31.3.15

Americanata. Una novella dal "Decameroncino" di Luigi Capuana

Il "Decameroncino" è una raccolta di novelle, ispirata fin nel titolo dall'esempio del Boccaccio, che Luigi Capuana pubblicò nel 1901. Le dieci novelle (più una conclusione) si fingono raccontate, una per giornata, nel salotto di una contessa da parte di uno spiritoso ottuagenario, il dottor Maggioli. Ma Capuana non sceglie come tema principale burle o intrighi amorosi; mostra piuttosto attenzione per i fenomeni dello spiritismo e per i progressi della scienza. L'atteggiamento, come si vede anche in questo che è il primo dei racconti, è piuttosto disincantato. (S:L.L.) 

– Come! – esclamò il dottore – non sapevate che i denti, composti della stessa sostanza dei capelli straordinariamente indurita, potrebbero dirsi peli della bocca? Ma sono tutt'uno. Ne ha fatto la triste esperienza un mio povero amico di Boston. Quand'ero in America, avevo stretto amicizia con un giovane chimico, yankee puro sangue, che sognava prodigiose scoperte per arricchirsi e poter sposare la cara ragazza del suo cuore.
«Un dentifricio insuperabile! Un'acqua rigeneratrice dei capelli! C'è da cavarne milioni in pochi anni» egli diceva, spalancando avidamente gli occhi, quasi i milioni fossero là, davanti a lui, e qualcuno gl'impedisse di stendere la mano per afferrarli.
«Cercate qualche cosa di piú utile» gli consigliavo io.
«Niente è piú utile di un preparato che dia ai denti di una bella signora la pura bianchezza dell'avorio! Niente è piú utile di un'acqua che arricchisca il tesoro dei capelli, l'aureola d'oro di una graziosa testa femminile!».
«Ci sono tanti dentifrici! Ci sono tante acque rigeneratrici!».
«Imposture di ciarlatani!».
«Arricchiscono ugualmente!».
«Ma non onestamente!».
Un chimico americano che aveva degli scrupoli! Era giovine, e bisognava compatirlo. Cercava, notte e giorno, chiuso nel piccolo laboratorio, dal quale usciva soltanto per fare una breve visita alla sua ragazza, cucitora di bianco.
Bionda, alta, sottile, bella come tutte le americane quando... sono belle, miss Mary Stybel era afflitta di non possedere un candore di denti ideale, né una capellatura abbondante. Piú volte il mio amico l'aveva sorpresa con le lagrime agli occhi perché i finissimi capelli dorati le venivano via, strappati facilmente dal pettine quantunque usato con straordinaria delicatezza.
«Se continuerà cosí...» singhiozzava la poverina.
E quei denti che si ostinavano a rimanere giallicci non ostante le polveri, le acque d'ogni sorta da lei adoprate per renderli bianchi!
Miglior regalo di nozze non poteva farle il fidanzato che recarle un dentifricio, un'acqua rigeneratrice di sua invenzione, efficacissimi! A che serviva la scienza, se non aiutava a trovarli? Ed egli cercava, con l'instancabile pazienza degli inventori che si sentono destinati a riuscire. Di tanto in tanto, lo interrogavo. Mi faceva pena. Dimagriva, aveva gli occhi cerchiati da lividure prodotte dalle veglie prolungate e dall'ansietà degli esperimenti.
«A che siamo?».
«Niente ancora! Ma credo di trovarmi su la buona strada».
«Non vi sciupate, caro amico».
«O trovare, o morire».
Era il suo motto, e lo aveva fatto incidere su una targa di ottone affissa all'uscio del laboratorio.
In verità, pensavo che «morire» era piú facile di «trovare» specialmente quando si cerca l'impossibile. Ma io sono stato sempre un po' scettico anche in gioventú, e forse per questo non sono arrivato a fare niente di buono. Pazienza ci vuole – ora lo capisco – cocciutaggine ci vuole per approdare a qualche cosa. E Lost Loiterer, contrariamente a quel che indicava il suo cognome – significa: infingardo –aveva cocciutaggine e pazienza assai più che non gliene occorresse.
Infatti!
Una mattina lo vidi entrare in camera mia, raggiante di gioia, trasfigurato: «Eureka! Eureka!».
Fui stupito di non vederlo arrivare nudo, come dicono che accadesse ad Archimede, o almeno in mutande.
«Quando avrete bisogno di mille dollari... Sarò milionario fra due anni!».
«Mi contenterei di cinquecento ora», risposi ridendo.
La mia incredulità l'offese.
«Voi sapete che io non sono un fatuo – replicò. – Ho la prova assoluta. La mia dentifricia ha imbianchito, come latte, un bastone di ebano; la mia rigeneratrice ha reso vellosa una vecchia valigia di cuoio su cui l'ho adoprata un solo mese di seguito!».
«Rallegramenti e felicitazioni!... E figli maschi!» stavo per soggiungere; ma non volli essere crudele.
Ah! Da quel giorno appresi che è stolto dubitare della scienza, della chimica soprattutto.
«E la vostra fidanzata lo sa?» gli domandai. «Le ho già portato due boccette dei miei preparati. Guardate qui. Non scorgete nulla?». E indicava le gote.
«Nulla».
«Credevo che i suoi baci, cosí forti, cosí lunghi, avessero lasciato uno stampo».
Ironia della sorte!
Quel che doveva produrre la felicità domestica, la ricchezza di Lost Loiterer fu invece (pare impossibile!) la sua irreparabile disgrazia.
In certi momenti penso che la natura è vendicativa contro coloro che le rubano qualcuno dei suoi segreti processi.
La bella miss Mary Stybel era un po' stordita, leggera.
Nella fretta di provare i preparati del suo fidanzato, adoprò sbadatamente l'acqua dentifricia pei capelli, e la rigeneratrice per pulirsi i denti!
L'effetto fu disastrosissimo.
Non sarebbe stato gran male se si fosse trattato dei soli capelli. I capelli bianchi sono irresistibili quando ornano una bella testa rosea, giovanile, freschissima... E poi c'è sempre il rimedio di adoprare una tintura per dar loro il colore che si desidera. Quante brune non diventano bionde da un giorno all'altro e viceversa?
Ma sentir crescere, crescere i denti; e i canini conficcarsi come chiodi nel palato e nelle mascelle; e le molari crescere crescere e tener spalancata la bocca, facendo forza per spingere in su e in giú, come leve, poggiate l'una su l'altra!...
Fu il caso dell'infelice sartina, che commosse Boston e tutta l'America. Niente poté arrestare quell'impeto di crescenza destinato ai suoi biondi capelli e infuso dall'acqua rigeneratrice, per effetto dello sbaglio, ai suoi denti! Bisognò strapparglieli tutti, con inauditi tormenti. Una dentiera legata in oro, perfettissimo lavoro americano, le fu regalata con pubblica sottoscrizione; ma non poté mai consolarla della perdita dei denti veri, quantunque giallicci.
E Lost Loiterer? Non sopportò tanta sventura; e si fece saltar le cervella, senza lasciare la ricetta dei due mirabili trovati. 
Non vi fate ingannare dalla réclame dei profumieri che oggi spacciano in America e in Europa l'Acqua dentifricia Loiterer e la Rigeneratrice Loiterer. Sono indegne mistificazioni! Il mio povero amico ne ha portato via con sé il prezioso segreto, nell'altro mondo! –

