennese ricco di contatti ed esperienze, non deve essere sfuggito del tutto al contagio, ma la sicula ironia lo salvò e lo salva dalle sue fastidiose complicazioni, tra le quali giustamente egli stigmatizza il feticismo a buon mercato che dà valore di memoria anche alla paccottiglia. (S.L.L.)

Karl Kraus

Si dice che Kraus lavorasse di notte per non essere disturbato dalla stupidità che abitava il giorno. In effetti, lavorava di notte per annotare con puntiglio maniacale ciò che la stupidità aveva prodotto e aveva consegnato trionfalmente ai giornali. Il Grande Testimone, durante la guerra, non dormì mai: la macchina della stupidità lavorava troppo a pieno ritmo perché lui si potesse distrarre. Ed eccolo ad accumulare, notte per notte, a scrivere la sua Apocalisse, l’Apocalisse del Mondo di Ieri che altri avrebbero mitizzato e che lui aveva sempre fustigato. Gli stupidi erano stati sempre lì a due passi: tra la Kartnerstrasse e la Hofburg, e la stupidità si stendeva regolare sulle colonne della «Neue Freie Presse». Sino al 1914 gli era bastato sporgersi dalla finestra per sentire il rumore della chiacchiera, il cui spettro sonoro fissava, maligno, nella Fackel, la sua rivista rosso fiammeggiante. Era convinto, come altri viennesi: Schònberg, Loos, Wittgenstein, che tutto accadesse nella lingua e che la sua corruzione indicasse la corruzione dei valori. Un tic, un lapsus, un errore: Kraus li collezionava, li sbeffeggiava, il più delle volte si indignava, ma soprattutto li esibiva come prova della corruzione. Dopo il 1914 il rumore del bavardage fu raddoppiato dal rumore dei cannoni: ma Kraus lesse quest’ultimo come il prodotto del primo e ancora una volta gli bastò sbirciare sull’angolo di Sirk (tra Kartnerstrasse e l’Opera) per scorgere la barbarie, anzi per fare di quell’angolo elegante il centro della barbarie. In fondo per Kraus la Grande Guerra si svolge tutta lì, in quell’angolo di cartapesta, davanti a quella quinta, su una passerella sulla quale scivolavano gli orrori della guerra ma soprattutto quelli che Kraus accusa come i responsabili di quegli orrori: l’imperatore, la nobiltà, i ministri, i politici, i giornalisti (la journaille), gli ebrei. Da grande satirico, Kraus fissa i tratti fisici, i gesti sociali, e soprattutto la maschera sonora di questi personaggi d’operetta che si accalcano in quell’angolo o vagano nella stanza dei Palazzi o si disperdono negli scenari di guerra. Gli ultimi giorni dell’umanità che Kraus scrive e riscrive tra il 1915 e il 1922, tragedia in cinque atti con un prologo ed un epilogo, può essere letta come un protocollo linguistico, una grande partitura che contiene la stupidità imperial-regia esemplificata in tutti i suoi registri linguistici. E Kraus stesso ad affermare che nella sua tragedia «le più crude invenzioni sono citazioni», inchiodando i suoi personaggi ad una follia vissuta come sano eroismo. La natura documentaria della tragedia illustra una singolare fedeltà ai materiali citati attraverso la tecnica del collage che mira all’esasperazione dei materiali assemblati. Il «contatto raccapricciante», come scrive Edward Timms, è la tecnica combinatoria dei materiali che deve scatenare nell’ascoltatore l’indignazione. Nel fare scivolare i suoi personaggi d’operetta, nel sorprenderli nei loro tic linguistici che sono tutt’uno con le loro scelleratezze sociali, Kraus vuole che il lettore rida e s’indigni perché la guerra l’hanno voluta tutti. Non solo la guerra è ignobile e orrenda ma è la sua lingua che dal fronte si è disseminata dentro la società. Poco meno di venti anni dopo il grande filologo Victor Klemperer - cugino di Otto, il direttore d’orchestra - epurato dai nazisti inizierà ad annotare in un suo taccuino la disseminazione del nazismo dentro la lingua tedesca per forgiare la Lingua Tertii Imperi (Ltl).
Essendo per Kraus come poi per Klemperer gli agenti principali di questa disseminazione la journaille e la burocrazia.
Negli Ultimi giorni Kraus si accanisce impietosamente con la corrispondente di guerra Alice Schalek. Nei «pezzi» di Alice dal fronte, la guerra si fa racconto nobile, eroico, sentimentale, e questo racconto fa trasparire una fascinazione che altri, in modo più sottile della Schalek, esprimeranno coniugando sangue e acciaio e preparando l’avvento del nazismo. La lingua dei giornali si identifica con la lingua della guerra: i giornali sono il luogo del discorso della guerra e per questo Kraus attacca la Schalek. Per cinque atti, per quasi settecento pagine, per otto ore in teatro, Kraus attacca chi consapevolmente o no parla la lingua della guerra avendo sempre più chiaro negli anni di scrittura e riscrittura della tragedia che in gioco nella Grande Guerra non sono l’onore o il valore ma soltanto la merce e il suo modo di produzione. Questo sterminato protocollo linguistico è il solitario, beffardo atto d’accusa di chi la guerra non l’aveva voluta ma soprattutto non l’aveva veramente mai parlata. L’ultima battuta dell’epilogo che chiude la tragedia è di Dio: «Io non l’ho voluta». E un epilogo in cui Kraus prende a modello il Faust di Goetheper affermare la forte valenza morale della sua opera e per suggerirci che Gli ultimi giorni sono l’esito infernale del furore modernizzatore di Faust. La Grande Guerra se chiuse un’epoca di stupidità ne aprì un’altra in cui la lingua della guerra-merce farà tacere le altre. Il silenzio di Kraus di nuovo quando Hitler prese il potere è la prova di una profezia inascoltata.

