31.5.14

Eusébio, ovvero: la classe di rigore (Girolamo De Michele)

E' morto alcune settimane fa Eusebio, un calciatore che tante gioie regalò a chi ama lo sport del pallone. L'articolo che segue, a mio avviso molto bello, ne ricorda anche le virtù extracalcistiche. (S.L.L.)

Ci sarebbero molte, forse troppe cose da dire di Eusébio da Silva Ferreira, il grande calciatore mozambicano che ha guidato il Benfica e il Portogallo negli anni Sessanta – “Il più grande calciatore portoghese di sempre era un Africano” (Eduardo Galeano). Prima di Eusébio, scrive il giornalista Sean Jacobs, «era impensabile per una squadra europea essere dominata da un Africano: la sua eredità più importante è l’impatto che ha avuto sulla percezione degli Africani sia nel calcio che nell’identità europea».
Ma della classe, del rispetto degli avversari e dei compagni, dell’anima elegante di Eusébio forse non s’è detto tutto.

Liverpool, 23 luglio 1966, ore 15:42. La Corea del Nord sta battendo il Portogallo 3-1. D’accordo, l’allenatore del Portogallo non è il pirla che ha lasciato in panchina Meroni, in tribuna Riva e a casa Picchi e ha mandato in campo Bulgarelli con una gamba sola: ma la Corea non è quella “squadra di Ridolini” che l’osservatore azzurro Valcareggi aveva creduto di vedere. Sta di fatto che al 25′ è in vantaggio per 3-0, e mentre il portiere José Pereira s’è messo nei capelli quelle mani con cui avrebbe potuto fare di meglio (soprattutto sull’uscita a spasso per l’area piccola in occasione del 2-0) Eusébio, con la sua aria triste, decide che è ora che qualcuno si rimbocchi le maniche, e questo qualcuno non può che essere lui. Con l’aiuto di Mário Coluna, futuro ministro dello Sport nel Mozambico democratico dopo la liberazione, e di Torres – José Augusto da Costa Sénica Torres -, O Bom Gigante, un uomo dal corpo lungo quanto il suo nome completo. I tre erano la spina dorsale del Benfica e della nazionale lusitana del 1966, Os Magriços. Proprio Torres, dopo avergli lanciato la palla del 3-1, va quasi a immolare una caviglia agganciata da un difensore coreano in area. Mentre l’arbitro fischia il penalty, Torres zompetta fuori campo sull’unico piede buono che gli rimane.
Eusébio, un minuto prima, ha preso una gomitata sulla mascella, e perde sangue dalla bocca: ma non è il momento di fare i fighetti. Prende la palla, la mette sul dischetto, va a segnare il 3-2 e, come col precedente gol, non festeggia: raccoglie la palla e s’incammina verso il centrocampo, che la partita è ancora lunga e siamo ancora sotto di uno. Poi si ferma, si volta, cede la palla all’arbitro e resta voltato a guardare: come sta Torres? Ce la fa? È un improvvido coreano a dovergli ricordare che, a norma di regolamento, anche Eusébio deve rientrare nella propria metà campo. Ma a Eusebio, in quel momento, non interessa il regolamento, vuol sapere come sta il suo compagno: «In quel Benfica c’era amicizia, c’era voglia di divertirsi, c’era amore per la camiseta. Non eravamo ricchi come i campioni di oggi. Noi eravamo poco più che dilettanti. Ma dentro quella squadra c’era uno spirito che oggi non esiste più».

Stesso luogo, ore 16:15: Portogallo-Corea del Nord 3-3 [2]. Eusébio, dieci metri dentro la propria metà campo, riceve la palla da Mário Coluna, avanza caracollando, supera Oh Yoon-Kyung, accelera sulla fascia sinistra inseguito dal coreano, si arresta, lo risalta facendolo finire a terra, entra in area puntando Pak Doo Ik (quel Pak Doo Ik, proprio lui), se lo beve, sembra voglia entrare in porta con tutta la palla quando Lim Zoong-Sun con una scivolata assassina gli prende ambedue le caviglie. Prova a rialzarsi, ricade, si trascina fuori, Eusébio, mentre l’arbitro fischia il secondo rigore. Ma non c’è tempo per sentirlo, il dolore alle gambe: c’è una partita da vincere, e il rigorista del Portogallo è l’ex bambino nato nel barrio Mafalala di Mapute, l’orfano che giocava a piedi nudi in strada con la bola di stracci. Si rialza, e zoppicando si avvia verso il dischetto: nessun compagno di squadra ha osato pensare di prendere il suo posto. Mário Coluna, che avrebbe dovuto sostituirlo, quando lo vede avanzare zoppicando si fa da parte alzando le braccia al cielo: se dice di sentirsela, lo tira lui.
Era già successo quattro anni prima, quando Eusébio aveva solo vent’anni e di fronte c’era il Real Madrid pentacampeón: «Finale ad Amsterdam: Puskas segna tre reti, il Benfica rimonta. Sul 3 a 3 ci viene assegnato un rigore. Prendo il pallone e dico: “Calcio io”. In Mozambico la mia specialità era calciare i rigori spiazzando i portieri. Qualche compagno mi guarda perplesso. Normale, avevo appena venti anni. Coluna mi chiede: “Te la senti?”. Ed io rispondo: “è gol”. Ed infatti: portiere da una parte, pallone dall’altra. Normale».
Con le gambe in quelle condizioni neanche pensarci, di tentare una finta: tiro secco a mezz’altezza alla destra di Lee Chang Myung, che intuisce ma non può arrivarci. Non ha la forza di esultare, Eusébio – ma la missione è compiuta: «I miei compagni di squadra mi chiamavano abono de familia. L’assegno che a quei tempi lo Stato passava alle famiglie più povere. I miei gol garantivano infatti premi a volontà e soldi per tutta la squadra. Potevo forse mandare in rovina i miei amici?»

Londra, 26 luglio 1966, ore 21:10. Ce l’ha messa tutta, il Portogallo: ma oggi Bobby Charlton ha il demone del calcio che brucia dentro, e riesce in quello che i bianchi d’Inghilterra non riescono a fare. Quando Bobby, due minuti prima, ha raccolto l’assist di Hurst e dal limite ha fiondato la sassata del 2-0, la partita è finita. Le facce sconsolate dei difensori lusitani dicono tutto; anche quella di José Augusto, che con grande signorilità va a stringere la mano di Bobby Charlton: Respect. Il pubblico sugli spalti sta cantando da due minuti The Saints – sono tifosi che festeggiano, non sono mentecatti che fanno booh: “Oh when the Saints go marchin in, Oh Lord I want to be in that number…” Ma sul that number Simões crossa da destra a sinistra, Torres salta più in alto di Banks che sbaglia l’uscita e Jack Charlton ci deve mettere la mano. Sul dischetto, Eusébio contro Banks, che finora non ha subito alcun goal: portiere a sinistra, palla a destra. Eusébio raccoglie il pallone, e prima di riportarlo a centrocampo dà un buffetto sulla nuca al rivale cui ha tolto l’imbattibilità: Respect.
Fischio finale: Eusébio sa che Bobby Charlton gli ha tolto in un colpo solo il titolo mondiale e il Pallone d’Oro. Ma oggi il più grande è Bobby: lo cerca, lo trova, e va a complimentarsi.
Respect. A little respect (just a little bit). (cit.)
Può darsi che il calcio non lo abbia reso ricco: ma “ricco” non significa “signore”. Uno può essere ricco fuori, e non essere un cazzo dentro, diceva Jannacci. Eusébio era un signore, quando nel calcio si poteva essere sia ricchi che signori.

L'articolo è tratto dal sito “Fùtbologia – Il pallone al cubo” (22 marzo 2014).
Per chi voglia vedere i filmati ecco il link

Fegato (Guido Ceronetti)

Fegato grasso d'oca
Fegato è dal basso latino ficatum perché s'ingrassavano le oche da fegato grasso con diete di fichi. Così un nobile organo (forse il più nobile di tutti: il cervello è discutibile) ha preso nome da un'antica malvagità dell'uomo. C'è uno spruzzo di sangue in tutto ciò che è umano.

da Il silenzio del corpo, Adelphi, 1979 

Grande Guerra. Due a tre nella terra di nessuno (Gabriele Venditti, Christiano Presutti)

