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Franco Fortini |
Un testo intenso,
difficile, bello e, quanto dev'essere, critico.
E' la lettura,
nell'immediato (siamo nel 1967, il sessantotto è alle porte, ma non
c'è ancora), della Lettera a una professoressa del
prete Lorenzo Milani e della sua scuola di Barbiana. Fortini non fa
concessioni ideologiche al libro e senza disconoscerne la
grandissima forza letteraria e profetica, ne mette impietosamente in luce i
tratti populistici (un populismo assai più autentico di quello
posticcio che oggi domina la scena). Questo gli permette di
intravedere anche i contenuti duri e radicali del libro, che sfuggono ai più e ne
costituiscono il nerbo.
Nondimeno Fortini, in ultima analisi, si sbagliava . Per una sorta di eterogenesi dei fini questo libro di fede "senza politica" eccitò e motivò tanta politica.
Ho
recuperato lo scritto dal sito del Centro studi Franco Fortini di
Siena, che ha il nome di uno dei libri più provocatori del poeta e
saggista, L'ospite ingrato,
ma la sua originaria collocazione erano i “Quaderni piacentini”
IV, 31, luglio 1967, pp. 271-281. (S.L.L.)
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Il priore Milani nella scuola di Barbiana |
La questione non è di
dire a chi non l’ha letto che il libro Lettera a una
professoressa dev’essere letto: basta una pagina e chi ha
orecchi intende. Non è nemmeno di dire che è, quasi sempre,
eccezionalmente ben scritto: l’intellettuale cretino che lo elogerà
è già previsto e d’altronde (come dirò poi) quelle sue qualità
di energia immediatezza violenza hanno anche un risvolto negativo.
La questione è di sapere
a chi e a che cosa serve un libro così.
Si risponde: alla scuola
e a tutti. È una parabola, si dice. I personaggi scolari e
insegnanti sono figure di tutti noi.
Un momento. La cosa
veramente importante è che nessuno di noi leggerebbe il libro se
fosse soltanto un contributo ai problemi della scuola dell’obbligo
e degli istituti magistrali. Quel che ci fa tenere il fiato è quel
passaggio – ora oscuro ora aperto – da un problema particolare,
grandissimo quanto si voglia, al tema della rivoluzione-salvezza.
Dico subito: è un salto, non un passaggio. Al posto del passaggio
c’è un uomo, una disperazione, “una mano tesa al nemico perché
cambi”, la coscienza delle disuguaglianze, la coscienza; c’è una
precettistica stupenda, una retorica di forza classica. Una fede e
una letteratura. Non una politica.
Eppure il libro batte e
ribatte ad ogni pagina sulla politica come vita. Insiste su alcune
verità assolutamente politiche. Facchinelli le ha riassunte
benissimo. Che cos’è che non gira? “Vendi quel che hai e dallo
ai poveri” è il precetto. Ai “Pierini” si intima di sparire o
di farsi maestri, ossia discepoli. I “poveri” sono, nel mondo
intero, i “contadini”, gli uomini di un’altra cultura.
La parola populismo è
stata usata, questi anni, a torto e a traverso. Se c’è un caso in
cui bisogna usarla è questo. Nel senso di: lotta per i valori del
mondo subalterno e per l’eguaglianza. Ma se la rabbia-amore ha da
avere un senso e non rischiare il compiacimento non può che essere
trasformazione dei rapporti reali ossia rivoluzione esteriore non
rivoluzione interiore ossia conversione. Ora per la trasformazione
della società (a partire dalla scuola) qui si propone, in sostanza,
il volontariato, il “doposcuola classista”; la vocazione non
l’organizzazione, l’immediatezza non il rapporto
tattica-strategia.
Gli uomini come Milani e
probabilmente tutti i veri uomini religiosi vogliono, come Antigone,
essere dalla parte dei morti. Ognuno di noi, se conosce e quando
misura l’irrimediabilità della sorte singola e anche di quella
visibile del gruppo e dell’età umana cui si è toccati in sorte,
si volge dalla parte dei morti, del non più o del non ancora.
Antigone sepolta viva, nella condizione intermedia, nella grotta che
comunica con il vuoto sotterraneo, pronuncia per la città leggi
nuove.
E non ho a vergognarmi
del vecchio privilegio di Pierino, che sa chi era quella ragazza
greca: se per un verso gli esclusi, gli oppressi, sono più
gravemente esclusi ed oppressi, oggi, proprio perché partecipano,
non perché non partecipano, delle conoscenze della borghesia, per
l’altro verso i Pierini cresciuti, noi insomma, non scontiamo
soltanto la nostra colpa storica nei confronti del mondo “muto”
dei contadini con la cecità verso più della metà del mondo ma
subiamo la strangolamento, l’immiserimento caotico, la
falsificazione.
È difficile valutare
questo libro e l’opera di Milani perché è difficile parlare sotto
un indice teso. Si rischia di reagire con ingiustizia. È difficile
per la natura allegorica, l’ho detto, di queste pagine: può
sembrare meschino e incomprensivo contestare – e può esser fatto
senza difficoltà – molte affermazioni singole sulla scuola, gli
insegnanti, le istituzioni, quando sai che la parola scritta ti
chiama a ben altro. Ma d’altra parte la dimensione universalistica
del discorso non può non rimandarti alla sua verifica immediata, al
suo pretesto di partenza. Ancora una volta, il fascino, la chiamata
di questo libro-uomo è nella pratica abolizione dei “corpi
intermedi”: per quanto parli di collettività fraterna, senti che
Milani ha in cuore l’Uno-Tutti, uniti dal trattino
dell’immediatezza. E gli avversari, i nemici di classe devono
essere combattuti ma perché cambino, sono in sostanza dei fratelli
separati dall’errore e dall’avarizia.
