28.6.18

La dieta adatta. Una traduzione in siciliano e in lingua da Marziale (S.L.L.)



Ti cummeni mangiari
lattuchi e marba tennira,
c'a la facci, Fefé,
d'unu ca caca duru.
---
O Febo, a te s'addice di cibarti
di lattughe, di malve tenerelle, 
che hai la faccia di chi caca duro.
---
Utere lactucis et mollibus utere malvis:
Nam faciem durum, Phoebe, cacantis habes.
(Mart. III, LXXXIX)


NOTA - Il dialetto è quello del mio paese, Campobello di Licata. Altrove si preferirebbe "marva" a "marba".

Il doping quotidiano. Un articolo di Laura Conti, medico e comunista ("l'Unità", 1968)

Laura Conti
Nel suo diario 1946, in occasione del Congresso del Partito socialista,  Pietro Nenni fa indica in Raniero Panzieri e Laura Conti i giovani più brillanti venuti al partito socialista con la guerra di Liberazione e la battaglia per la Repubblica. Credo che non si sbagliasse sulla qualità intellettuale dei due, entrambi nati nel 1921.
Mi pare però che il primo, nonostante la conclusione “minoritaria” della sua vicenda politica, abbia trovato una valorizzazione e un qualche risarcimento postumo. Non mi pare che altrettanto sia accaduto a Laura Conti, che ricordo di aver incontrato ad Ariccia un anno prima della sua morte, già malata ma ancora combattiva, nel 1990, a una riunione tra compagni che si opponevano allo scioglimento del Pci voluto da Occhetto. 
Per caso mangiammo seduti l'uno accanto all'altra nella mensa self-service della scuola sindacale e facemmo, per quel che si può in un paio d'ore, amicizia: ricordo che c'era in lei una doppia sensazione di amarezza, per una proposta politica che le appariva una resa e per la spaccatura all'interno della comunità Pci che quella proposta aveva determinato.
Molto si potrebbe di Laura, medico e militante, dalla partecipazione alla Resistenza alla militanza prima nel Psi, poi nel Pci, del suo costante coniugare rigore scientifico e passione politica. 
Fu una “protoambientalista”, sensibilissima come amministratrice locale alle problematiche ecologiche, specie se collegate alla salute delle comunità e degli individui umani, ben prima che acquistassero importanza nella politica ufficiale. Tra i fondatori di Lega Ambiente in seguito al dramma di Seveso inquinata dalla diossina, si può dire che fosse da molto tempo “protoambientalista”. Infine fu deputata impegnatissima sui temi della pace, oltre che della salute e dell'ambiente, per due legislature. 
Laura fu sempre convinta da sempre che compito fondamentale di partiti, sindacati, associazioni culturali, ricreative, ambientali di sinistra fosse l'educazione culturale oltre che civile della gran massa dei lavoratori e dava un peso decisivo alla divulgazione scientifica. Senza trascurare i loro compiti specialistici, scienziati e medici militanti avevano il dovere di rendere i lavoratori e i cittadini informati e consapevoli. 
A questo fine Laura Conti sistematicamente curò rubriche su “Noi donne” e “Il Calendario del popolo”, spaziando dalla prevenzione dei tumori all'educazione sessuale, e scrisse spesso su “l'Unità” di questioni scientifiche. Ritrovo proprio nel quotidiano del Pci, questo articolo sul doping, nello sport ma non solo, pubblicato nel giugno del 1968. Nonostante la distanza di 50 anni e le grandi scoperte nel campo delle sostanze dopanti e della conoscenza dei loro effetti distruttivi, mi pare assai attuale nel metodo, nell'approccio. (S.L.L.)

Con il divieto del doping s’intende vietare che agli atleti, ventiquattr’ore prima della competizione e per tutta la sua durata, vengano somministrate sostanze che tendano ad aumentarne artificiosamente le prestazioni. Ma che cosa significa «artificiosamente»? Il problema teorico, del significato della parola «artificio», è molto interessante, e potrebbe aprire discussioni molto ampie e impegnative. Il problema pratico nasce dalla pratica osservazione di quali sono in realtà le sostanze, diverse dai comuni alimenti, di cui molti atleti fanno uso, e abuso, tanto da mettere in pericolo non solo la propria carriera sportiva, ma la stessa vita.
Il dottor Raimondo Flores, medico sportivo, membro della Federazione italiana e fellow della Federazione internazionale, che ai problemi del doping ha dedicato molta attenzione, ci spiega che i farmaci impiegati per aumentare artificiosamente le prestazioni appartengono generalmente a due classi, le amfetamine e i cosiddetti «anti-MAO» (anti-mono-amino-ossidasi) : la ricerca nelle urine mette in evidenza, appunto, l'impiego di sostanze appartenenti a uno di questi due gruppi, oppure a entrambi.

L’allarme
Il meccanismo d’azione è, per tutti questi farmaci, un meccanismo di ordine psichico: la mancata percezione del senso di fatica mette l’atleta in condizione di proseguire la gara al di là di quel momento in cui la fatica, se percepita, costituirebbe un ostacolo insormontabile anche per la forza di volontà più stoicamente allenata, e quindi gli impedirebbe di proseguire. Ma la fatica non è un fenomeno soggettivo, non è semplicemente «una sensazione»: la fatica è una condizione oggettiva dell’organismo, è un particolare stato dei tessuti, una modificazione chimica a livello dei tessuti e del sangue: interrompere, mediante medicinali, la sensazione soggettiva della fatica è come disinserire un segnale d’allarme: l’allarme non suona, ma la situazione di pericolo persiste, e precipita verso le sue dannose conseguenze. Una prestazione impegnativa richiede tutta una serie di fini aggiustamenti reciproci delle funzioni organiche, nervosa e muscolare, respiratoria e circolatoria e delle ghiandole a secrezione interna: il «non sentire» la fatica, e quindi domandare all'organismo di andare al di là di quei livelli di fatica in cui l'equilibrio di questi aggiustamenti è automaticamente assicurato, significa sconvolgere questo equilibrio: per esempio, se la contrazione del muscolo cardiaco viene impegnata al disopra di quello che è consentito dalla dilatazione delle coronarie, può verificarsi un infarto cardiaco; se il calore generato nel lavoro muscolare è superiore alla capacità che l’organismo possiede di regolarne la dispersione attraverso il sudore, la temperatura interna può salire fino a produrre lesioni irreversibili dei centri nervosi. La coscienza non entra per nulla nel gioco finissimo e automatico degli aggiustamenti, ma quando si prova un senso invincibile di fatica questo significa che alla vita cosciente, attraverso le sensazioni, perviene l’avviso che il delicato equilibrio sta per rompersi. Nessun automobilista penserebbe di risolvere il problema della mancanza di benzina nel serbatoio spaccando l’indicatore: lo sportivo che si droga non risolve affatto il problema della fatica, ma si limita, assurdamente, a spaccare l’indicatore di fatica. Sa benissimo che dovrà pagare un prezzo, per questa follia: ma spera di poterlo pagare non in questa gara, ma domani.
Il comportamento è ancora più pazzesco, fa osservare Flores, in quanto chi prende le amfetamine non solo sospende il funzionamento dell’indicatore soggettivo della fatica, ma anticipa l'insorgere della fatica oggettiva: il suo comportamento è quello di un automobilista che, preoccupato che possa venirgli a mancare la benzina, spacchi non solo l’indicatore ma anche il serbatoio. Infatti il buon allenamento mira a dare allo sportivo una «forma», che in parte consiste nell’abbassamento della frequenza cardiaca: un corridore bene allenato, che si metta in gara con un polso a 40, sa di poter quadruplicare questa frequenza, giungendo a 160; ma se prende amfetamine prima di correre, immediatamente il suo polso sale a 80 e però 160 continua a essere il limite superiore, invalicabile: l'atleta avrà quindi un margine dimezzato, avrà perduto in un attimo i vantaggi raggiunti con mesi di allenamento.

