Nel Pds – Ds - Pd hanno convissuto e convivono almeno due progetti e dell'Ulivo ci sono state date due interpretazioni.
Primo progetto (D'Alema e dintorni): una sinistra moderatissima si allea con un centro e ottiene la maggioranza, eventualmente utilizzando come forza di complemento la sinistra radicale che può avere incarichi, può dissentire, ma non deve contare nulla.
Secondo progetto (Veltroni e simili): un grande “partito di centro che guarda a sinistra” (come la Dc di De Gasperi) e che con la sua “vocazione maggioritaria” e il suo “progetto”, ultramoderato, sfida la destra sul terreno del governo, anche usando leggi elettorali tagliapiccoli.
I due progetti da quindici anni circa si combattono in uno scontro alimentato da rancori personali, da ambizioni di potere, da faide locali, ma sono oggi tutti e due al capolinea, impraticabili e velleitari.
Va aggiunto che essi sono due varianti della stessa idea: quella per cui le elezioni si vincono “al centro” con una linea politica moderata nel campo dell’economia e degli stessi diritti civili, che non disturbi i poteri forti nazionali (la finanza, le Banche, gl’industriali, i grandi costruttori, il Vaticano) e internazionali (gli americani). C’è una continuità tra il D’Alema che esalta come “capitani coraggiosi” Colaninno padre e gli altri acquirenti speculativi della privatizzata Sip-Telecom e Veltroni che mette in lista il di lui figlio o addirittura Callearo, un falco di Confindustria, tra i più feroci nel pretendere la libertà di licenziare.
Questo moderatismo nasceva da una realtà di fatto non meramente nazionale, da una fase nuova della storia europea e mondiale.
Già negli anni 80 la crisi dell’Urss e del suo “socialismo reale” e la caduta verticale della sua forza di attrazione aveva messo in discussione il “compromesso sociale” che nei principali paesi europei il padronato aveva a malincuore accettato. Era il tempo della “rivoluzione neoliberista” di Reagan e della Tatcher e delle più prudenti operazioni di taglio dello Stato sociale che si svolgevano in Francia o in Italia.
Dal 1989 il crollo dell’impero sovietico e, poi, la fine ignominiosa dell’Urss, realizzando una sorta di “controrivoluzione di massa”, sanciscono una forte egemonia ideologica del nuovo individualismo liberista che si esercita sugli stessi strati popolari, sullo stesso mondo operaio. L’espansione dello Stato sociale, avvenuta nei decenni precedenti, viene bollata come una sorta di “sovietizzazione”, come un frutto bacato del “socialismo reale”, come fonte di burocratizzazione, sprechi e privilegi, come ostacolo alla libertà. Solo in Germania, ove il costoso processo di unificazione richiede una forte guida politica, lo smantellamento dei diritti e delle tutele sociali è più prudente e non è accompagnato da una campagna contro lo “statalismo” diffusa ed insistente come altrove.
Ai gruppi dirigenti diffusi della socialdemocrazia europea (includendovi anche il Psd-Ds, che in quel campo era in qualche modo approdato dopo la “svolta” di Occhetto) si prospetta pertanto un dilemma: “conservare” la funzione principale di rappresentanza del lavoro dipendente, scontando le difficoltà della fase e proponendosi una lunga e difficile resistenza quasi certamente dall’opposizione, oppure accentuare il carattere interclassista che avevano nel tempo assunto per proporsi al potere economico come gli artefici di una “rivoluzione liberista” senza traumi e senza scontri sociali, nel nome della modernizzazione.
Questa seconda linea, sembrava trovare una conferma internazionale fortissima nell’Inghilterra post-tatcheriana con i successi del “narciso” Blair e negli Usa con la vittoria di Clinton ed era corroborata dalle teorie della “terza via” di Giddens ed altri.
Dalemiani e veltroniani, pur odiandosi, hanno insieme guardato a questi modelli per una politica che affidava al “centrosinistra” il compito di fare la politica della destra meglio della destra: privatizzazioni, tagli allo Stato sociale, flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, riduzione di diritti e tutele per i lavoratori dipendenti privati e pubblici.
Si ricordi che la legge Treu sul lavoro tipico viene prima della Maroni-Biagi e che perfino su questioni delicate come l’immigrazione o l’interventismo militare i dalemian-veltroniani hanno fatto da apripista. La Turco-Napolitano non ha forse i presupposti xenofobi della Bossi-Fini ma sono i Cpt i capostipiti dei Cie. La concessione di basi per i bombardamenti di Belgrado alla Nato sotto il governo D’Alema cercava giustificazioni nella “guerra umanitaria”, ma rese più facile l’intervento in Afghanistan (che il grosso dei Ds votò) e in Iraq.
