29.4.19

La poesia del lunedì. Luis de Góngora y Argote (Cordova, 1561 – 1627)



Orologio di sabbia
Tempo tiranno, a cosa serve
quella prigione stretta
che abbiamo fatto di vetro
per tenerti nella mano
se trattenerti è vano,
e sempre vuota è di te,
proprio quando più la credi piena,
la nostra vita, al cui richiamo
fuggi qual tempo veloce
e sordo come in un'arena?

Don Matteo senza accento (S.L.L.)



L'anno scorso Terence Hill, a Tiziana Lupi che lo intervistava per “Avvenire”, fece una rivelazione: «Ai tempi di Trinità i film venivano tutti doppiati, a volte anche dagli stessi attori, perché girare in presa diretta costava troppo. Dobbiamo molto a quei doppiatori: il venti per cento del successo dei film di Bud e miei è merito loro. Anche in Don Matteo originariamente volevano doppiarmi perché dicevano che avevo l’accento americano. Allora mi sono preparato per cinque mesi e, poi, ho fatto il provino come doppiatore: don Matteo ha la mia voce».
In verità non mi pare che i risultati siano soddisfacenti. Il parlare biascicato di Don Matteo è forse senza accento americano, ma a me (e ad altri che conosco) pare quasi del tutto inespressivo.

Il poeta dei commenti (Elena Tebano)



I giornali non esisterebbero senza i loro lettori e per chi fa il nostro lavoro niente conta di più dell’attenzione di chi legge. È una cosa così fondamentale, che spesso la diamo per scontata. Non lo è per niente. Per questo la scelta del “New York Times” è particolarmente commovente: per il mese della poesia, aprile, ha scelto di onorare un suo lettore, ripostando in una delle sue newsletter l’articolo che gli ha dedicato dopo la sua morte, a 99 anni, il 26 dicembre scorso.
Larry Eisenberg, ingegnere biomedico in pensione e autore di libri di fantascienza, era anche un assiduo commentatore: ha lasciato la sua opinione sugli articoli del quotidiano per ben 13 mila volte. La prima era stata il 14 luglio 2008 sotto l’editoriale di un allora senatore democratico, Barack Obama (il commento di Eisenberg era una critica). Ma la cosa più mirabile di Eisenberg è che scriveva i suoi commenti in versi: erano tutti «limerick», un rigidissimo formato della letteratura inglese, che prevede cinque versi rimati tra loro secondo un preciso schema metrico e di contenuto scherzoso o ironico. Per questo era considerato il «poeta ufficiale del Times».
Per annunciarne la scomparsa, anche il “Nyt” ha scritto un limerick: «Larry Eisenberg, whom we well know,/ Has died (and his age is below)/. He opined on the news /With limericks, whose / Delightfulness leavens our woe» («Larry Eisenberg, che tutti noi conosciamo/ è morto (e la sua età è qui sotto) / Commentava le notizie / con versi la cui / squisitezza accresce il nostro dolore»).

Dalla Rassegna Stampa del Corriere della sera, 28 aprile 2019

Accadde l'anno scorso. L'Accademia della Crusca contro il Sillabo

Il 17 aprile dell'anno scorso il Gruppo Incipit presso l'Accademia della Crusca ha diffuso un comunicato stampa a proposito di uno stravagante testo del Ministero dell'Istruzione: un documento programmatico volto a promuovere l'educazione all'imprenditorialità nelle scuole ribattezzato Sillabo. Come il famigerato “elenco di errori” che contro le moderne libertà formulò Pio IX. (S.L.L.)



Sillabo per l'imprenditorialità 
o sillabario per l'abbandono della lingua italiana?

Firenze, Accademia della Crusca, 17 aprile 2018
Il MIUR (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca) ha pubblicato lo scorso 14 marzo un documento programmatico volto a promuovere l’educazione all’imprenditorialità nelle scuole statali secondarie di II grado.
Senza pronunciarsi sul merito – che pur si presterebbe a varie considerazioni – il Gruppo Incipit guarda con grande preoccupazione alla lingua con cui tale documento programmatico è stato redatto, tenuto conto della sua importanza all’interno dell’istituzione scolastica.
Il Gruppo Incipit aveva già attirato l’attenzione sulla forte propensione del sistema universitario italiano a impiegare termini ed espressioni del mondo economico-aziendale (cfr. comunicato stampa n. 6 del 17 giugno 2016), ma constata che nel documento in questione tale tendenza ha raggiunto un nuovo livello di intensità: l’adozione di termini ed espressioni anglicizzanti non è più occasionale, imputabile magari a ingenue velleità di “anglocosmesi”, bensì diventa programmatica, organica e assurge a modello su cui improntare la formazione dei giovani italiani.
È infatti sufficiente scorrere il Sillabo per la scuola secondaria di secondo grado per verificare la meccanica applicazione di un sovrabbondante insieme concettuale anglicizzante, non di rado palesemente inutile, a fronte dell’italiano volutamente limitato nelle sue prerogative basilari di lingua intesa quale strumento di comunicazione e di conoscenza. Concretamente, questo pare il messaggio del Sillabo: per imparare a essere imprenditori non occorre saper lavorare in gruppo, bensì conoscere le leggi del team building, non serve progettare, ma occorre conoscere il design thinking, essere esperti in business model canvas e adottare un approccio che sappia sfruttare la open innovation, senza peraltro dimenticare di comunicare le proprie idee con adeguati pitch deck e pitch day.
Più che un’educazione all’imprenditorialità, questo documento sembra promuovere un abbandono sistematico della lingua italiana e delle sue risorse nei programmi formativi delle forze imprenditoriali del futuro. Pare una sorta di contraffazione paradigmatica della cultura e del patrimonio italiano: è così che si vogliono promuovere e valorizzare le eccellenze italiane, il “Made in Italy”?
Proprio in considerazione della gravità del modello linguistico-concettuale offerto dal Sillabo, il Gruppo Incipit, nella presente occasione, rinuncia a proposte di traducenti italiani (del resto sarebbe necessario tradurre l’intero documento), ma rivolge un appello ai responsabili del MIUR, affinché si usi maggiore rispetto nei confronti della lingua e della cultura italiana.
Ricordiamo che il gruppo Incipit si occupa di esaminare e valutare neologismi e forestierismi ‘incipienti’, scelti tra quelli impiegati nel campo della vita civile e sociale, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana, al fine di proporre eventuali sostituenti italiani. Incipit è costituito da Michele Cortelazzo, Paolo D’Achille, Valeria Della Valle, Jean-Luc Egger, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Alessio Petralli, Luca Serianni, Annamaria Testa.

dal sito dell'Accademia della Crusca ( http://www.accademiadellacrusca.it )

28.4.19

Freud, scienziato profeta. Da Davide ad Edipo (Cristina Biondi)