Decameroncino, Catania, Giannotta, 1901

Champagne di guerra. La vendemmia del 14 e le rovine di Reims (Robbie Robinson)

Le uve mature avevano un aspetto magnifico. La vendemmia del 1914 nella Champagne si profilava memorabile; grandi vini in prospettiva, sulla scia della celebre vendemmia del 1911. Mentre trascorreva agosto, cantine e attrezzature diventavano immacolate, il tempo era caldo e soleggiato, allegria e grandi attese riempivano l’aria. Anche se i tedeschi avevano dichiarato guerra all’inizio di agosto, non sembrava molto più di un piccolo screzio che si sarebbe presto concluso, si sperava entro Natale. Ma ai primi di settembre il rumore dei soldati invasori che marciavano sugli antichi, levigati ciottoli di Reims infranse le speranze e cambiò per sempre il mondo.
La promessa di bollicine di qualità svanì quando i giovani partirono per la guerra, i bambini furono spediti in zone più sicure, cavalli e veicoli motorizzati furono requisiti per lo sforzo bellico e le vigne diventarono una terra di nessuno tra le opposte prime linee. Ma gli Champenois sono gente dura, che lavora sodo ed è avvezza a rivoluzioni, invasori e rivolte. Essi venerano il ciclo stagionale dell’uva: è la loro linfa, la loro passione.
Nella seconda metà di settembre l’uva chiedeva di essere raccolta. I vecchi dimenticarono la pensione e le donne si raccolsero con i figli maggiori, rimasti per dare un mano. Vendemmiarono per giorni sotto il fuoco irregolare di truppe disorganizzate. Raccogliere le uve di notte era più sicuro, ma anche molto lento e faticoso. I grappoli maturi erano perfetti. Le uve erano pigiate e la fermentazione iniziava ai margini dei vigneti, perché era difficile e raro trovare benzina e autocarri, per non parlare della limitata libertà di movimento. Le prime fasi della guerra minacciavano l’annata, i mezzi di sussistenza degli Champenois e la loro stessa vita.
Nel corso di quella prima vendemmia e nei successivi, lunghi anni di guerra, le cantine di calcare divennero santuari: la chiesa per le funzioni settimanali, l’ospedale per feriti e lavoratori malati, la scuola per i bambini e la casa dove cucinare, dormire e tramare contro i tedeschi. Tutto si svolgeva tra le bottiglie in affinamento, dalla nascita alla morte. La grandiosa cattedrale di Reims fu quasi rasa al suolo. Il novanta per cento della città fu distrutto nei mille e più giorni di bombardamento nel corso della Grande Guerra. I bombardamenti continuarono anche quando la cattedrale fu usata come ospedale per i soldati tedeschi feriti.
Maurice Pol Roger della celebre maison di Champagne Pol Roger era sindaco di Epernay quando i tedeschi marciarono nella sua cittadina. Minacciarono di bruciarla e di giustiziarlo pubblicamente se non avesse accettato le loro richieste di denaro e altro. Egli tenne duro con coraggio e tenacia, organizzando la popolazione per vendemmiare le uve e mantenere in attività le cantine. La sera prima dell’occupazione tedesca di Epernay, Maurice Pol Roger scoprì con sgomento che tutti i fondi municipali erano stati trafugati dagli alti dirigenti municipali e dal capo della polizia, che avevano abbandonato il loro posto ed erano fuggiti. Si affrettò allora a emettere buoni che furono subito stampati e garantiti dalla municipalità. I locali li utilizzarono come moneta temporanea sostenuta dalla garanzia personale di Maurice di onorarli.
La vendemmia del 1914 diede grandi Champagne, che sono sempre stati ricordati con solenne venerazione. Le uve furono raccolte e lavorate sotto i bombardamenti, in mezzo allo sfacelo, all’odore della polvere da sparo e nell’ostilità verso gli invasori. Circa venti bambini e numerose donne persero la vita raccogliendo le uve. Maurice Pol Roger ripeté più volte che «nella cuvée del ’14 scorre il sangue della Francia».
Se il raccolto di quell’anno fu inferiore alla media a causa dei combattimenti, Maurice ebbe una grande quantità di uva: poiché non era possibile vendemmiare tutto il raccolto e se ne poteva trasformare un’esigua quantità in vino, a causa delle restrizioni belliche, Maurice aiutò i produttori a sopravvivere comprando le uve che non potevano usare, sicché le sue cantine traboccavano di vino del ’14, con cui produsse i migliori Champagne dell’annata: il trascorrere del tempo lo ha dimostrato.
Nel corso degli anni, il Pol Roger ’14 diventò il preferito di Maurice, che lo stappò sempre nelle occasioni speciali in tutti i novant’anni della sua vita. Il vino era sostenuto da una spalla acida tanto imponente da far pensare che potesse durare in eterno. In effetti, nel 1944 egli incaricò il cantiniere di sboccare anticipatamente numerose bottiglie del vino per essere certo di disporre sempre di una bottiglia matura del 1914.
Serena Sutcliffe, a capo dell’International Wine Department di Sotheby’s, ha assaggiato di recente una bottiglia di Pol Roger 1914 sboccata nel 1944 e ha così annotato le sue sensazioni: «Il colore era un paglierino scarico con riflessi verdolini, non il broccato dorato che si osserva in molti vecchi Champagne. Si coglievano sfumature di miele, ma un miele al limite della melassa data l’età, unite a un frutto all’apparenza molto giovane. Poi si percepiva un bouquet incredibile, sfaccettato, che si può solo definire finemente dolce, assolutamente incantevole: quella nota di torrone, caramella e caffè che i francesi definiscono torrefaction. In genere, quando si avverte un sentore caramellato, si ha di fronte un vino piuttosto vecchio, ma la cosa davvero stupefacente di questo vino era che nel bicchiere si svolgeva per così dire una battaglia tra giovinezza e maturità, e quella battaglia sul palato tra giovane e vecchio lo rendeva straordinariamente affascinante. Si proponeva con incredibile giovinezza, freschezza e vivacità, ma era sicuramente, considerati i suoi aromi e la sua profondità, un vino con vari decenni sulle spalle. Era persistente in modo impensabile, incancellabile: il bouquet si soffermava nelle narici, al pari del retrogusto – dopo aver inghiottito, il sapore restava sul palato per un periodo lunghissimo: un segno più che certo di qualità in qualunque vino. Considerato nel contesto del mio lavoro, il Pol Roger 1914 è senza dubbio una delle grandi esperienze nonché una pietra miliare della mia vita».


