“Non mi è mai saltato
in mente di voler cambiare le condizioni politiche in cui mi sono
trovato a vivere. Non ho mai voluto cambiare la lingua o il mondo e,
se citavo Marx, Rimbaud o Mallarmé, era sempre me stesso quel che
volevo cambiare, me stesso, ovvero quell’individuo che si trovava
nelle mie immediate vicinanze». Così Bohumil Hrabal - nello scritto
autobiografico del 1985 titolato Chi sono - sintetizzava, con
la consueta irruenza, il proprio atteggiamento nei confronti del
mondo e della letteratura. Dopo essere stato costretto al silenzio
durante la «normalizzazione» della società ceca nei primi anni 70,
lo scrittore era tornato a pubblicare le proprie opere solo grazie
all'«autocritica» apparsa nel 1975 sulle pagine del settimanale -
«Tvorba» («Creazione»). Nella travolgente dichiarazione di
poetica titolata Manuale di un apprendista stramparlone
(scritta nel 1970, ma uscita in forma censurata soltanto cinque anni
più tardi, in calce al «ripensamento» che gli attirò le ire di
vari intellettuali cechi) affiorano indirettamente le ragioni che
avevano spinto Hrabal a un passo così difficile.
La sua accettazione
del presente
Alla base della sua
autocritica c’era senz’altro l’esigenza di riallacciare il
rapporto con i lettori, raggiungendo un pubblico più ampio di quello
che i canali alternativi della stampa samizdat potevano assicurargli;
ma c’era anche il bisogno istintivo di uscire allo scoperto, di
partecipare di nuovo alla vita della nazione, sguinzagliando
all’intorno quei manoscritti inediti che incombevano su di lui,
come le cataste di libri nell’appartamento di Hant’a, l’eroe di
Una solitudine troppo rumorosa.
Indifferente a ogni forma
di dissidenza politica non certo per opportunismo bensì per una
sorta di trepida concentrazione sul «già esistente» piuttosto che
sul «possibile», Hrabal centellinò la cicuta che il regime gli
somministrava, pur di poter continuare a descrivere quel mondo che lo
riempiva di uno stupore quasi fanciullesco: «Fin dall’infanzia ho
sempre nutrito la più grande ammirazione per la realtà che non ho
creato io, che era lì già prima che esistessi; io, che non desidero
altro che rifletterla, poiché perfino gli eventi più terribili per
me sono colmi di bellezza». Da questa accettazione forzata del
presente - degna del suo filosofo prediletto, il cinese Laozi -
derivava per Hrabal anche il rifiuto dell’emigrazione. Abbandonare
la capitale boema avrebbe significato allontanarsi dagli infiniti
reali e topografici trasfigurati nelle sue opere (dalle acciaierie
Poldi al deposito della carta da macero di Una solitudine,
passando per tutte le osterie-birrerie elencate da Hant’a in
una sorta di slalom gigante dell’ebbrezza), nonché rinunciare alla
consolante ripetitività dei riti legati alla dimensione collettiva e
conviviale di Praga (cui lo scrittore era così affezionato da
intitolare nel 1966 la prima antologia dei suoi scritti col nome
della sua mensa preferita, Auto-matSvet).
Come un albero
fronzuto
Hrabal dunque rimase in
Cecoslovacchia e continuò a «trascrivere» la realtà nei suoi
testi e a «cambiare se stesso» attraverso la letteratura, in un
duplice processo mitopoietico indubbiamente fortunato, se ancora
oggi, a dieci anni dalla sua morte, molti continuano a domandarsi chi
egli fosse «davvero». Tra i suoi recenti esegeti, il polacco
Aleksander Kaczorowski gli ha dedicato Il gioco della vita, da
poco tradotto in italiano dalle edizioni e/o. Se nei capitoli
sull’infanzia e l’adolescenza dello scrittore il libro inclina a
un biografismo minuzioso e un po’ sterile, le pagine sugli anni 70
e ’80 ricostruiscono invece con efficacia in quale caos di accuse,
sensi di colpa, autocensure e «paure totali» si svolse
l’elaborazione delle ultime opere, fino al 1989...
Tra i molti paradossi che
segnarono 1’esistenza dello scrittore ceco, nato in un sobborgo di
Brno nel 1914, ve n’è uno che dovette risultare particolarmente
gravoso alla sua indole esuberante, quella indole che lo induceva a
paragonarsi a un «albero fronzuto, pieno di occhi attenti e
sorridenti». Come osserva Josef Zumr, l’uscita dei suoi libri di
rado coincise con l’epoca della loro effettiva stesura:
l’aspirazione di Hrabal a «riflettere la realtà» dovette dunque
scontrarsi con imprevedibili strategie editoriali - Ho servito il
re d’Inghilterra apparve, per esempio, con undici anni di
ritardo per i tipi di un’associazione musicale jazz nonché con
l'esigenza di adattare le proprie opere alle circostanze della
contingenza letteraria.