Il David di Michelangelo

La scienza ammette di avere dei geni che militano nelle proprie file, mentre disconosce i propri profeti. Gli atei sono del tutto inconsapevoli di agire per ispirazione divina, ma questo non è un problema, la loro stella rifulge come un faro nella notte.
Freud, passato alla storia come il padre della psicanalisi, si è incaricato di traghettare parte del popolo di Israele dalla discendenza di Davide a quella di Edipo, compiendo un’impresa che a suo confronto l’attraversamento del Mar Rosso è stata una passeggiata.
Davide ed Edipo si macchiano degli stessi crimini: entrambi uccidono il marito di quella che diverrà la loro moglie, e subentrano a re destinati a perdere rovinosamente la loro corona. Entrambi divengono sovrani dopo essere sfuggiti ai progetti di morte dei loro predecessori. Il destino di Davide si compie col favore di Dio, che gli concede la stessa benevolenza che in futuro avrebbe accordato al figliol prodigo, Edipo è perseguitato dalla sfortuna, dalle profezie, vittima di un inanellarsi di coincidenze tanto atroci quanto improbabili. Davide fa disastri fidandosi della propria buona sorte, delle benedizioni e dei favori del Cielo, Edipo fa disastri, e nel farli li subisce, cercando di sfuggire alla cattiva sorte. Oltre alle notevoli coincidenze, entrano in campo opposizioni, perfettamente speculari: Davide riconosce re Saul addormentato e lo risparmia, Edipo non riconosce re Laio e lo uccide, Davide ragazzino viene unto sulla testa, Edipo neonato viene tenuto per i piedi.
Freud capovolge il mondo anticipando l’evento più traumatico del secolo scorso: il popolo che, godendo dei favori di Dio era stato salvato dalla schiavitù in terra di Egitto e condotto nella terra promessa, è stato quasi sterminato nei campi di concentramento. Da Davide a Edipo: dall’esodo all’olocausto.

dal sito "Le parole e le cose", 26 marzo 2019

27.4.19

Il ritorno dello zio Tom. Il razzismo leghista ben prima di Salvini (Umberto Eco)


Recensione di sette anni fa di un libro di 7 anni fa, un libro di Furio Colombo che ci rivela come Salvini non salti fuori dal nulla e come la costruzione di un “senso comune” razzista e di politiche razziste a tutti i livelli sia stata un'operazione di lungo periodo. Ad essa il ceto politico e gli opinion makers del centro sinistra hanno opposto una resistenza debole e ondivaga. Come fa ben notare Umberto Eco, mentre accadeva tutto questo l'opposizione alla Lega si incentrava sugli investimenti in diamanti dei suoi fondi e sui diplomi di laurea del Trota, figlio di Bossi. E l'opposizione alla destra sulle avventure galanti e gaffes istituzionali di Berlusconi (S.L.L.)

Il lettore che, in una grigia mattina di questo maggio piovoso, trovasse, abbandonato in treno e mancante della copertina e delle prime pagine questo libro (romanzo?) di Furio Colombo, si chiederebbe perché l’autore si sia rimesso a fare Dickens, coi suoi ragazzini macilenti esposti a feroci punizioni corporali, perché voglia rievocare le vicissitudini del povero Remy di Senza famiglia nella tana del signor Garofoli, perché abbia scopiazzato le vicende dei “boveri negri” dell’ormai insopportabile Capanna dello zio Tom o, peggio ancora, si sia ridotto a presentare come attuali le storie del profondo Sud americano, in cui le “bovere negre, sì badrone” venivano sbattute giù dai trasporti pubblici. Evvia, caro Colombo, viviamo in altri tempi - per fortuna!
Il nostro lettore proverebbe però un moto di sorpresa se poi ritrovasse il libro completo di copertina e prefazione, vedesse che è intitolato Contro la Lega (Laterza, per soli nove euro tanti orrori da far impallidire Stephen King) e non contiene storie inventate bensì un puntiglioso resoconto di episodi di razzismo e persecuzione perpetrati in vari comuni amministrati dal noto partito. Sono episodi che Colombo in quanto deputato ha cercato spesso di denunciare in parlamento ricevendo una volta, dal deputato leghista Brigandì, come motivata controargomentazione, “Faccia da culo!” (sic).
In questo malauguratamente non-romanzo si racconta una storia italiana, dove carabinieri e vigili urbani distruggono con le ruspe i campi nomadi, tra le due e le tre del mattino, terrorizzando i bambini” e dove a scuola i bambini sinti, anche se cittadini italiani, sono assegnati a classi separate e come i bambini stranieri - restano a digiuno all’ora della mensa scolastica. Il libro comincia con la storia della famiglia Karis: il padre, cittadino italiano da generazioni viveva a Chiari facendo il ferrivecchi, e un’improvvida amministrazione di centrosinistra gli aveva assegnato un prefabbricato di tre stanze; ma la successiva amministrazione padana nel 2004 (sindaco il senatore Mazzatorta) si era ripreso il terreno perché “era cambiato il piano regolatore”, la casa dei Karis veniva abbattuta, il comune cancellava la residenza, i bambini non potevano più andare a scuola e l’intera famiglia si riduceva a vivere in una roulotte; così che di fronte a questo inaccettabile caso di nomadismo i vigili urbani battevano nottetempo con mazze di ferro sul veicolo se il padre si era fermato per riposo o per fare pipì.
Ma il libro parla di ogni genere di extracomunitari. A Termoli i vigili urbani acciuffano un ambulante del Bangladesh, lo picchiano e lo rinchiudono nel portabagagli dell’auto di servizio. A Parma vigili urbani in borghese prendono Emanuel Bonsu, giovane nero che stava recandosi alla scuola serale, lo riempiono di botte e solo più tardi si accorgono che non spacciava affatto droga come avevano sospettato. Su un autobus di Varese un quattordicenne ordina a una coetanea con il velo di lasciargli il posto sull’autobus, la ragazza resiste, e lui e i suoi compagni la prendono a calci e a pugni. A Bergamo su un autobus una passeggera grida che le hanno rubato il cellulare, il controllore decide che il ladro non può essere che un ragazzo di colore, l’autobus viene fermato, il ragazzo spogliato nudo, il cellulare non viene fuori (evidentemente il ladro era un altro), ma gli trovano indosso settanta euro e il controllore sequestra la somma e la signora, grata, l’incassa come risarcimento.
Siamo appena a pagina 11 di questo non-romanzo e i capitoli seguenti spaziano delle sevizie subite in Libia da disperati che militari italiani hanno fermato in mare e restituito agli aguzzini di Gheddafi, alle accuse di “nasone” a Gad Lerner, in un crescendo di piacevoli e romanzesche atrocità.
È curioso che gli italiani si stiano scandalizzando per quattro diamanti e due o tre diplomi a pagamento (caso mai laurearsi in Albania non è forse indice di scarso razzismo?) mentre da anni accettano che avvengano tutte queste cose, che il libro asciuttamente racconta.

2012 - ora in Papé Satàn Aleppe, La Nave di Teseo, 2016

Sulla morte senza esagerare. Una poesia di Wisława Szymborska



Non s’intende di scherzi,
stelle, ponti,
tessitura, miniere, lavoro dei campi,
costruzione di navi e cottura di dolci.

Quando conversiamo del domani
intromette la sua ultima parola
a sproposito.

Non sa fare neppure ciò
che attiene al suo mestiere:
né scavare una fossa,
né mettere insieme una bara,
né rassettare il disordine che lascia.

Occupata ad uccidere,
lo fa in modo maldestro,
senza metodo né abilità.
Come se con ognuno di noi stesse imparando.

Vada per i trionfi,
ma quante disfatte,
colpi a vuoto
e tentativi ripetuti da capo!

A volte le manca la forza
di far cadere una mosca in volo.
Più di un bruco
la batte in velocità.