L'articolo che segue parla di un episodio accaduto durante la Grande Guerra e precisamente durante la cosiddetta “Tregua del Natale 1914” sul fronte franco-tedesco in una zona in cui si affrontavano dalle trincee combattenti inglesi (alleati della Francia) e combattenti tedeschi. Tregue in occasioni di feste ci sono state abbastanza spesso nel corso delle guerre, in genere frutto di contatti riservati tra Stati maggiori o capi militari, ma quella del 1914 fu promossa dal basso e comprese momenti di incontro e fraternizzazione con i “nemici”. Situazioni analoghe di ebbero anche su altri fronti di guerra nei due Natali successivi, 1915 e 1916, sebbene più limitati a causa delle minacce e delle rappresaglie degli Stati Maggiori. Ho tagliato le puntuali note bibliografiche, che chi vuole potrà recuperare nell'ottimo sito di provenienza “Futbologia – Il pallone al cubo” - http://blog.futbologia.org/. Credo che – nel momento in cui risorgono quei nazionalismi aggressivi che misero fine a lungo periodo di pace e di progresso civile in tutta Europa - bisognerà utilizzare il centenario della Grande Guerra, per una grande campagna contro il risorgente militarismo e per la solidarietà tra i popoli. (S.L.L.)
Tommies della London Rifle Brigade posano con Saxons del 104° e 106° Reggimento
La “Tregua di Natale”, quella piccola pace nella Grande Guerra come efficacemente viene chiamata nel titolo del saggio di Michael Jürgs (Il Mulino, 2005), si aprì spontaneamente e senza intervento di diplomazie alla vigilia del primo natale di guerra. Il conflitto, iniziato ufficialmente solo cinque mesi prima, si era già impantanato tra le lunghe linee di trincea che correvano parallele come binari di treno nel fango dei campi di Fiandra.
Accadde nella notte del 24 dicembre 1914. Un po’ ovunque lungo la linea del fronte uomini morti di stanchezza e stanchi di morte uscirono dalle trincee sollevando le mani e incamminandosi nella sottile striscia di terra confusa dalle detonazioni che li separava. Infagottati nei lunghi trench, con le sciarpe di lana e le pelli di montone sopra la livrea del reggimento, soldati di opposti schieramenti si incontravano faccia a faccia per la prima volta nella terra di nessuno. Si scoprirono pari dietro le divise, sopperendo a lingue diverse con segni e sguardi, facendo le cose che fanno gli uomini quando si trovano a condividere uno stesso destino nero, in trincea come in carcere o in ospedale. Si scambiarono auguri, champagne con cioccolata, muffin con Pfefferkuchen e altre delicatessen estratte dai pacchi dono, guardarono assieme fotografie di figli e mogli tirate fuori come reliquie dai portafogli. La piccola pace si estese al giorno di Natale e da qualche parte anche ai giorni successivi, gli uomini si lasciarono fotografare assieme, arrivarono a scambiarsi indirizzi e promesse di reciproca ospitalità a guerra finita. Del resto, chi appena qualche mese prima viveva del suo lavoro al porto di Liverpool aveva in comune più cose con il suo omologo di Kiel – portasse anche l’elmo chiodato di un reggimento sassone – che con il suo stesso superiore graduato, scarpe pulite e frequentazioni d’accademia, che in trincea arrivava solo per le ispezioni e viveva la guerra nelle ville di campagna requisite. La guerra di trincea era per proletari inglesi, francesi, tedeschi, stessa carne da cannone. Si direbbe marxianamente: è la classe baby, e non è acqua.
Se lo scoppio della pace – si legge nei diari – si deve ai tedeschi, i palloni uscirono fuori dalle trincee inglesi. La presenza di footballers tra gli uomini della British Expeditionary Force era cosa abbastanza consueta, in anni in cui il calcio è già lo sport più popolare. Palloni in cuoio e scarpette chiodate si trovavano, insolitamente, nello zaino di più di un soldato, anche se i professionisti della First Division nell’inverno del ’14 continuavano a solcare i campi domestici e non quelli trincerati, perché nel primo anno di guerra il campionato inglese non era stato sospeso. Nelle retrovie giocare a calcio era attività praticata tanto dalla truppa quanto dal principe di Galles e durante la frettolosa piccola pace sarebbe stato naturale calciare un pallone, così come si bevve e si fumò. In effetti, specie da parte anglosassone, la “Tregua di Natale”, o Christmas truce, evoca nel ricordo proprio l’episodio del Football match, la partita di calcio disputata dai soldati nella No Man’s Land tra le due trincee.
Il primo a rendere noto l’episodio fu un anonimo maggiore medico intruppato nella London Rifle Brigade in una lettera al Times pubblicata il 1° di gennaio 1915, nella quale si parlava di una partita di calcio giocata “tra noi e loro” nella terra di nessuno. Ma racconti di partite giocate un po’ ovunque durante quel Natale ce ne sono diversi. La narrazione più precisa è di parte tedesca, appartiene al tenente Johannes Niemann, del 133° Reggimento reale sassone, e ricorda la partita giocata contro gli Scottish Seaforth Highlanders disputata nella linea del fronte tra Frelinghien e Houplines. Cominciò quando uno scozzese apparve con un pallone sotto il braccio, come se fosse la cosa più normale da farsi: così scozzesi e tedeschi formarono le squadre, per marcare la porta furono usati gli elmetti e la partita ebbe inizio. «Era difficile giocare sul terreno ghiacciato, ma continuammo rispettando quanto più possibile le regole del gioco, tranne che per il fatto di giocare solo un’ora e senza nessuno che arbitrasse». I soldati si rincorrevano e giocavano con un entusiasmo infantile. Quando folate di vento alzavano il kilt agli scozzesi, mostrando le natiche illividite dal freddo, dal pubblico di parte tedesca partivano fischi di approvazione all’indirizzo di quelle strane fräulein. Alla fine i tedeschi vinsero per 3-2, non ci è dato il nome dei marcatori.
Con lo stesso risultato di 3-2 per i Sassoni si chiuse il match giocato contro i Lancashire Fusiliers, ma stavolta la narrazione è di parte inglese e, più epica, parla di un barattolo di conserva vuoto usato al posto del pallone. In più, ci fosse stato un arbitro e un fischietto, la terza rete dei tedeschi non sarebbe stata concessa per un evidente fuorigioco. Secondo altre fonti, era stato il reggimento Bedfordshire a perdere contro i sassoni, sempre con il ricorrente risultato di 3-2, ma qui solo perché si era dovuta interrompere la partita quando il pallone di cuoio era volato in cima a un reticolato bucandosi, e ricordando così a tutti che le buche, i cavalli di frisia e il filo spinato rendono i terreni poco adatti al gioco del calcio. Ancora di una partita finita 3 a 2 per i tedeschi parla una lettera pubblicata da un anonimo sulla Westmorland Gazette il 9 gennaio 1915: «Ad uno dei nostri hanno dato una bottiglia di vino da bere alla salute del Re. Il reggimento ha poi giocato una partita di calcio contro i tedeschi, che li hanno battuti per 3 a 2. Questa gente ha detto che non avrebbe sparato ai nostri, ma hanno avvisato di stare attenti a quelli alla loro sinistra».
Stando a Michael Jürgs la partita, anzi le partite, sarebbero mitografia alimentata da uno stesso racconto, forse anch’esso inventato: «Che in diversi settori si siano svolte partite vere e proprie, con arbitri a fischiare gli intervalli tra i due tempi, e alla fine una vittoria dei sassoni sugli scozzesi per tre a due, è una leggenda».
Tuttavia viene naturale pensare a una partita di calcio nel clima irreale di una tregua nata dal basso, principiata da qualcuno che canta Stille Nacht da una parte e seguito a ruota da Silent Night dall’altra, finita poi in una sorta di euforica scampagnata tra sigari e alcool. Almeno come progetto: «Molti tedeschi erano di Londra, e speravano che la guerra finisse presto. Uno di loro ha persino suggerito di farla fuori con una partita di calcio, o con un combattimento a palle di fango, in modo tale che nessuno fosse ferito. Ti sarebbe piaciuto essere qui quel giorno. Che cose divertenti capitano in questa guerra!».
Ernie Williams, fuciliere del Cheshire Regiment racconta di una partita presso Wulvergem, in Belgio: «Costruimmo delle specie di porte, due ragazzi vi si misero, e cominciarono tutti a correre dietro il pallone. Erano almeno un paio di centinaia di uomini». Prima che la ricreazione finisse, ci fu spazio per lo scambio di memorabilia e le foto ricordo: «Sul campo congelato era una bella impresa. Uno di noi aveva la macchina fotografica. Allora i calciatori delle due squadre si ordinarono rapidamente in gruppo, sempre a file allegramente multicolori, con il pallone al centro».
Traiamo una conclusione: anche se non ci fu quest’unica, emblematica partita mondiale finita dovunque 3 a 2, ritualmente giocata tra squadre in divisa, Fritz vs. Tommies, quindici anni prima della prima Coppa Rimet e cinquant’anni almeno prima della prima UEFA, le testimonianze concordano sul fatto che gli uomini della tregua inseguirono comunque un pallone di cuoio o una palla di stracci o una scatola di biscotti. Probabile è che, rimossi i cadaveri, la terra tra le due trincee si trovò ad essere campo libero, e si giocò come si fa ancora sui prati, nei cortili, nei posti scomodi che solo la fantasia identifica come campo di gioco. Probabile è che si ebbero tante spontanee e caotiche partite, spesso a formazioni miste, tante quante gli episodi conosciuti di fraternizzazione. A centinaia, come in un quadro di Bruegel, inseguirono la palla, segnarono fra pali fatti con bastoni o pile di cappotti o elmetti chiodati e sotto traverse solo immaginate, scivolarono in tackle inchiodandosi senza cattiveria gli anfibi nei polpacci, felici di non avere arbitri né graduati tra gli spettatori. Che strano fairplay s’impose tra chi era solito spararsi addosso: quando qualcuno cadeva nel fango, «dato che in uniforme e stivali è davvero difficile giocare in modo elegante», sportivamente l’avversario, qui tecnicamente un nemico, lo aiutava a tirarsi in piedi.
Kurt Zemisch, del 134° Reggimento reale sassone, scrive nel suo diario: «Alla fine gli Inglesi tirarono fuori un pallone dalle loro trincee e subito ne seguì una animata partita. Una meraviglia, qualcosa che ancora mi appare difficile da credere. L’ufficiale inglese aveva la stessa sensazione di stupore (…) Dissi che non avremmo sparato neanche per Santo Stefano. Loro furono d’accordo. Quella sera l’ufficiale inglese ci chiese se fossimo d’accordo ad organizzare una vera partita di calcio, da tenersi tra le due trincee, il giorno seguente».
Pare che durante i primi giorni il ritorno a uno stato di belligeranza fosse difficoltoso, che il comportamento dei soldati risultasse inadeguato, si racconta di soldati ricalcitranti e di colpi sparati verso l’alto. La vera partita a cui fa riferimento Zemisch non si ebbe, causa il primo di quegli avvicendamenti che raffreddarono la pace e riportarono la guerra al consueto massacro, un po’ per la naturale rotazione delle truppe, un po’ perché i comandi decisero di spostare altrove le milizie che avevano fraternizzato.

Naturalmente vi erano anche soldati che non avevano partecipato alla tregua, quelli che avevano vissuto i momenti di familiarizzazione come atti di tradimento. Il Gen. Sir Horace Smith-Dorrien, comandante del British II Corps, venuto a conoscenza dei fatti aveva dichiarato irritato: «Ho emesso ordini severi che in nessun caso sono ammesse relazioni con le truppe avversarie. Per concludere in fretta questa guerra, dobbiamo mantenere lo spirito combattivo e fare tutto il possibile per scoraggiare rapporti amichevoli». Queste invece le lapidarie parole di uno dei soldati contrari di parte tedesca: «Queste cose non dovrebbero accadere in tempo di guerra. A voi tedeschi non è rimasto alcun senso dell’onore?» (Cap. Adolf Hitler, 16º Reggimento di Fanteria Bavarese).