da Swinging Palermo, Sellerio Editore, Palermo, pp.156-159

Tempo di andare in pensione. Un articolo di Walter Cremonte per “micropolis” (2002)


Generale, il tuo carro armato è una macchina potente / spiana un bosco e sfracella cento uomini. / Ma ha un difetto: / ha bisogno di un carrista. [...] Generale, l'uomo fa di tutto. / Può volare e può uccidere. / Ma ha un difetto: / può pensare.
Quante volte, specialmente quand’ero un giovane insegnante democratico, ho dato questa poesia da commentare come compito in classe ai miei incolpevoli allievi; e quasi sempre in concomitanza di crisi internazionali, che non sono certo mancate. Per cui - in una forma di sottile ricatto, della quale mi rendo conto solo ora - mi ripromettevo di suscitare, oltre all’ammirazione per l’insuperata radicalità del nesso pensiero-poesia nel vecchio Bertolt Brecht, l’assunzione di una posizione di denuncia della guerra eventualmente in corso e di ogni forma di militarismo: come potevano non condividere una scelta di rifiuto fatta in nome dell’uomo e della sua qualità più preziosa, il “poter pensare”?
Certo, è tutto giusto e potrei dire di me: fatto bene. Come mai, allora, questo dubbio che ora mi tormenta? Sarà stato per caso un po’ troppo generico (genericamente umano) quel richiamo all’uomo e ad un suo presunto valore positivo?
Adesso guardo la televisione e vedo le città palestinesi rase al suolo dai carri armati di Sharon, e mi ripeto a memoria la vecchia poesia; ma non me ne viene una consolazione. Ecco, si vedono i carristi che sbucano dalle torrette e puntano i mitragliatori su ragazzi terrorizzati, in ginocchio. Cosa “pensano”, i carristi? Le migliaia di riservisti che lasciano la casa, l’ufficio, per andare a fare questo... Allora mi viene il dubbio che oggi avrei delle difficoltà a spiegare il senso ironico-antifrastico di quella parola su cui si inarcano le tre strofe della poesia: “difetto”. E mi viene il dubbio che forse quella parola è da prendere, oggi, alla lettera: è davvero un difetto (ein Fehler) il dato che l’uomo “può pensare” - e questo uomo qui, proprio lui sul suo carro armato. E credo che non ho più tante speranze da comunicare, e credo che farò bene a lasciare la scuola. In fondo è tempo di andare in pensione. 