Da Scritto e Mangiato – Cestini Modello, Supplemento al “manifesto”, dicembre 2006

Il dì dell'Ascensione. Una poesia di Gianni Rodari


Salina vista da Lipari
Il di dell'Ascensione
salivo in ascensor
e per combinazione
trovo il commendator.

Commendator, lei sale?
No, grazie, pepe sol.
Lo sale mi fa male
e l'insalata duol.

S'accomodi in salotto
così le spiegherò
perché non havvi al Lotto
la ruota di Salò.

Se a lei non piace il sale
né io son salottier:
siederò sulle scale
da prode condottier.

O conte di Salina,
la spada tua dov'è?
L'ho persa alla marina,
non chiedermi perché.

Non chiedermi percome,
non lo potrei contar:
lontano, senza nome
mi voglio rovinar.


Da Il cavallo saggio, Einaudi, 2011

Dio e la roba. Mercanti fiorentini fra Medioevo e Rinascimento (Maria Corti)


Bonaccorso Pitti
Leggendo Mercanti scrittori, Ricordi nella Firenze tra Medioevo e Rinascimento, a cura di Vittore Branca (Rusconi, pagg. 603, lire 42.000) si ha come prima suggestione quella di confrontare queste più che suggestive memorie del passato con quelle, esistenti o immaginabili, di grandi industriali, managers, finanzieri d'oggi: metti un Agnelli, un Rusca, uno Jacocca. Agli uni e agli altri va dato come sfondo un periodo di crisi di ideali e poteri politici, di trasformazione radicale dell'economia e del rapporto fra privato e pubblico. Nello stesso tempo essi hanno in comune, a distanza di secoli, l'incontenibile desiderio di possedere, il prodigioso interesse verso la roba, come si diceva nel Trecento, e le regole per farla fruttare: il fiorino, moneta mediterranea ed europea, giocava il ruolo del dollaro e un giorno avrebbe dovuto fare i conti col ducato, moneta veneziana; magari come il dollaro con il marco. Ancora in comune può esserci una più o meno esplicita intenzione celebrativa della propria casata, fondatrice, attraverso vari membri e generazioni, di un impero economico.
Eppure c' è qualcosa di radicalmente diverso, che fa leggere col più grande interesse le pagine dei borghesi mercatanti medievali e rinascimentali anche ai non addetti ai lavori: è il sottile dissidio affiorante fra l'etica e pratica mercantile da un lato e l'etica religiosa dall' altro. Al proposito, nella sua vasta e acuta introduzione Branca, il maggiore esperto italiano in materia di mercanti scrittori, protagonisti e destinatari del Decameron, parla di una divaricazione, o meglio un bilicamento che si ripete assiduamente tra la fine del Tre e i primi del Quattrocento in vari di questi scrittori mercanti, come nel Dati, in Lapo Mazzei e nel Datini, il più poderoso e avventurato mercatante del tempo (Al nome di Dio e del guadagno era la sua impresa). Alcuni, come il mirabile Giovanni di Pagolo Morelli, con intelligenza del vivere sostituiscono al dissidio un equilibrio, anche se raggiunto con fatica; altri non ce la fanno e magari interrompono le memorie.
Tre testi sono editi da Branca per intero: il Libro di buoni costumi di Paolo da Certaldo (seconda metà del Trecento), i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli (1371-1444), i Ricordi di Bonaccorso Pitti (1354-1432). Segue una antologia delle memorie di Domenico Lenzi, Donato Velluti, Goro Dati, Francesco Datini, Lapo Niccolini, Bernardo Machiavelli.
I tre testi integralmente riprodotti sono dovuti a tre personalità fra loro molto diverse, e diversamente atteggiate di fronte alla vita e alla scrittura. Né si trascuri il fatto che la stessa situazione politico-economica si evolve a Firenze con gli anni: ascesa ed espansione europea delle compagnie nel primo Trecento, successiva sostituzione dei banchi e delle holdings dalle operazioni meno avventurose, ma più calcolate ai fini di un nuovo capitalismo teso al governo della cosa pubblica. Paolo da Certaldo, imbevuto di moralismo didattico e gnomico, uomo senza dissipazioni, esperto di ragion di mercatura e ragion di famiglia, offre una serie di precetti spesso grevi, dove vita pubblica e privata sono regolate da rigide codificazioni. Inarrivabili alcuni giudizi: “Guàrdati non t'innamori di femina niuna se non è tua moglie; e pensa che tutte sono femine, e tutte sono fatte a uno modo: e però non porre più amore a l'una ch' a l'altra, ché troppo è grande pericolo”. Altro livello umano e artistico raggiungono i Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli: nella grande carrellata di uomini e cose, di fatti politici alternati a vicende familiari ed economiche si incontrano sia le disavventure sufficienti ad evitare la piatta uniformità del benessere, sia quel granello di originalità che mantiene le memorie in stato di grazia. Fra le disavventure la morte di familiari, la cui descrizione può assumere la pacata naturalezza di un evento quotidiano: “Sabato notte, a ore sette e mezzo, vegniente la domenica, a dì diciessette di settembre 1401, mi nacque una fanciulla della Caterina mia donna. Fecila battezzare a dì detto in Santo Giovanni: posile nome Telda e Margherita... Passò di questa vita a migliore a dì cinque d'ottobre anno Domini 1401, a ore sette: fecila riporre dove il suo fratellino, in Santa Trinità, nella sepoltura delli Spini. Idio la benedica”.
Ma la morte può restituirci il genio tremante e atterrito di un padre, quando a morire è il figlio adulto Alberto. Qui si leggono alcune fra le pagine più intense dei Ricordi, un monologo dove si sommano il cupo rimorso paterno di aver fatto lavorare a bottega il figlio tanto da sottrargli la gioia della giovinezza, e un conseguente senso di inutilità degli affari, della roba, della vita tutta: “Tu non volesti mai dalgli un'ora di riposo; tu non gli mostrasti mai un buon viso; tu nollo baciasti mai una volta che buon gli paresse... E in questi iscuri pensieri attristandomi, guardando verso monte Morello mi stava. E stando così, si diviò il mio pensiero ad Idio: e considerando la vita de' servi di Dio, mi venia mezzo pensiero d'ire la sera a starmi con que' romiti che abitano nel monte”.
Notevole la descrizione della peste del 1348, quando in una ora si vedea ridere e motteggiare il brigante (=membro di una brigata) e nell'ora medesima il vedevi morire; e suggestivi i consigli sull'affiancare la lettura di Virgilio, Seneca, Boezio alla mercatura, in quanto dai classici ti seguirà gran virtù nel tuo intelletto. E qui merita riflettere su quel connubio cultura-attività pratica, non sempre visibile negli operatori economici odierni. Altra natura, altro tipo di carica memorativa nei Ricordi di Bonaccorso Pitti, e ormai quasi altro genere letterario: una raccolta di dati memoriali che da libro di famiglia sta sfociando in autobiografia. “Nel 1375 essendo io giovane e sanza alcuno avviamento e desiderando d'andare per lo mondo a cercare la ventura, m'accompagnai con Matteo de lo Scielto Tinghi, il quale era mercatante e grande giucatore”, due passioni a cui Bonaccorso dovrà ingegnosi piaceri del vivere, inseriti fra le vicende di membro di una così illustre casata: eccolo vagare per l'Europa, da Zagabria a Buda (allora separata da Pest), a Londra, ad Avignone, spesso dedito al gioco d'azzardo o alle donne. Nel 1377, innamoratosi di una dama sposata, che per metterlo scherzosamente alla prova gli intima di andare a Roma, monta a cavallo e via, in azzardoso viaggio, sino a Roma e ritorno.
Bonaccorso, come bene illustra Branca, fu anche abile uomo politico e ambasciatore, esperto di poesia dantesca e amico di Coluccio Salutati, a cui procurava libri. Probabilmente iniziò la stesura delle memorie per offrire una sorta di manifesto familiare. Scrive Branca: Impostati su questa chiara intenzione apologetico-esaltatoria della propria casata, su questa spiegata candidatura dei Pitti all' oligarchia delle grandi famiglie, i ricordi di Bonaccorso spaziano, al di là delle linee canoniche di questi libri, alle volte con felice estro narrativo su realtà varie e in prospettive diverse. Un mercante aristocratico, fiero, un po' snob. Leggendo la ricca serie di libri di ricordi del Tre e Quattrocento si ha modo di constatare che essi sono nati, col loro scintillio di spirito, all' interno di una civiltà che faceva dono ai suoi praticanti di una conoscenza congenita del ben vivere e di un agio del ben costruire. E' il genio stesso di una civiltà che permea questi libri; e l'amarezza o la serenità dei loro autori non nasce da singoli eventi, ma dal fatto solo di essere mercatanti all' interno di questa civiltà.


