Accade, seppur raramente,
che il lettore di un libro avverta, man mano che procede nella
lettura, un vago disagio, la sensazione di essere ingannato,
accerchiato da una specie di divertita congiura, da un accordo
involontario creatosi tra il testo e l'editore ner confonderlo. E'
quanto mi è .successo leggendo le memorie di Federica Sofia
Guglielmina margravia di Bareith, che raccontano della vita di Corte
in Germania dal 1706 al 1742. L'opera è pubblicata da Sellerio,
nella collana «La memoria», con il titolo Il rosso e il rosa
(traduzione di Alfonso Zaccaria, pagg. 241, lire 6.000).
E' un'edizione
acrobatica, nel senso che l'editore ce la mette tutta per sfuggire al
lettore e per disorientarlo. E diciamo perché: la traduzione è
condotta su un testo francese indicato in calce senza indicazione di
data e di luogo di stampa. Ora, è difficile credere che le memorie
siano state scritte in francese; e, comunque, l'edizione francese
deve essere ottocentesca, poiché la principessa è chiamata, nel
titolo francese, margravia di Bayreuth, il nome, appunto,
ottocentesco di Bareith. D'altro canto in una nota finale alla
presente edizione, dovuta a Alberto Savinio (scritta quando? dove?),
si parla di una edizione tedesca del 1910, un «grosso» volume di
«seicento pagine fitte».
Militarismo e
omosessualità
Ecco allora un doppio
salto mortale: per passare dalle seicento pagine fitte alle
duecentododici attuali di un volume formato tascabile (o ottavo
piccolo) si sono dovuti operare tagli vistosi. Ma quanto è stato
tagliato di queste memorie? E, soprattutto, dove sono avvenuti i
tagli? Nel volume non c'è traccia di quei preziosi puntini
sospensivi tra parentesi che sono, insieme, un segno tipografico e
filologico. Nel risvolto di copertina si accenna a una «ampia
scelta», ma senza ulteriori informazioni e spiegazioni che, in casi
del genere, sono invece sempre obbligatorie. Si tratta di «forme»
editoriali che, in altre occasioni, lo stesso editore Sellerio ha
pure rispettato; esse servono a fare di un libro un testo di studio e
di consultazione.
Terzo salto mortale,
infine, con il titolo. Il rosso e il rosa starebbe a
significare, secondo l'editore, «il rosso di un militarismo che
arriva alla bestialità, il rosa dell'omosessualità che in quel
bestiale rigore trasporre». Ebbene, nelle memorie di Sofia
Guglielmina, del militarismo prussiano (suo padre. Federico Guglielmo
I, era chiamato il «re sergente») c'è solo qualche traccia; del
«rosa», poi, nemmeno l'ombra. Ma è questo rosa (inesistente) che,
secondo l'editore, può, «col senno di poi, riportare alla Germania
di Adolfo Hitler». A questo punto, il trapezista, e il lettore,
perdono l'appiglio.
Non resta allora che
affidarsi, fiduciosi, alle memorie di questa singolare principessa e
sperare in una miglior fortuna. Sofia Guglielmina descrive molto bene
l'ambiente e il clima familiare in cui è cresciuta. Le violenze che
lei e il fratello (il futuro sovrano illuminista Federico II, il
Grande) hanno dovuto subire da un padre nevrotico, malato di gotta,
autoritario, corrispondono effettivamente al ritratto storico del
personaggio. Costui non aveva niente della dolcezza e delle eleganze
settecentesche di altri sovrani europei. Era rozzo e brutale; nei
momenti d'ira o di malumore scagliava le grucce sulla figlia, sputava
nel suo piatto e la picchiava. Odiava il principe ereditario al punto
da chiederne l'esecuzione capitale quando il giovane Federico, non
sopportando più le ingiurie paterne, si diede alla fuga insieme con
un suo amico. Federico fu salvato a stento, per intercessione dei
consiglieri del re; ma l'amico fu decapitato davanti ai suoi occhi.