"micropolis" aprile 2002

L'Africa italiana. Un colonialismo anomalo, non per questo migliore (Marco D'Eramo)



Il colonialismo capitalista è il regno delle conseguenze non volute, il caso da manuale per illustrare la natura sistemica della storia umana, per esemplificare il concetto di retroazione (feedback). Infatti nel 1830 la Francia cominciò la sua vittoriosa penetrazione in Algeria e poi in Africa nera e conquistò un impero. Ma il risultato di questa conquista fu che oggi non vi è quasi più un francese in Africa (e in Algeria), mentre in Francia ci sono milioni di africani e di algerini. Similmente, nel 1857 la Gran Bretagna represse in India la rivolta dei sepoys e dette inizio all'impero (raj) inglese sul subcontinente. Ma oggi, 154 anni dopo, non c'è più un inglese in India, mentre ci sono milioni di indiani in Inghilterra. Questo «effetto non voluto» è comune a tutti i colonialismi d'era capitalista (non a quelli precapitalisti, come il colonialismo spagnolo nelle Americhe che mai generò un flusso di indios nella penisola iberica). Così l'Olanda è piena di surinamesi e di amboniani delle Molucche.
L'Italia costituisce l'unica eccezione a questa regola: nella nostra penisola somali, eritrei, etiopici e libici costituiscono una piccolissima minoranza della popolazione immigrata. Nessuno di questi paesi rientra infatti nella lista delle prime venti nazioni di origine delle immigrazioni in Italia: le prime dieci sono nell'ordine Romania, Albania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, India, Polonia, Moldavia e Tunisia che forniscono circa 3 milioni sui 5,5 milioni di stranieri presenti nel nostro territorio (stima del 2011).
Già quest'anomalia rispetto agli altri retaggi coloniali mostra quanto sia atipico il nostro «impero» africano e mediterraneo. Una anomalia del colonialismo italiano analizzata a fondo del volume L'Africa d'Italia. Una storia coloniale e postcoloniale (Carocci, pp. 442, euro 26,40) firmato e diretto da Gian Paolo Calchi Novati, con il contributo di altri dieci studiosi e studiose italiani/e. Quest'opera vuole essere una storia e insieme una metastoria, narrare la colonizzazione italiana ed esaminare l'evolversi della storiografia del colonialismo italiano fino al 1960, quando la Somalia si emancipò dall'amministrazione fiduciaria italiana (tutto un capitolo è tra l'altro dedicato all'immagine letteraria delle colonie).
L'anomalia della colonizzazione italiana sta innanzitutto nel fatto che essa non fu pienamente capitalista, poiché l'Italia l'intraprese (negli anni '80 del XIX secolo in Eritrea) quando la nostra era un'economia nazionale prevalentemente agricola, l'industrializzazione era ancora agli albori e quando l'emigrazione dal nostro paese era massiccia (nei soli Stati uniti migrarono 650.000 italiani nel decennio 1891-1900; più di due milioni tra il 1901 e il 1910; e 890.000 nei soli quattro anni 1911-1914). E infatti il nostro fu l'unico esercito coloniale che subì tante disastrose sconfitte in Africa: Dogali (1887), Macalle e Amba Alagi (1895), Adua (1896).
La seconda anomalia fu la straordinaria brevità dell'avventura coloniale italiana. In Etiopia l'impero durò addirittura soli cinque anni (dal 1936 al 1941)! Ma anche nel territorio in cui siamo rimasti più a lungo, cioè l'Eritrea (la «colonia primogenita»), l'arco temporale fu appena superiore al mezzo secolo. In compenso L'Africa d'Italia ci ricorda che il Ministero dell'Africa italiana sopravvisse per altri otto anni alla seconda guerra mondiale e fu chiuso solo nel 1953.
E solo molto più tardi l'Italia ha cominciato a fare i conti con il suo passato coloniale e le sue nefandezze (e non fino in fondo): ancora nel 1998 il testo dell'accordo Italia-Libia non riusciva a usare il termine «deportati libici» ma ricorreva a circonlocuzioni come «allontanati coercitivamente dalla Libia in periodo coloniale».