Anni ’30
I primi a far uso di amfetamine non per cura medica, ma per superare difficoltà temute furono gli studenti di tutta Europa, verso la fine degli anni '30. Ad alcuni le amfetamine davano la capacità di vincere il sonno e prolungare le ore di studio: non sempre, però, lo studio nello stato di eccitazione provocato dall’amfetamina dava buoni risultati: un ottimismo acritico dava l’illusione di avere capito e appreso, ma si trattava solo di una illusione, che poi l’esame sbugiardava. Ad altri invece, inibiti dalla timidezza, l'amfetamina forniva nel momento stesso dell’esame quel tanto di ottimismo che permetteva loro di esprimersi liberamente. Durante la seconda guerra mondiale i comandi militari di tutte le nazioni belligeranti studiarono la possibilità di stimolare artificiosamente, con le amfetamine, i soldati nell'imminenza di un’azione rischiosa; chi sviluppò maggiormente questi studi fu il comando germanico, specialmente nella preparazione al combattimento dei piloti, sia bombardieri che da caccia. Sembra che in combattimento le amfetamine esplichino una reale utilità: non solo perché forniscono un ottimismo che permette di affrontare spavaldamente i pericoli, ma anche perché offrono un oggettivo margine di maggior sicurezza. Infatti esse potenziano l’azione di quegli ormoni che entrano in circolazione nei momenti di tensione psichica e che costituiscono una difesa contro il pericolo perché danno possibilità di maggiore attenzione, di maggior velocità nel decidere e, per l’immediato miglioramento della circolazione del sangue, anche maggior velocità nell'eseguire le azioni che si sono decise. Se l'automobile sbanda e si rovescia e l'automobilista ha la «presenza di spirito di tirar giù il finestrino prima che la vettura cada nel lago, ha agito sotto l'influenza di una droga, l’adrenalina, che le sue ghiandole surrenali hanno messo immediatamente in circolazione non appena il sistema nervoso le ha «avvertite» che la macchina sbandava e che vicino c’era il lago. Le amfetamine hanno una azione simile a quella dell'adrenalina, la droga «autarchica» che ci procuriamo da soli, e aggiungono la propria azione alla sua.
Tutti sanno che la vita inquieta, angosciata, tesa, fa invecchiare anzitempo: che provoca o accelera la arteriosclerosi e quindi gli infarti. Questo fenomeno è in gran parte l'effetto delle molteplici scariche di adrenalina a cui siamo soggetti: quella scarica di adrenalina che ha permesso all’automobilista di salvarsi dall’incidente stradale, gli ha salvato la vita in quel momento, ma ha cancellato dal calendario della sua esistenza gli ultimi giorni o le ultime settimane. Un cambio vantaggioso: invece di perdere in un istante quattro decenni di vita, perderne pochi giorni fra molti anni. Ma la molteplicità degli incidenti, delle collere, delle frustrazioni, delle tensioni nervose, alla fin fine accelera l’invecchiamento e affretta la morte. Così fa il doping, nel migliore dei casi, e corrisponde a un bruciare in fretta le risorse che abbiamo a disposizione.

Una illusione
Il caso dello sportivo è diverso perché il doping si unisce alla prestazione muscolare, cardiaca, circolatoria, respiratoria, e quindi non si limita ad accelerare il ritmo con cui si spende la vita, ma lo precipita furiosamente, arrischia addirittura di spenderla tutta in un solo giorno. E senza ottenere nulla in cambio: non la fluidità di parola all'esame, come lo studente, non la rapidità nello sterzo come l'automobilista: in cambio dei vantaggi conseguiti durante l’allenamento, il ciclista non ottiene altro che una passeggera euforia nel momento della, partenza. In cambio della cosa, la parvenza della cosa.

“l'Unità”, 22 giugno 1968

Il razzismo politico (Luca Michelini)

Riprendo dal blog de "Il Ponte", la rivista fiorentina fondata da Piero Calamandrei e oggi diretta da Marcello Rossi un articolo di Luca Michelini. Mi pare precisazione puntuale e argomentata per i "minimizzatori di sinistra", quelli che per parlare di razzismo aspettano, se non un Mein Kampf attualizzato, un nuovo (improbabile) Manifesto della Razza. (S.L.L.)


A proposito del razzismo e delle politiche razziste esiste, purtroppo, un diffuso malinteso. Si presume, infatti, che politiche discriminatorie siano il frutto esclusivo di ideologie e di prassi apertamente e dichiaratamente razziste. Ci si aspetta che tali politiche e che le ideologie che le sorreggono abbiano necessariamente bisogno di un qualche Manifesto della razza e di qualche intellettuale e scienziato disposto a dimostrare che «le razze esistono». Naturalmente, si deve sapere che il razzismo è anche questo. Ma la storia, e in modo particolare la storia italiana, ci insegna che il razzismo e le politiche discriminatorie hanno anche un’origine diversa.
Ci sono stati autori, ancor oggi osannati dalla destra in doppio petto, che hanno invitato pubblicamente a discriminare certi gruppi etnici e contemporaneamente hanno scritto che il razzismo era una dottrina priva di qualsivoglia base scientifica. Il razzismo non è affatto per forza di cose una teoria biologica della politica. Esiste, cioè, anche il razzismo politico. Esiste fin dall’origine un dato caratteristico delle ideologie razziste: la loro profonda ambiguità, il porsi tra il dire e il non dire, tra l’affermazione e la smentita. Tratto caratteristico di queste ideologie è l’uso deliberato della menzogna, che è addirittura teorizzata come funzionale a descrivere ciò che è “verosimile”. C’è sempre un contesto internazionale che costituisce una camicia di forza per la “patria”, rettamente intesa. C’è sempre una “cospirazione” internazionale da debellare.
Il razzismo, dunque, è usato come deliberata arma di propaganda, ma non per fini puramente ideologici, quanto per promuovere attive politiche di aggressione: in particolare lo squadrismo dei primi anni venti. E fin dalle origini queste prassi discriminatorie hanno invocato “censimenti”: a cominciare dai cognomi e poi redigendo e pubblicando “elenchi” e poi avviando complesse procedure di “riconoscimento” e poi redigendo la geografia economica e istituzionale dell’“occupazione” che i gruppi avevano fatto e andavano facendo di certi lavori e di certe cariche, diventando quello che viene definito «uno Stato nello Stato».
Tipico di queste ideologie è presentare proprio i gruppi discriminati come fomentatori di discriminazione, come i primi e i fondamentali “razzisti”, come gruppi che rifiutano l’integrazione. Il razzismo politico stigmatizza, poi, le ideologie “umanitarie” e “cosmopolite”, che naturalmente nascondono ben circoscrivibili “interessi” o di gruppi o di nazioni. L’“epurazione” invocata di questi gruppi si è sempre accompagnata alla loro assimilazione ad altri gruppi che, in un modo o nell’altro, costituivano «uno Stato nello Stato», dei “traditori”, naturalmente anch’essi da estirpare. E prima di arrivare alla codificazione legislativa di politiche razziste e discriminatorie, la discriminazione ha cercato la via più semplice: farsi propaganda, titolo di giornale, intervista; poi farsi cemento ideologico di partito; in seguito farsi provvedimento amministrativo apparentemente indolore per la cornice legislativa che lo contiene; poi diventare provvedimento di ordine pubblico, così da criminalizzare il gruppo da discriminare; infine, quando le coscienze sono state abituate alla discriminazione, quando le voci discordi sono rese minoritarie, quando appare politicamente corretto e condiviso tutto quanto sopra descritto, il razzismo diventa codice, legge, organizzazione.