Tutti quei bulbi, baccelli,
antenne, pinne, trachee,
piumaggi nuziali e pelame invernale
testimoniano i ritardi
del suo svogliato lavoro.

La cattiva volontà non basta
e perfino il nostro aiuto con guerre e rivoluzioni
è, almeno finora, insufficiente.

I cuori battono nelle uova.
Crescono gli scheletri dei neonati.
Dai semi spuntano le prime due foglioline,
e spesso anche grandi alberi all’orizzonte.

Chi ne afferma l’onnipotenza
è lui stesso la prova vivente
che essa onnipotente non è.

Non c’è vita
che almeno per un attimo
non sia immortale.
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.

Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Dal sito di “Inchiesta” - traduzione di Pietro Marchesani  

Il tuo modo d'amare. Una poesia di Pedro Salinas



Il tuo modo d'amare
è permettermi di amarti.
Il sì con cui ti arrendi a me
è il silenzio. I tuoi baci
sono offrirmi le labbra
perché le baci io.
Mai parole o abbracci
mi diranno che esistevi
che mi hai amato: mai.
Me lo dicono fogli bianchi,
mappe, auguri, telefoni;
tu, no.
E sto abbracciato a te
senza domandare, per timore
che non sia vero
che tu vivi e mi ami.
E sto abbracciato a te
senza guardare e senza toccarti.
Che non mi succeda di scoprire
con domande, con carezze,
la solitudine immensa
d'amarti solo io.

La forma de querer tú
es dejarme que te quiera.
El sí con que te me rindes
es el silencio. Tus besos
son ofrecerme los labios
para que los bese yo.
Jamás palabras, abrazos,
me dirán que tú existías,
que me quisiste: jamás.
Me lo dicen hojas blancas,
mapas, augurios, teléfonos;
tú, no.
Y estoy abrazado a ti
sin preguntarte, de miedo
a que no sea verdad
que tú vives y me quieres.
Y estoy abrazado a ti
sin mirar y sin tocarte.
No vaya a ser que descubra
con preguntas, con caricias,
esa soledad inmensa
de quererte sólo yo.

Da La voz a ti debida (1939) - Traduzione S.L.L.

Enrico Ruggeri: la povertà del lessico e la droga (da un'intervista a Simona Orlando)



Nei testi parla di tempo, morte, amori perduti, ma non c’è mai l’ostentazione del dolore tipico del rock: il motivo?
«Cerco di andare più a fondo. Se la morte è la fine, l’esortazione è a lasciare cose belle: canzoni, libri e film. Per questo difendo la lingua italiana».

Gli altri non lo fanno?
«Noto un lessico povero. Il problema non è chi oggi canta di droga, ma la poetica che manca. Di droghe cantavano anche Stones e Velvet Underground, con urgenza espressiva senza rampantismo. Nei ’70 vedevo gente consumata dalla vita interiore che si faceva di eroina. Non erano i più stupidi, ma i più fragili e angosciati».

Di droghe fece uso anche lei.
«Volevo non dormire per mordere la vita, ma frequentavo gente che non stimavo e smisi»

“Il Messaggero”, 25 aprile 2019

82 anni dalla morte di Gramsci. Un suo pensiero sulle religioni utilissimo ai laici, specie se rivoluzionari


La forza delle religioni e specialmente della chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità dell’unione dottrinale di tutta la massa religiosa e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. (Dai Quaderni dal carcere pp.1380-1381)

Intellettuale, una parola che nacque come insulto (Umberto Eco)

Émile Zola nel suo studio

La parola “intellettuale” ha particolari connotazioni storiche. Benché qualcuno abbia scoperto che appare per la prima volta nel 1864 nel Chevalier des Touches di Barbey d Aurevilly, nel 1879 in Maupassant e nel 1886 in Leon Bloy essa viene usata sistematicamente nel corso del famigerato affare Dreyfus, almeno dal 1898 quando un gruppo di scrittori artisti e scienziati come Proust, Anatole France, Sorel, Monet, Renard, Durkheim, per non dire di Zola che scriverà poi il suo micidiale J'accuse, si dichiarano convinti che Dreyfus sia stato vittima di un complotto, in gran parte antisemita, e chiedono a revisione del suo processo. Costoro vengono definiti intellettuali da Clemenceau ma la definizione viene subito ripresa in senso denigratorio da rappresentanti del pensiero reazionario come Barrès e Brunetière per indicare delle persone che, invece di occuparsi di poesia, scienza o altre arcane specialità (insomma, dei fatti loro), ficcano il naso in questioni di cui non sono competenti, come i problemi di spionaggio e di giustizia militare (che va lasciata appunto ai militari).
L'intellettuale era dunque per gli antidreyfusardi qualcuno che viveva tra i suoi libri e le sue astrazioni fumose e non aveva contatti con la realtà concreta (e quindi era meglio stesse zitto).

Da una “bustina” del 2010 in Pape Satàn Aleppe

Bohumil Hrabal. Le stagioni letterarie di un geniale “stramparlone” (Valentina Parisi)



“Non mi è mai saltato in mente di voler cambiare le condizioni politiche in cui mi sono trovato a vivere. Non ho mai voluto cambiare la lingua o il mondo e, se citavo Marx, Rimbaud o Mallarmé, era sempre me stesso quel che volevo cambiare, me stesso, ovvero quell’individuo che si trovava nelle mie immediate vicinanze». Così Bohumil Hrabal - nello scritto autobiografico del 1985 titolato Chi sono - sintetizzava, con la consueta irruenza, il proprio atteggiamento nei confronti del mondo e della letteratura. Dopo essere stato costretto al silenzio durante la «normalizzazione» della società ceca nei primi anni 70, lo scrittore era tornato a pubblicare le proprie opere solo grazie all'«autocritica» apparsa nel 1975 sulle pagine del settimanale - «Tvorba» («Creazione»). Nella travolgente dichiarazione di poetica titolata Manuale di un apprendista stramparlone (scritta nel 1970, ma uscita in forma censurata soltanto cinque anni più tardi, in calce al «ripensamento» che gli attirò le ire di vari intellettuali cechi) affiorano indirettamente le ragioni che avevano spinto Hrabal a un passo così difficile.

La sua accettazione del presente
Alla base della sua autocritica c’era senz’altro l’esigenza di riallacciare il rapporto con i lettori, raggiungendo un pubblico più ampio di quello che i canali alternativi della stampa samizdat potevano assicurargli; ma c’era anche il bisogno istintivo di uscire allo scoperto, di partecipare di nuovo alla vita della nazione, sguinzagliando all’intorno quei manoscritti inediti che incombevano su di lui, come le cataste di libri nell’appartamento di Hant’a, l’eroe di Una solitudine troppo rumorosa.
Indifferente a ogni forma di dissidenza politica non certo per opportunismo bensì per una sorta di trepida concentrazione sul «già esistente» piuttosto che sul «possibile», Hrabal centellinò la cicuta che il regime gli somministrava, pur di poter continuare a descrivere quel mondo che lo riempiva di uno stupore quasi fanciullesco: «Fin dall’infanzia ho sempre nutrito la più grande ammirazione per la realtà che non ho creato io, che era lì già prima che esistessi; io, che non desidero altro che rifletterla, poiché perfino gli eventi più terribili per me sono colmi di bellezza». Da questa accettazione forzata del presente - degna del suo filosofo prediletto, il cinese Laozi - derivava per Hrabal anche il rifiuto dell’emigrazione. Abbandonare la capitale boema avrebbe significato allontanarsi dagli infiniti reali e topografici trasfigurati nelle sue opere (dalle acciaierie Poldi al deposito della carta da macero di Una solitudine, passando per tutte le osterie-birrerie elencate da Hant’a in una sorta di slalom gigante dell’ebbrezza), nonché rinunciare alla consolante ripetitività dei riti legati alla dimensione collettiva e conviviale di Praga (cui lo scrittore era così affezionato da intitolare nel 1966 la prima antologia dei suoi scritti col nome della sua mensa preferita, Auto-matSvet).