“la Repubblica”, 16 gennaio 1987  

30.3.15

La poesia del lunedì. Pietro Ingrao (Lenola, 30 marzo 2015)


Statue
E ora lente
si riempiono, si nutrono
della pioggia,
figlie della solitudine:

assenti al mondo,
mutilate spoglie
fuggite al loro tempo;

concavi gli occhi
uguali, assorti
sulla vita dispersa.

da Variazioni serali, Il Saggiatore 2000


27.3.15

"Posto che i versi...". Una poesia di Tommaso Lisi

Posto che i versi siano belli, a cosa
pensi le serviranno?
Non puoi donare profumi a una rosa.

da Adolescenza, Club degli Autori, 1965

26.3.15

Aprile. Una poesia di Leonardo Sciascia

Sto a far camorra sulle cose, seduto
al sole d'aprile che in me torna
a un suo azzardo di risentimenti e di inganni.
Guardo accendersi il gioco dei ragazzi,
una rissa leggera che s'incanta
di luce, cerca un suo cuore di musica ;
forse un suo cuore di pena.
Il paese, non lontano, sembra affondare
nel verde : di là da questo gioco
pieno di voci, è solo un paese di silenzio.

da La Sicilia il suo cuore

La festa della Madonna in Sicilia (Cesare Genovese)

Era uso,in Sicilia, ringraziare la Madonna dell'Aiuto, a raccolto avvenuto. I preparativi per la festa erano opera di un comitato che predisponeva le modalità della processione e degli intrattenimenti. Giorni prima il paese era illuminato da migliaia di lampadine, ad accensione intermittente, colorate. Le baracche, illuminate da lampade ad acetilene, esponevano in vendita, torroni, semi di zucca, caramelle fatte seduta stante e zucchero filato. I mulattieri passavano di casa in casa a raccogliere i doni promessi in momenti di difficoltà e in occasione di malattie,consistente in una certa quantità di frumento.
La sera, dopo che la statua della Patrona era stata riportata in chiesa, prima del concerto di una rinomata banda musicale, c'era il lancio dei palloni. Erano costruzioni barocche in cartavelina; sotto, legato con funicelle, c'era un coperchio di lucido per scarpe recante un batuffolo di cotone intriso di petrolio. All'accensione l'aria riscaldata faceva sollevare il tutto, mentre la gente tratteneva il fiato. Succedeva che qualche pallone andasse ad impigliarsi nei fili elettrici, nelle grondaie di un palazzo.
Allora tutto si risolveva in un'allegra fiammata. Col vento favorevole, invece, il ciclo si riempiva di puntini luminosi che si perdevano chissà dove.

da I minareti di Kairouan, Cultura Duemila, 1994

Nientemeno che un romanzo. La Via Ripetta di Clara Sereni (S.L.L.)