È difficile, tuttavia,
distinguere ciò che dipese dalla necessità e ciò che è
attribuibile alla sua volontà autoriale, dal momento che fin dagli
esordi Hrabal manifestò una istintiva predisposizione a tornare su
quanto già scritto, ad assemblare testi propri e altrui secondo una
logica paragonabile al montaggio cinematografico. E se nel 1981 la
giustapposizione alternata di Una solitudine e Un tenero
barbaro nel volume Club di poesia finì col generare un
vero e proprio monstrum, in altri casi le rielaborazioni di Hrabal
sfociarono in capolavori come Treni strettamente sorvegliati
(1965), originatosi alla confluenza di due testi preesistenti e di
frammenti tratti da racconti conviviali. Tra quelle pagine, lo
sfilare dei convogli bellici per la Moravia occupata dalle truppe
tedesche si sovrappone al flusso di coscienza del giovane ferroviere
Milos, in una successione di immagini «la cui prospettiva - ha
scritto Jiri Pelan, nel suo Tentativo di ritratto premesso
all’edizione delle Opere scelte nei Meridiani Mondadori -
non viene definita univocamente dal soggetto ordinatore».
Armato
di forbici e colla
Una simile composizione
paratattica del testo letterario trova il suo equivalente visuale
nella tecnica del collage, genere coltivato in tutte le sue
eterogenee varianti (rollage, froissage, chiasmagè)
dall’amico di Hrabal, Jiri Kolar. Anche lo scrittore, peraltro,
amava cimentarsi con forbici e colla, come testimonia la mostra a
cura di Annalisa Cosentino allestita in questi giorni a Roma. La
logica surreale del collage riaffiora in tutti i suoi testi più
sperimentali come, ad esempio Questa città è affidata alla
comune cura dei suoi abitanti (1967), reportage su Praga
realizzato insieme al fotografo Miroslav Peterka e ora ripubblicato
dall’editore ceco Paseka.
Questa opera singolare -
che ha tra le sue fonti un manuale scacchistico tedesco, una raccolta
di leggende praghesi, un repertorio di attributi dei santi, verbali
giudiziari e brandelli di conversazioni udite per la strada -
dimostra la passione di Hrabal per il ciarpame verbale più
inverosimile, per il bric-à-brac linguistico più kitsch, che
egli tentava di resuscitare, accostandolo ironicamente alle
chiacchiere da crocicchio o da osteria. D’altro canto, questo
orientamento alla lingua orale, o a quel che Ripellino chiamava il
«brulichio del parlato», accompagnava lo scrittore fin dalle sue
prime prove: non a caso, la raccolta narrativa uscita nel 1956
proprio grazie a Kolar si intitolava I discorsi della gente.
Da Stramparloni
(1964) a Sanguinose ballate e miracolose leggende (1968),
passando per i racconti di Inserzione per una casa in cui non
voglio più abitare (1965), l’attenzione di Hrabal si concentrò
dunque intorno alla figura eminentemente ceco-slovacca del pabitel,
neologismo coniato da Kolar e subito fagocitato dall’amico
letterato. In un primo tempo pabitel verme tradotto in
italiano con «sbruffone»; in realtà, la definizione che ne fornì
lo scrittore stesso rettifica il significato del termine,
proiettandolo in una dimensione quasi metafisica.
Il pabitel sarebbe,
infatti, «colui che è capace di esagerare, poiché fa tutto con
eccessiva passione e rischia dunque di sembrare ridicolo», «il
contrappeso dell’uomo civilizzato», «uno strumento del linguaggio
che vede la realtà attraverso il prisma dell'ispirazione». Sorta di
personaggio donchisciottesco a metà tra l’insipiente e il profeta,
il pabitel vive nella sfera immateriale della parola che non
diventerà mai logos, perché persa nei meandri irrazionali
della ciarla, della fanfaronata, dell’aneddoto strampalato (da qui
il termine «stramparlone», adottato di recente nelle Opere
scelte). Le due linee del trascrivere e dello stramparlare si
sarebbero poi sovrapposte nella Ballata scritta dai lettori,
composta da brani prelevati dalle missive spesso ingiuriose che lo
scrittore, accusato di pervertire la gioventù socialista, riceveva
pressoché ogni giorno. Accostando tra loro questi frammenti di
grottesca logorrea, perbenismo forcaiolo e grafomania ingenua, Hrabal
celebra se stesso come idolo del pabitel e sua vittima a un
tempo, e decide di accantonare temporaneamente questa fonte di
ispirazione.