Molto rimane rimosso. Per esempio noi associamo le leggi razziali del 1938 solo agli ebrei, ma in realtà esse furono formulate anche per segregare le colonie. «Nel 1937 un decreto vietò le unioni miste.. La dipendenza delle truppe italiane dalle donne etiopiche era un fattore di disturbo inaccettabile per le autorità fasciste, quasi che i conquistatori fossero stati a loro volta conquistati dalla popolazione locale attraverso il sesso debole... la cultura dominante ebbe sempre un atteggiamento di rifiuto e di disprezzo per il cosiddetti "insabbiati", i civili e i militari che sceglievano di staccarsi materialmente e psicologicamente dalla madrepatria per adottare i modi di vita africani».
Il fatto che gran parte della nostra avventura coloniale sia avvenuta sotto il - e fortemente voluta dal - fascismo costituisce una terza anomalia italiana. È impressionante il mare di cazzate che si possono dire impunemente in una certa epoca senza che nessuno lo noti (chissà quante delle nostre certezze appariranno idiote tra pochi anni!). Ecco cosa scriveva Benito Mussolini il primo gennaio 1919: «L'imperialismo è la legge eterna e immutabile della vita». Ma proprio il fascismo ha ostacolato i conti con il colonialismo italiano perché i vari revisionismi s'influenzano l'un l'altro.
D'altra parte anche gli autori di Africa d'Italia possono lasciarsi prendere la mano: ecco come descrivono gli insediamenti agricoli fascisti in Libia: al centro la piazza con il municipio, la chiesa, la casa del fascio, le poste e le case coloniche a irradiarsi: «Lo stile architettonico era purissimo, improntato a quella semplicità e funzionalità di disegno che caratterizzavano il moderno razionalismo. L'effetto, il bianco dei villaggi che si stagliava fra cielo e terra, era notevole, e dava realmente il senso di una nuova civiltà in marcia».
A proposito di civiltà: in questo momento in cui il capo del comitato di transizione libico annuncia che governerà «in nome dell'Islam», è più che opportuna la sottolineatura nel volume del cosiddetto «paradosso francese» e cioè che la laica repubblica francese non ha mai esportato in Africa la sua laicità (che «non è un prodotto d'esportazione», disse Léon Gambetta) e che invece gli imperi razionalisti europei si siano affidati ai culti e alle religioni come cinghia di trasmissione del loro dominio. In particolare l'Italia fece molto affidamento sull'Islam (in funzione anti-copta in Etiopia) o per soppiantare i culti animisti, definiti «primitivi con manifestazioni di civiltà assolutamente rudimentali» (Come disse Leone XIII a missionari in partenza per il Kenya: «Fateli prima uomini quei poveri indigeni e vi sarà più facile farne dei cristiani»). Insomma, come avviene con gli immigrati nell'Occidente odierno, anche allora, nelle colonie, il prestigio dell'Islam fu accresciuto dal ruolo d'intermediario e interlocutore del potere coloniale che gli fu riconosciuto.
Ma non mancano sprazzi d'inattesa modernità. Così per promuovere il turismo in Libia, l'Ente turistico alberghiero della Libia lanciò una «corsa automobilistica abbinata alla Loterria di Tripoli, l'Avioraduno sahariano, la Mille Miglia libica (sulla litoranea da Tripoli a Tobruk), il raduno automobilistico del Nord Africa, il premio letterario Bagutta-Tripoli e gli spettacoli classici nel teatro romano di Sabratha». Insomma, avevano inventato la nostra Parigi-Dakar.
Se un appunto si può fare a questo volume che a ragione ambisce a darci un panorama completo dello stato dell'arte sugli studi del colonialismo e post-coplonialismo italiano, è che manca un capitolo sul dopo 1960, cioè sugli effetti del colonialismo italiano «senza italiani», quel che resta della nostra avventura. Ma c'è sempre qualcosa che manca in un libro, e in questo è davvero poco.