Ci sono libri che sfidano il lettore, proponendogli diversi possibili livelli di lettura. Non è frutto del caso: l'autore consapevole del mestiere usa mezzi atti a concedere al lettore questa libertà interpretativa e cooperativa, oppure, per condurlo obbligatamente dove lui vuole, sceglie una strada opposta. Questo Via Ripetta 155 di Clara Sereni, la scrittrice perugina d'elezione che è stata vicesindaco nel capoluogo umbro, uscito a gennaio per Giunti, rientra nella categoria delle “opere aperte”, per cui può accadere che si cominci a leggere un libro e si finisca con il leggerne un altro.
La fascetta parla di un romanzo “tra autobiografia e diario di una generazione”, sottolineando la relazione, non necessariamente armoniosa tra individuale e collettivo, tra “personale e politico”, come si diceva una volta. E tuttavia nel libro non c'è propriamente autobiografia, visto che è assente la monumentalità che caratterizza il genere, il progetto cioè di sottrarre il vissuto al casuale e all'effimero, ricomponendolo e fermandolo in un disegno dai contorni definiti. E non c'è diario: manca il lirismo che fa quasi sempre capolino in una scrittura che si finge quotidiana. Tra il “continuo” della biografia e il “discreto” del diario Sereni opta per la “tranche de vie” dell'antico naturalismo, con la mediazione del racconto cinematografico novecentesco.
Il ritaglio di vita esposto al lettore riguarda gli anni 1968-1977; l'ambiente è la gioventù intellettuale del lungo Sessantotto italiano, denso di eventi e progetti, di assalti e contraccolpi. Il testo, in prima persona, riguarda esperienze vissute, fa nomi e cognomi, rievoca momenti e situazioni reali, e tuttavia non è solo o soprattutto libro di memorie, è nientemeno che un romanzo. Romanzo-romanzo intendo, capace di sussumere contenuti e linguaggi da altre forme di comunicazione sottomettendoli alle esigenze del genere.
Che razza di romanzo è Via Ripetta? Vediamo la trama. Per affermare un suo sogno d'arte e d'amore, la giovanissima protagonista, figlia di una borghesia ebraica che vanta antico progressismo (il padre è senatore nel partito d'opposizione) ma è ora chiusa in ristretti orizzonti, va a vivere per suo conto in una vecchia abitazione in pessimo stato di conservazione, nel cuore della grande città. Mentre coltiva come progetto di vita la passione della scrittura, per guadagnarsi il pane quotidiano canta nelle feste popolari, non senza coinvolgimento ma senza grande talento. Per arrotondare funge anche da segretaria per una associazione di cineasti e, all'occasione, da efficiente dattilografa bilingue. E intanto (beata gioventù!) trova il tempo per la politica, manifestazioni, assemblee, contestazioni: una vita quotidiana un po' intasata e con tanta promiscuità, anche sessuale. La casa, con l'andirivieni e con la fame che la caratterizza, segnala un desiderio di comunità che difficilmente può giungere ad effetto e per di più la protagonista cerca l'amore, con tutte le difficoltà del caso. Via Ripetta è dunque un “romanzo di formazione”, ed è “centrista” come il Wilhelm Meister goethiano: il desiderio non viene né condannato né represso, ma dovrà prima o poi conciliarsi con il principio di realtà. La ragazza, alla fine, troverà un modus vivendi con il padre e la famiglia di origine, al punto di diventarne punto di riferimento e di equilibrio dopo la morte di costui. Così, dopo un sogno d'amore impossibile, vivrà una storia finalmente matura e costruirà una coppia senza matrimonio. Il romanzo si chiude con il trasloco dalla mini-comune di via Ripetta verso l'appartamento ereditato in un palazzo nuovo. Il lieto fine non manca anche nel caso in cui si metta in primo piano l'uccisione simbolica di quel padre che giudica un romanzo la psicanalisi, e poi quella del maturo regista di cui la giovane s'è infatuata e che ne costituisce il doppio. Alla fine di un percorso doloroso il rapporto con il passato apparirà meno traumatico e la nevrosi più controllabile.
Come “romanzo politico-sociale”, il libro racconta una delusione, se non un fallimento. L'assalto al cielo della generazione del Sessantotto si conclude con una ritirata: l'idea della fratellanza universale, cui il turbinoso agitarsi dei frequentatori di via Ripetta sembra tendere, non si realizza, lo Stato non si abbatte e non si cambia ma continua ad esprimere la sua forza ottusa, il ricatto del terrorismo funziona e il “gruppo” scoppia come una coppia: la tensione esplode nella divisione del modesto raccolto di un ciliegio, che diventa una guerra.