Nel 1970, infatti, Hrabal
cessò di andare «a zonzo con l’orecchio teso a un’istantanea di
parlato» e con La tonsura ritornò al mondo dell’infanzia,
ovvero a quella Boemia dall’atmosfera sospesa, un po' biedermeier,
che lo avrebbe reso celebre, complici anche le fortunate
trasposizioni cinematografiche di Jiri Menzel. Questa cesura viene
ridefinita in forma di parabola evangelica nel saggio L’ala
dell’imbecillità: «Io ti dico, figliolo, che non hai più
bisogno di immischiarti nei discorsi della gente, perché qualcuno ti
confidi la sua sofferenza... non hai più bisogno di cercare il
denominatore comune con chi ti è vicino, meglio, figliolo, che tu
finga di essere sordo, di non voler più sentire... Meglio che,
circondato da ogni parte dal brusio delle parole, tu porga l’orecchio
al monologo interiore della giovinezza».
Nella Tonsura e
poi nella Cittadina dove il tempo si è fermato, l'età mitica
della fanciullezza si condensa in immagini di abbagliante splendore,
attorno alle quali si snodano interminabili narrazioni orali,
autocitazioni dalle opere del passato e anticipazioni di quelle
future. Così è, ad esempio, per la barchetta tatuata che il giovane
protagonista della Cittadina osserva rapito sul torace nudo di
un renaiolo, oppure per il lampadario di porcellana carico di
pendagli colorati sotto al quale la madre celebra insieme al patrigno
riti tanto teneri quanto misteriosi. Nel cosiddetto ciclo di Nymburk
(dal nome della località boema dove lo scrittore visse dal 1919 al
1949), la parola acquista una evidenza quasi tangibile, sottraendosi
all’effimero cicaleccio dello «stramparlare».
Profanatore di
tombe eccellenti
Ma il testo in cui il
carattere della scrittura hrabaliana, che Sergio Corduas ha definito
«fisiologico e musicale insieme», emerge con maggior chiarezza è
Una solitudine troppo rumorosa, lungamente elaborato dal 1972
al 1976. Nella vicenda di Hant’a, operaio che crea «genialmente»
blocchi di libri pressati per mandarli poi al macero, Hrabal adombra
le proprie riflessioni sulla cultura e sulla sua contiguità col
caos. Il protagonista non può fare a meno di abbandonarsi all’estasi
indotta dalla distruzione di migliaia di volumi, ma nel contempo ama
salvare quei testi da cui crede di poter apprendere qualcosa su se
stesso e quindi, alla fin dei conti, è «istruito contro la sua
volontà».
Sorta di
archivista-becchino, Hant’a compone dunque, come in una bara, i
pensatori più illustri, in un processo speculare a quello di Hrabal
che, alludendo alle sue tendenze citazionistiche, si definiva un
«profanatore di tombe eccellenti». Grazie a quella pressa che
l'alter ego dell’autore vorrebbe acquistare per proseguire anche in
pensione la sua opera, avviene la transustanziazione della parola in
carne, simboleggiata nella scena grandiosa in cui Hant’a, avvolto
da un nugolo di mosche impazzite, assembla volumi di filosofia con i
fogli di carta sanguinolenta provenienti da una macelleria.
La fine della cultura è
quindi regressus ad originem, ritorno a un sostrato
fisiologico che per Hrabal era evidentemente indivisibile dall’atto
stesso della creazione, se nella pagina conclusiva di Ho servito
il re d’Inghilterra teneva a precisare di aver scritto quel
testo nel sole rovente dell’estate, con i fogli già battuti a
macchina che scottavano tra le dita.
Da un presente
perduto
D’altronde, la
dialettica morte-resurrezione si era già affacciata nel ritratto
dell’amico Vladimir Boudnik, delineato nel 1973 in Un tenero
barbaro: «Vladimir, maestro dell’immaginazione tattile, sempre
in agonia, sul punto di crepare, sempre soltanto per poter essere in
grado di risorgere ... e poi, lungo il cordone ombelicale, tornare
indietro verso il principio di tutte le cose, tornare indietro alla
prima settimana della creazione del mondo». Un punto di approdo cui
anche Hrabal sembrava ormai aspirare, allorché negli scritti
auto-biografici degli anni ’80 ammetteva malinconico: «Il mio
presente è andato definitivamente perso a favore del regresso alle
origini. Anche questo mondo è ormai perso per me e me ne torno
laggiù, dove non sono stato ancora».
"il manifesto", 8 marzo 2007