dal sito de "Il Ponte" - https://www.ilponterivista.com/ - Postato il 23 giugno 2018

La cianfotta di Eduardo

Eduardo con Isabella Quarantotti negli anni 50 del Novecento

Si cucine comme vogli’i'...(Guido Tommasi Editore 2001) è il libro che Isabella Quarantotti, la vedova di Eduardo De Filippo, scrisse per tramandare le preparazioni culinarie più amate dal grande drammaturgo e capocomico, quelle che lui stesso di quando in quando preparava con amore e pazienza. Scrisse Dario Fo che il libro “non è semplicemente una sapiente raccolta di ricette di cucina, è soprattutto un momento in cui la cultura, la tradizione napoletana, l’arte culinaria, il teatro e la personalità di Eduardo De Filippo si fondono insieme per regalare al lettore uno "spaccato" di vita vera del grande maestro partenopeo…”.
Riprendo dal volume un piatto di stagione, tanto caro all'autore di Filumena Marturana, la cianfotta, che è il nome preferito nella capitale del Sud di quello stufato di verdure che in Molise o in Lucania chiamano ciambotta e che, in una versione salernitana, è già presente in questo blog. Nella ricetta di Quarantotti De Filippo, io, allergico alle cucurbitacee, non ho avuto bisogno di togliera la zucchina o gli zucchini. Non c'erano. (S.L.L.)

Cianfotta
1 chilo di peperoni affettati orizzontalmente
1 chilo di melanzane tagliate a pezzi
1/2 chilo di pomodori tagliati a pezzi
1/2 chilo di cipolle a spicchi
1/2 chilo di patate a spicchi
200 grammi di olio
basilico abbondante

Mettete a soffriggere in una pentola capace l’olio e la cipolla; dopo poco aggiungete i pomodori e fate cuocere, a fuoco basso, per una decina di minuti. Versate in pentola tutti gli altri ortaggi con un pugno di foglie di basilico, e cuoceteli a fuoco lento con il coperchio ben chiuso. Ogni tanto controllare che le verdure siano cotte se lo sono alzare il coperchio e far evaporare il liquido. A cottura ultimata aggiungete altro basilico; si mangia tiepida o fredda.

Quando il pugile .... Una poesia di Gianni D'Elia


Quando il pugile abbattuto si rialza,
e riga la sua faccia combattuta
un sudore e un sangue di riottanza,

e tutta la figura è forza nuda,
provata dai colpi di chi incalza,
mentre il gong che non arriva è la cruda

prova di un’energia che non avanza,
eccola, la metafora più bruta
della storia riopposta alla speranza;

ed è, sinistra, in questa vera stanca,
nella rinuncia alla nascita avuta:
21 gennaio 1921, Livorno, Italia; ma canta

la voce comunista, ancora, canta:
« Il mondo è ingiusto più di prima,
aiuta la vita a farsi lotta contro l’altra

parte che al mondo ha tutto e l’arroganza...
che non sei tu quel pugile, ma tutta
l’umanità che chiama, tutta quanta,

ancora e sempre, giustizia e libertà... »
Negli occhi di Pietro luccicava, là,
la boxe dell’utopia e della costanza...

da Bassa stagione, Einaudi 2003

27.6.18

Eduardo e gli “spaghetti con le vongole fujute” (Camilla Ruffo)

Disegno di Eleonora Bossa

La spaghettata, si sa, a Napoli è un sacro rituale: che sia al pomodorino, ai frutti di mare o semplicemente aglio e olio, nessun napoletano che si rispetti rifiuterebbe mai di appizzare la forchetta!
Ed Eduardo De Filippo, che napoletano lo era fino all’osso, non sfuggiva di certo a questa regola. L’attore, infatti, finché visse la “Compagnia De Filippo”, dopo ogni spettacolo era solito andare a mangiare un boccone in trattoria con suo fratello Peppino e sua sorella Titina. Si racconta che una sera del 1947, dopo la quotidiana rappresentazione teatrale, Eduardo fosse così stanco da non riuscire a trattenersi oltre l’orario di chiusura, così salutò i fratelli e si diresse verso casa.
Ma se la stanchezza aveva avuto il sopravvento sulla tradizionale uscita serale, non si può dire che abbia fatto lo stesso con i movimenti dello stomaco. Giunto a destinazione – ancora più affamato dopo la lunga camminata! - Eduardo muore dalla voglia di mangiare un abbondante piatto di spaghetti con le vongole. Ma, purtroppo per lui, di vongola, in casa, non ce n’era neanche mezza: tutto ciò che offriva la dispensa erano pomodorini, aglio e prezzemolo.
Poteva mai un genio dell’inventiva perdersi d’animo di fronte agli stimoli della fame?
Ovviamente no.
Acceso il fornello mise a bollire l’acqua per gli spaghetti, prese una padella, un filo d’olio, aglio e peperoncino, per poi lasciar scoppiettare i pomodorini nella preparazione di un bel sughetto. Alla fine, gettata la pasta al dente nel preparato, tagliò abbondanti dosi di prezzemolo grossolanamente, e si lanciò nell’assaggio.
Il giorno dopo era così soddisfatto della sua creazione che ne parlò subito con la sorella Titina, affermando che mentre mangiava quegli spaghetti al pomodorino* e prezzemolo le sue papille avevano sentito “il sapore del mare” (merito dell’aroma pungente della spezia).
In breve tempo la ricetta di Eduardo si diffuse così tanto a Napoli da diventare un pezzo della sua storia: gli spaghetti alle vongole fujute (perché, appunto, non ci sono) affollano ancora le tavole delle famiglie partenopee - con grande disappunto dei pescatori, oserei dire.

*Pare che un segreto per la perfetta riuscita di questo piatto sia l’utilizzo del pomodorino di Corbara: piccolo, aspro e dalla caratteristica forma allungata, è ricco di pectina e conferisce ai sughi l’aroma pungente dei frutti di mare anche in loro assenza.

Dal sito “Storie di Napoli” http://www.storienapoli.it/

26.6.18

Franca Rame racconta Valpreda. Intervista di Silvana Silvestri

Per la prima volta nell'aprile dello scorso anno intervistavamo al telefono Franca Rame che pure di questo giornale è stata amica e sostenitrice da sempre: volevamo avere un suo parere sul film di Marco Tullio Giordana Romanzo di una strage.
La vicenda di Calabresi, Pinelli e Valpreda che diede vita anche a Morte accidentale di un anarchico messo in scena da Dario Fo, raccontati in un film che sembrava relegare a un passato remoto fatti che solo chi li aveva vissuti poteva riempire le scene del fuori campo di lotte studentesche e operaie, di manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, dittature già imposte e le altre a venire. Per un mese intero Morte accidentale di un anarchico fu nel Cile di Allende all'Università dall'ottobre al novembre del 1970. È importante perché dopo il colpo di stato di Pinochet Dario Fo e Franca Rame misero in scena Guerra di popolo in Cile dove in realtà si parlava chiaramente della situazione politica italiana.
Riproponiamo quell'intervista perché l'energia e la vivacità della sua voce la fa sentire ancora presente, un fervore mai spento, da attrice, militante, senatrice, voce di tutto un movimento.