Dal sito "Futbologia. Il Pallone al cubo", 25 dicembre 1913

Preti e tagliagole (S.L.L.)

Ho letto nel Silenzio del corpo di Ceronetti di un algerino che a Digione aveva tagliato la gola a una vecchia per rapinarla e che aveva adottato questa difesa: "Gli ho puntato un coltello, ma lei si dimenava, e strofinando la gola sopra la lama si è uccisa". Mi sono ricordato di una storia che mi hanno raccontato in Valnerina, di un prete che corrompeva tutte le innocenze che frequentavano l'oratorio, senza distinzione di sesso. Al vescovo che l'interrogava disse: "Non stanno mai fermi! Ti saltano sempre sull'uccello".

Il Novecento sull'orlo del possibile (Daniele Barbieri)

C'era una volta il '900. Progressista e radioso, portatore di una attesa ingenua e messianica circa l'inevitabile vittoria del socialismo nel segno della scienza e della rivolta. Marx, Keplero e Spartaco: ecco un bel trio. In prossimità del secolo morente, la locomotiva (Guccini fuochista) sembrava inarrestabile, lanciata verso un mondo «giusto». Lo sviluppo dell'industria, l'inizio della scolarizzazione, la forza dei lavoratori organizzati, poi i primi tremolii degli imperi coloniali, la fiducia quasi cieca nella scienza, lo svilupparsi via-via delle rivolte facevano immaginare, ovunque, il rovesciamento di secolari gerarchie sociali e ingiustizie, la fine dei rapporti di forza dati per immutabili. Nel dopo-Darwin era andata in crisi l'idea che l'evoluzione umana dipendesse da disegni divini, l'umanità tornava padrona di se stessa. Logico che tutto ciò terrorizzasse teorici e cantori dell'ordine costituito; e infatti proprio loro annunciarono catastrofi, punizioni celesti, misero in guardia contro le folle bestiali pronte a scatenarsi. Sul passaggio '800-900 quanto più l'immaginario borghese annuncia la «fine della storia» tanto più nascono teorie e utopie di progresso, giustizia, liberatoria cultura. Persino all'anagrafe se ne trova conferma: all'inizio del secolo chiamare i figli Libero, Avanti, Scintilla, Progresso, Libertà, Ribelle, Turbina, Comunardo (così a Terni, come ricorda Sandro Portelli nel suo bel Biografia di una città) esprimeva certezze più che auspici. Tutto sarebbe cambiato e le macchine avrebbero avuto un ruolo determinante, non appena il proletariato se ne fosse impadronito, per usare - a favore dell'umanità anziché contro di essa - «il molto che s'inventa» di cui recita. famoso Me-Ti di Bertolt Brecht. Si dirà poi elettrificazione e soviet, Lenin e Taylor. L'inevitabile uscita dalla «preistoria umana». Un altro bel trio: macchine, masse, socialismo.
Aveva molte ragioni (ebrea, polacca, zoppa, intelligente, sovversiva e donna) per essere pessimista Rosa Luxemburg e infatti ci aveva messo in guardia: la vittoria non è certa, la scelta sarà fra socialismo e barbarie. E anche nell'immaginario si prospettava che il futuro potesse essere nerissimo: Il tallone di ferro di London, tanto per citare un incubo riuscito. A che siano servite le macchine, la scienza (Auschwitz, Hiroshima, Vietnam) Rosa Luxemburg non ha potuto vederlo. In compenso scoprì come i suoi ex-compagni fossero d'accordo dio i proletari si unissero in tempi di |pace purché poi si scannassero in guerra, sotto le rispettive bandiere. Barbarie, sì. Ma il peggio doveva venire. Armi nucleari, ecocidio, sterminio per fame: orrendo trio per un dominio che si vuole assoluto.
Di tutto questo anche la letteratura fantastica è stato uno specchio, talora fedele e talaltra ambiguo. C'erano, ovviamente, al suo interno c'erano destra (super-uomini e imperi stellari), sinistra e palude centrista, oltre che pazzi, ragionieri, architetti, operai (letterariamente parlando). Si possono sognare merci masturbatone, squallidi poteri, mondi soap-quiz oppure avere desideri che squassino proprio tutto, ivi compresi macchine, masse, socialismi, miti della scienza, sbirri ben celati dentro la testa e il letto di ognuno/a. La vittoria del capitalismo è avvenuta anche (qualcuno oserebbe dire: soprattutto) nell'immaginario, nel togliere desideri veri ai suoi antagonisti per lasciar loro sogni di plastica. L'inconscio è stato coca-colonizzato. Lo ha ben profetizzato Philip Dick (chi se non lui?): «Possiamo immaginare tutto, non universi senza Coca-Cola».
Via-via che il futuro diviene fosco, incerto o impossibile, via-via che le rivoluzioni tornano impensabili (persino le riforme oggi sembrano robe da bombaioli) il presente accelera per vincolarci e incatenarci su sentieri obbligati. L'unico futuro è la continuazione del presente, con altri mezzi: è questo ciò che si sente dire ovunque, con insensatezza logica oltre che sintattica. Siamo prigionieri dell'iper-presente, «reietti d'un altro pianeta» direbbe Ursula Le Guin. Il secolo della democrazia s'è tradotto nella dittatura degli 850 leader che si riuniscono nel Forum internazionale di Davos (e controllano il 95% o giù di lì dei massmedia). Mille reucci, cinquantamila valvassori, qualche miliardo di consumatori (a Nord) e di schiavi (a Sud). E lo chiamano nuovo ordine mondiale. Ecco «sangue, carne, ossa, vite, speranze triturate, spremute, eliminate per essere inglobate negli 'indici di crescita e incremento economico': questo nascondono cifre e discorsi» spiega il sub-comandante Marcos.
Eppure contro il presente acchiappa-tutto, proprio nel cuore dell'Impero, da tempo s'annidava un tarlo, una quinta colonna del nemico, una scappatoia. La migliore fantascienza statunitense (non tutta, ma una grossa scheggia sì) è stata sovversiva, spesso suo malgrado, proprio perché - quasi per statuto — doveva dirci che ci sono altri mondi possibili e non solo le mille clonazioni di Mike Bongiorno; oppure scegliere fra Clinton e Bush, fra Khomeini e Wojtyla, fra eroina e merda, fra Coca e Pepsi. È stata davvero una marxiana «futura umanità» quella che, soprattutto fra gli anni '50 e '70, la fantascienza ha svelato, mostrandone sogni e incubi, meccanismi e falle, ambiguità. È banale e squallido sognare i super-uomini come portatori di armi invincibili, avvisava Theodore Sturgeon: «Se invece un super-uomo avesse una superfame, una super-solitudine», se avesse una morale superiore, un amore più grande per tutte le creature viventi?”.
«Lo scopo della fantascienza è svegliare il mondo sull'orlo dell'impossibile e quindi nel bel mezzo della storia stessa, studiare e cercare di scoprire qualcosa di nuovo con la passione dello scienziato che esamina il suo esperimento o d'ima amante che vii,mi,! hi illuni.i amala». Ancora Sturgeon: «La migliore science fiction è una letteratura di forza e ampio respiro che offre un terreno di prova per l'analisi di società vecchie e nuove, all'interno di una buona narrativa, provocatoria, brillante e persino bella».
Questo per dire che le pagine di Sturgeon, Pohl, Dick, Le Guin, del buon riformista Asimov e di tanti altri/e sono state più importanti di scioperi o rivolte? Certamente no. Ma «per conquistare un futuro bisogna prima sognarlo»: prima di diventare la frase emblematica del centro sociale Leoncavallo, la si leggeva non a caso in un romanzo di fantascienza (Sul filo del tempo di Margot Piercy, Eluthèra), e non per caso essa rappresenta una componente fondamentale d'ogni vera rivolta; per quale motivo dovrei battermi e rischiare se non ho un sogno «troppo grande» perché il mondo attuale possa contenerlo?
Ogni volta che le false sinistre di questi tempi ne combinano una si dovrebbe citare un altro grande scrittore di science fiction, Alfred Bester, che già ci aveva avvertito: «la differenza fra uno Stato assistenziale e un despota benevolo è minima».
Ogni tanto (capiterà anche per i prossimi 2 o 3 dicembri) qualche idiota loda la fantascienza - preferibilmente quella ammuffita di Verne o Wells; ma i più avvertiti hanno letto anche 1984 e visto 1997, fuga da New York - perché avrebbe/ha previsto qualcosa che poi è successo «veramente». Sai che merito! In tutta la storia troverai sempre ciò che cerchi. Il pregio della fantascienza è piuttosto un altro e in questo senso davvero potrebbe aiutarci a rileggere il secolo, a suggerire «un futuro per il Novecento». Il suo merito è averci costretto/costringerci a pensare che possano esistere sentieri diversi, ragionamenti a zig-zag, culture altre, alienità in noi e negli altri, ricchezze perdute, insospettabili umanità (soprattutto nel senso in cui Dick usa questa parola nel racconto Umano è), magari metalli urlanti e umanoidi associati ma anche/soprattutto visioni pericolose.
Può darsi («è più difficile distruggere un pregiudizio che un atomo» sosteneva Albert Einstein, che d'entrambi fu costretto a occuparsi) che fra i nostri lettori siano ancora molti coloro che pensano alla fantascienza come robetta; tanto più che «il 90 per cento della science fiction è spazzatura, ma del resto il 90% d'ogni cosa è spazzatura» come recita la ben nota, fra gli appassionati, «legge di Sturgeon».
Se però si cerca in quel 10% troveremo (parafrasando alcuni titoli famosi degli autori citati oltreché di Varley e Spinrad) cristalli sognanti, penultime verità, ambigue utopie, persistenze della visione, le rivolte di Jack Marron, perfino possibili «leggi dell'umanica»: un patrimonio dell'immaginario con il quale possiamo concimare nuovi sogni, per s|pazzar via l'iper-presente in primo luogo dal nostro inconscio.
Nei suoi punti più alti, la fantascienza ha individuato i paradossi di una scienza non liberatoria, di una tecnologia senza più scienziati (con le tecnofobie e i tecno-vudu che ne derivano), di corpi inquietanti, dell'avanzante robotizzazione degli umani, della fino del lavoro come lo conoscevamo, della confusione crescente fra vita e nonvita, del dominio totale delle merci, di mondi paralleli e non comunicanti, dell'obbedienza come male assoluto, della perenne lotta per controllare il tempo, dell'agorafobia e dell'autismo di massa; magari insinuando il dubbio se gli uomini - non i robot - sappiano che «ribellarsi è possibile» come diceva un utopista cinese oggi in disgrazia. Nei suoi punti più alti, la fantascienza (proprio perché disprezzata) è stata il luogo senza censure, in cui si poteva dire l'indicibile. Non a caso Leo Szilard, padre «pentito» della Bomba, scelse la fantascienza per raggiungere un pubblico più vasto e dire loro (La voce dei delfini) che «il quesito è: gli americani sono liberi di dire tutto quello che pensano, visto che non pensano quel che non sono liberi di dire?». Oggi la fantascienza, come altre scritture/linguaggi un tempo alla gogna, da una parte è risucchiata nella macchina del pensiero globale, dall'altra conosce una fase di stanca. Eppure certe «visioni pericolose» stanno continuando a offrici possibilità invece che previsioni, a costruire laboratori onirici, a essere progettuali (e/o terrorizzate) partendo dall'idea che in un mondo senza utopie non valga la pena vivere.
Non per caso alcuni testi non trovano editori o, in Italia, escono spesso nell'underground dei Centri sociali. La «guerra dei sogni» (così Mare Augé titola i suoi «esercizi di etno-fiction» tradotti dalla libertaria Elèuthera) è in corso. Si sa, stiamo perdendo. Dobbiamo comunque resistere. All'interno di quella che lui definisce «la quarta guerra mondiale» il sub-comandante Marcos c'invita a cercare le nostre radici, perché «un popolo che dimentica il suo passato non può avere futuro». E' altrettanto vero, anche se sulle prime sembrerà paradossale, il contrario: un popolo che dimentichi «il suo futuro» non avrà presente né speranze.

