Attilio Lolini, poeta tra
i più autentici e letterato tra i più fini, è morto tre giorni fa
nelle campagne del senese, ove viveva. È stato molto a lungo
collaboratore del “manifesto”, ove – in occasione dell'uscita
delle Bestie di Federigo
Tozzi, ha pubblicato il pezzo che segue, ricostruzione vivace,
acuta e appassionata di una pagina importante di storia letteraria.
Il titolo, ispirato a un bel libro di Leonardo Sciascia, è mio.
(S.L.L.)
Si torna a parlare di un
celebre caffè fiorentino: Le giubbe rosse, di Piazza della
repubblica e non soltanto perché oggi, un po’ nostalgicamente, vi
si tengono dibattiti culturali e presentazioni di plaquettes,
ma per via di un libro di Sebastiano Vassalli, edito da Einaudi:
L’Alcova elettrica che ricostruisce, con straordinaria
vivacità, il processo che, nel 1913 il Pubblico Ministero presso il
Tribunale Civile e Penale di Firenze Albini intentò contro la
rivista Lacerba, di Giovanni Papini (e contro il «diavolo»
futurista) nella persona di Italo Tavolato autore di uno «scandaloso»
articolo Elogio della prostituzione, «progettato» e scritto per
aumentare le scarse vendite della traballante pubblicazione edita dal
tipografo Vallecchi, allora ai suoi esordi di Editore.
Già Vassalli si era
occupato de le Giubbe rosse nel suo romanzo-verità (sempre edito da
Einaudi): La notte della cometa, che ricostruisce, con
un’imponente e accurata documentazione in gran parte inedita, la
vita di Dino Campana, il poeta «matto» di Marradi, malvisto da
Papini e Soffici e dalla società letteraria che frequentava Le
giubbe rosse, un caffè che continuerà la sua ragguardevole «storia»
fino agli anni cinquanta.
L’atteggiamento di
Campana, nei confronti degli scrittori editori di Lacerba e
della Voce (ai quali manda i propri versi) è, in genere, di
sprezzo: «Ho verificato che per fare qualcosa di leggibile bisogna
essere bastonati a sangue. Io farei altrettanto con quasi tutti gli
scrittori della Voce». Lui chiama i già celebri personaggi parvenus
della letteratura in assoluto dispregio d’ogni tattica, delle
regole del gioco letterario che sono poi, scrive Vassalli, il
trasformismo, il servilismo, l’adattamento all’ambiente. Papini e
Prezzolini (ma anche Soffici, Marinetti e compagnia) risponderanno
adeguatamente; si accaniranno a tal punto su Campana ancora dopo
molti anni dalla morte nel tentativo di annientarne la fama, di
cancellarne la memoria e, vanamente, il genio.
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Dino Campana |
Fu messa in giro anche la
problematica storiella della vendita dei Canti orfici ai
clienti delle Giubbe rosse, unico testimone Marinetti, vendita che il
poeta faceva strappando alcune pagine del libro e dicendo al
compratore: «Tanto tu queste non le capiresti».
Per i letterati del già
noto caffè Campana è, veramente, un personaggio imbarazzante; la
sua miseria è spaventosa; cammina, scrive Vassalli, scalzo per
risparmiare le scarpe che porta unite per i lacci, a tracolla dalla
spalla sinistra. Dorme all'asilo notturno e va a fangiare alla
famigerata Società per il pane quotidiano;
in realta digiuna arrangiandosi a fare in po' di tutto, dal facchino
al fattorino.
La
storia è nota: Soffici, al quale Papini “dirotta” il giovane
poeta perderà i Canti Orfici,
senza neanche averli letti.
I
futuristi, chiamati in soccorso a Lacerba hanno
colonizzato» Firenze: il 13 dicembre al teatro Verdi hanno
organizzato una serata : sono elegantissimi; si chiamano Marinetti,
Carrà, Boccioni, Cangiullo; l’uomo dei boschi, Dino Campana cerca
Soffici alla Giubbe Rosse ma non lo trova, si reca al Verdi; è
schernito dallo stesso Boccioni che esclama: «Signoreiddio, c'è
ancora gente che va in giro con la pidocchieria!».
«La cercavo», dice
Campana a Soffici, che sfoggia un monocolo incastrato con
disinvoltura nel sopracciglio sinistro, «per darle una poesia che ho
scritto sopra un suo quadro».
Soffici è seccatissimo:
«Non vede che stiamo concertando lo spettacolo di stasera, risponde,
vada a comprarsi il biglietto, piuttosto».
Il pittore Carrà è
ancora più spietato; rivolto a Campana dice : «Se ci promette di
venire a teatro vestito solo d’una pelle di capra noialtri gli
procuriamo un biglietto hommage, non è vero Soffici?»
Campana chiede notizie
delle sue poesie: «Basta», urla Papini, «io non ne so nulla!»,
butta il tovagliolo sul tavolo. «Da quando s’esce con Lacerba
— dice Marinetti sconsolato — nemmeno a tavola si sta in pace».
Un altro grande sfiorò
le Giubbe rosse in quegli anni: Federigo Tozzi; anche a lui Papini
dedicò la medesima attenzione.
Meno randagio di Campana
ma non dissimile dal poeta di Marradi, Tozzi fu anche lui un grande
camminatore, un ciclista in grado di pedalare da Siena a Roma, da
Siena ad Ancona, che aveva in sprezzo gli uomini del caffè, la loro
affettazione, le loro riviste e, in una parola, la loro mentalità.