«Ho avuto la possibilità di vederlo e rivederlo questo film con molto interesse. Le intenzioni sono buone, ma... Quel che dico è sicuramente pesante: manca di coraggio. Un giovane vedendo oggi il film di Giordana cosa può capire di quegli anni? E soprattutto non dice che a Calabresi fu tolta la scorta. «Vai. e tanti auguri!». Chi l'ha ucciso? Si sa. Ma chi non lo sa? Sì, viene accennato. Ma, a mio avviso, non basta. Si vede solo il corpo del commissario abbandonato per terra tra le macchine come fosse «dimenticato» lì da qualcuno. Non si sente il furore, la fatica, l'ansia politica di quegli anni. Non c'è Milano. La situazione era tremenda, cominciavano i primi arresti, è stata una pagina di storia stragista, ‘sporca', ambigua, assassina.
Quello che sapevamo e che si vede anche nel film è che certamente Calabresi non era nella stanza quando Pinelli fu fatto volare dalla finestra del IV piano della questura di Milano. Quando Dario mise in scena Morte accidentale di un anarchico, era in atto il processo Calabresi-Lotta continua. Dopo l'udienza gli avvocati difensori di “Lotta continua” ci raggiungevano a teatro e ci raccontavano quello che era emerso durante il dibattimento che veniva immediatamente inserito nello spettacolo.

Non sarà che il film vuole collocare la vicenda nel passato una volta per tutte?
Siamo certi siano passati quei momenti? Tira una brutta aria in questo Paese. Ma cosa possono capire i giovani disinformati come sono, se non si dà una corretta realtà del passato? Non c'è la visione reale di quello che si stava vivendo. Mancano le lotte operaie e studentesche, le cariche della polizia, le manganellate, gli arresti, e possiamo dirlo, in questura si sentivano le urla degli interrogati. C'è chi le ha pure registrate.

In qualche modo si continua a parlare in modo ambiguo di Valpreda, «ballerino e violento», la sua criminalizzazione non è certo sospesa, né quella degli anarchici in genere.
Ho molti amici anarchici, qualcuno forse esaltato (ma gli esaltati credo si trovino ovunque), ma generosi e onesti come pochi. Conoscevo Pietro da prima della strage di cui fu accusato. L'ho seguito durante la sua pesante carcerazione. Conservo tutte le sue lettere. Si è fatto tre mesi in isolamento con la luce sempre accesa. Non appena si appisolava lo andavano a svegliare. Proibito dormire, capito? Durante quei tre mesi non ha visto altro che le guardie carcerarie. Nessun avvocato, nessun parente. E quando dico nessuno voglio dire proprio nessuno.
Un'esperienza che non vorrei vivere. E dopo 1110 giorni di carcere viene scarcerato il 29 dicembre grazie alle numerose manifestazioni popolari organizzate dal movimento per la sua libertà, Dario ed io siamo andati a salutarlo. Grande commozione. Posso dire che il film c'entra poco con quello che è realmente successo in quel periodo difficile per tutti. Nel suo caseggiato c'erano poliziotti all'ingresso e ad ogni piano, che chiedevano i documenti a chi entrava. Sua zia Rachele che per lui era come una madre, quando è stato rilasciato, lo lasciava uscire solo con me e avevamo sempre con noi la scorta. La polizia lo seguiva ovunque anche perché aveva ricevuto minacce di morte. Di fianco a Valpreda la vita non era facile. I fascisti volevano farlo fuori. Si era quindi accompagnati dalla polizia. Noi per nostro conto, loro in macchina. Dovevo comunque comunicare al Questore i nostri movimenti.
Se si andava a vedere un film, due poliziotti si sedevano dietro, due davanti e due di lato. Per l'ultimo dell'anno avevamo uno spettacolo a Bologna. Pensai che era ora che Pietro passasse un momento tra i compagni, decidiamo quindi con Dario e Jacopo di portarlo con noi. Avverto la questura dello spostamento. Si parte in macchina, come sempre seguiti dall'autovettura della polizia. Causa la neve e le strade gelate, perdiamo la scorta perché è finita fuori strada. Ora al ricordo, sorrido, ma allora la tensione era molta. Contatto con il telefono della mia macchina, la questura di Milano comunicando l'incidente. «Troverà il questore di Bologna ad aspettarvi al casello dell'autostrada» mi rispondono. Tiro un gran sospiro. Così è stato.
Raggiungiamo il locale dove si doveva tenere lo spettacolo, un circolo privato dove la polizia non poteva entrare. Io e un altro compagno abbiamo controllato che nessuno portasse coltelli o altro e ho chiesto di fare entrare un poliziotto che alla fine disse: «Che bello, io chissà cosa pensavo potesse succedere». Invece si era divertito.
A mezzanotte al momento del brindisi tutti hanno cantato bandiera rossa o qualcos'altro, poi lentamente ci si zittisce. scende un gran silenzio. siamo tutti sospesi. E nel silenzio ci sono i singhiozzi di Pietro che assapora il piacere dell'amicizia, della fratellanza, della libertà. Si svegliava come da un incubo. Era uscito di prigione solo alla vigilia di Capodanno, dopo 1100 giorni di prigione, eravamo a Cernobbio da mia madre, portava ancora le scarpette rosse da ballo.

"alias il manifesto", 1 giugno 2013

Squadra paesana. Una poesia di Umberto Saba (1883 - 1957)

Triestina 1930-1931

Anch'io tra i molti vi saluto, rosso-
alabardati,
sputati
dalla terra natia, da tutto un popolo
amati.
Trepido seguo il vostro gioco.
Ignari
esprimete con quello antiche cose
meravigliose
sopra il verde tappeto, all'aria, ai chiari
soli d'inverno.

Le angosce
che imbiancano i capelli all'improvviso,
sono da voi così lontane! La gloria
vi dà un sorriso
fugace: il meglio onde disponga. Abbracci
corrono tra di voi, gesti giulivi.

Giovani siete, per la madre vivi;
vi porta il vento a sua difesa. V'ama
anche per questo il poeta, dagli altri
diversamente - ugualmente commosso.