"il manifesto", 2 settembre 1999


Fisica. Boltzmann, la scienza e la verità (Luigi Cavallaro)

Ludwig Boltzmann nel 1872
Wittgenstein lo inserì in cima all'elenco (non lungo) di coloro che lo avevano influenzato. Lenin ne elogiò la gnoseologia, che «in sostanza è materialistica ed esprime l'opinione della maggioranza degli scienziati». Popper confessava di sapere della sua filosofia molto meno di quanto avrebbe dovuto e tuttavia dichiarava di condividerla «più da presso, forse, di qualsiasi altra filosofia». Eppure mancava una traduzione italiana delle conferenze (pubblicate originariamente nel 1905 con il titolo di Populare Schriften) nelle quali il fisico austriaco Ludwig Boltzmann (1844-1906), noto per i suoi contributi fondamentali allo sviluppo della teoria cinetica dei gas e della termodinamica statistica, aveva esposto le sue idee filosofiche sulla scienza e, in particolare, sulla fisica teorica. Benvenuta, pertanto, l'iniziativa editoriale di pubblicarne un'ampia selezione (Modelli matematici, fisica e filosofia. Scrìtti divulgativi, a cura di C. Cercignani, Bollati Borin-ghieri, 1999, pp. 210, £. 35.000), tanto più che la lettura ne rivela una perdurante attualità.
In un certo senso, infatti, l'epistemologia di Boltzmann contiene la prima consapevolezza della «inevitabilità» del cambiamento di idee nella scienza e, insieme, il tentativo di evitare gli esiti relativistici che hanno segnato il dibattito sulla gnoseologia nel Novecento. «Se consideriamo più da vicino il processo evolutivo della teoria - scrive Boltzmann oltre mezzo secolo prima di Kuhn - salta agli occhi per prima cosa che esso non ha luogo in modo così continuo come ci si aspetterebbe, ma è anzi pieno di discontinuità». Proprio quando si ritiene che i metodi utilizzati abbiano dato i migliori risultati possibili, «all'improvviso questi metodi risultano esauriti e ci si sforza di trovarne di completamente nuovi e disparati. Si sviluppa allora una lotta fra i sostenitori dei vecchi metodi e gli innovatori. Il punto di vista dei primi viene definito dagli oppositori come antiquato e superato, mentre questi insultano gli innovatori in quanto corruttori dell'autentica scienza classica». E non è detto che dal confronto qualcuno sortisca «vincitore»: è anzi concepibile «la possibilità di due teorie completamente differenti che siano entrambe semplici e concordino ugualmente bene con i fenomeni e che dunque, sebbene completamente diverse, siano entrambe ugualmente giuste». Ma ciò ovviamente pone un problema: che ne è della pretesa della scienza di giungere alla «verità oggettiva»?
Sono noti gli esiti del dibattito, sviluppatosi particolarmente nella seconda metà di questo secolo: le teorie scientifiche sono state progressivamente declassate al rango di semplici «convenzioni linguistiche» e gli «oggetti fisici» (enti teorici o osservabili che fossero) sono stati ridotti a meri «postulati culturali, paragonabili, da un punto di vista epistemologia), agli dèi di Omero» (W.V.O. Quine). In mancanza di un criterio oggettivo che consentisse di decidere quale, tra due teorie rivali, fosse quella giusta e quella sbagliata, il postulato della «referenzialità extralinguistica» degli oggetti fisici - cioè l'idea che ad essi corrisponda una qualche «realtà oggettiva» - è stato per lo più abbandonato. E le conseguenze cominciano a manifestarsi pesantemente, se è vero - come ci ricorda Marco D'Eramo (il manifesto, 20 agosto) - che più della metà degli statunitensi crede che la terra sia stata creata da Dio poco più di 10.000 anni fa e sulla stampa americana si arriva a leggere che il creazionismo è un'ipotesi buona come l'evoluzionismo su come è cominciato l'universo. Tuttavia lo scienziato Boltzmann rifiuta un approdo solipsistico e continua a professarsi «materialista»: «l'idealismo asserisce che esistono solo l'Io e le varie idee, cercando di spiegare la materia a partire da queste. Il materialismo parte dall'esistenza della materia e cerca di spiegare le sensazioni a partire da questa» (chi ha letto Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin riconoscerà il nocciolo della tanto vituperata «teoria del riflesso»).
Il problema è che l'adesione al materialismo rischia di restare una «professione di fede» se non si chiarisce teoricamente in che modo il venir meno di certezze scientifiche «assolute» non debba metter capo al riconoscimento dell'arbitrarietà di ogni teoria: e qui Boltzmann manca l'obiettivo, giacché una volta ammesso che «può essere una questione di gusti» lo stabilire «attraverso quale rappresentazione dei fenomeni ci sentiamo più soddisfatti» , la strada per affermare che «l'attuale separazione tra scienza e arte è del tutto artificiale» (come dirà poi Feyerabend) è spianata. Si trova, è vero, in lui la consapevolezza della inevitabile «limitatezza» di ogni teoria e l'intuizione che lo scetticismo gnoseologico e la tentazione solipsistica sono il frutto (marcio) dell'«eccessiva fiducia nelle leggi del pensiero». Gli manca, tuttavia, la comprensione del legame dialettico tra il materialismo filosofico e il processo di sviluppo della conoscenza scientifica, di cui pure coglie la dinamica. E il «guaio fondamentale» del materialismo «metafisico» sta proprio, dirà poi Lenin, «nell'incapacità di applicare la dialettica alla Bildertheorie [teoria del riflesso, del rispecchiamento, ndr], al processo e allo sviluppo della conoscenza».
Come ha scritto Giulio Giorello, per conto sarà proprio Lenin a mostrare la razionalità dell'atteggiamento di chi, come Boltzmann, manteneva una concezione materialistica della conoscenza pur ammettendo che «le idee che ci formiamo intorno agli oggetti non sono mai identiche alla natura di questi ultimi» e a teorizzare la limitatezza storica di ogni costruzione scientifica. «Il rispecchiamento della natura nel pensiero dell'uomo», scriverà Lenin, non è «senza movimento e senza contraddizioni»; proprio per ciò, il susseguirsi delle teorie, il mutare dei «paradigmi» (o, lakatosianamente, dei «programmi di ricerca»: espressione, questa, che ricorre proprio in Boltzmann) non dimostra affatto che si tratta di «semplici convenzioni», ma rivela, secondo Lenin, «il carattere transitorio, relativo, approssimato di tutte queste tappe della conoscenza della natura da parte della scienza umana che progredisce» e, soprattutto, che esiste un movente che ci costringe via via a modificarle, sintomaticamente rivelato dalle kuhniane «anomalie»: «l'infinita approssimazione del pensiero all'oggetto [...], nell'eterno processo del movimento, del porsi e del risolversi delle contraddizioni».


“il manifesto”, 2 settembre 1999

Montalbano. Un detective tormentato (Antonio Di Grado)

All'inizio del 1998 il quotidiano catanese “La Sicilia” annunciava l'acquisizione da parte della RAI dei diritti di 4 romanzi di Andrea Camilleri, che avevano come protagonista il commissario Montalbano. Si parlava di Giancarlo Giannini nel ruolo che sarebbe poi stato di Zingaretti e Camilleri, intervistato, faceva il falso profeta, forse a fini scaramantici: “Sono convinto che non piacerà a nessuno”. Il tutto era corredato da un box in cui Antonio Di Grado sinteticamente tracciava fisionomia e ascendenze letterarie del detective di Camilleri, a mio avviso molto acutamente. E' il brano qui “postato”. (S.L.L.)

