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Joseph Highmorw, La famiglia Harlowe (1747). Un quadro ispirato alla "Clarissa" |
«Straziami, ma di baci
saziami». È il verso di una canzonetta di cent’anni fa, ma
avrebbe potuto essere il grido di battaglia, per non dire il motto,
di certe eroine come la sventurata Monaca dei Promessi sposi
che risponde al richiamo dello sciagurato Egidio, con tutto quel che
segue.
Ma per arrivare a tanto,
a un simile connubio di impulsi contrari – strazi e tenerezze,
voluttà e violenza: e non tanto nella realtà quanto nei libri –,
la strada era stata abbastanza lunga. I poeti e soprattutto i
narratori del secolo dei Lumi e della Ragione si erano intrattenuti,
tanto in Francia quanto in Inghilterra, sulla casistica delle
emozioni, e ne avevano cavato virtuose lacrime e svenimenti, morti di
crepacuore e viaggi senza meta a caccia di sensazioni. Oltreché,
beninteso, un cospicuo novero di relazioni pericolose nei cosiddetti
romanzi libertini.
Il bene e il male avevano
però sempre avuto ruoli fissi e contrapposti in questa letteratura.
I baci e gli strazi non erano ancora gli ingredienti di quel mix
erotico ad alto contenuto alcolico che noi conosciamo; ma semplici
manifestazioni di tenerezza e di sofferenza insieme, a cui si
abbandonavano le vittime di soprusi, che si confortavano a vicenda
abbracciandosi.
La necessità di dirimere
il dritto dal rovescio – non solo nel fondo della propria
coscienza, ma anche nel giudizio della società, bisognosa di ordine
per funzionare e produrre – faceva sì che i lettori dell’epoca,
e le lettrici, si appassionassero a vicende romanzesche il cui tema
era la virtù insidiata delle fanciulle nubili. Gioiello prezioso in
un mondo che desumeva i propri valori dalle leggi non scritte del
dare e dell’avere, e che verso la fine del secolo avrebbe preso il
nome di libero mercato.
La santimonia di chi
presentava i propri romanzi con intento edificante – come vedremo
tra un momento, parlando della Clarissa di Samuel Richardson – e,
perché no?, le buone intenzioni delle persone dabbene che li
leggevano, erano l’innesco perfetto per esitare al pubblico storie
che avevano talora, volendo andare per il sottile, anche qualche
risvolto pruriginoso. Fatta salva la virtù, che non era un termine
astratto e aveva un preciso correlativo oggettivo, il resto era tutto
un ricamo sull’argomento.
La lezione – o, meglio,
la moda – arrivava in Inghilterra dalla Francia, dove aveva preso
piede nel secolo precedente aprendo la strada alla libera
espressione, orale e scritta. Nel salon, che in realtà era la
stanza in cui giaceva malata Mme de Rambouillet (1618-60), “i
preziosi”, e soprattutto le “preziose” che saranno
successivamente prese in giro da Molière, avevano ingentilito il
linguaggio esercitandosi a «tout dire», anche le cose più
difficili, «sans brutalité et sans obscurité». E in un romanzo
famoso di M.me de Scudéry, era stata addirittura tracciata una Mappa
del Cuore (Carte de Tendre) con le varie tappe del percorso
amoroso. Un decisivo passo avanti verso un tipo di romanzo in cui la
passione avrebbe fatto aggio sulla galanteria, il carattere e
l’intimo sentire sul comportamento e sulle manières, e che
avrebbe dato luogo al romanzo sentimentale.
Di tutto questo, sebbene
rinchiuso in un manicomio, avrebbe riso il Marchese de Sade, che non
si peritò, con grave scandalo, di capovolgere il tutto, facendo
trionfare il vizio sulla virtù. Fu una scandalosa novità, che però
richiamò l’attenzione sul fatto che il piacere, normalmente
associato alla nozione di bene, veniva esplicitamente connesso con la
pratica della violenza. Cioè, del male.
E poiché è accertato
che de Sade, quando scrisse le tre versioni di Justine, ou les
Malheurs de la vertu; e l’Histoire de Juliette, ou les
Prospérités du vice, avesse in mente Pamela; or, Virtue
Rewarded (1740), nonché Clarissa, or, the History of a Young
Lady (1747-48) di Samuel Richardson, è da lui che bisogna
partire.