Dal Canzoniere, Einaudi 2001

Grande migrazione e crisi climatica. Quelli senza posto (Guido Viale)


L'articolo che segue è di quasi tre anni fa, scritto alla vigilia di un vertice parigino sul clima, rivelatosi sterile come ce quelli che l'avevano preceduto. E tuttavia i problemi di cui Guido Viale scrive sono – come si vede ogni giorno – attualissimi.
Non ho le competenze e le conoscenze necessarie per capire se Viale sopravvaluti i mutamenti ecologici e climatici che mette alla base della grande migrazione in atto; ma di una cosa sono sicuro: il progressivo arretramento culturale delle classi dirigenti da una parte, il venir meno di un'ipotesi alternativa – di sistema – pe l'organizzazione economica e civile del pianeta, la fuga delle intelligenze e delle competenze critiche di fronte alla complessità dei problemi sono alla base dello scacco che sta subendo la civiltà umana.
Se consideriamo i Trump e, si parva licet, i Salvini le cause della crisi globale in atto e non invece, come sono, una sua disgustosissima manifestazione e un fattore di aggravamento, non arresteremo l'imbarbarimento in atto, cioè l'abbandono del diritto umanitario, la crescita della violenza e della guerra, il ritorno massiccio dell'ignoranza e della superstizione.
La crisi è epocale e globale, le politiche degli Obama o dei Prodi che oggi ci capita di rimpiangere di fronte all'avanzata della stupidità l'hanno se non ignorata, gravemente sottovalutata. Se non si torna a pensare in grande, a progettare e praticare alternative radicali il degrado della condizione umana è inevitabile. L'articolo di Viale – nel quale pure trovo deboli gli eccessi di prudenza e l'ottica riformistica - tenta di farlo e merita perciò di essere letto e discusso. (S.L.L.)
Un volontario registra gli effetti della crisi climatica tra Kenya e Somalia
[…] Oggi l'Europa e l'intero pianeta si trovano di fronte al primo e maggior risvolto sociale dei cambiamenti climatici in corso: il flusso dei profughi. L'Unione europea non sa affrontarlo e cerca di esorcizzarlo con feroci barriere sia fisiche (muri, reticolati, pattugliamenti, corpi armati e campi nei paesi di transito in cui confinare le persone che non vuole accogliere) che burocratiche: la distinzione tra profughi di guerra da accogliere e migranti economici da respingere o rimpatriare.
È una distinzione che cerca di nascondere un'inammissibile verità: sono tutti profughi ambientali, vittime della guerra scatenata dal capitale contro il pianeta e i più fragili dei suoi abitanti di oggi e domani. L'origine ambientale di quei flussi è difficile da riconoscere perché si confonde con i conflitti e i disordini che genera; ma il cambiamento climatico si traduce in una moltiplicazione e acutizzazione di eventi estremi non solo nel mondo fisico, ma anche e soprattutto in quello sociale. Per esempio, in Siria la rivolta contro Assad, trasformata in guerra civile dalla feroce repressione e dall'intervento straniero e, poi, dalla nascita dello stato islamico, era stata determinata da una siccità che aveva costretto più di un milione di contadini ad abbandonare le loro terre per cercare sussistenza in città. Anche molti flussi dall'Africa subsahariana si originano dall'inaridimento dei suoli; processo che si aggiunge al land grabbing (a beneficio di paesi che cercano di garantirsi sia l'autonomia alimentare che una fonte di combustibile per le loro automobili) o con le devastazioni provocate da estrazioni e spill-over di idrocarburi o di altri minerali.
In quei flussi di un'umanità disperata che non ha più un posto al mondo dove stare si manifesta di fatto un aperto conflitto sociale tra vittime e beneficiari dell'economia fossile e delle sue emissioni: un conflitto che è destinato a dominare la nostra epoca, ma che non sappiamo ancora come affrontare. Tra i beneficiari dell'economia fossile non va però incluso chi subisce, si adatta o non si accorge della gravità della situazione, perché non ne è adeguatamente informato o violentemente aggredito, come accade ai profughi, ma solo chi la promuove e ne ricava profitti: cioè l'industria degli idrocarburi e tutte quelle che dagli idrocarburi dipendono.
Come affrontare questo conflitto completamente nuovo? Con chi e come schierarsi e lottare? Il tentativo di fermare quei flussi ai confini dell'Europa non fa che produrre morti, ma si traduce anche in forme sempre più brutali di autoritarismo, militarizzazione e razzismo all'interno dei paesi dell'Unione europea, trasformati in fortezze, e sempre più in rotta l'uno contro l'altro per scaricarsi a vicenda il «peso» di quegli esseri umani. Ma è comunque un obiettivo irrealizzabile, perché i profughi che premono ai confini dell'Europa sono già oggi oltre dieci milioni e continueranno ad aumentare. E sono solo un quinto dei profughi sparpagliati già ora per tutto il pianeta e meno del 4 per cento di quelli previsti al 2050, solo per il previsto innalzamento del livello del mare, senza contare altri fenomeni estremi oggi imprevedibili quanto probabili. Tuttavia, cercare di respingerli non produce solo decine di migliaia di morti, ma anche risentimento, caos e guerre per bande - compresa l'affermazione dello Stato islamico - nei paesi di origine e di transito di quei flussi.
In queste condizioni sarà anche impossibile varare e portare avanti quella conversione ambientale indispensabile per far fronte ai mutamenti climatici in corso; in campo energetico, agricolo, alimentare, edilizio; nella gestione della mobilità, dei rifiuti, del territorio, ecc. Perché la conversione ecologica ha bisogno di pace, di partecipazione popolare, di autonomie locali, cioè di un potere di intervento diffuso in tutta la società; e delle risorse oggi destinate alle armi e alla devastazione dei territori.
Dunque, se respingere quei flussi è impossibile, bisogna attrezzarsi per accoglierli, che vuol dire garantire a tutti i nuovi arrivati inclusione: cioè le condizioni di un inserimento sia sociale che lavorativo. Ma come è possibile prospettare una soluzione del genere in un'Europa che non riesce a uscire dalla crisi, che conta 25 milioni di disoccupati e almeno altrettanti lavoratori scoraggiati? Occorre porre fine alle politiche di austerità e avviare un grande piano europeo di riconversione ecologica in tutti i settori portanti dell'economia. Un piano vero e non fasullo come quello Junker, in grado dicreare in breve tempo milioni di posti di lavoro decenti: sia per i nuovi arrivati che per i cittadini europei messi ai margini dalle politiche di austerità.
Negli anni '50, nel pieno della ricostruzione postbellica che avrebbe dato vita al cosiddetto miracolo economico, l'Europa centrale aveva accolto 20 milioni di profughi e migranti - 10 dai paesi dell'Est europeo e 10 dai paesi del Mediterraneo: Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, da un lato; Turchia, Maghreb, Africa subsahariana, dall'altro - beneficiando del loro apporto, senza il quale l'Europa sarebbe rimasta un'economia stagnante.
Ancora recentemente, prima della crisi del 2008, ma già in pieno clima liberista e restrittivo, l'Europa assorbiva - lo ha rilevato Thomas Piketty - circa un milione di migranti all'anno: un terzo del necessario, peraltro, per compensare di qui al 2050 il suo irreversibile calo demografico (con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di invecchiamento della popolazione). L'allarme sociale odierno per l'invasione dei nuovi "barbari" è solo dovuto alla incompatibilità di quei flussi con la scelta dell'austerità ed è il prodotto di una infame politica di fidelizzazione dell'elettorato fondata sulla paura e alimentata dalle forze al governo: che sono destinate però a venirne travolte da una destra razzista, nazionalista e antieuropea che sa sfruttare molto meglio quelle fobie.
Oltretutto, per restituire alla pace i paesi di origine e di transito dei flussi migratori che stanno investendo l'Europa occorre innanzitutto ricostituire una base sociale che ne sostenga il processo. In potenza, quella base sociale è già qui tra noi. E' la parte più giovane, più intraprendente, in gran parte più istruita delle popolazioni dei paesi di origine dei profughi e dei migranti, unitamente a tutti i loro connazionali già insediati in Europa e alle loro comunità di origine da cui sono stati aiutati a fuggire. Impedire a quei migranti di muoversi, di lavorare, di organizzarsi, di avere dei rapporti decenti con la popolazione vuol dire privarli e privarsi delle condizioni per avviare un vero processo di conversione ecologica sia qui che nei paesi da cui provengono. Sono esseri umani, persone, che considerano l'ingresso in Europa un loro diritto e si sentono già cittadini europei. Cittadini di un'Europa nuova, che rinneghi le sue infamie odierne e includa anche loro e i loro paesi di origine in un'Unione completamente rinnovata.