Il commissario Salvo Moltalbano è sì il duro e smagato detective dell'hard boiled d'Oltreoceano e del noir d'Oltralpe, ma è anche un siciliano (anzi, catanese) di quelli laconici e melanconici, caparbi e sornioni, votati a spietate inquisizioni ma anche ai tormenti del dubbio, e a convivere con il loro metafisico spleen insulare come con un compagno segreto: com'era Leonardo Sciascia, com'era Giovanni Falcone. E il giallo, anzi il «nero siciliano» di Camilleri, è pur esso diverso: la soluzione non è mai interna al meccanismo poliziesco né all'apparato indiziario messo in moto dal delitto su cui si apre il romanzo. Essa si trova in un oggetto (il cane di terracotta, o il violino dell'ultimo romanzo) o in un'immagine (la forma dell'acqua, il ladro di merendine) evocati nel titolo, esterni al contesto affaristico-mafìoso che alimenta ma non motiva il crimine, allusivi a ben altri scenari, a più profondi e inconfessabili segreti.
Perché il paradigma indiziano del commissario Montalbano è quello stesso di Edipo, del resto citato nella Voce del violino: ogni indagine è un'autoindagìne, mette in causa in primo luogo l'io che indaga, lo coinvolge in una rete di corresponsabilità morali e lo fa vibrare di compassione, ovvero di scontrosa pietà per le vittime inermi, per gli spettatori sgomenti e come lui impotenti, dell'universo orrendo che li circonda e li opprime. Perciò Montalbano non somiglia ai suoi illustri predecessori, né ai raziocinanti e tormentati inquirenti sciasciani, ma nemmeno al Pepe Carvalho evocato dall'assonanza Montalbano-Montalbàn, semmai al commissario Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda, lui sì implicato nella configurazione di quel carattere, di quegli ambienti intrisi di quotidiano orrore e maleodoranti omertà,-, e soprattutto nella lingua, quell'originale «koinè» semivernacolare che non è il siciliano letterario di Verga o di Consolo, ma un'invenzione decisamente gaddiana tanto nelle alchimie lessicali quanto negli esiti espressionistici.


“La Sicilia”, 3 gennaio 1998

29.5.14

La cultura ritorna alla casa dove è nata. Una poesia di Yue E

Nei nuovi villaggi, belli come pitture,
di danze di canti rossi trabocca il cielo,
tutti prendono in mano libri e pennelli,
fanno tornare la cultura alla casa dove è nata!

Le ciminiere di bambù. 99 poesie cinesi dal balzo in avanti a oggi. 
Introduzione traduzioni e note di Anna Bujatti. Officina edizioni, 1974

Postilla
La poesia, una "quartina" (struttura tradizionale della poesia cinese) di cui non sono - ovviamente - traducibili gli elementi fonici che dicono essere molto importanti, celebra i successi della battaglia per l'alfabetizzazione nella Cina post-rivoluzionaria. L'autrice, una contadina il cui nome significa "la bella della luna", esalta la presa di possesso di uno strumento di libertà da parte delle masse sterminate di donne e di uomini, che nelle campagne cinesi ne erano state private.

Aurore. In arte George Sand (Patrizia Carrano)

George Sand: basta il suo nome e subito due immagini tornano alla mente: quella d'una donna che, suscitando scandalo nella Parigi dei primi anni dell'800, si presentò nei salotti vestita da uomo ostentando un sigarette fra le dita e quella dell'amante appassionata di Chopin che fuggì con lui a Maiorca per un intero inverno. Ma a far giustizia di questi due luoghi comuni e a illuminare la vera personalità della scrittrice tanto amata da Proust che, all'inizio della Recherche, di lei loda «la distinzione morale» e «la tenerezza naturale», giunge ora tradotta in italiano e pubblicata dalla Tartaruga la sua autobiografia, intitolata appunto Storia della mia vita.
E così scopriamo che la scelta di vestirsi da uomo fu dettata da desiderio di libertà e ristrettezze economiche: separatasi dal marito, giunta a Parigi, avida di sprovincializzarsi e affamata delle idee e delle consuetudini del suo tempo, George Sand scoprì che aveva ragione Balzac quando sosteneva che «non si può essere donne a Parigi a meno d'avere venticinquemila franchi di rendita». E poiché le sue risorse erano infinitamente minori, per poter camminare per Parigi da sola, non spannucciarsi gli scarpini da donna sui selciati malmessi, decise di seguire il suggerimento di sua madre e di travestirsi da uomo. Scrive infatti: «Mi feci dunque fare una rédingote-garritta in grosso panno grigio, con pantaloni e gilet uguali. Con il cappello grigio e una grande cravatta di lana, ero uno studentello del primo anno fatto e sputato! Non posso dire quanto piacere mi procurassero gli stivali: ci sarei persino andata a letto, come aveva fatto mio fratello quando era giovane e per la prima volta ne aveva portato un paio. Con i piccoli tacchi ferrati ero solida sui marciapiedi e volavo da un capo all'altro di Parigi. Avrei fatto il giro del mondo. E poi i miei vestiti non temevano niente. Uscivo con qualsiasi tempo, ritornavo a qualsiasi ora, andavo a tutti i teatri. Nessuno mi notava e sospettava il mio travestimento».
Nessun desiderio di épater les bourgeois, dunque. Quanto al viaggio a Maiorca, più che una fuga passionale fu una convalescenza familiare. Chopin era tisico, il suo stato di salute nel 1838 si era particolarmente aggravato e George, che aveva per molti dei suoi amori un'attenzione e un atteggiamento quasi materni, decise che bisognava strappare il musicista a Parigi e fargli passare l'inverno in un clima più mite, alle Baleari. Fu così che imbarcò se stessa, i suoi due figli e Chopin per Valdelmosa, a Maiorca. Il soggiorno non fu dei più piacevoli: l'irregolarità della coppia turbava gli abitanti, che oltretutto temevano il contagio della malattia e costrinsero la Sand a bruciare tutti i mobili delle case da lei abitate, il che rendeva il viaggio insopportabile oltre che molto costoso.
Basta dunque avvicinarsi all'autobiografia o alle lettere — ne scrisse più di quarantamila lungo l'arco della sua vita, poi raccolte e catalogate stupendamente da Georges Lubin — perché venga, come scrive Angela Bianchini, «cancellata, dimenticata, sepolta per sempre la stereotipa immagine della donna-uomo in tuba e pantaloni, commercializzata dai singhiozzanti film Anni Trenta, con Chopin che quando non suonava, tossiva a spaccarsi il petto a Maiorca o de Musset che componeva poesie dimenandosi in un letto del Danieli a Venezia».
George in realtà si chiamava Amantine-Aurore-Lucie Dupin e già prima di nascere aveva seminato lo scompiglio nella sua famiglia: suo padre, giovane e bellissimo ufficiale, aiutante di campo di Napoleone e pronipote di Federico Augusto elettore di Sassonia, si era innamorato di Antoinette-Sophie-Victoire Delaborde, figlia d'un mercante d'uccelli del lungosenna di Parigi e aveva deciso di sposarla suscitando le ire violentissime di sua madre. Pochi anni dopo la nascita della primogenita e d'un altro figlio vissuto pochi mesi, il padre di Aurore muore per una banale caduta da cavallo. Restano tre donne: la piccola, sua madre e la nonna che non si sopportano vicendevolmente e che fanno della bambina motivo di reciproco ricatto fin quando la madre di Aurore cede la tutela della piccola alla nonna e se ne va a Parigi. Aurore cresce così a Nonhant nel Berry, in quella casa che diverrà poi rifugio perenne della sua esistenza e che sarà tanto celebrata nei suoi innumerevoli romanzi. Dalla nonna e dal precettore Deschartres, che già aveva allevato suo padre, riceve una educazione libera, e molto maschile: va a cavallo, s'occupa di scienze naturali, studia il latino. A sedici anni, dopo la morte della nonna e un soggiorno in collegio, giunge a Parigi. È ancora una fanciulla che pensa al matrimonio, a una vita quieta, a un destino qualsiasi.
Difatti il suo matrimonio con Casimir Dudevant è dei più normali: Aurore ha diciotto anni e, non lo sa, ma è in cerca di se stessa. La sua prima gravidanza non è delle più facili e deve passarla a letto con le coltri coperte d'uccellini salvati al freddo dell'inverno: «ricoprirono il mio letto con un panno verde, fissarono agli angoli grandi rami d'abete e vissi cosi in questo boschetto, circondata da fringuelli, pettirossi, verdoni e passerotti, che subito addomesticai sulle mie ginocchia».
Ma a ventisei anni il suo matrimonio è già in crisi e Aurore decide di trasferirsi a Parigi: è innamorata di Jules Sandeau, un timido aspirante poeta diciannovenne che proviene dalla sua stessa regione. Con lui scrive e pubblica il suo primo romanzo, Rose et Bianche, firmato Jules Sand. Sandeau l'aiutò ben poco, se non offrendole la prima sillaba del suo pseudonimo, scelto soprattutto per motivi familiari: se avesse usato il suo cognome da ragazza, Dupin, avrebbe suscitato le ire di sua madre, mentre se avesse usato quello da sposata avrebbe irritato la suocera, la baronessa Dudevant. Un anno dopo appare sul frontespizio d'un libro il nome George Sand: Aurore ha scritto e pubblicato Indiana ed è finalmete entrata nel mondo letterario. Non fu un debutto facilissimo: nella sua biografia ricorda i tentativi fatti per trovarsi un mestiere (provò anche a fare la miniaturista), i suoi approcci col giornalismo, la ricerca d'uno stile, la volontà di emergere.
Ci riuscirà, dando l'avvio a una fluviale produzione — si contano circa 107 opere — che da sempre ha suscitato lo stupore e la curiosità di quanti si sono occupati del suo lavoro. Anche Henry James, nonostante la sua stessa prolificità di scrittore, nutrì un vivo interesse professionale per la produttività della Sand e dopo aver analizzato minuziosamente la sua vita e le sue opere giunse alla conclusione che era sua abitudine «scrivere di notte, cominciando quando tutti gli altri erano andati a letto». E una notazione che riporta Ellen Moers nel suo Grandi scrittrici, grandi letterate, in cui accomuna il lavoro della Sand alla fatica che tutte le donne han sempre fatto per trovare lo spazio e il tempo da dedicare alla scrittura, ricordando che anche Sylvia Plath era abituata a scrivere le sue mirabili composizioni «verso le quattro del mattino — quell'ora ancora bluastra, quasi eterna, prima del pianto del bambino, prima della vitrea musica del lattaio che posa le bottiglie».
George scrive per passione, ma anche per necessità: la piccola rendita — presa dai suoi beni — che il marito le ha assegnato le è del tutto insufficiente per vivere, anche nelle condizioni semplici che si è scelta. Per qualche anno abita in una piccola soffitta e adopera come studio un pianterreno invaso dai calcinacci e in via di ristrutturazione che le offre il silenzio, la solitudine e la frescura di cui ha bisogno per concentrarsi. Inoltre vuole occuparsi almeno per sei mesi all'anno dei figli e del loro mantenimento. Quando — seguendo una voga che appartiene a molta letteratura francese dell'800 — si concede un viaggio in Italia, a Venezia è costretta a interrompere il suo itinerario e a rinchiudersi in una stai; za d'affitto per mandare velocemente degli scritti al suo editore: è rimasta senza soldi e non ha neppure di che tornare a Parigi. È quello il periodo del suo grande amore per il poeta Alfred de Musset. De Musset è malato, soffre di allucinazioni e crisi cerebrali e George ha bisogno dell'aiuto di due uomini per tenerlo sotto controllo nei momenti di particolare agitazione. Con terrore lo vede correre nudo per la camera cantando e urlando. Nella sua autobiografia accenna velocemente a questo periodo e alle cure che diede a de Musset, sottolineando solo le fatiche che le costarono. In realtà, a Venezia l'amore fra de Musset e la Sand ebbe una brusca interruzione: George aveva accettato la corte d'un medico veneziano, il dottor Pagello, e de Musset, che ritorna convalescente a Parigi, non distingue quali siano le sue visioni e quale la realtà, non comprendendo cosa sia avvenuto. Da Parigi — come riporta Frantine Mallet nella biografia da lei scritta su George Sand — de Musset le scrive «ti amo ancora con amore», e lei risponde «ti amo e basta».
In effetti la loro relazione riprende poco dopo a Parigi, per concludersi definitivamente pochi mesi dopo, nel 1835. Nel carnet amoroso di George Sand si contano — stando ai biografi più minuziosi — circa quindici amanti: a volte brevi incontri come quelli con l'attore Bocage. esili relazioni come quella che ebbe col precettore di suo figlio Felicien Malefille. oppure lunghi legami come quello con Chopin. durato dal 1838 al '46 e quello ancora più duraturo che la unì per quindici anni, fino alla di lui morte, ad Alexandre Manceau. un incisore che fu anche suo segretario.
L'amore per Chopin fu segnato da una tenerezza appassionata, anche se George era preoccupata della reticenza mostrata dal musicista nei confronti dell'amore fisico. In una lettera a Gryzmala. notabile polacco, esiliato e confidente del musicista, George racconta che non le pare possibile separare l'amore dai piaceri della carne. Col tempo se ne farà una ragione, per lo meno per quel che riguarda Chopin.