Come un albero fronzuto
Hrabal dunque rimase in Cecoslovacchia e continuò a «trascrivere» la realtà nei suoi testi e a «cambiare se stesso» attraverso la letteratura, in un duplice processo mitopoietico indubbiamente fortunato, se ancora oggi, a dieci anni dalla sua morte, molti continuano a domandarsi chi egli fosse «davvero». Tra i suoi recenti esegeti, il polacco Aleksander Kaczorowski gli ha dedicato Il gioco della vita, da poco tradotto in italiano dalle edizioni e/o. Se nei capitoli sull’infanzia e l’adolescenza dello scrittore il libro inclina a un biografismo minuzioso e un po’ sterile, le pagine sugli anni 70 e ’80 ricostruiscono invece con efficacia in quale caos di accuse, sensi di colpa, autocensure e «paure totali» si svolse l’elaborazione delle ultime opere, fino al 1989...
Tra i molti paradossi che segnarono 1’esistenza dello scrittore ceco, nato in un sobborgo di Brno nel 1914, ve n’è uno che dovette risultare particolarmente gravoso alla sua indole esuberante, quella indole che lo induceva a paragonarsi a un «albero fronzuto, pieno di occhi attenti e sorridenti». Come osserva Josef Zumr, l’uscita dei suoi libri di rado coincise con l’epoca della loro effettiva stesura: l’aspirazione di Hrabal a «riflettere la realtà» dovette dunque scontrarsi con imprevedibili strategie editoriali - Ho servito il re d’Inghilterra apparve, per esempio, con undici anni di ritardo per i tipi di un’associazione musicale jazz nonché con l'esigenza di adattare le proprie opere alle circostanze della contingenza letteraria.
È difficile, tuttavia, distinguere ciò che dipese dalla necessità e ciò che è attribuibile alla sua volontà autoriale, dal momento che fin dagli esordi Hrabal manifestò una istintiva predisposizione a tornare su quanto già scritto, ad assemblare testi propri e altrui secondo una logica paragonabile al montaggio cinematografico. E se nel 1981 la giustapposizione alternata di Una solitudine e Un tenero barbaro nel volume Club di poesia finì col generare un vero e proprio monstrum, in altri casi le rielaborazioni di Hrabal sfociarono in capolavori come Treni strettamente sorvegliati (1965), originatosi alla confluenza di due testi preesistenti e di frammenti tratti da racconti conviviali. Tra quelle pagine, lo sfilare dei convogli bellici per la Moravia occupata dalle truppe tedesche si sovrappone al flusso di coscienza del giovane ferroviere Milos, in una successione di immagini «la cui prospettiva - ha scritto Jiri Pelan, nel suo Tentativo di ritratto premesso all’edizione delle Opere scelte nei Meridiani Mondadori - non viene definita univocamente dal soggetto ordinatore».

Armato di forbici e colla
Una simile composizione paratattica del testo letterario trova il suo equivalente visuale nella tecnica del collage, genere coltivato in tutte le sue eterogenee varianti (rollage, froissage, chiasmagè) dall’amico di Hrabal, Jiri Kolar. Anche lo scrittore, peraltro, amava cimentarsi con forbici e colla, come testimonia la mostra a cura di Annalisa Cosentino allestita in questi giorni a Roma. La logica surreale del collage riaffiora in tutti i suoi testi più sperimentali come, ad esempio Questa città è affidata alla comune cura dei suoi abitanti (1967), reportage su Praga realizzato insieme al fotografo Miroslav Peterka e ora ripubblicato dall’editore ceco Paseka.
Questa opera singolare - che ha tra le sue fonti un manuale scacchistico tedesco, una raccolta di leggende praghesi, un repertorio di attributi dei santi, verbali giudiziari e brandelli di conversazioni udite per la strada - dimostra la passione di Hrabal per il ciarpame verbale più inverosimile, per il bric-à-brac linguistico più kitsch, che egli tentava di resuscitare, accostandolo ironicamente alle chiacchiere da crocicchio o da osteria. D’altro canto, questo orientamento alla lingua orale, o a quel che Ripellino chiamava il «brulichio del parlato», accompagnava lo scrittore fin dalle sue prime prove: non a caso, la raccolta narrativa uscita nel 1956 proprio grazie a Kolar si intitolava I discorsi della gente.
Da Stramparloni (1964) a Sanguinose ballate e miracolose leggende (1968), passando per i racconti di Inserzione per una casa in cui non voglio più abitare (1965), l’attenzione di Hrabal si concentrò dunque intorno alla figura eminentemente ceco-slovacca del pabitel, neologismo coniato da Kolar e subito fagocitato dall’amico letterato. In un primo tempo pabitel verme tradotto in italiano con «sbruffone»; in realtà, la definizione che ne fornì lo scrittore stesso rettifica il significato del termine, proiettandolo in una dimensione quasi metafisica.
Il pabitel sarebbe, infatti, «colui che è capace di esagerare, poiché fa tutto con eccessiva passione e rischia dunque di sembrare ridicolo», «il contrappeso dell’uomo civilizzato», «uno strumento del linguaggio che vede la realtà attraverso il prisma dell'ispirazione». Sorta di personaggio donchisciottesco a metà tra l’insipiente e il profeta, il pabitel vive nella sfera immateriale della parola che non diventerà mai logos, perché persa nei meandri irrazionali della ciarla, della fanfaronata, dell’aneddoto strampalato (da qui il termine «stramparlone», adottato di recente nelle Opere scelte). Le due linee del trascrivere e dello stramparlare si sarebbero poi sovrapposte nella Ballata scritta dai lettori, composta da brani prelevati dalle missive spesso ingiuriose che lo scrittore, accusato di pervertire la gioventù socialista, riceveva pressoché ogni giorno. Accostando tra loro questi frammenti di grottesca logorrea, perbenismo forcaiolo e grafomania ingenua, Hrabal celebra se stesso come idolo del pabitel e sua vittima a un tempo, e decide di accantonare temporaneamente questa fonte di ispirazione.
Nel 1970, infatti, Hrabal cessò di andare «a zonzo con l’orecchio teso a un’istantanea di parlato» e con La tonsura ritornò al mondo dell’infanzia, ovvero a quella Boemia dall’atmosfera sospesa, un po' biedermeier, che lo avrebbe reso celebre, complici anche le fortunate trasposizioni cinematografiche di Jiri Menzel. Questa cesura viene ridefinita in forma di parabola evangelica nel saggio L’ala dell’imbecillità: «Io ti dico, figliolo, che non hai più bisogno di immischiarti nei discorsi della gente, perché qualcuno ti confidi la sua sofferenza... non hai più bisogno di cercare il denominatore comune con chi ti è vicino, meglio, figliolo, che tu finga di essere sordo, di non voler più sentire... Meglio che, circondato da ogni parte dal brusio delle parole, tu porga l’orecchio al monologo interiore della giovinezza».
Nella Tonsura e poi nella Cittadina dove il tempo si è fermato, l'età mitica della fanciullezza si condensa in immagini di abbagliante splendore, attorno alle quali si snodano interminabili narrazioni orali, autocitazioni dalle opere del passato e anticipazioni di quelle future. Così è, ad esempio, per la barchetta tatuata che il giovane protagonista della Cittadina osserva rapito sul torace nudo di un renaiolo, oppure per il lampadario di porcellana carico di pendagli colorati sotto al quale la madre celebra insieme al patrigno riti tanto teneri quanto misteriosi. Nel cosiddetto ciclo di Nymburk (dal nome della località boema dove lo scrittore visse dal 1919 al 1949), la parola acquista una evidenza quasi tangibile, sottraendosi all’effimero cicaleccio dello «stramparlare».