Leggendo il finale di Via Ripetta mi sono venuti in mente Germinal di Zola e Il clandestino di Tobino; raccontano, anch'essi, qualcosa che somiglia a una sconfitta. Nel libro di Tobino, sulla Resistenza, l'epigrafe in poesia recita: “Fu un amore, amici, /che doveva finire; / credemmo che gli uomini fossero santi, / i cattivi uccisi da noi.... / Con pena, con lunga ritrosia, / ci ricredemmo. / Rimane in noi il giglio di quell'amore”. In Germinal lo sciopero dei minatori fallisce, ma il giovane agitatore lascia la città mineraria convinto che la terra è “incinta” della forza operaia, la quale ben presto “esploderà alla luce”. Il giglio di Tobino è consolatorio, la “luce” di Zola messianica. Sereni è più prosaica: “Tutto era pronto per un nuovo passo in avanti. Con tutte le speranze e utopie ancora – colpevolmente – intatte”. Finale “riformista”, ma irriducibile: la lotta continua con altri mezzi.
Io ho preferito leggere Via Ripetta 155 come romanzo, privilegiando la costruzione rispetto alla testimonianza, ma anche chi segue il percorso inverso troverà soddisfazione: ci sono pagine che ben figurerebbero tra i documenti storici.
Resta una domanda: come fa Sereni a tenere dentro un libro tanta roba senza schiacciare il lettore? Donde viene la “leggerezza” di cui ragionano i critici? Ci vorrebbe un intero saggio per rispondere. Qui mi limiterò ai titoli dei capitoli: “candore” nell'approccio alla realtà, “ironia” nella rappresentazione. E un altro capitolo dedicherei all'arte della digressione: il dramma in poche righe della tossicodipendente Anna, il bozzetto caricaturale (Zavattini a Venezia), la commedia borghese (il pranzo di non-fidanzamento), la pantomima dei cinesi al festival di Cavriago e la tragedia del terrorismo che si fa farsa, proprio a via Ripetta. E c'è poi il nitore della scrittura, precisa, senza svolazzi e trucchi. I primi nomi che mi vengono in mente sono Calvino e Sciascia, subito dopo (dio mi perdoni!) Manzoni. Dipendesse da me metterei Sereni nel canone dei classici. Da viva. 

micropolis, febbraio 2015  

Il CREDO del Capitale (Paul Lafargue)

A gennaio, per “Il Ponte Editore”, è uscito il primo volume della collana “Classici”. Il libro raccoglie per la cura di Lanfranco Binni due operette di Paul Lafargue, Il diritto all'ozio e La religione del Capitale. L'autore è noto soprattutto come genero di Karl Marx, ma fu figura notevole, in proprio, del movimento socialista dell'ultimo Ottocento. Nel secondo dei due pamphlet, la lettura dei quali vivamente consiglio, c'è – a mo' di appendice, una sorta di parodia delle principali preghiere cristiane. Questo Credo oltre che pungente mi pare attualissimo. (S.L.L.)  
Credo nel Capitale che governa la materia e lo spirito;

Credo nel Profitto, suo figlio assolutamente legittimo, e nel Credito, lo Spirito Santo che procede da lui, insieme a lui adorato;

Credo nell'Oro e nell'Argento che, torturati nella Zecca, fusi nel crogiolo e coniati al bilanciere, ricompaiono nel mondo come Moneta legale e, ritenuti troppo pesanti, dopo aver circolato per tutta la terra, scendono nei sotterranei della Banca per resuscitare in forma di Carta-moneta;

Credo nella Rendita del cinque per cento, ma anche del quattro e del tre per cento, e all'autentica Quotazione dei valori;

Credo nel Grande Libro del Debito pubblico, che garantisce il Capitale dai rischi del commercio, dell'industria e dell'usura;

Credo nella Proprietà privata, frutto del lavoro altrui, e nella sua durata fino alla fine dei secoli;

Credo nella necessità della Miseria, che fornisce salariati ed è la madre del superlavoro;

Credo nell'Eternità del Salariato che libera il lavoratore dalle preoccupazioni della proprietà;

Credo nel Prolungamento della giornata di lavoro e nella Riduzione dei salari, e anche nella Falsificazione dei prodotti;

Credo nel dogma sacro «COMPRARE A BASSO PREZZO E VENDERE CARO», e credo ugualmente nei principi eterni della nostra santissima Chiesa, l'Economia politica ufficiale.