Ma queste sono notizie che non compaiono nella storia della sua vita che nell'edizione italiana percorre gli anni che vanno dal 1822 al 1846, il periodo della sua maturazione sia come donna che come intellettuale. George mescola avvenimenti a riflessioni, parla della gioia di partorire e dei piaceri dello scrivere, dei suoi rapporti con la religione e della sua amicizia per Balzac, della necessità dell'indipendenza femminile e delle sue relazioni culturali. Tutte, o quasi, per sua stessa ammissione, maschili: «con poche eccezioni, in genere io non sopporto la frequentazione delle donne, non perché le senta inferiori a me per intelligenza (...) ma la donna in genere è un essere inquieto e nervoso che riesce a comunicarmi mio malgrado il suo eterno turbamento (...). Alcune sono vanitose appena diventano serie e quelle che non sono artiste di professione arrivano spesso a uno smisurato orgoglio appena escono dallo studio dei cicalecci e delle esagerate preoccupazioni per le piccole cose...».

"Noi donne", 1981

Maccartismo. Una pagliacciata che distrusse tante esistenze (Irene Bignardi)

Carnefice e vittima. Il senatore Joseph McCarty e lo sceneggiatore Dalton Trumbo
Orson Welles, che quando voleva essere cattivo non era secondo a nessuno, dei tempi della caccia alle streghe maccartista diceva che «ci si accusava tra amici per salvarsi la piscina, non certo la vita». Battuta brillante ma menzognera. Perché le cose, ai tempi che racconta qui accanto il grande vecchio Kirk Douglas, erano proprio serie. O sarebbero state serie se non fossero state ridicolmente tragiche.
Nel clima e negli equilibri politici molto cambiati dopo la fine della guerra, quando l'America cominciò a percepire l'Urss non più come l'alleato con cui era stata vinta la battaglia contro il nazismo, ma, piuttosto, come un potente e pericoloso avversario, prese il via una sorta di processo collettivo contro chi aveva avuto dei rapporti con il comunismo, in un fiorire di «liste» che accusavano chi era colpevole di simpatia per l'Urss.
La prima, stilata da “Hollywood Reporter”, sotto il titolo Un voto per Joe Stalin, spinse la House Un-American Activities Committee a convocare molte personalità dell'industria cinematografica per verificare se era vero che Hollywood era infiltrata dalla propaganda comunista. Ci fu chi, come Walt Disney, Ronald Reagan e Adolphe Menjou, giurò che la minaccia c'era, e seria. Altri - come John Huston e Lauren Bacall, come Humphrey Bogart e Danny Kaye - risposero invocando il Primo emendamento della Costituzione che garantisce il diritto di parola. Dei quarantatre «comunisti» elencati in Un voto per Joe Stalin diciannove dichiararono che non avrebbero risposto. Undici vennero convocati. Degli undici un-friendly witnesses, come furono chiamati quelli che scelsero di non parlare, l'undicesimo, eh sì, Bertolt Brecht, decise di rispondere e collaborare. Sostenne poi di non aver rivelato nulla. Gli altri dieci rifiutarono di rispondere alla domanda fondamentale («siete ora o siete stato mai un membro del Partito comunista?») invocando il Primo emendamento, furono accusati di oltraggio al Congresso e divennero i famosi Hollywood Ten.
Mentre le grandi produzioni, le Guild, le associazioni di Hollywood collaboravano alla caccia ai comunisti, tra azioni giudiziarie, licenziamenti, l'allontanamento sine die dagli studìos, il carcere (i dieci furono tutti condannati a un anno), non si può dire che il problema fossero le piscine. Qualcuno, come Dalton Trumbo, uno degli sceneggiatori più importanti di Hollywood, dopo il periodo trascorso in prigione, dovette abbandonare gli Usa e per dieci anni non firmò più un lavoro con il suo nome, lasciando le sue sceneggiature ai fronts, agli pseudonimi: proprio come nel film Il prestanome, il primo che Hollywood ha dedicato, e siamo nel 1976, a questa pagina nera della sua storia, qui rievocata attraverso le figure di quattro amici - il regista Martin Ritt, lo sceneggiatore Walter Bernstein, gli attori Zero Mostel e Herschel Bernardi - finiti nelle liste nere.
Mentre il cerchio dell'isteria si allargava e la furia della Commissione McCarthy cresceva, molti, tuttavia, si rifiutarono di collaborare. Dashiell Hammett finì in carcere, la sua compagna Lillian Hellman dichiarò di non essere disponibile a cambiare le sue idee per la moda del momento. Il musicista Elmer Bernstein si trovò, in seguito al suo rifiuto to name names, a comporre musica per produzioni di serie C.
Molti più furono quelli che cedettero e denunciarono i compagni di lavoro. Edward Dmytryk, il regista di Odio implacabile, ammise di essere stato comunista, fece qualche mese di carcere, denunciò i suoi compagni di un tempo - e la sua carriera rifiorì. Elia Kazan testimoniò contro gli amici, con il risultato di disastrare molte vite, carriere, famiglie. Con lui si schierò Budd Schulberg, autore di due tra i più bei romanzi su Hollywood, Dove corri, Sammy? e I disincantati, e poi, con Kazan, sceneggiatore di Fronte del porto - un film che, paradossalmente, trova il suo discutibile nodo «morale» proprio nella denuncia dei compagni di lavoro. E non c'è da stupirsi se, quando Kazan venne premiato con un Oscar alla carriera, nel 1999, non tutti lo applaudirono. Si vedevano chiaramente le braccia incrociate e l'espressione di disapprovazione di Ed Harris e di Nick Nolte.
Jules Dassin, il regista di La città nuda, che in effetti era stato comunista ma aveva lasciato il partito nel 1939, denunciato nel 1952 da Dmytryk e da Frank Tuttle, lasciò gli Stati Uniti, rifugiandosi prima in Francia e poi in Grecia. Su taluni si costruirono delle leggende perché il loro nome era stato pronunciato per sbaglio. Vedi Lionel Stander, che per un equivoco non trovò più lavoro per almeno dieci anni. O, dall'altra parte, lo sceneggiatore Richard Collins che, divenuto un friendly witness, finì per lasciare sua moglie, Dorothy Comingore, che a «tradire» non ci pensava proprio, e le portò via anche il figlio - sulla loro storia, con qualche libertà, sarà fatto, nel 1991, con Bob De Niro, uno dei pochi film sull'argomento, Indiziato di reato, cui ha collaborato, un-credited, Abraham Polonsky, uno dei registi emarginati dagli anni del maccartismo.
Mentre i nomi di attori, registi e sceneggiatori scomparivano dallo schermo, i vari motori di questa campagna repressiva, da McCarthy a Hoover, ogni tanto si distraevano, come quando permisero nel 1952 che venisse realizzato Mezzogiorno di fuoco, un grande western e, visibilmente, una dura metafora e critica del conformismo maccartista. Ma fu anche l'ultimo film che lo sceneggiatore Carl Foreman potè scrivere.
Poi, a poco a poco, la macchina della cattiveria e della delazione cominciò a smontarsi. Merito di gente come Ed Murrow, che dal suo programma televisivo, come abbiamo visto in Good Night, and Good Luck, continuò pazientemente a battersi contro McCarthy. Merito di star come Kirk Douglas, Betty Hutton, Alfred Hitchcock, che, stanchi di questa tragica pagliacciata, tornarono a cercare i loro collaboratori di sempre. Merito del tempo. E se volete vedere i volti di quelli che la pagliacciata ha schiacciato, comprate il dvd americano di Spartacus, dove gli Hollywood Ten si presentano e si spiegano in quindici minuti di un piccolo film del 1950 firmato da John Berry. Meritano la vostra visita.