Profanatore di tombe eccellenti
Ma il testo in cui il carattere della scrittura hrabaliana, che Sergio Corduas ha definito «fisiologico e musicale insieme», emerge con maggior chiarezza è Una solitudine troppo rumorosa, lungamente elaborato dal 1972 al 1976. Nella vicenda di Hant’a, operaio che crea «genialmente» blocchi di libri pressati per mandarli poi al macero, Hrabal adombra le proprie riflessioni sulla cultura e sulla sua contiguità col caos. Il protagonista non può fare a meno di abbandonarsi all’estasi indotta dalla distruzione di migliaia di volumi, ma nel contempo ama salvare quei testi da cui crede di poter apprendere qualcosa su se stesso e quindi, alla fin dei conti, è «istruito contro la sua volontà».
Sorta di archivista-becchino, Hant’a compone dunque, come in una bara, i pensatori più illustri, in un processo speculare a quello di Hrabal che, alludendo alle sue tendenze citazionistiche, si definiva un «profanatore di tombe eccellenti». Grazie a quella pressa che l'alter ego dell’autore vorrebbe acquistare per proseguire anche in pensione la sua opera, avviene la transustanziazione della parola in carne, simboleggiata nella scena grandiosa in cui Hant’a, avvolto da un nugolo di mosche impazzite, assembla volumi di filosofia con i fogli di carta sanguinolenta provenienti da una macelleria.
La fine della cultura è quindi regressus ad originem, ritorno a un sostrato fisiologico che per Hrabal era evidentemente indivisibile dall’atto stesso della creazione, se nella pagina conclusiva di Ho servito il re d’Inghilterra teneva a precisare di aver scritto quel testo nel sole rovente dell’estate, con i fogli già battuti a macchina che scottavano tra le dita.

Da un presente perduto
D’altronde, la dialettica morte-resurrezione si era già affacciata nel ritratto dell’amico Vladimir Boudnik, delineato nel 1973 in Un tenero barbaro: «Vladimir, maestro dell’immaginazione tattile, sempre in agonia, sul punto di crepare, sempre soltanto per poter essere in grado di risorgere ... e poi, lungo il cordone ombelicale, tornare indietro verso il principio di tutte le cose, tornare indietro alla prima settimana della creazione del mondo». Un punto di approdo cui anche Hrabal sembrava ormai aspirare, allorché negli scritti auto-biografici degli anni ’80 ammetteva malinconico: «Il mio presente è andato definitivamente perso a favore del regresso alle origini. Anche questo mondo è ormai perso per me e me ne torno laggiù, dove non sono stato ancora».


"il manifesto", 8 marzo 2007

26.4.19

“Sono solo un fumettaro e non ho mai amato Salgari”. Da un'intervista a Hugo Pratt (1987)


Nel ritaglio che ho conservato c'è solo l'ultima pagina di un'intervista a Hugo Pratt, che tuttavia mi pare molto interessante. Chi fosse interessato potrà senza difficoltà recuperarne l'inizio e il nome dell'autore in una buona biblioteca. (S.L.L.)


Quale è il cinema amato da Hugo Pratt?
«Il mio cinema è quello delle grandi avventure hollywoodiane degli anni Trenta, fino anche agli anni Cinquanta, ai polizieschi fatti durante la guerra. Preferisco far parte della "retroguardia”, non sopporto Godard e Truffaut, mente amo Louis Malle».

E Spielberg e Lucas, i "nuovi avventurosi"?
«Mi stanno bene, a patto però che non buttino in farsa l'avventura, in quel caso non li seguo più».

E da quali matrici letterarie trae vita Corto Maltese?
«La mia prima letteratura è stata quella disegnata dei fumetti americani, i grandi libri di avventura illustrati. Non ho mai amato Salgari (ne ho dovuto solo una volta fare una "riduzione" per il "Corriere dei Piccoli") e solo su "Topolino" ho letto Tremal Naik, perché mi piaceva il disegno di Moroni Gelsi. La "Romantica Sonzogno" è stata lina scoperta. Ma posso fare alcuni nomi: da Milton a Dumas, da Rimbaud a Petrarca, da Kipling (pacifista prima di Brecht) a Tolkien».

E le sue matrici pittoriche?
«Direi che vanno cercate più tra gli illustratori che tra i pittori. Che so? Norman Rockwell, ma anche Klimt, gli acquarelli inglesi e tedeschi. Diciamo che sono stato più influenzato dalla pittura anglosassone che dal nostro Rinascimento. Non posso poi dimenticare le mie matrici fumettistiche: Milton Caniff è sicuramente il più importante con Terry che è il suo personaggio meglio riuscito. Poi Winsor McCay: è stato un genio assoluto, ha inventato tutto lui, era in anticipo sui tempi in modo incredibile. Anche il Foster di Tarzan mi è sempre piaciuto anche se in seguito (quando è passato a Valiant) è diventato statico. Comunque è stato Caniff a farmi venire la voglia di disegnare».

Mi sembra che però Caniff non pensi di essere stato così importante nella sua vita.
«Lui è molto gentile e un giorno mi ha detto che io sarei uscito fuori comunque indipendentemente dai suoi comics. Da parte mia non posso fare a meno di riconoscere di averlo avuto tra i miei modelli, come pure Will Gould, altro grande esempio di modernità che sto cercando di far conoscere su "Corto Maltese"».

Corto è entrato al Gran Palais. Il fumetto è finalmente accolto anche dalle élite culturali?
«Io non sono né il giudice né il redentore del fumetto, mi limito a dare dei pareri. Verso i fumetti c’è paura. Il fumetto è un piacevolissimo mezzo di lettura e un veicolo d’informazione. Le 400.000 copie di un fumetto, paragonate alle 60.000 di un libro, sconvolgono. Ai fumettari non servono i premi letterari. I rappresentanti di quel piccolo potere della "cultura ufficiale" hanno deciso che se il fumetto non è mediocre, è comunque "artigianato" (gli "alternativi" parleranno di "buon" artigianato) ma che comunque non è mai arte. Piuttosto che far parte di speculazioni mi sta bene: l’artigianato della paccottiglia di Hong Kong mi fa schifo, ma è vero che esiste un buon artigianato. Adesso la definizione di "letteratura disegnata", anziché di "fumetti", pare essere vista più di buon occhio, è "accettata": ma io resto un "fumettaro"».