“il manifesto”, 17 settembre 2011

24.2.19

Ricordi (S.L.L.)


Questo è il balcone del municipio, al mio paese. Non c'erano ancora i murales di Silvio Benedetto e - a mia memoria - neanche le bandiere della Sicilia e dell'Europa, solo il tricolore nazionale, quando, in quel terribile 9 maggio, il partito mi affidò il compito di intervenire, al termine di di un corteo affollato, silenzioso e teso.
Ricordo come cominciai. "Hanno ucciso un uomo di valore, uno studioso, uno statista, un nostro avversario politico coerente e leale. E noi comunisti siamo molto tristi".
E ricordo il ricordo che accompagnava il mio dire. Giovane comunista, dieci anni prima, per la campagna elettorale del 68, avevo appiccicato sul portone del municipio, tra gli altri piccoli adesivi che la sezione Stampa e Propaganda nazionale aveva fatto stampare nella tipografia dei fratelli Spada, quello con la caricatura del presidente del consiglio Aldo Moro e la scritta "Basta con Moro alla televisione". Credo che la caricatura fosse opera di Gino Galli, il nostro amatissimo GAL.

Lo storico dei gatti che insegnò la buona creanza nella Francia del Settecento (Maurizio Schoepflin)


L’opera più celebre, sebbene poi rinnegata dall’autore stesso, di François-Augustin de Paradis de Moncrif, è una Histoire de Chats, pubblicata nel 1727, in difesa del gatto domestico; un testo con intenti assai probabilmente satirici che tuttavia non fu accolto positivamente da tutti, se è vero che il giorno in cui il Moncrif venne ammesso a far parte della prestigiosa Académie française, un povero e ignaro micio fu gettato nella sala della paludata istituzione, e se è vero che Voltaire intinse per l’ennesima volta la sua penna nel vetriolo per bollare la sciocchezza dello scritto dedicato ai felini. Vissuto fra il 1687 e il 1770, il parigino Moncrif, poeta, musicista e attore, fu assai protetto e apprezzato negli ambienti della corte e della nobiltà, fino a diventare segretario generale delle Poste. Egli rappresenta bene il modello dell’uomo settecentesco brillante e ricco di qualità, assai ricercato per la sua avvedutezza e le maniere cortesi. Testimonianza eloquente di tale personalità e di uno stile di vita che antepone l’etichetta all’etica sono gli Essais sur la Necessité et sur les Moyens de Plaire, del 1738, noti come L’arte di piacere (Medusa, 2009), una sorta di summa a uso di coloro che vogliono riscuotere l’altrui benevolenza e simpatia. Si tratta di un libretto che rispecchia alla perfezione lo spirito di un’Europa che, pur incubando i germi di profondi mutamenti culturali e politici, si presenta particolarmente attenta alla moda, alla frivolezza, alla galanteria; un’Europa che ama moltissimo frequentare salotti e alcove. Certo, come è stato più volte notato, a ben guardare a quella società apparentemente superficiale e ipocrita non furono estranei problemi e tensioni; tuttavia, essa sembrò preferire la levità e persino la banalità alla profondità dei drammi esistenziali. In fatto di buona creanza, Moncrif è un vero maestro: dispensa consigli preziosi per andare incontro alle attese e ai desideri dei propri simili e per farsi ben volere, convinto che, nell’impossibilità di realizzare i grandi valori dell’amore e della fraternità, sia opportuno almeno far trionfare la buona educazione e la gentilezza.
Egli considera l’uomo amabile e cortese preferibile a quello aggressivo e scontroso e giudica il garbo migliore della maleducazione. Lontano dai rigori della morale giansenista che un secolo prima aveva trovato in Pascal un eccelso interprete, non presago degli orrori che poco dopo la sua morte insanguineranno la Francia rivoluzionaria, Moncrif ci consegna un libriccino che è una piccola arma contro le non poche cadute di stile che caratterizzano il nostro modo di vivere e convivere.

Avvenire 21 gennaio 2010

23.2.19

“Per arrivare qui”. Versi di Alba Donati



Per arrivare qui dovete lasciare,
sì lasciare, ogni avere, che sia
oscura miseria ogni parola, tralasciate
domande mal fatte, se volete arrivare
al posto dove maggio impazzisce
e le sere hanno donne alle finestre
se volete che ogni canto sia allegrezza
e scusa al mondo, in padre madre e parenti tutti

Da Ballata della Repubblica Contadina, Lietocolle, 2014

Postilla
“Colgo questo poemetto di Alba Donati scritto nel 1994 e riproposto in nuova ristampa da Lietocolle. Sporge immediatamente un’originale qualità di abbassare il punto di vista, la percezione poetica, a raso terra, tra vivi e morti, tutti soggetti a difficoltà e sofferenza. Il titolo individua il registro del canto e annuncia i protagonisti. Oltre i contadini con i piedi sui campi, ballano anche le impronte degli operai in fabbrica, denunciando male e ingiustizia.
Poesia civile sobria, limpida, matura, attuale, da ridistribuire come lezione di bellezza e pregnanza, oltre ai lettori, anche alle nuove generazioni di poeti”. (Anna Maria Farabbi)

Per non dimenticare. Hitler sulla torta di Maratea (Paolo Berizzi, settembre 2017)



Il pasticciere: 
"Un cliente l'ha voluta così"