Amen.

L'intellettuale organico (Leonardo Sciascia)

Se il concetto di «intellettuale organico» significa - e ha significato - che l'intellettuale è «organico» rispetto a un partito politico, allora io sono l'intellettuale più «disorganico» o «anorganico» che possa esistere. Comunque, sono definizioni - organico, disorganico, inorganico - che mi irritano profondamente. Mi fanno pensare al concime. Al concime organico. E di sicuro il problema può essere riassunto da quest'analogia: l'intellettuale organico è una specie di concime per la pianta politica. Al limite, preferisco essere la pianta piuttosto che il concime che la fa crescere.

da La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Mondadori, 1979

Uno su mille (S.L.L.)


Certi "appannaggi" dei manager industriali o finanziari alla Marchionne o alla Profumo, più che regali, non sono incompatibili soltanto con un regime sociale democratico, basato sul primato politico del popolo basso che tende ad attenuare le disuguaglianze e i loro effetti, ma anche con un liberalismo davvero competitivo e meritocratico. Una competizione presuppone una distanza non eccessiva delle condizioni di partenza. Certi redditi, al contrario, non servono a premiare il meritevole, ma a creare accumulazioni i cui effetti durano generazioni e generazioni, smisuratamente avvantaggiando gli immeritevoli, favorendo una società di privilegi ereditari non dissimile da quelle dei regimi aristocratici e feudali. 
Si ha un bel dire che una qualche mobilità sociale è connaturata al sistema capitalistico, che c'è sempre qualcuno che dal basso emerge. "Uno su mille ce la fa" - canta la canzone, uno su mille appunto. La mobilità "meritocratica" cresce invece quando gli appannaggi regali non ci sono, quando si mettono limiti alle remunerazioni pubbliche e private, quando funzionano forti tasse nella eredità dei grandi patrimoni, quando per avere scuole pubbliche gratuite e di qualità o sistemi sanitari universali ed efficienti o per creare opportunità di impresa, si tosano i ricchi. 
Negli USA il massimo di mobilità si ebbe in tempi di "New deal" o di politiche rooseveltiane, che il liberismo americano spesso qualifica come "comuniste"; in Italia tra gli anni 60 e 90 del Novecento, in cui fortissimi erano i correttivi "pubblicisti" all'accentuarsi delle disuguaglianze sociali. Senza questi correttivi l'ascensore sociale si rompe e la competizione, quando c'è, è inevitabilmente limitata ai "figli di papà e di mammà".

Il cibo e il capitale. Intervista a Guido Viale (Paolo Calabrò)

Da “L'altra pagina”, un mensile dell'Alto Tevere umbro e toscano, riprendo ampi stralci da un'intervista dell'anno scorso a Guido Viale, utile a proporre alcuni punti di riflessione sui temi alimentari che saranno presto all'attenzione generale per via dell'EXPO milanese. (S.L.L.)
Aglio rosso di Sulmona
Guido Viale, leader nel ’68 della protesta studentesca ed ex-dirigente di Lotta continua, è membro del Comitato tecnico-scientifico dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’Ambiente (Ispra). Collabora con «Repubblica» e «il manifesto». Blog personale: http://www.guidoviale.it   Con lui abbiamo discusso della grave questione alimentare che affligge il pianeta.

Entriamo subito in argomento: oggi nel mondo c’è un problema alimentare?
«Beh certo, c’è da tantissimo tempo e mi pare che si stia aggravando piuttosto che alleggerirrsi. Il numero delle persone che soffrono la fame, secondo la Fao, è aumentato negli ultimi anni».

Ma è un problema che riguarda solo il cosiddetto “sud del mondo”, o anche il nord?
«Innanzitutto è sempre più difficile distinguere in maniera netta il sud dal nord, perché in molti Paesi emergenti del sud del mondo c’è ormai una classe dirigente e perfino un “embrione” di ceto medio che vive secondo gli standard occidentali, mentre nei Paesi che una volta costituivano il “primo mondo”, cioè il mondo occidentale capitalistico, esistono oggi sacche di miseria e di indigenza che sono anche peggiori di quelle che patiscono molte popolazioni del cosiddetto “terzo mondo”».

Com’è la situazione in Italia?
«In Italia, come in tutti i Paesi non solo occidentali, c’è uno spreco di cibo gigantesco: si calcola che fino a un terzo del cibo comprato finisca nella spazzatura. Non c’è ancora un problema di fame diffuso, ma sicuramente all’interno di molte famiglie che sono state colpite pesantemente dalla crisi ci sono regimi di sottoalimentazione o comunque di deterioramento degli standard alimentari molto forti».

Abbiamo del resto nei Paesi ricchi un problema di sovralimentazione, da un lato; di cattiva alimentazione, dall’altro. Nessuna legge a tutela dei consumatori pare in grado di risolvere questi problemi. C’è forse bisogno di una mentalità diversa?
«È difficile uniformare le mentalità degli uomini di tutto il mondo; ma d’altro canto questo obiettivo non sarebbe neanche auspicabile, perché in ogni Paese il problema alimentare si pone in maniera specifica e peculiare. Tanto per cominciare, va considerato che il problema mondiale dell’alimentazione non è che vi sia poco o troppo cibo, bensì che questo venga distribuito male, in base a logiche di mercato e non di fabbisogno umano. Attualmente le forniture di cibo arrivano dove c’è una domanda solvibile e non dove c’è un bisogno di alimentazione. Il fatto che al mondo vi siano 800 milioni di obesi e, al contempo, circa lo stesso numero di persone che soffrono la fame, è una testimonianza eloquente e immediata di questo squilibrio. A ciò si aggiunga che l’obesità non sempre è frutto di alimentazione eccessiva, ma sovente dipende da una cattiva alimentazione».