E con i suoi colleghi in che rapporti è?
«Io viaggio, come potrei aver rapporti? Del resto molti dei miei "colleghi" si vergognano di essere disegnatori di fumetti, si definiscono artisti. Io sono un artigiano e quindi facciamo mestieri differenti, preferisco evitargli il trauma di dover frequentare cattive compagnie!».

L'Espresso - 14 GIUGNO 1987

"Un poeta realista, inconsapevolmente democratico". Josif Brodsky legge Virgilio.

Pubblio Virgilio Marone in un'immagine del V secolo dal Codice Vaticano dell'Eneide

Il guaio di Gesù Cristo era che non aveva letto i poeti latini. D’altra parte neppure Ponzio Pilato aveva letto molta poesia. Se l’avesse fatto e in particolare se avesse letto le egloghe di Virgilio, pubblicate più di sessant’anni prima dei fatti di Gerusalemme, avrebbe sicuramente seguito con maggiore attenzione la storia che Gesù Cristo gli raccontava. Avrebbe potuto riconoscere nell’uomo portato al suo cospetto colui il cui avvento era stato profetizzato nella quarta egloga e forse risparmiargli la vita. D’altronde Gesù stesso, se avesse conosciuto quei versi, avrebbe potuto presentare meglio il proprio caso. Ma così capita: quelli che potrebbero leggere non leggono e quelli che leggono non contano. Nessuno di quei personaggi conosceva la quarta egloga ed è anche per questo che oggi siamo quel che siamo.
Ma se non ha salvato Gesù, è stato lui, Virgilio, col VI libro dell’Eneide ad ispirare la Commedia di Dante. E così in certo qual modo si compensa l’ignoranza di Cristo e di Pilato.
Josif Brodsky
Virgilio nacque nell’anno 70 a.C. a Mantova e morì a Brindisi all’età di 49 anni, esattamente duemila anni fa. Era dunque più vecchio del Cristianesimo. Ottaviano Augusto, benché di sei anni più giovane del poeta, è stato suo compagno di scuola, Orazio e Ovidio sono stati suoi contemporanei. Di lui abbiamo un solo ritratto, quel mosaico su un pavimento a Susa in Tunisia, creato circa un secolo dopo la sua morte. Alto, snello, coi capelli tagliati corti, sembra una combinazione di Anthony Perkins e Max von Sydow.
Di tutti i poeti romani egli è l’autore più fertile di fatti: la massa di azione, rapportata alla media dei versi, è maggiore nell’Eneide che perfino nelle Metamorfosi di Ovidio. E’ un gran piacere leggere Virgilio, se non altro perché un mucchio di cose accadono nei suoi versi e, di conseguenza, nell’immaginazione del lettore. In un certo senso Virgilio è autore più interessante di Omero, da lui ovviamente imitato; Omero è esageratamente descrittivo e qualche volta, i suoi aggettivi composti sono davvero una noia. Naturalmente Virgilio aveva il vantaggio di scrivere sette secoli più tardi, durante i quali le arti visive s’erano sviluppate abbastanza da far risparmiare ai poeti la necessità di descrivere la facciata esistenziale dell’uomo con la stessa precisione del suo paesaggio intimo.
È vero: sia nelle Bucoliche che nelle Georgiche Virgilio si è applicato molto alla descrizione della natura. Tuttavia nel suo caso la natura era un terreno concreto, arabile, non lo sfondo di qualche atto eroico. Il suo modo di trattare il mondo circostante differisce radicalmente non soltanto da quello di Omero, ma anche da quello di Teocrito. I miti pastori e le loro ninfe, entrati con Teocrito nella letteratura mondiale, in Virgilio acquistano i tratti mortali dei contadini italiani. Certamente conversano a lungo di amore e di poesia, ma sono inusitatamente impegnati in questioni di proprietà terriera.
La seconda metà del I secolo avanti Cristo, con cui coincide la carriera poetica di Virgilio, è stato un periodo di tremendi conflitti civili a Roma (devastazioni, guerre, epurazioni, confische di proprietà). La gente agognava alla pace e alla stabilità; è probabilmente per questo che Virgilio scelse uno sfondo pastorale, cioè rurale, per le proprie espressioni poetiche e per abituale dimora. La terra era la sola certezza disponibile e nell’adesione del poeta alla filosofia del "vivere secondo natura”, risuona una nota di quella disperazione, che è madre di saggezza.
In altre parole, la natura è stata per Virgilio un oggetto da osservare, anziché un’entità simbolica, come è stata anche il soggetto della sua personale fatica fisica. È stato il primo "gentiluomo-contadino” di una lunga serie di poeti, che in questo secolo sembra chiudersi con Robert Frost. Le informazioni pratiche su come trattare questa o quella pianta, di cui sono piene le Georgiche, gli sono state probabilmente fornite dai suoi schiavi e dai giardinieri, e talvolta riescono scoordinate e grezze. Ma proprio questo salva Virgilio dal rischio di parlare in prima persona. È un poeta che non usa quasi mai il pronome "io”. Virgilio è il primo poeta "obiettivo", che tratta l’uomo in sé e non come un "alter ego”. È tutto meno che narcisista, è (inconsapevolmente) democratico, estremamente umile. Perciò i suoi versi sono totalmente privi dell’autorità aprioristica del "poeta” e perciò saranno letti per un altro millennio, se un altro millennio ci sarà.
In quello che è ritenuto il suo autoepitaffio, Virgilio afferma di aver «cantato pascoli, campi e governanti». La parola-chiave è "cantato”: a differenza del prosatore, il poeta non viene definito dal contenuto delle sue opere. Un poeta ed il contenuto della sua opera sono definiti dal timbro della sua voce, dalla sua dizione, dalla scelta e dall’uso delle parole. In questo senso Virgilio è davvero uno scrittore imprevedibile. La critica più comune nei suoi riguardi, dopo la sua morte, era: «usava parole solite in modo insolito». È un’osservazione sicuramente, suggerita dalle Georgiche, con la loro dovizia di termini relativi alla tecnica agricola, fino ad allora di rado incontrati in poesia. Egli letteralmente farcisce i propri versi di aratri, vanghe, erpici, rastrelli, finimenti, stanghe, alveari, e così via. E, quel che è peggio, non li usa simbolicamente.
Virgilio è stato soprattutto un realista.
Per lui il migliore — se non l’unico — modo per comprendere il mondo era elencarne i contenuti. Se qualcosa era rimasto fuori dalle "Bucoliche” e dalle "Georgiche”, vi pose rimedio con l’"Eneide”. L’ effetto complessivo della sua poesia sul lettore è un inventario del mondo, e davvero meticoloso. Che parli di piante, pianeti o campi, di pensieri o di sentimenti, dei destini degli uomini o di Roma, le sue inquadrature ravvicinate sono insieme avvincenti e sconvolgenti. Come le cose stesse.
Il suo sforzo di spiegare il mondo è stato tale da indurlo a scendere perfino negli Inferi. La descrizione che ne fa è stranamente convincente, perché non è legata a nessuna dottrina scolastica che miri ad abbellire ciò che non esiste. Certamente la profezia pronunciata da Anchise suona falsa, non trova eco al di là del periodo in cui visse il poeta, Virgilio non fa che rimaneggiare in chiave apologetica il passato conosciuto. Eppure l’orgoglio per il futuro di Roma che risuona nella voce di quel vecchio non è soltanto l’orgoglio del poeta per le conquiste di Roma. Vi si sente la speranza del pagano che — dobbiamo ammetterlo — pare molto meno egocentrica e più tangibile di quella del cristiano:
«Tu regere imperio populos, Romane, memento;
Hae tibi erunt artes; pacique imponere morem,
Parcere subiectis et debellare superbos».
Tutto svanisce, eccetto i sentimenti. 
I sentimenti durano, e rendono riconoscibili i vecchi autori. Il lettore moderno può usare Virgilio allo stesso modo in cui l’usò Dante nel suo viaggio attraverso l’Inferno e il Purgatorio: come guida.