A questo proposito vorrei
mettere in evidenza per la sua straordinaria genialità e ricchezza
la definizione di “opera d’arte” che si legge a p. 132: “Così
abbiamo capito che cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a
qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in
un paziente lavoro di squadra”; “Pian piano vien fuori quel che
di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano
tesa al nemico perché cambi”. L’arte è veduta come
mossa da una negazione, da un odio; la verità che ne esce è “mano
tesa” e specchio e proposta di cambiamento (il “nemico” sono
gli altri, la vita, te stesso...) quindi non è negazione reale e
intera ma collaborazione (e in questo si distingue dalla prassi e
dall’aut-aut del discorso scientifico...).
Ma qui va rilevato
soprattutto che “opera d’arte” ha qui anche il suo etimo
medievale, artigiano; e che è riferita esplicitamente alla
costruzione del libro di cui si parla. Nell’intento dell’autore
esso è “mano tesa al nemico perché cambi” ed è “opera
d’arte”. Si chiarisce qui, fino in fondo, il carattere
letterario, nel miglior senso della parola, di questo libro. Esso è
opus rethoricum, come uno Specchio di Vera Penitenza o
il Quaresimale di Bernardino da Siena. E cade qui opportuno
dire che il rovescio dei più forti esiti di questa prosa sta in
certi molto sgradevoli effetti d’eco (accenti che debbono aver
tradito – mi dice chi l’ha conosciuto – l’uomo Milani, immune
di retorica dei sentimenti e della missione); eco, voglio dire, del
cattolicesimo di destra, toscano, degli anni Venti e anche dopo, da
“omo salvatico” e da “Cento pagine di poesia”, con nomi
autentici e meno autentici, certo Tozzi, certo Soffici, esaltazione
della durezza contadina, della lingua soda, eco a sua volta di certo
Péguy e di certo Bloy, ultimo rivolo della contestazione
antiborghese e antidemocratica, su su fino a De Maistre.
Ultimo? Chi, come me, non
ha fatto che mettere in guardia, con se stesso, i propri amici
dall’inganno storico che riducesse la rivoluzione alla eredità
democratico-giacobina e poi positivistica del marxismo, e poi dalla
sua filiazione inevitabile, l’eurocentrismo operaistico, dovrebbe
riconoscere e riconosce infatti nell’accento di un libro come
questo il timbro d’una nuova lega metallica, risonante, come scrive
Fachinelli, ai quattro angoli del mondo, nella volontà, entusiastica
o ironica, di unire attimo e illimitato, fraternità e felicità,
rifiuto del consumo e consumo di se stessi: “perché anche io ti
amo, o Eternità”. Eppure – eppure sente di dover dire che qui,
in questo libro e probabilmente in molti dei movimenti e dei momenti
che oggi corrono il mondo, c’è o almeno prevale un aspetto
dell’autentica passione religiosa e rivoluzionaria: l’aspetto
della “nazione”, del “popolo scelto”, della “città dei
santi”. Quanto più si insiste sul momento del “tutti”, più si
privilegiano i poveri, gli oppressi, gli “idioti”, insomma gli
eletti. La “cultura” dei “padroni” appare come qualcosa che
contamina, sostanzialmente inutilizzabile (basta notare come il
discorso annaspa, nelle sue analisi e proposte, quando si passa dalla
Media Unica alle Magistrali: e peggio accadrebbe se parlasse di altri
tipi di scuole). Insomma, qui si separano gli uomini troppo e troppo
poco: troppo, nella misura in cui non si vuol vedere che la ideologia
dominante pervade tutto il linguaggio e non ne esenta il parlar
comune (onde ogni docente è, per posizione, bilingue e traslatore);
troppo poco, perché la distruzione degli avversari è vista,
amorevolmente e cristianamente, come una mano tesa per entrare nella
square dance della fraterna gioia non come un processo, molto
concreto, di spoliazione, perdita di diritti e di privilegi,
immiserimento, umiliazioni, suicidi e fucilazioni.
C’è, in fondo, un ottimismo disperato, quello di tutti i momenti
catari della storia religiosa, di tutte le città assediate: “Ho li
testimoni qui a Firenze. Io conosco che questa mattina io sono
pazzo... bisogna combattere contro duplice sapienza... contro duplice
scienzia... credimi che il coltello di Dio verrà e presto”.
So di aver appena
sfiorati alcuni dei temi che questo libro-uomo suggerisce. Ma mi è
chiaro che Milani è della specie d’uomini cui lo sterminio dei
viventi e quello dei trapassati, l’irrecuperabilità degli
individui, spinge alla rivoluzione che dovrebbe, nell’ordine della
storia, salvarli. Ma è l’antico Iddio, non la storia, a salvare
gli individui; la storia, se mai, potrà “salvare” la specie; e
allora la “politica” sarà, necessariamente, il contrario di ogni
abbreviazione, la “rivoluzione” il contrario di ogni entusiasmo,
la “felicità” il contrario di ogni illusione. Chi non regge,
scelga la mezza fede, la deviazione estetica, la morte-vita
immediata. Altrimenti non resta che il lavoro senza luce e senza
alcuna speranza immediata, che è della politica autentica; e che a
nulla somiglia tanto quanto la fede autentica e la poesia vera.