“il venerdì di Repubblica”, 28 giugno 2013

Tra natura e rovine. Viaggiatori del 700 nei dintorni di Napoli (Georges Vallet)

Tra natura e rovine. Viaggiatori del 700 nei dintorni di Napoli (Georges Vallet)
Nel settembre del 1985 si svolse a Napoli, nel Museo di Villa Pignatelli Cortes un convegno organizzato dall'associazione Napoli Novantanove dal titolo Il destino della Sibilla, mito, scienza e storia dei Campi Flegrei. Vi tenne una relazione, sui viaggiatori settecenteschi in visita alle antichità campane, un grande studioso francese, Georges Vallet e di essa “il manifesto” pubblicò gli ampi stralci che qui posto. (S.L.L.)
Una strada a Pompei. Incisione di Giovanni Battista Piranesi
Il viaggio nel mito
Secondo lo studio di A. Horn-Oncken su I viaggiatori stranieri del XVI e XVII sec. nei Campi Flegrei, in Puteoli VI, 1982, scopo fondamentale del racconto di viaggio nei Campi Flegrei è di riprendere, più o meno abbellito secondo il gusto di ciascuno, questo patrimonio tradizionale fatto di miti narrati dai poeti o di aneddoti riportati dagli storici. La base di questo patrimonio, le sue fonti, sono i testi. Le antichità che si ammirano nella zona sono considerate prima di tutto la cornice di tali avventure mitologiche o storiche. Come giustamente afferma A. Horn-Oncken, «le annotazioni spicciole relative a questa o a quella curiosità sono poco feconde; esse si limitano a ripetere le solite osservazioni sui fenomeni vulcanici, sulla Grotta del Cane, sulla Solfatara, sui sudatori di Baia; dei singoli monumenti antichi, guardati come elementi integranti dello scenario del paesaggio, a parte il contesto storico-poetico e la destinazione d'uso ricavabile dalla posizione topografica, interessano semplicemente il tipo, le dimensioni o particolari motivi decorativi». Non esiste la benché minima traccia di una vera ricerca e il gusto per una certa erudizione si manifesta solo in campo filologico; questa d'altronde andrà attenuandosi nella seconda metà del XVII secolo, quando l'informazione sarà destinata sempre più a un ampio pubblico.
E ciò che è vero per i racconti dei viaggiatori vale anche per quella che A. Horn-Oncken chiama la «tradizione figurativa»: sono sempre le stesse le vedute riprodotte, i Golfi di Pozzuoli e di Baia, il Lago Averne, il Capo Miseno, i fenomeni vulcanici della Grotta del Cane, della Solfatara, insieme a quelli che, tra le antichità, «rendono» meglio in immagine, come il Tempio di Venere, o che, con il loro solo nome, danno libero corso all'immaginazione, come la Tomba di Virgilio o la Tomba di Agrippina.
Si attinge sempre allo stesso arsenale, ed è chiaro che tutte queste riproduzioni non sono eseguite sul posto né dipinte dal vero. Si copia da altre tavole, modificando o eliminando quel certo dettaglio, vestendo i personaggi alla moda del momento.

Dalla letteratura all'antiquaria
Con il XVIII secolo comparvero, più o meno successivamente, certi elementi di novità, alcuni di carattere generale, altri a carattere locale, tutti suscettibili di modificare, se non proprio le condizioni della visita, per lo menò l'interesse verso queste rovine ormai celebri. Sul piano generale, va registrata innanzitutto la curiosità sempre più spiccata per le scienze della natura; c'è poi la volontà consapevole e profonda di molti antiquari e, più diffusamente, degli uomini di cultura, di far conoscere a un pubblico sempre più numeroso le testimonianze della vita degli antichi «risparmiate dalla barbarie dei tempi». Infatti, e malgrado le polemiche tra le scuole, le diverse «Raccolte di antichità», da Montfaucon a Caylus, derivano dalla stessa volontà didattica dell'Enciclopedia e i «Viaggi pittoreschi» non hanno altra pretesa appunto che «far conoscere le curiosità e le antichità». Questo fatto è rilevabile ovunque e l'Italia, con la diversità spesso drammatica dei suoi fenomeni naturali e la straordinaria ricchezza delle sue antichità, diventa non tanto il luogo privilegiato di un viaggio che giovani o adulti affrontano per piacere, ma anche e soprattutto per completare la loro formazione, affinare il gusto, arricchire il loro sapere. Il «Viaggio in Italia» diviene una vera e propria missione: è tempo ormai di «far conoscere» a un ampio pubblico, con il testo e l'immagine, le meraviglie dell'Italia: di Roma, sicuro, ma anche di Napoli e della Campania, ricche di tante bellezze e di memoria di passati splendori.
Ma ecco che, nello stesso momento, il gusto cambia. Di recente è stato ampiamente dimostrato come l'immagine di Napoli data dai viaggiatori si sia modificata nei primi decenni del XVIII secolo. Prima di questo momento, Napoli era la meravigliosa città in cui le bellezze naturali gareggiavano con lo splendore delle architetture, delle chiese soprattutto. Il «Viaggio a Napoli» era la scoperta di una realtà che non si esitava a definire unica al mondo, con le chiese che scintillavano d'oro e i suoi dintorni, che per di più erano stati il luogo di tutte le delizie: magnifica, e rara, continuità del passato nel presente! E poi, a partire dal 1720, la ricchezza degli edifici della città diventa sovraccarica e l'immagine stessa del cattivo gusto. A questo proposito sono note le celebri parole di Montesquieu, che nel 1729 scrisse: «A mio parere, tutti coloro che cercano le belle opere d'arte non devono lasciare Roma. A Napoli mi pare che sia più facile guastarsi il gusto piuttosto che formarselo». Dunque, in questo nuovo contesto, che cosa significa la visita dei «dintorni» di Napoli, di questi Campi Flegrei, la cui visita si considerava importante tanto quanto quella della città?

I Campi Flegrei, bellezze avvizzite
Allora, è l'idea stessa dei «dintorni» di Napoli che cambia: ben presto si darà inizio agli scavi di Ercolano e Pompei, e nel 1750 l'Europa scopre i grandi templi di Paestum. Sono queste nuove scoperte che ora bisogna «far conoscere» agli uomini di cultura, perché sono importanti, certo, ma soprattutto perché svelano degli aspetti fino ad allora ignoti del mondo greco e romano. Dal 1733, assai prima dunque della «scoperta» di Paestum, un inglese in anticipo sul suo tempo — viveva a Roma — Robert Smith, scriveva al napoletano Matteo Egizio: «Non tralascio di nuovo a raccomandarle d'abbracciare con il suo solito affetto gli nobili e augusti avanzi della già felice Pesto: può ben sovvenirsi della premura colla quale m'impegnai di persuader l'intraprensione di questo carico... Si degni dunque di dare a loro un favorevole sguardo e di farle disegnare e intagliare in rame». E il nostro inglese contrappone l'ignoranza totale che avvolge i templi di Paestum alla celebrità dei Campi Flegrei («la rinomatissima Torre di Pozzuoli, Baia, Miseno, Cuma, ecc.»).
Sappiamo bene che per Paestum e in generale per tutte le antichità situate a sud di Napoli le cose non andarono così in fretta. Dal momento che i Borboni non permettevano di visitare le città vesuviane e siccome Paestum veniva considerata - e questo è il mito - terra lontana e difficilmente raggiungibile, per molto tempo non ci furono guide che potessero assistere nella visita di queste città o dei complessi recentemente scoperti. Le guide disponibili restarono quelle tradizionali di Napoli che, come «dintorni» comprendevano i soli Campi Flegrei. Ma ormai i viaggiatori sapevano: è nel 1739, dunque appena un anno dopo l'inaugurazione ufficiale degli scavi di Ercolano, che il Presidente de Brosses viene a Napoli.
Ma cosa rappresentano per un de Brosses le antichità dei Campi Flegrei? «Il Golfo di Baja e la sua collina a mezzo anfiteatro, tanto rinomata presso i Romani per essere il luogo più voluttuoso d'Italia è come quelle vecchie bellezze che, su un volto tutto avvizzito, lasciano ancora indovinare, attraverso le rughe, le tracce della loro antica grazia; non è più di una collina coperta di boschi e di casupole che si specchia in un mare sempre limpido e calmo»; e, più avanti, dopo aver precisato che sia lui che i suoi amici erano rientrati «pienamente soddisfatti della loro giornata», aggiunge: «Comunque, per non fare la parte del ciarlatano nei vostri confronti, devo anche confessare che tutti i supremi piaceri che avevo assaporato erano molto più nella fantasia che nella realtà; buona parte dei soggetti menzionati in questa mia fedele relazione (si tratta delle antichità di cui de Brosses ha citato i nomi) sarebbero un po' insipidi per chi non avesse letto la gazzetta del tempo di Catilina; ma così, sono deliziosi per reminescenza. Addison ci ha dato una descrizione esatta e corrispondente di tutta la costa, tratta da Silius Italicus. Per non essere da meno, io voglio farvela secondo Virgilio».