L'Espresso, n.17, aprile 1981

Prolungamento di un bacio. Una poesia di Pedro Salinas (Madrid, 1891 – Boston, 1951)



Ieri ti ho baciato sulle labbra.
Ti ho baciato sulle labbra. Intense,
rosse. Un bacio così corto
durato più di un lampo,
di un miracolo, più ancora.
Il tempo
dopo averti baciato
non valeva più a nulla
ormai, a nulla
era valso prima.
Nel bacio il suo inizio e la sua fine.

Oggi sto baciando un bacio;
non solo con le mie labbra.
Le poso
non sulla bocca, no, non più
– dov’è fuggita? –
Le poso
sul bacio che ieri ti ho dato
sulle bocche unite
dal bacio che hanno baciato.
E dura questo bacio
più del silenzio, della luce.
Perché io non bacio ora
né una carne né una bocca
che scappa, che mi sfugge.
No.
Ti sto baciando più lontano.

da La voce a te dovuta, Einaudi 1979. - trad Emma Scoles

Le bufale del fascismo: pensioni, bonifiche, case, stipendi. Le cose buone che Mussolini non ha mai fatto (Diego Pretini)



Le cose buone che Mussolini ha fatto non esistono. Ha fatto cose infami, come le leggi razziali, preso decisioni scellerate, come l’ingresso in una guerra che fu subito una disfatta, cancellato (quell’assaggio di) libertà e democrazia. Ma se si rovista in mezzo al resto non ci sono cose buone. Di sicuro non le cose buone che gli vengono attribuite, con conferimento d’onori alla memoria (scarsa) e con la insinuante forza del sentito dire, ripetuto a filastrocca, con indolenza, per passaparola, che ora può contare su un’iniezione di velocità ed efficacia, grazie alle reti sociali. Eppure non sono buone nemmeno le cose che sono pronti a riconoscere, ad ammettere, quasi tutti: nemmeno la bonifica delle paludi, nemmeno le pensioni. L’operazione di smontaggio delle storielle sui presunti meriti residui del dittatore che ha trascinato il Paese al disastro militare, politico, economico, morale e umano è la base di Mussolini ha fatto anche cose buone, scritto dallo storico Francesco Filippi (Bollati Boringhieri, 160 pagg., 12 euro). È come un pamphlet ma un po’ più lungo, è come un saggio ma più ruvido perché non gira intorno alle cose, consuma le edizioni una dopo l’altra, le librerie lo tengono direttamente di fianco alle casse. Un po’ perché è il periodo giusto (quello di una rivalorizzazione dei toni antifascisti dovuta alla cronaca, dal Mediterraneo a Torre Maura) e un po’ perché, appunto, è come una frustata. Uno schiaffo, a partire dal sottotitolo: “Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo”. Una scrollata utile a svegliarsi dall’assuefazione, dal lasciar dire. Un “manuale di autodifesa”, come scrive nella prefazione lo storico Carlo Greppi (sotto i 40 come Filippi), autodifesa contro il fenomeno che è davanti agli occhi di tutti, tutti i giorni: “Centinaia di migliaia di persone che esprimono il loro apprezzamento e condividono compulsivamente balle colossali, balle che il fascismo mise in circolazione nella prima metà del secolo scorso, intestandosi risultati altrui o truccando la realtà”. “Gli storici”, aggiunge Greppi, hanno “prodotto un incessante lavorio di demolizione del ‘mito’ del fascismo buono. Ma, come si dice, non c’è più sordo di chi non vuol sentire”.

La storiografia da bar, da Salvini a Tajani
La pena aumenta quando la storiografia da bar diventa linguaggio pubblico, politico, come dimostra il concionare di tutti i principali leader del centrodestra, da Berlusconi a Salvini, passando per il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, l’ultimo a straparlare. Come cocorite, hanno imparato una frase imparata non si sa dove e iniettata a lento rilascio nell’immaginario falsato della cittadinanza. Salvini, 2016: “Mussolini fece tante cose buone in vent’anni, prima delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler. Fu Mussolini a introdurre la pensione di reversibilità per garantire la natalità nel caso morissero lui o lei. La previdenza sociale l’ha portata Mussolini, non l’hanno portata i marziani. In 20 anni, prima della folle alleanza con Hitler e delle leggi razziali, delle cose giuste le fece sicuramente: stiamo parlando di pensioni, poi le bonifiche. C’erano intere città, come Latina, che erano paludi”. Tajani, 2019: “Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico però se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale”. E’ la zona grigia del riduzionismo, come l’ha chiamata tempo fa Ezio Mauro: non c’è bisogno di essere fascisti per rivalutare il fascismo.

Infps, l’unica riforma del fascismo fu il nome (e la f non è un refuso)
In effetti il ministro Salvini aveva ragione: la previdenza sociale in Italia non l’hanno portata i marziani. Ma nemmeno Mussolini e il fascismo. Come ricostruisce Filippi nel libro, il primo sistema di garanzie pensionistiche – destinato ai soli impiegati del pubblico e ai militari – è del 1895, governo Crispi. Tre anni dopo il governo Pelloux estenderà le coperture a una serie di categorie lavorative e fonderà il primo istituto antenato dell’Inps. Infine nel 1919, governo liberale di Vittorio Emanuele Orlando, il sistema viene “imposto a tutte le aziende come obbligatorio: da quel momento tutti i lavoratori italiani ebbero per diritto la pensione”.
E il fascismo? Quando prende il potere si preoccupa – abolito il ministero del Lavoro – di concentrare tutte le funzioni che hanno a che fare con il welfare sotto la Cassa Nazionale col risultato di provocare “l’appesantimento del sistema e la sua progressiva inefficienza”, sottolinea Filippi. E poi, nel 1933, una riforma imponente: cambia il nome all’istituto, che diventa Infps, con la effe che deve fare da neon da insegna. “Un tentativo propagandistico – spiega Filippi – di impossessarsi di quello che nei fatti era stato il frutto di decenni di contrattazioni e lotte sindacali, di riforme attuate dai governi liberali e di iniziative delle associazioni di categoria dei lavoratori”. Nel frattempo quel che fa davvero il fascismo per i lavoratori è, nel 1926, stabilire che potevano esistere solo sindacati fascisti e vietare lo sciopero e la serrata, mettendo sotto giogo in un colpo solo i lavoratori e gli imprenditori. L’Infps negli anni diventerà una macchina da stipendi, uno sfogatoio per le clientele e quindi un produttore di consenso.