Caput – Supplemento clima e ambiente de “il manifesto”, Novembre 2015

Sudafrica. 250 anni per costruire una nazione e un grande esperimento. Una storia di violenza e libertà (Giampaolo Calchi Novati)

1990 - Nelson Mandela con Winnie nel giorno della liberazione 

Il percorso seguito dallo sbarco dei primi europei al Capo nel 1652 fino alla creazione del Sudafrica dell'apartheid si ispirava a una matrice misticheggiante. L'ideologia dell'Afrikanerdom è stata equiparata a una «religione civile» (Leonard Thompson, Il mito politico dell'apartheid, Sei, Torino 1989). Non per questo il volk e i suoi leaders persero di vista le poste mondane: il potere, la terra, le risorse minerarie. Fra i brani biblici più cari a Jan Van Rieebeck, il fondatore della colonia per conto della Compagnia olandese delle Indie orientali, c'era un versetto del Deuteronomio che recita: «Il popolo eletto riceverà la sua terra dopo aver annientato i re che gli impediscono il passaggio».
Dominique Lapierre (L'arcobaleno nella notte, il Saggiatore, Milano 2008) racconta come il 28 maggio 1867 due bambini di nome Erasmus e Louisa trovarono per caso nella loro fattoria una pietruzza grigiastra. Si stava avverando il messaggio del profeta Giosuè, il libro cult dei boeri: «Cercate e cercate ancora e Dio finirà per premiare la vostra ostinazione». La scoperta dei diamanti nella regione ai confini fra il territorio griqua sotto protezione britannica e la valle dell'Orange occupata dai boeri e di lì a poco dei giacimenti d'oro là dove sorgerà Johannesburg segnò la fortuna e insieme la disgrazia del «popolo eletto»: quell'improvviso apprezzamento di un angolo remoto dell'Africa australe costrinse infatti i boeri o afrikaner a riprendere la loro battaglia indefessa contro l'«imperialismo». Nella sua autobiografia (Lungo cammino verso la libertà, Feltrinelli, Milano 1995), Nelson Mandela ricorda che nei colloqui semisegreti con P. W. Botha quando era ancora il più famoso prigioniero politico del mondo ebbe modo di esprimere al penultimo presidente bianco del Sudafrica la sua sorpresa per l'incomprensione dei boeri, nonostante il loro passato di «resistenti», per il significato della lotta di liberazione e contro il razzismo in cui era impegnata la sua gente sotto la guida dell'African National Congress. Anche Gandhi, che passò alcuni anni in Sudafrica a difendere i diritti umani, soprattutto degli indiani, era un ammiratore dello spirito di libertà dei boeri.
Nel 1999, il centenario della guerra anglo-boera fornì lo spunto per una riflessione politico-culturale al servizio dell'unità e della democrazia. Non fu tutto e solo speculazione. Adeguatamente «de-razzializzata» e «de-nazionalizzata» - come dopo tutto è nell'arco di uno Stato post-razzista che vuole essere non-razziale più che multi-razziale e che in quanto tale è disposto a stemperare i caratteri marcatamente «nazionali» di un popolo e della sua storia - la guerra angloboera è a buon diritto una guerra d'iniziazione in cui hanno combattuto e sofferto soggetti e gruppi a lungo ignorati o oggetto di discriminazione: i neri anzitutto, ma anche le donne, i civili che non hanno portato armi, i boeri del Capo che non si sono ribellati al governo inglese (Iain R. Smith, The Origins of the South-African War, 1899-1902, Longman, London 1996). In estrema sintesi, la guerra anglo-boera è stata un'insorgenza a difesa della libertà. Anche il nuovo Sudafrica è il coronamento di una lotta per la libertà e la giustizia contro il colonialismo e il razzismo.
La forza dell'esperimento che è stato avviato nel Sudafrica dopo il 1990 è quella di ammettere alla pari tutto e tutti - popoli, nazioni, storie e memorie - alla sola condizione del ripudio del razzismo come male supremo (Itala Vivan [a cura di], Il nuovo Sudafrica, Dalle strettoie dell'apartheid alla complessità della democrazia, La Nuova Italia, Firenze 1996). L'obiettivo è di venire a capo senza prevaricazioni e segregazioni della natura frastagliata e contrastata di un'eredità storica di cui ci si vuole appropriare per evitare cesure che nemmeno la fine del razzismo avrebbe altrimenti sanato. Per una volta, il colonialismo non ha demarcato una frontiera a titolo definitivo. Riconoscere a ciascuno la propria posizione e le proprie responsabilità è sicuramente funzionale al Sudafrica post-razzista. La riconciliazione non può prescindere dalla verità. Parimenti essenziale è creare dei valori accessibili a tutti rivalutando il senso di ideali come la libertà, la giustizia, l'autonomia, ecc., quale che sia la parte che in una determinata fase storica si è schierata a favore di ciascuno di quegli ideali. La stessa guerra anglo-boera ha avuto un profilo paradossale, visto che i boeri vi hanno svolto insieme la parte delle vittime (dell'imperialismo inglese) e degli oppressori (della popolazione africana), nonché dei vinti (sul campo di battaglia) e dei vincitori (sulla scena politica). Senza volerlo, e forse senza saperlo, i protagonisti della transizione dal razzismo al dopo-razzismo mettevano in pratica un motto che Smuts aveva ricavato da Kruger: «Prendere dal passato solo ciò che ha di buono» (Take only what is good out of the past) (Jan Christian Smuts, Smuts by his son J. C. Smuts, Cassell and Co., London 1952).
La storia specialissima di una comunità umana stanziata in una nazione divenuta stato per aggiunte invece che per esclusioni contribuisce a spiegare la vicenda del Sudafrica anche nel momento presente, la sua ricchezza pur nelle contraddizioni irrisolte (Itala Vivan [a cura di], Corpi liberati in cerca di storia, di storie, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2005). Nei passaggi cruciali, prima della svolta che si consumò intorno al 1990, la violenza ha avuto una funzione decisiva. Ma i neri non sono mai stati cancellati dal paesaggio e dalla storia, come accaduto ad altri «indigeni» a contatto con un insediamento bianco di quell'entità, e i bianchi hanno saputo considerare, a tempo debito e con il necessario realismo, i loro stessi interessi, materiali e immateriali. Quando F. W. De Klerk, l'ultimo presidente bianco, dichiarò la fine della «guerra contro il nostro popolo» e convocò l'elettorato bianco a pronunciarsi sull'abrogazione ormai improcrastinabile dello stato razzista, il referendum del 17 marzo 1992 vide una partecipazione di più dell'88 per cento degli aventi diritto e la vittoria del «sì» con una maggioranza schiacciante di quasi il 70 per cento dei votanti. L'estremista di destra dal nome fatidico di Terre'Blanche - lo stesso Eugène Terre'Blanche ucciso brutalmente alcune settimane fa in circostanze inquietanti, al di là del movente occasionale che potrebbe aver causato il delitto - restò pressoché solo con la sua ossessione del Volkstaat o Whiteland. Anche la provocazione, chiunque sia stato a perpetrarla, dell'assassinio di Chris Hani, massimo esponente del Partito comunista, alla vigilia dell'accordo conclusivo fra De Klerk e Mandela non interruppe la strada verso il nuovo Sudafrica. Allo stesso modo, le violenze scatenate dagli zulu contro la vera o presunta egemonia xhosa per il controllo del territorio nelle città a popolazione mista non degenerarono in quella escalation che gli estremisti delle varie specie forse si auguravano.