La fantasia, si sa, in fatto di dolci non ha confini. Ma vedere in pasticceria una torta di compleanno decorata con il ritratto di Adolf Hitler, non è esattamente rituale. La prova che a volte la fantasia è superata dalla realtà arriva dal bar pasticceria Avigliano, a Maratea, in provincia di Potenza. Giorni fa nella vetrina del negozio era esposta in bella vista una torta con il volto del Fuhrer stampato a mo' di guarnizione: base bianca, contorni gialli e cornice di glassa rosa intorno all'immagine del dittatore del Terzo Reich, con tanto di cappello militare con impressa l'aquila e la svastica. Ai lati, la scritta AUGURI CHEF.
Alla vista del singolare dessert alcuni visitatori sono rimasti di stucco e, indignati, hanno chiesto spiegazioni al titolare della pasticceria. Lui, Umberto Avigliano, non si è scomposto e ha risposto che la torta gli era stata commissionata da un cliente. Prezzo: 30 euro. Insomma "non è stata una mia scelta" - ha spiegato il pasticciere - ma "ho solo realizzato la torta in base alle esigenze del cliente". Impossibile ovviamente sapere chi e perché abbia voluto un dessert decorato con il volto di Hitler. E per festeggiare cosa.
Viene in mente la storia della torta con la svastica e la scritta "Sieg Heil!" con cui Ettore Sanzanni, segretario di Forza Nuova a Lodi, a giugno ha festeggiato il suo compleanno nella sede milanese del partito di Roberto Fiore. Che si tratti della festa dei suoi ammiratori o dell'anniversario della sua, Hitler evidentemente continua a avere un seguito. È dal 2013 che i militanti nazionalsocialisti della Comunità dei dodici raggi di Varese festeggiano ogni 20 aprile l'anniversario della nascita del Fuhrer: il protagonista viene celebrato con un megaconcerto dove si esibiscono le principali band di musica nazirock a livello europeo.

“la Repubblica”, 12 settembre 2017

22.2.19

Giacomo Casanova e la lana caprina (Armando Torno)


Giacomo Casanova, Storia della mia vita, dicembre 1771: «Il penultimo giorno dell’anno giunsi a Bologna, dove presi alloggio all’albergo San Marco». Era lunedì. Il libertino è, come di consueto, senza soldi e sul suo capo pende un’accusa di truffa al gioco. Si reca il primo giorno del 1772 dal cardinale-legato Branciforte, «che avevo conosciuto a Parigi vent’anni prima, quando Benedetto XIV lo aveva incaricato di portare le fasce benedette al neonato duca di Borgogna: eravamo stati insieme in una loggia massonica e avevamo anche fatto cene squisite in compagnia di belle ragazze...».
Una settimana più tardi, Casanova incontra «nella bottega del libraio Taruffi un giovane abate guercio» che gli regala due opuscoli. È bene ricorrere alle sue parole per presentarli. Il primo «mirava a dimostrare che si devono perdonare alle donne gli errori che commettono, perché a causarli è l’utero che le fa agire contro la loro volontà»; il secondo, invece, «conteneva una critica al primo». Decide allora di scrivere a sua volta una replica e la intitola Lana caprina. Che cosa sosteneva? Lui stesso riassume: «Mi burlavo dei due dissertatori e trattavo l’argomento senza pedanteria, ma non senza approfondirlo». In tre giorni il libretto è pronto.
Certo, oggi la questione affrontata nel primo opuscolo non è politicamente corretta (e ce ne scusiamo), ma il mondo andava così. L’autore era Petronio Ignazio Zecchini, medico anatomista dell’università di Bologna; aveva come titolo Della dialettica delle donne ridotta al suo vero principio. Pubblicato nel 1771, regolarmente fornito d’imprimatur ecclesiastico, a pagina 6 Zecchini rivela il vero tema dell’operina, laddove ricorda – rivolgendosi alle donne – «propongo sotto il titolo della vostra dialettica naturale, o dell’utero pensatore...». [...] Il testo aveva come sottotitolo Epistola di un licantropo. Il motivo, seguendo Casanova, è spiegabile con il fatto che i licantropi, appunto, a ogni plenilunio soffrono di disturbi. Come, allora si diceva, accade periodicamente al sesso debole.
Non indugeremo sull’argomento del libro, giacché l’acuto Giacomo si divertì. Prese in prestito la locuzione latina De lana caprina, perché bene indicava qualcosa di chiacchierato e di sostanzialmente inutile. Diremo soltanto che Casanova era certo che «l’uomo e la donna pensano allo stesso modo»; e per provarlo citava Platone, secondo cui il seme maschile «è provvisto di anima e respira». Sbeffeggiò, tra gli altri, anche l’erudito calvinista olandese Gerhard Johannes Voss, che affermava nel suo De theologia gentili et physiologia christiana, uscito nel 1641, «feminas non esse homines» (le femmine non sono uomini), vale a dire non appartengono al genere umano, composto di soli uomini. E allora, di grazia, con chi aveva gioito tutta la vita Casanova? [...]

Il Sole 24 Ore, 30 settembre 2018