Le bonifiche, una scomoda verità
Littoria, il simbolo del miracolo, la città fondata sulle terre strappate all’acqua, l’orgoglio della potenza fascista che nel 1933 dichiara la propria vittoria: la missione impossibile delle bonifiche, perfino nell’Agro Pontino, è compiuta. Lì dove sono caduti tutti, il fascismo è riuscito. Ma è un racconto possibile solo grazie a una “grande operazione pubblicitaria”, obietta lo storico Francesco Filippi nel libro. La realtà la dicono i numeri che danno conto piuttosto di una serie di fallimenti, a dispetto delle convinzioni falsificate. Il fascismo, rimarca Filippi, aveva promesso di restituire all’agricoltura 8 milioni di ettari di terreni riqualificati: un’enormità. Dopo dieci anni di lavori più tentati che andati a segno e fiumi di denaro pubblico finiti come accade sempre con il fascismo a amici degli amici e collettori di consenso del regime (come l’Opera nazionale combattenti), il governo annuncia il successo del recupero di 4 milioni di ettari. E’ comunque tanto, qua la mano: medaglia. Ma Filippi indaga sui particolari e scopre che i lavori “completi o a buon punto” arrivano a poco più di 2 milioni di ettari. E – bluff nel bluff – “di questi due milioni, un milione e mezzo erano bonifiche concluse dai governi precedenti al 1922”. Insomma, non dal fascismo. “In pratica – conclude Filippi – era stato portato a termine poco più del 6 per cento del lavoro”. E’ De Felice, uno dei più autorevoli storici del fascismo, a certificare – ricorda Filippi – che i risultati, nel complesso, furono inferiori “alle aspettative suscitate nel Paese dal battage propagandistico messo in atto e finirono per non corrispondere all’entità dello sforzo economico sostenuto”. A riuscirci saranno poi i governi del Dopoguerra, grazie ai fondi del Piano Marshall e della Cassa del Mezzogiorno.


Il fascismo immobiliare
Le case agli italiani!, gridano oggi i fascisti nelle periferie di Roma. Ma se aspettavano Mussolini, stavano freschi. La prima legge sulle case popolari infatti è del 1903, per iniziativa di Luigi Luzzatti, deputato liberale che poi sarà presidente del Consiglio. I maggiori progetti di sviluppo urbano nelle grandi città con fame di abitazioni nascono tutti nei primi 15-20 anni del Novecento: Roma (la Garbatella per esempio), Torino, Napoli, Milano. L’unico tocco “decisivo” del fascismo, nel 1935, è quello di gestire il sistema a livello provinciale. Annota ancora Filippi: “Come in altri campi della cosa pubblica, anche nell’edilizia popolare il fascismo si limitò a porre sotto il proprio controllo e ribattezzare strutture amministrative nate nell’Italia liberale”. Viceversa, a fronte di grandi progetti colossali come l’Eur, “la situazione abitativa” rimase “emergenziale anche negli anni più tardi del fascismo”. E la carenza di alloggi fu aggravata dalla decisione di Mussolini di portare l’Italia in una guerra mondiale, il che provocò com’è evidente la rinuncia alle case che invece c’erano: due milioni di vani andarono distrutti e un altro milione fu danneggiato, sintetizza Filippi.

L’oro alla patria. E agli italiani niente
Ma era meglio quando si stava peggio. E invece no. Come spiega Filippi, durante il Ventennio fascista, il divario della ricchezza media tra un italiano e un cittadino degli altri Paesi sviluppati si allargò. Un po’ per colpa della congiuntura internazionale (la crisi del ’29), un po’ per i problemi strutturali, ma anche perché “tutte le iniziative prese” dai governi di Mussolini “contribuirono a peggiorare la situazione”. Un effetto fu la divaricazione delle disuguaglianze: i ricconi, quasi tutti aderenti al regime, da una parte e la massa della popolazione dall’altra. Unica via d’uscita: l’emigrazione. E’ meglio ora, che si sta meglio di quando si stava peggio, e scusate l’ovvietà: oggi, ricorda ancora Filippi, il reddito medio italiano è circa il 90 per cento di un Paese europeo avanzato come la Francia. Negli anni Trenta era il 33.

Smascherare il Duce (e le sue bufale vecchie cent’anni)
Mussolini ha fatto cose buone spoglia dunque il Duce di tutti i suoi camuffamenti: previdente, bonificatore, costruttore, legalitario, economista, condottiero o perfino femminista. In alcuni casi ribadire è necessario, ma più semplice: come sulla presunta legalità di un partito che si è fatto spazio anche con le manganellate agli avversari e poi ha fondato il potere su clientele e corruzioni (con tanto di morto ammazzato – Giacomo Matteotti – in possesso di documenti su una tangente che toccava il fratello di Mussolini, Arnaldo). O come per la propaganda per la formazione di un popolo soldato al servizio di un regime che però in vent’anni le ha perse tutte e quando le ha vinte lo ha fatto con la sete di sangue di generali come Rodolfo Graziani, il macellaio di Fezzan.
In altri casi, invece, il risultato del fact-checking di Filippi è sorprendente: per esempio l’incredibile incapacità burocratica, operativa e finanziaria per la ricostruzione delle zone terremotate tra Basilicata e Vulture dopo il sisma del 1930 (ricostruzione alla fine mai avvenuta) o come le leggi razziste approvate per le colonie del Corno d’Africa e della Libia (a proposito di responsabilità post-coloniali dei Paesi europei) che disponevano anche deportazioni di massa di berberi e arabi. “A rileggere queste disposizioni sorge il dubbio su chi, tra fascisti e nazisti, abbia copiato l’altro” scrive Filippi.

La memoria avvelenata di chi è scontento del presente
Lo smascheramento dei falsi – così tante volte ripetuti da diventare imponenti, come le valanghe che si autoalimentano – non è solo un’operazione che rimette in linea con la realtà delle cose, ma produce l’effetto di scoprirne di nuove, di inaspettate: una rigenerazione. “Mentre le fake news sul presente servono a indirizzare l’opinione del pubblico a cui sono rivolte – scrive lo storico Filippi – le false notizie sulla storia hanno lo scopo più profondo di rassicurare chi le accetta nei propri sentimenti, nelle proprie emozioni. Una balla sul passato è rassicurante, conferma sensazioni di cui altrimenti ci si vergognerebbe”. Di più: “Pensare a un ipotetico passato positivo lascia una speranza nell’animo di chi è scontento del proprio presente. In un momento di velocità e valori fluidi, avere un posto sicuro e tranquillo in cui rifugiarsi è rinfrancante, anche se questo posto è la memoria, anche se questa memoria è falsa”.
Mussolini ha fatto cose buone diventa un modo per depurare la memoria avvelenata di un popolo che ha il male della mancata resa dei conti con la Storia, per giunta con quella fondativa della Repubblica, quel poco di religione civile che una parte d’Italia non cura né apprezza, qui compreso il ministro dell’Interno che confonde la nascita della democrazia con la riduzione a una partita tra destra e sinistra. Anzi, fu proprio De Felice, viene ricordato nel libro, a spiegare a destra e sinistra il motivo della sua ricerca sul fascismo, durata tutta la vita: “I fatti sono assai più eloquenti e persuasivi delle filippiche di certo antifascismo da comizio e di tante schematizzazioni che fanno acqua da tutte le parti”. Era il 1975 e sembra ieri.

“Il Fatto” quotidiano, 25 aprile 2019