S’era invischiato in un’impresa come la rivista La Torre,
in odio a Lacerba e ai costumi futuristi, con un personaggio
come Domenico Giuliotti, fautore d’una destra terribile e
pittoresca e gran nemico del «moderno» contro il quale chiamava
ogni momento l’arma dei Carabinieri.
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Federigo Tozzi |
A Tozzi, in realtà, la
politica interessava poco o nulla; la «congiura» contro Lacerba,
o meglio la denuncia contro l’articolo di Tavolato: L’elogio
della prostituzione, vede come attori il Giuliotti e il killer
dello stesso: Ferdinando Paolieri, giornalista de La Nazionale.
Vassalli «ambienta» la
scena della «congiura» a Siena in Piazza del Campo che, con ogni
probabilità si svolse, invece, a Greve dove abitava Giuliotti e dove
Tozzi si recava, spesso, in bicicletta tanto che una volta,
sudatissimo e impolverato, fu fermato dai carabinieri che l’avevano
scambiato per un famoso, e imprendibile, ladro di pollame.
Paolieri viene definito
da Alberto Viviani: (autore di un introvabile ma interessantissimo
libro edito nel 1933: Le Giubbe rosse): «bestemmiatore di
piazza», a trentacinque anni, scrive Vassalli è un omaccione quasi
completamente calvo, gran donnaiolo e autore da Nerbini: (detto lo
Zanichelli dei sozzi) di romanzi pornografici da lui stesso scritti e
tradotti. Tozzi, forse, lo detestava e anche Giuliotti non lo stimava
molto; Paolieri «serviva», come giornalista e «spia», per la
lotta che La Torre aveva dichiarato a Lacerba.
Nel maggio del 1913,
racconta Viviani, avviene a Firenze, un memorabile incontro-scontro
di Giovanni Papini con Federigo Tozzi; Viviani descrive Tozzi come un
giovanottone vestito alla campagnola; «grassoccio e rubicondo, con
l’aria di un prete di campagna vestito da uomo», tanto che Viviani
— che gli era amico fin da bambino — non l’aveva neppure
riconosciuto.
Ogni tanto Tozzi andava a
Firenze, sia in bicicletta, sia con il treno: l’incontro con
Viviani è casuale, quest’ultimo: «sull’angolo di Piazza Madonna
con Via del Giglio, sta aspettando Papini che infatti di lì a poco
arriva: a passo svelto e beccheggiante come l’albero di un
navicello». Eccolo!, dice Viviani e a Tozzi si rizza subito il
«pelo»: «come ai gatti quando stanno per azzuffarsi con il cane».
Papini saluta e rivolto a
Tozzi dice: «Torno subito; mi aspetti. L’aspetto sicuro —
risponde lo scrittore — non ho mica paura, sa?».
Papini sorrideva, nota
Viviani con quel suo sorriso speciale che avrebbe levato gli schiaffi
anche di mano ai santi, e sbirciava di sottocchi Tozzi che gli
camminava a fianco sbuffando di caldo e di rabbia, ma più ancora per
il desiderio di poter presto aggredire a suo modo il nemico.
La collera dello
scrittore senese esplose di lì a poco, a voce alta e concitata
ricopri d’improperi Lacerba, il futurismo e lo stesso Papini
che, imperturbabile lo osservava più con curiosità che con
interesse.
Tozzi così l’apostrofò:
«Bécero, bécero: voialtri offendete tutti e non sapete dire o
scrivere che parolacce. Ma vi si leverà noi il vizio; eh, ci
credo...».
Il riferimento al
«saggio» di Tavolato e agli stessi articoli di Papini: Gesù
peccatore e Freghiamoci della politica, è esplicito.
La Torre, la rivista di Tozzi, Paolieri e Giuliotti verrà, del
resto, anche presentata alle Giubbe rosse, tra risa,
sghignazzi: «Vedete — dice Ardengo Soffici — questo non è il
giornale di Giuliotti ma di Dio. E’ Dio stesso che lo ispira».
Papini non reagisce alle
invettive di Tozzi che fino a via de’ Pecori urlava all’indirizzo
dell’autore di Un uomo finito. «Non voglio perdere il treno
— disse — sennò verrei fin dentro a quel caffeaccio per dirvi a
tutti il fatto mio».
«Venga un'altra volta —
-gli propose subito Papini — noi ci siamo sempre».
Di lì a qualche giorno,
racconta Viviani, Tozzi capitò davvero a le Giubbe rosse; ma quasi
nessuno se ne accorse perché s’era messo a un tavolino mezzo
nascosto tra la seconda e la terza sala. Non inveì contro nessuno,
sapendo bene che Papini, Soffici, Lacerba e
la stessa rivista La Torre non
lo interessavano per nulla, lontano com'erano dal suo vero mondo, dai
suoi interessi di scrittore. Giuliotti verrà “descritto” con
feroce ironia nel suo ultimo libro, Gli egoisti. Morrà
giovane a Roma, otto anni prima di Dino Campana. Pampini sopravviverà
per tanti lunghissimi anni non rendendosi conto che quel giovanotto
accaldato e vociferante che lo apostrofava ferocemente in via de'
Pecori, era tra i maggiori scrittori del Novecento.
“il
manifesto”, 19 aprile 1987