Certamente anche questo tragico episodio farà poi di Federico II un
sovrano contraddittorio, scisso in una doppia personalità:
l'intellettuale illuminato, il musicista, lo scrittore, e insieme il
guerrafondaio provocatore e il militarista che conosciamo. Ma qui
siamo fuori delle memorie di Sofia Guglielmina, che terminano proprio
nel momento in cui inizia il regno del fratello (Federico II salì al
trono nel 1740).
Di un'altra violenza è
però testimone e narratrice Sofia Guglielmina. E' la violenza della
malattia e del disfacimento dei corpi. Qui il Settecento privato,
segreto, «sanitario», esplode (non lo si è visto anche nelle
lettere di Mozart?) in una luce per qualche aspetto inedita. Di
collassi, svenimenti, convulsioni, dissenterie, vaiolo, cancrene,
fistole, flussioni, insomma di «presenze» del corpo sono piene
queste memorie. E un libro sanguinoso, ma più che altro per i
salassi e le emorragie.
Si sa quali erano le
condizioni igieniche in quel secolo e come la medicina fronteggiasse
a stento, o per nulla, le malattie. Tuttavia si ha l'impressione che
la fantasia sbrigliata e il gusto fanciullesco per 1'orrido guidino
spesso la mano della principessa. E necessario, infatti, non prendere
per oro colato tutto quello che lei racconta. Agli occhi di una
ragazza, turbata da difficoltà familiari, certe manifestazioni di
malattia non potevano non assumere aspetti ancor più drammatici e
ripugnanti. Leggendo il libro si ha quindi il sospetto che talvolta
Sofia Guglielmina deformi la realtà. D'altronde lei stessa non
esclude che siano labili, nella sua mente, i confini tra il reale e
il fantastico. In una pagina delle memorie dice, improvvisamente:
«Scrivo solo per divertirmi e mi compiaccio di non occultare i miei
più segreti pensieri». Quanta verità c'è nella «segretezza» di
questi pensieri?
Pupazzo
disarticolato
C'è una divertita
impertinenza, infatti, nel modo in cui Sofia Guglielmina descrive, ad
esempio, le visite di Stato compiute a Berlino, in occasioni diverse,
dallo zar Pietro il Grande, dal re di Polonia e dal re d'Inghilterra.
Del gigantesco zar racconta, comicamente, di un attacco di
convulsioni che lo colpisce, trasformandolo in un disarticolato
pupazzo, durante il pranzo ufficiale. Insiste con il re d'Inghilterra
che, sempre durante un pranzo di gala, si sente male e comincia a
barcollare («cadde sui ginocchi, la parrucca da un lato e il
cappello dall'altro»). Del re di Polonia le piace poi descrivere gli
stravizi e la inestinguibile passione per le belle donne («... le
sue amanti gli avevano dato trecentocinquantaquattro figli») e
parlare di lui, in visita a Berlino, come di un uomo affascinante, ma
«mal ridotto», con una cancrena al piede, salvato solo grazie
all'amputazione di due dita («la piaga era ancora aperta e lui
soffriva indicibilmente»).
Detto questo, le memorie
di Sofia Guglielmina sono di piacevolissima lettura e, a suo tempo,
saranno state certamente un antidoto prezioso per quanti immaginavano
il Settecento e la vita di Corte nella prima metà del secolo secondo
una rappresentazione, affabile e di maniera (alla Meissonnier o alla
Mariano Fortuny, per intenderci), che è stata dura a morire. Anche
nelle spiritose invenzioni di Sofia Guglielmina c'è però il segno
del mutamento dei tempi. La cultura dell'illuminismo, fatta anche di
irriverenza, di ironia, di lucidità e di follia ha lambito certo la
principessa prussiana che, nel turbinare dei ricordi, non risparmia
se stessa (si vedano le pagine, in allegro moderato, del suo arrivo,
novella sposa, al palazzo del margravio di Bareith; una casa
sbilenca, dissestata e povera e il suocero — tanto per cambiare —
con un tumore alla bocca), né il suo amato fratello Federico, la cui
fidanzata non è per nulla risparmiata (graziosa sì, ma antipatica e
«sfigurata dai denti, neri e irregolari»).
Che non cominci anche da
queste insidiose ed esagerate memorie la fine dell'Ancien Regime?
"la Repubblica", ritaglio senza data, ma 1982