Tra i seguaci di Baffino e quelli di Uolter le tattiche volte alla conquista di poteri e prebende per la propria banda potevano essere diversi, ma una comune bussola governava l’agire politico e le linee d’azione dei gruppi dirigenti del Pds-Ds e poi anche del Pd: la convinzione che l’unico mondo possibile fosse quello del capitalismo globalizzato con la sua pervasività e che il compito delle “sinistre di governo” o del centrosinistra fosse di governarlo meglio per renderlo più accettabile.
Non ho difficoltà ad ammettere che queste teorizzazioni e queste pratiche non erano campate in aria o frutto di tradimenti individuali. Nascevano da una sconfitta storica, la sconfitta del comunismo del XX secolo e dello statalismo che aveva accomunato comunisti e socialdemocratici, e dalla conseguente diffusa sfiducia dei ceti popolari nelle antiche parole d’ordine. Per esempio le campagne per la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi presentate come campagne di libertà (la privatizzazione dell’Enel, la libera scelta tra pubblico e privato nella sanità, il buono scuola, ecc.) hanno attecchito a lungo anche tra lavoratori e pensionati poveri. Chi ha un minimo di senso storico sa che la sconfitta subita nel Novecento da un progetto come quello comunista, che aveva attivato e mobilizzato milioni e milioni di donne e di uomini in una speranza collettiva di trasformazione, lascia tracce profonde nella memoria collettiva, ferite che non si rimarginano in pochi anni.
Né deve meravigliare che i gruppi dirigenti del Pds-Ds, che, a differenza di altre forze della “sinistra di governo” europea, venivano da un partito comunista, si mostrassero talora più pronti a staccarsi dalle antiche parole d’ordine, per far dimenticare una sorta di peccato originale. La pesantezza della sconfitta delle sinistre stataliste nate dal movimento operaio è del resto confermata dal fatto che i nuovi movimenti di contestazione, i cosidetti “no global”, sembravano fuggire dalla politica, dal potere e dal governo. Qualcuno dei loro teorici arrivò a sostenere che il mondo si cambiava più facilmente e meglio senza prenderlo, il potere.
La grande crisi del 2008 ha cambiato lo scenario, nel mondo e in Italia. In America Obama vince le elezioni su parole d’ordine che in quel contesto appaiono di estrema sinistra: una riforma sanitaria che introduca una assicurazione e una garanzia pubblica, il controllo più stretto su banche e finanza, più assistenza sociale, un intervento statale in economia anche per correggere il modello di sviluppo ambientale. E’ su questa linea che sconfigge nelle primarie il moderatismo clintoniano. Vedo che il presidente Usa, per scelta o per gli ostacoli frapposti, sembra aver annacquato le sue proposte. E vedo delusione in America e in Europa per una politica estera che resta imperiale (né poteva essere altrimenti). C’è il rischio che in Usa le elezioni riaprano le porte a una destra incattivita, che contro la crisi potrebbe perfino usare l’arma della guerra.
In Italia la grande crisi ha prodotto uno stato confusionale nelle sinistre che avevano puntato sulle “magnifiche sorti e progressive” del nuovo capitalismo globalizzato. Oggi la destra, nel tentativo tutt’altro che facile di stabilizzare l’economia, spregiudicatamente usa lo Stato e le sue articolazioni per far pagare i ceti popolari e gran parte dei ceti medi, per togliere diritti e libertà giudicati costosi. Gli uomini della “sinistra di governo”, un tempo grandi convertiti ai fasti del “mercato”, mentre Tremonti spara a zero sul “mercatismo”, non sanno più chi sono e chi rappresentano. Le difficoltà e contraddizioni della destra nel governare la crisi, anche per il peso della centrifuga Lega e per l’inaffidabilità e per il sistemico conflitto d’interesse del suo capo attuale, sono evidenti. La guerra Fini-Berlusconi ne è manifestazione ma anche occultamento. Ma il Pd non riesce a fare una proposta.
Avrebbe davanti a sé più di una scelta plausibile, ma si incarta nelle sue antiche contraddizioni e nelle sue guerre tra bande. Il giovane Renzi, per uscire dal marasma, ha proposto la purga generalizzata degli anziani e l’altrettanto generalizzata promozione dei quarantenni. Sarebbe una proposta saggia se i quarantenni, nella lettura dell’economia e della società, fossero portatori di un’altra cultura, di un’altra linea. E invece no. Il loro approccio resta quello illusorio e fantastico di prima della crisi. I vecchi, orfani del Pci, continuano a vergognarsi del loro padre, i giovani sono anche loro orfani, di madre ignota. Il Pd è destinato a morte. Penso che sarebbe meglio per la sinistra e per moltissimi in Italia che non muoia di morte lenta, di convulsioni interne, quanto per effetto di un esterno uragano che ne travolga le strutture e costringa i suoi militanti e i suoi dirigenti migliori a un nuovo inizio.