Faccia a faccia con l'antichità
Questi due testi, soprattutto se li si paragona alle pagine che de Brosses dedica a Ercolano, riassumono perfettamente l'immagine che i nostri viaggiatori si fecero allora delle antichità dei campi Flegrei: "esse assomigliano a vecchie bellezze» avvizzite, che lasciano tuttavia intravedere, attraverso le rughe, lo splendore di un tempo. Soprattutto, è chiara la confidenza: esse non interessano che «per reminescenza», vale a dire se le si reinserisce nel contesto delle origini antiche. E' possibile evocarle solo grazie al tramite di Silius Italicus o di Virgilio...
E' evidente allora che nella coscienza dei visitatori, se non nei dettagli del racconto, si oppongono da una parte la tradizionale passeggiata ai Campi Flegrei, pretesto di tutte le reminiscenze poetiche, in cui ciascuno sa in anticipo ciò che sta per vedere, in cui le rovine dei monumenti non sono altro che il supporto di una meditazione o di una fantasticheria, e, dall'altra, l'avventura archeologica di Ercolano e di Pompei, in cui il visitatore si sorprende di ciò che vede o di ciò che gli viene raccontato poiché non conosceva altro che le circostanze della loro distruzione grazie aìla famosa tragica lettera di Plinio. E là si scopre una antichità difficile da immaginare leggendo i libri: è «l'antichità faccia a faccia» di cui parlerà Stendhal. Si ricorderà qui il celebre testo dell'abate Barthélemy, autore del Viaggio del giovane Anacarsi: «Questi antichi di cui abbiamo pieni gli orecchi dai tempi del collegio e che siamo abituati a considerare come delle specie di entità letterarie, li vediamo rivivere con le preoccupazioni, i gusti, il ridicolo moderni».
Lo stesso ci racconta Goethe nelle sue lettere da Napoli. Siamo all'inizio del marzo 1787. Goethe arriva a Napoli una limpida giornata invernale, e la sua prima impressione è un vero e proprio abbagliamento: «per quanto si dica, per quanto si racconti, per quanto si dipinga, non si riuscirà mai a rendere la bellezza di Napoli» (Goethe evidentemente pensa soprattutto al quadro, al paesaggio). E' il Vesuvio che desiderava vedere innanzitutto, ma il suo amico Von Waldeck organizza una visita ai Campi Flegrei: visita classica, traversata in barca fino a Pozzuoli, carrozza, camminata a piedi... E dopo la celebre, breve evocazione delle rovine di una incredibile opulenza. Goethe cita i fenomeni naturali, mette in contrasto gli spazi nudi e la straordinaria vegetazione che è riuscita a conquistare persino la bocca di un cratere. Oscilliamo tra i fenomeni della natura e gli eventi della storia ; bisognerebbe riflettere, ma sul momento nessuno ne è capace ; è preferibile lasciarsi andare alla felicità del momento presente.
Tutt'altra, sappiamo, è l'impressione provata da Goethe a Pompei, visitata l'11 di marzo. Pompei stupisce i visitatori per la sua piccolezza. Le celebri case dei gloriosi romani sono dunque queste, piccoli cubi che assomigliano a scatole di cartone! Anche le ville suburbane come la Villa di Dio-mede, anche i monumenti come il Tempio di Iside, tutto è piccolo e angusto. E' l'esatto contrario delle antichità dei Campi Flegrei, di cui si sottolineano sempre il lusso e l'opulenza. L'antiquario, a Pompei, trova tutto ciò che l'appassiona: la tecnica di costruzione degli antichi, gli innumerevoli oggetti della vita quotidiana, le strade pavimentate, le cucine, il vetro, la cui esistenza è motivo di sorpresa, i lavatoi, per non parlare dei dipinti, dei famosi papiri e delle discussioni sui metodi di scavo adottati dai Borboni. In realtà si avverte che gli scavi delle due città sono il terreno privilegiato di un nuovo tipo di sperimentazione: la sperimentazione dei metodi scientifici in un campo in cui era inimmaginabile poterli applicare: il criterio fondamentale è prima di tutto l'osservazione, che è anche la prima virtù per tutti gli appassionati di scienze della natura. A differenza dei Campi Flegrei, qui non ci troviamo più nell'ambito della cultura letteraria, dell'erudizione filologica che è del tutto disinteressata all'uso degli oggetti o alla natura dei monumenti, ma il tipo di approccio è quello delle scienze naturali.
In questa prospettiva, i Campi Flegrei suscitano meno interesse e curiosità delle nuove scoperte. Senza troppo schematizzare, si può dire che le diverse attitudini che mostrano i nostri viaggiatori dinanzi ai Campi Flegrei, da una parte, e alle città vesuviane, dall'altra, riflettono chiaramente la ben nota opposizione che si manifesta verso la metà del secolo nell'Europa dei Lumi, in particolare in Francia, tra i «letterati» e gli «antiquari». I primi, nutriti dai testi, cercano di comprendere la nascita dei principali capolavori dell'umanità; l'importante per loro è di formare il nostro gusto che, come allora ebbe a scrivere Montesquieu, «non è altro che il vantaggio di scoprire con raffinatezza e tempestività la misura del piacere che ogni cosa deve dare agli uomini»; la storia per loro è una lunga sequenza di momenti di grandezza e di declino che bisogna saper leggere negli storici antichi. Tutto deriva dunque dai testi.

La storia dell'arte
Come Ercolano e Pompei, anche Paestum, di recente scoperta, offre uno smisurato terreno di discussione agli specialisti e, particolarmente in questo caso, a tutti coloro che, lettori ammirati di Vitruvio, si interessano alla nascita e alle forme dell'architettura antica. Si discute, ci si stupisce (rammentiamo le reazioiu di Winckelmann e di Piranesi), si cerca di comprendere ciò che significano nell'evoluzione delle forme queste colonne colonne senza base, così austere, così diverse dall'immagine tradizionale dell'arte greca. Anche in questo caso le lettere di Goethe forniscono un'eccellente testimonianza.
La prima impressione è di stupore, e queste colonne pesanti e coniche sono sgradevoli e fanno paura. Ma continua Goethe, in linea con Winckelmann: che ci si sforzi di ricordare le tappe della storia dell'arte, che si tenga a mente l'evolversi del «saper fare» umano, e allora tutto cambia: si è felici di aver scoperto i resti così ben conservati di tempi tanto remoti.

Il fascino delle rovine
Con Goethe siamo più o meno a cinquanta anni dallo studio di De Brosses. Le circostanze e i luoghi visitati non sono più gli stessi, i personaggi sono diversi, ma le impressioni di fondo restano esattamente le stesse. Diversamente dalla visita alla recenti scoperte, che sorprendono, pongono problemi, suscitano interesse, polemiche, i campi Flegrei rappresentano il luogo di una bella passeggiata in cui da tempo tutto è stato visto, raccontato, dipinto.
L'importante è ripetere, con Marziale, che anche se dedichiamo mille versi agli elogi di Baia, i nostri elogi non saranno mai abbastanza degni di Baia. Ciò che ci interessa è la barca che ci fa attraversare lentamente questo golfo affascinante, e vedere non «questi tristi ruderi nei quali non si rinviene più la minima traccia del loro antico splendore», ma, come scrive l'abate Richard, ancora «questi palazzi in rovina in cui la magnificenza romana si mostra in tutta la sua ricchezza, i tanti edifici pubblici dei quali ce n'è qualcuno ancora intatto, la bellezza del clima, le ricchezze della natura. Ecco il vago e facile lirismo che suscitano le antichità flegree.
Per concludere, vorrei sottoporre alla vostra attenzione due esempi che mi sembrano abbastanza significativi. Ho avuto già modo di citare i nomi dell'abate Barthelemy e dell'abate Saint-Non.
Del primo conosciamo Le lettere dall'Italia, indirizzate a Caylus in gran parte da Roma, e alcune da Napoli. Nelle sue lettere troviamo una lunga digressione sulla scoperta di Paestum e lunghi commenti sugli scavi d'Ercolano e di Pompei. Quanto ai Campi Flegrei si accontenta di rispondere a una domanda di Caylus sulla pianta del tempio di Serapide a Pozzuoli: senza dubbio è questa la sola antichità dei Campi Flegrei che davvero interessa un antiquario come Caylus.
In Saint-Non, i dintorni di Napoli formano il contenuto del secondo volume del Viaggio Pittoresco; i primi tre capitoli sono dedicati alle città vesuviane, il quarto ai Campi Flegrei. Gran parte di questo capitolo evoca le «curiosità naturali» (Solfatara, Grotta del Cane, Lago Averne, Monte Nuovo, le stanze per i bagni di vapore, le strade di pozzolana, etc.). La prima «antichità» descritta con le vedute e una pianta è il tempio di Serapide: «L'interesse, e la grande eccentricità di questo monumento ci hanno spinti a offrirne molte vedute e una pianta geometrica, corredate da una ricostruzione del tempio». Quanto alle altre 'antichità' (anfiteatro di Pozzuoli, Tempio di Mercurio, di Venere, di Diana a Baia, anfiteatro di Miseno e Piscina Mirabilis), Saint-Non le descrive rapidamente, include delle vedute e dedica poi una tavola finale all'anfiteatro di Miseno, alla Piscina mirabilis e a poche altre costruzioni,
Tali ammassi di informi rovine in una cornice meravigliosa rendono arduo il compito dei disegnatori e spesso vanificano i loro sforzi. Saint-Non, filologo coscienzioso e accurato, si rende perfettamente conto del problema. Ma, tutto sommato, poco importa. Tanto per cominciare, nella zona dei Campi Flegrei, i monumenti e luoghi famosi non mancano, e ciò che al lettore bisogna mostrare sono questi enormi volumi con soffitto a volte, su un fondo di mare, con la vegetazione lussureggiante che cresce sulle crepe. E poi, a dire il vero, i Campi Flegrei, dalla tomba di Virgilio all'Antro della Sibilla, sono meno l'oggetto di una visita che il luogo di un pellegrinaggio. Sì, Goethe l'aveva detto meglio di chiunque altro: non è luogo in cui pensare e meditare: basta il solo spettacolo che avete dinanzi per rinviarvi incessantemente dai drammi della natura a quelli della storia.

“il manifesto”, domenica 29 settembre 1985




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