Le elezioni finalmente libere e universali del 27 aprile 1994 furono il simbolo del Sudafrica unito, non un atto di decolonizzazione in senso stretto. I cafri, i bantu, i nativi erano diventati cittadini ed elettori. L'integrazione aveva la precedenza sul distacco. Non si era mai visto che il partito degli ex-dominatori partecipasse alle elezioni del Day After con il suo nome e il suo patrimonio purché depurato del razzismo. Il conto dei voti produsse un risultato così perfetto da far pensare a qualche ritocco a fin di bene. L'Anc stravinceva ma non superava la soglia dei due terzi del parlamento che gli avrebbe concesso la possibilità di emendare la Costituzione con i suoi soli voti. L'Inkatha di quel Buthelezi che aveva tentato di cavalcare una sorta di separatismo zulu ottenne abbastanza voti da aver diritto a una vice-presidenza. La prova a distanza di tempo che Buthelezi aveva sbagliato lo spartito è l'insediamento di Jacob Zuma, uno zulu, come successore di Mandela e Thabo Mbeki nella magnificenza dell'Union Building di Pretoria, sede della presidenza della Repubblica.
Il fascino personale di Nelson Mandela, invictus dentro e oltre la storia, è irripetibile e si può rimpiangere che non abbia sfruttato fino in fondo la sua enorme popolarità (R. W. Johnson, South Africa's Brave New World: The Beloved Country since the End of Apartheid, Allen Lane, London 2008). Già l'ex-vice di Mandela non riuscì a tenere il passo quando divenne presidente nel 1999: eppure Thabo Mbeki era figlio di uno dei grandi vecchi che uscirono dal carcere insieme a Madiba l'11 febbraio 1990. La fine turbolenta del doppio mandato di Mbeki, sfortunata un po' per tutti i contendenti, ha dato la misura della frattura che taglia la politica e la società del Sudafrica. Lo stesso African National Congress ha subito una scissione, la prima di un certo peso dopo quella che negli anni Cinquanta diede vita al Pan-Africanist Congress, nel quale, in contrasto con la prospettiva nonrazziale e inclusiva che caratterizza la Fre-edom Charter («Noi popolo del Sudafrica»), si raccolsero gli «africanisti». L'Anc, fondato nel lontano 1912, fatica a passare dallo status di movimento di liberazione a partito di governo in un regime pluralistico. Nessuno sa fin quando durerà la tendenza all'auto-referenzialità su base razziale. Il Cope (Congress of People), costituito da chi, nell'Anc o fra i neri, non ama i progetti e più ancora i modi di Zuma, che possono apparire poco «civilizzati» a confronto dello stile di Thabo Mbeki, detto per questo l'«afro-sassone», ha avuto un successo limitato nelle elezioni del 2009 ma l'assunto che in Sudafrica ci sarà sempre un partito dei bianchi e un partito dei neri è già stato infranto. Secondo le stime, la Democratic Alliance ha incassato pochi voti di neri ma è in grado comunque di presentare un profilo plurirazziale per gli ampi consensi di cui gode fra i coloured di lingua afrikaans della zona del Capo.
L'evoluzione da un'appartenenza identitaria a un reclutamento in nome degli interessi sarebbe la conclusione logica dello schema che si è imposto all'inizio degli anni Novanta. Il processo in questa direzione è probabilmente irreversibile nel medio periodo, coadiuvato dalla crescita economica, che si è interrotta però negli ultimi due anni. Il Sudafrica è polarizzato come pochi paesi al mondo e le linee del colore conservano tutta la loro rilevanza. Come in Brasile, il Primo mondo convive con il Terzo mondo. L'iniqua distribuzione delle risorse è causa di frustrazioni e rivendicazioni. La disuguaglianza è un attentato per la stabilità generale. Lo stesso presidente Zuma potrebbe essere sensibile all'idea di giocare la carta razziale. La questione della terra è stata la casella zero della costruzione razzista insieme alla rigida disciplina della mobilità dei neri fra riserve indigene e città, miniere e industrie bianche. A essa risalgono, direttamente o per via traverse, sia l'omicidio Terre'Blanche che i molti assalti alle fattorie bianche, meno propagandati o volutamente taciuti per non seminare rancori e paure, in cui si mescolano la criminalità comune e la disperazione dei contadini senza terra. I perdenti, coloro che non hanno tratto i vantaggi sperati dalla fine dell'apartheid, sono per lo più neri, ma nero è anche il ceto medio in ascesa grazie all'esercizio del potere e ai meccanismi del black empowerment e dell'affirmative action nel solco della retorica della «liberazione». La vocazione dei bianchi che hanno scelto di rimanere a vivere in Sudafrica sentendosi sudafricani a tutti gli effetti non è solo quella di fare opposizione. All'appello di Terre'Blanche a creare un homeland per i bianchi di fede protestante e lingua afrikaans hanno aderito solo in 30 mila su una popolazione bianca di 4,5 milioni e una popolazione complessiva di 49 milioni. La classe media nera è forte nel campo della politica ma è subalterna ai bianchi nel campo dell'economia e della finanza. È così che i divari sociali possono fungere da fattore di accelerazione di una de-razzializzazione della politica. L'ultima parola dovrebbe spettare a chi stabilirà la sua egemonia sul piano culturale.
Il Sudafrica sa molto bene che il contesto in cui si muove è l'Africa e che l'Africa dà spicco al suo ruolo nel mondo. Per un altro verso, il Sudafrica rifugge da un'«africanizzazione» delle sue crisi - la povertà di massa, l'insicurezza, l'Aids - come delle sue conquiste. Il precedente di Zimbabwe è un monito fin troppo eloquente. La scommessa è stare dentro l'ordine globale senza cessare di essere Africa. C'è una differenza fondamentale fra l'Unione nata dalla «guerra sudafricana» del 1899-1902 e lo Stato democratico nato nel 1994. La guerra anglo-boera, pur di arrivare a chiudere un conflitto insostenibile davanti all'opinione pubblica in Europa, e pur di proseguire l'avventura coloniale in questa parte del continente senza più distinguere fra due popoli egualmente figli dell'espansione dell'Europa, terminò con la vittoria dei «peggiori», patteggiando un modus vivendi fra i padroni delle miniere e la dirigenza boera a detrimento degli africani e dei non bianchi (Alan John Percivale Taylor, From the Boer War to the Cold War. Essays on Twentieth Century Europe, Hamish Hamilton, London 1995). L'impegno contro il razzismo attraverso tutta la storia del Sudafrica è culminato invece nella vittoria dei «migliori» dell'una come dell'altra parte, rendendo possibile una pacificazione che - almeno in via di principio perché le difficoltà pesano ancora come macigni facendo temere un fallimento - non esclude o discrimina nessuno ma accredita e onora il contributo di tutti.