Nato nel 1689, Richardson
era uno stampatore. Questa professione rese possibile, dopo che ebbe
pubblicato con grande successo il suo primo libro, la realizzazione
in proprio di un romanzo fiume in sette volumi come il succitato
Clarissa (1747 e 1748), che è probabilmente il più lungo che
sia mai stato scritto in lingua inglese, ed è ora ripubblicato da
Aragno in una traduzione riveduta e corretta di Masolino d’Amico
(Samuel Richardson, Clarissa, Introduzione di Masolino
D’Amico)
Al pari di Pamela
(1740), il cui archetipo era la storia di Cenerentola, Clarissa è un
romanzo epistolare messo insieme da un narratore, ovvero l’autore
stesso, che limita il proprio intervento alle poche pagine della
prefazione e della conclusione. Un modo di presentare gli eventi
attraverso la viva voce dei protagonisti quanto mai efficace per un
pubblico abituato ad andare a teatro e composto da gente avvezza a
comunicare, non esistendo altro mezzo, con lettere e bigliettini
d’ogni sorta. Richardson, da parte sua, aveva fama di grafomane e
quando un libraio di Londra ebbe l’idea di commissionargli un
prontuario – una sorta di segretario galante, e non solo, buono per
tutti gli usi – ne venne fuori un libro che fu pubblicato come
Letters Written to and for Particular Friends, on the Most
Important Occasions (1741). E fu, quello, l’inizio della sua
carriera di scrittore.
In Clarissa le
lettere sono in tutto 537 e i personaggi una quarantina, ma la
maggioranza è a firma di quattro protagonisti, che sono: Clarissa
Harlowe e la sua amica Anna Harlowe, da una parte; e dall’altra
Robert Lovelace, seduttore seriale, insieme all’amico, confidente e
manutengolo, John Belford.
La trama, e di
conseguenza la configurazione dei personaggi, non è però semplice
come si potrebbe pensare, date le premesse. E molto in breve, a chi
affrontasse per la prima volta i quattro volumi (2800 pagine) editi
da Aragno, segnalo i fatti che bisogna tener presente. È la storia
di una devota ma vivace ragazza di 19 anni che la famiglia vorrebbe
dare in sposa a un riccone di nome Solmes, allo scopo di arrivare un
giorno – magari, chissà – a un titolo nobiliare. Ma la ragazza,
che si chiama appunto Clarissa Harlowe, lo detesta ed è sensibile al
corteggiamento di un bellone che risponde al nome di Lovelace, che la
famiglia invece avversa. I due hanno la malaugurata idea di fuggire
insieme. Lovelace, offeso per il comportamento della famiglia di lei
nei suoi confronti, invece di sposarla, pensa di sedurla e poi non
sposarla. Clarissa, avendo capito l’antifona, resiste in ogni modo
ai tentativi dell’amante, che a un certo punto la intontisce e la
stupra. Vinta dalla vergogna, Clarissa muore. Belford che nel corso
dell’intera vicenda aveva assecondato i maneggi di Lovelace, si
pente e redime; mentre lo sciagurato seduttore conclude la storia
soccombendo in un duello contro il colonnello Morden, cugino di
Clarissa.
Il romanzo ebbe un
immenso successo in Inghilterra e in tutta l’Europa. Liberamente
tradotto in francese dall’abate Prévost – l’autore di Manon
Lescaut –, lanciò una moda che doveva dominare la letteratura
romantica per più di un secolo, giù giù fino a Carolina Invernizio
e ai versi della canzone tango di cui sopra. È vero che lo stile di
Richardson che tanto rapì i contemporanei, può sembrare, come è
stato scritto, «prolisso a quei moderni che non ne sentono la
giustezza e la grazia proprie di un secolo che non aveva fretta»; e
tuttavia si tratta di un capolavoro.
Richardson è, insieme a
Daniel Defoe, il fondatore del romanzo moderno inglese. Ma mentre
Defoe costruisce, con Robinson Crusoe e Moll Flanders,
due figure memorabili per la loro vitalità e capacità di affrontare
il mondo esterno; l’opera di Richardson è soprattutto rivolta alla
creazione della struttura interiore dei personaggi. Veri e propri
esseri viventi, che interagiscono sul piano morale ed emotivo con i
propri simili e prima ancora con i propri principi.
Lo stesso rapporto
conflittuale tra Lovelace e Clarissa – il seduttore e la sedotta –
che, raccontato in maniera sommaria potrebbe sembrare schematico e
semplice come quello, grottescamente capovolto, dei romanzi di de
Sade; è invece articolato e complesso al punto di fare di questa
storia, e soprattutto del profilo della sua protagonista, un punto
d’arrivo insuperato dal punto di vista psicologico, e non solo. E
poiché a complicare le cose c’è il fatto che si può davvero
pensare che i due protagonisti siano – o siano stati – innamorati
l’uno dell’altra, Clarissa è un grande esempio di tragedia
borghese. E bene hanno fatto Nino Aragno e Masolino d’Amico a
rimetterla in circolazione.
"Il Sole 24 ore - Domenica", 2 settembre 2018