28.4.17

Da Zola all'Union. Quando la finanza diventa materia da romanzo (Leonardo Martinelli)

Da un numero di “Pagina 99” del 2015, quando il settimanale aveva come direttore editoriale Emanuele Bevilacqua e come condirettore Roberta Carlini, riprendo un pezzo assai interessante tra finanza e letteratura. L'autore, economista, eccellente divulgatore e appassionato di belle lettere ha pubblicato per Longanesi nel 2014 Quasi un romanzo. L’economia raccontata a chi non la capisce. (S.L.L.)
Emile Zola
A Boston l’Union Atlantic sta affondando. Siamo negli anni della finanza allegra, prima della crisi del 2008 (ma sono finiti davvero per sempre quei tempi?). Siamo anche nell’immaginario di un romanzo: ma quante banche così, da una parte e dall’altra dell’Atlantico, ci sono ancora? Ormai è un banchiere centrale, che è stato chiamato al capezzale di quell’istituto di credito. Si chiama Henry Graves ed è il presidente della Federal Reserve di New York: un personaggio d’altri tempi, espressione di una moralità molto progressista e East Coast. Ma pronto anche ai compromessi, ad adeguarsi alle esigenze dei nuovi ricchi della finanza.

Sulla scia di Lehman
Union Atlantic è un romanzo uscito cinque anni fa. Uno dei tanti, con dirigenti di banche e trader come protagonisti: è parte di quell’ultima ondata che, puntuale, scattò dopo il crack della Lehman Brothers. Venne fuori anche un bel po’ di robaccia. Ma non questo libro, opera prima di Adam Haslett, salutato con ammirazione perfino da un certo Jonathan Franzen. Haslett, laureato in Legge a Yale, non aveva mai lavorato come trader. Ma passò otto anni a preparare il suo romanzo, che terminò proprio in quel fatidico autunno 2008.

Investimenti a rischio
Union Atlantic è una normale banca commerciale, che a un certo punto si lancia nell’investment banking: inizia a utilizzare i soldi dei bravi padri di famiglia per i suoi “giochini” con i derivati (come il Monte dei Paschi). Finirà male. E sarà anche la responsabilità di Henry Graves, il banchiere centrale, che fa tanto il buonista. Mentre a Boston i problemi lievitano, lui si ritrova in riva al mare, una sera, a Miami. D’un tratto il ronzio di un ventilatore in albergo lo porta a riflettere sulla globalizzazione, su come quell’anonimo oggetto sia il risultato finale di un giro del mondo, dal ferro della miniera indonesiana con cui è stato prodotto fino al grossista di Atlanta che l’ha importato. «La mente di Henry», scrive Haslett, «calcolava ogni passaggio dal magro salario dei minatori fino al costo dell’immobile: mutui, linee di credito, denari presi a prestito, l’immane slancio creazionistico dell’interesse composto, cieco artefice del mondo moderno». Amen.

Walt e i banchieri
Talvolta i banchieri spuntano fuori quando meno te l’aspetti. Walt Disney decise di trasferire sullo schermo la saga di Mary Poppins, inventata dalla scrittrice Pamela Lyndon Travers. Il padre dei bambini, accuditi dalla bambinaia volante, è Mr. Banks: un nome, un programma. Lavora nella City londinese e un giorno decide di portare Jane e Michael nel suo ufficio. Nel libro la scena termina sugli scalini della cattedrale di St Paul, dove una vecchietta vende mangime per piccioni. Ma il perfido Walt Disney, che tante volte si era visto rifiutare crediti per le sue megaproduzioni, andò avanti. I due ragazzi entrano nell’istituto dove Mr. Banks lavora. Incontrano Mr. Dawes e il figlio (già vecchio, pure lui), i due avidi banchieri. Il più anziano cerca di convincere Michael ad affidargli i suoi due penny. Ma il ragazzo li vuole dare alla vecchietta e ai suoi poveri uccelli… Seguirà un tale tafferuglio, che i clienti nei corridoi della banca crederanno a un’imminente bancarotta. Si scatena uno dei fenomeni più temuti dai banchieri, la corsa agli sportelli, vista anche in Grecia pochi mesi fa: tutti rivogliono i loro soldi. Jane e Michael fuggono. Per loro fortuna s’imbattono in un simpatico spazzacamino.

Stangata ante litteram
Incredibile, poi, come in un romanzo uscito nel lontano 1891 siano già spiegati i meccanismi (e le disfunzioni) del mondo finanziario: Il denaro. Émile Zola immagina la storia di una speculazione all’epoca del Secondo Impero. Immagina fino a un certo punto, perché da bravo giornalista di storie simili ne aveva trattate così tante. Il denaro illustra la vicenda della Banca universale di Aristide Saccard: un’istituzione che, dietro il paravento dei progetti di Hamelin, ingegnere idealista, attirerà una miriade di investitori, la fauna composita della Parigi di allora. Finirà male, pure stavolta. In Il denaro c’è già tutto. L’idea di un’economia globalizzata e i progetti infrastrutturali in mezzo mondo, in particolare in Medio Oriente. Sì, la caccia ai Paesi emergenti. Tutto il castello di sabbia costruito da Saccard si sgretolerà a causa degli attacchi del rivale, il banchiere Gunderman, a suon di vendite allo scoperto, lo short selling, che è ancora un male della finanza di oggi (e una delle specialità di George Soros). Saccard, che per convincere i malcapitati risparmiatori, sfoggia la sua fede cattolica, novello crociato in Terra Santa, ricorda un Calisto Tanzi qualsiasi, il patron della Parmalat, che andava a messa ogni domenica e lo faceva sapere. O un Bernard Madoff, l’usurpatore di Wall Street, che andava alla sinagoga tutti i sabati e lo faceva sapere. Così rassicuranti. A un certo punto Maxime, il figlio di Saccard, ne approfondisce la psicologia. Il padre non vuole accumulare e basta. Ama il denaro: «Se ne attinge a tutte le sorgenti, è per vederlo scorrere a torrenti». «Lui venderebbe voi, me, chiunque, se potesse essere oggetto di un qualsiasi mercato. E agirebbe così da uomo senza coscienza, e insieme superiore a tutto, perché è veramente il poeta del milione, lui, talmente il denaro lo rende pazzo e canaglia…».


Pagina 99, 25 novembre 2015

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