Da Terre in vista supplemento a “il manifesto”, 6 agosto 2010

Dijana Pavlović: «Caro Salvini, le racconto chi sono i rom» (Monica Coviello)

Djiana Pavlovic

«Quando la pezza è peggio del buco». Dopo avere annunciato un censimento sui rom in Italia, «una ricognizione per vedere chi, come e quanti», il ministro dell’Interno Matteo Salvini, attaccato dall’opposizione, ma anche da parti della maggioranza e da associazioni, ha deciso di spiegare meglio che cosa intendesse dire. «Intendiamo tutelare prima di tutto migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la scuola regolarmente perché si preferisce introdurli alla delinquenza». Un’affermazione che ha indispettito Dijana Pavlović, attrice, mediatrice culturale e attivista per i diritti umani, di origine rom.
«Quelle parole mi hanno fatto pensare alla psicologa tedesca Eva Justin, collaboratrice di Robert Ritter, il teorico della razza che, nel regime nazista, diresse il Centro di ricerca per l’Igiene e la Razza. Anche lei si preoccupava per i nostri bambini. Ne tolse 39 dalle loro famiglie e li collocò in orfanotrofi. Passò un anno con loro per capire se fossero “educabili”, e alla fine concluse che non lo erano, che il terribile gene zingaro dell’istinto errante prevaleva, e fece la cosa più semplice: li mandò ad Auschwitz, dove solo due sopravvissero», spiega. «Io a Salvini vorrei dire di occuparsi dei suoi figli. Il mio è orgoglioso delle sue origini, sensibile ai problemi del prossimo, piange quando sente che i bambini muoiono in mezzo al mare, soffre se sa di qualcuno troppo povero per vivere una vita dignitosa. Ma i bambini che crescono in un clima di odio no, non potranno mai essere brave persone. Salvini si occupi di loro».

Salvini ha detto che a «migliaia di bambini» non è permesso frequentare la scuola regolarmente «perché si preferisce introdurli alla delinquenza».
«È la ruspa che impedisce ai bimbi di andare a scuola. Quelli che a sei anni hanno già subìto due o tre sgomberi, hanno visto umiliare i genitori, distruggere quelle che sono le loro case, con le loro cose dentro, non hanno la speranza di poter andare a scuola. Bisogna domandarsi quale rapporto avranno con la polizia e con le istituzioni. Io sono certa che molti di quelli che sfilano i portafogli dalle tasche lo fanno solo per dispetto. Se a quei bambini venisse dato un posto dove vivere e potersi lavare, avrebbero un’idea diversa del mondo che abitano».

Che cosa ne pensa del «censimento»?
«È illegale. Salvini non può censire me, mio figlio, le altre 90 o 100 mila persone di origine rom che vivono nelle case. Non può nemmeno dire che “purtroppo ci deve tenere”. È un meccanismo infernale, il prodotto di 15 anni di campagne d’odio terribile nei confronti di 130 mila persone, lo 0,03% della popolazione italiana, di cui la metà sono bambini e di cui 80 mila sono cittadini italiani a tutti gli effetti, alcuni presenti sul territorio dal 1500. In Italia ci sono 5 milioni di poveri e 20 milioni a rischio di povertà: se arriva qualcuno che attribuisce la responsabilità di questa situazione a immigrati o a zingari, è facile che questi diventino capri espiatori».

Contro la criminalità nei campi, che cosa si potrebbe fare?
«La criminalità è la conseguenza diretta della ghettizzazione in baraccopoli. I campi non sono stati inventati dagli zingari, ma dalle istituzioni italiane. Non è questione di origini rom, ma di emarginazione, di generazioni cresciute senza via di scampo: non ci si può sorprendere. E allora si può scegliere la via della persecuzione, che, a meno che non preveda l’eliminazione fisica, non migliora, ma peggiora la situazione, oppure la via più civile, quella dell’inclusione sociale, dell’intervento rispettoso. Tenendo conto che ci sono stati 30 ani di discriminazioni e ghettizzazione, e che il problema non può essere risolto dall’oggi al domani. Occorre dialogare con i sinti e cercare soluzioni condivise».

Non sono i rom a voler rimanere nei campi, quindi.
«Non c’è via d’uscita: se sei riconoscibile come zingaro, nessuno ti affitta una casa. Se sulla carta d’identità c’è l’indirizzo di un campo nomadi sei spacciato: non puoi aspirare a un lavoro. Ma come si può uscire dal ghetto, se non con un lavoro? Come ci si può fidare della società? Per non parlare dei meccanismi psicologici che si scatenano quando ci si sente continuamente rifiutati e ai margini».

Anche i rom che vivono nelle case vengono discriminati?
«Sì: la figlia di una mia carissima amica, avvocato, di origine rom, ha una bimba di 5 anni che va alla Materna. La piccola ha un cognome rom riconoscibilissimo e non vuole più andare a scuola perché i compagni non la vogliono toccare: vanno a lavarsi le mani ogni volta che hanno un contatto con lei. Pensare che è anche bionda e ha gli occhi azzurri. È a queste cose che mi riferisco quando chiedo a Salvini di pensare ai suoi, di figli».

E lei, dove è cresciuta?
«Sono nata in Iugoslavia, in un contesto davvero socialista, in cui nessuno poteva darmi della “zingara” senza rischiare una denuncia. La mia era una famiglia povera, ma con una grande voglia di riscatto e con un fortissimo senso della dignità. I miei genitori, nati negli anni 50, si sono creati una vita in un paese termale, molto chic. Hanno affittato una casa, mia madre ha trovato lavoro in una fabbrica e mio padre in un negozio di alimentari. Tenevano molto all’istruzione mia e di mio fratello, volevano che diventassimo “qualcuno”, ci hanno sempre vestito con cura. Volevano che avessimo quello che a loro era stato precluso. A Belgrado ho frequentato l’accademia di arte drammatica, poi, a 23 anni, sono venuta in Italia, continuando a impegnarmi per la politica e i diritti sociali».

Da bambina non subiva discriminazioni?
«Andavo bene a scuola, ed ero sicura che le mie origini rom fossero qualcosa di cui andare fiera. Fino a quando, alle elementari, una compagna, invidiosa perché presi un voto superiore al suo, commentò: “Non importa, tanto rimarrai sempre una zingara”. Quando tornai a casa, in lacrime, mia madre mi disse: “Tu devi essere orgogliosa di essere zingara. La tua compagna, invece, è una maleducata. Nella vita dovrai essere sempre migliore degli altri: non ti ameranno mai, ma almeno ti rispetteranno”. L’ho presa sul serio: ho passato vita cercando di dimostrare di essere brava, di meritare un posto. Ce l’ho fatta in vari modi, e non ho mai permesso che nessuno mi umiliasse. Sono sempre stata abituata a difendere la mia dignità».

Oltre a quell’episodio?
«L’offesa più grande, per me, era vedere la gente meravigliata perché eravamo “Zingari, ma così bravi e così puliti”».

Chi sono i rom?
«Una minoranza di 18 milioni di persone in Europa, che non ha mai avuto pretese territoriali, non ha mai armato eserciti, ha sempre convissuto pacificamente con i popoli europei. C’è qualche elemento della tradizione comune per tutti, come la necessità di fare parte di una famiglia allargata. Viviamo molto nel presente e non abbiamo la mania e l’ossessione del possesso delle cose. Nelle nostre comunità una persona è realizzata perché è saggia, perché dice cose importanti, perché ha una grande famiglia e tanti nipoti, perché sa preparare bene un matrimonio. Siamo un popolo senza frontiere, il popolo che rappresenta simbolicamente quello che l’Europa vuole essere: viviamo in tutti i Paesi, abbiamo tutte le religioni, e pur mantenendo la nostra, il romanì, parliamo tutte le lingue europee».

VANITY FAIR, 19 giugno 2018