Cioè?
«Il sistema alimentare mondiale (si tenga presente che sono pochissime le società multinazionali che controllano il mercato della produzione e della distribuzione del cibo a livello planetario) tende a mettere in circolazione alimenti a basso prezzo caratterizzati da un eccesso di grassi e di zuccheri, che attirano principalmente persone a basso reddito. Oggi siamo di fronte a un curioso (ma rivelatore) rovesciamento del detto tradizionale per cui al povero tocca “stringere la cinghia”: una volta i poveri, sottoalimentati, erano magri, mentre i ricchi erano grassi; oggi è vero il contrario: i ricchi hanno la possibilità di alimentarsi in maniera corretta, calcolata scientificamente, mantenendosi in forma, mentre i poveri, attratti dal cibo economico e scadente, finiscono per ingrassare oltre misura».

Che ne è, alla luce di queste considerazioni,dei propositi istituzionali di eliminazione della fame nel mondo?
«L’obiettivo del millennio era il dimezzamento del numero di persone che soffrono la fame entro il 2015. Da allora, cioè dal 2000, questo numero non è certo diminuito, anzi. Da questo punto di vista si registra dunque un fallimento completo. Ma la cosa più grave è che le derrate alimentari, nel corso dell’ultimo decennio, sono entrate sempre più nel sistema finanziario internazionale, diventando così oggetto di speculazioni finanziarie come quelle dei cosiddetti derivati, futures, ecc. Questo tipo di operazioni, effettuate su larga scala, possono provocare non soltanto un già di per sé pernicioso aumento dei prezzi, ma vere e proprie carestie. È in queste condizioni, tanto per dirne una, che è cominciata la “primavera araba” in Tunisia. Torniamo al problema di prima: un mercato alimentare mondiale completamente in mano a pochissime società di dimensioni gigantesche, gestito da un mercato finanziario in grado di ridurre alla fame intere popolazioni con un semplice clic su una tastiera… non può che produrre questi risultati».

Più in particolare sembra che in Occidente il problema alimentare si ponga su due questioni fondamentali: da un lato, un eccessivo consumo di carne; dall’altro, intere coltivazioni destinate ai biocarburanti. Un problema etico, ancor prima che socioeconomico.
«Certamente si tratta di un problema etico: anche qui la precedenza viene data non ai bisogni della gente, ma alle esigenze di quegli operatori economici che possono permettersi di pagare più degli altri. È il fenomeno del cosiddetto land grabbing di cui è vittima il Sud America ma soprattuto l’Africa: le terre vengono letteralmente svendute a operatori economici di altri Paesi (le solite multinazionali), le quali - una volta entrate legalmente in possesso del territorio – non si fanno scrupolo di cacciar via intere popolazioni che vi risiedevano magari da secoli sopravvivendo grazie a un’agricoltura di sussistenza. Perfino alcuni Paesi dell’est europeo vi sono soggetti».

È questo il frutto “razionale” del capitalismo? Pare che dovunque passi il capitale, diventi tutto improvvisamente problematico e caotico. Cioè: irrazionale.
«Si può anche metterla così, in un certo senso. Resta da capire attraverso quale meccanismo si passi effettivamente dalla razionalità della matematica macroeconomica all’irrazionalità degli esiti reali. La razionalità capitalistica è una razionalità strumentale, che ha come unico fine quello di massimizzare i profitti, passando sopra a tutto e tutti: in questo senso il capitalismo è e rimane razionale. C’è da chiedersi se una tale razionalità sia davvero buona per l’uomo, di fronte a un’esperienza ormai pluridecennale che ha mostrato come questo sistema finisca per premiare gli speculatori finanziari, riducendo la gente alla fame».

Ciò nonostante il capitalismo pare non aver rinunciato a promettere abbondanza e ricchezza per tutti.
«Forse qualcosa al riguardo è cambiato: prima della crisi si parlava ancora nei termini di questo pensiero unico per il quale il capitalismo avrebbe esteso - prima o poi – il benessere e il progresso a tutti gli uomini; oggi domina invece la paura, la paura del fallimento, del disastro. Oggi non si dice più che le regole del mercato vanno seguite perché sono il meglio che vi sia al mondo; si dice al contrario che non vi sono alternative e che non resta che seguirle per scongiurare un disastro maggiore. Nel giro di pochi anni sono dunque passate dall’essere “il meglio” all’essere “il meno peggio”. Può sembrare poco, ma è invece qualcosa di molto rilevante».

È insomma la solita sindrome Tina: There Is No Alternative.
«Certo: è questo il succo della cultura capitalistica in questa sua fase finanziaria. In altre epoche, infatti, è stato diverso: come ad esempio nei cosiddetti “trent’anni gloriosi”, quelli immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, dove il capitalismo in qualche modo ha operato davvero apportando benessere ad ampie fasce della popolazione occidentale. Oggi nessuno dei governi di quegli stessi Paesi potrebbe dire, similmente, che il capitalismo porterà benessere: al contrario, tutte le riforme in direzione dell’austerità vengono motivate dalla paura del default (visto come la catastrofe)».

Dovremmo dunque cedere e credere a questo pensiero unico?
«Certamente no; d’altro canto non basta pensarla diversamente per incidere di fatto su questi meccanismi. Ribellarsi all’alta finanza non è una cosa semplice; c’è bisogno, sì, di cultura, ma anche di organizzazione, strumenti e controllo, soprattutto, da parte dei governi, a partire da quelli locali (municipi) fino a quelli nazionali e sovranazionali».

C’è forse qualche Partito in Italia o in Europa che sia sensibile a queste tematiche? Pare chenon ne parli nessuno.
«In Grecia c’è il Partito Syriza che è passato da percentuali infime di consenso a essere il secondo partito greco e – secondo i sondaggi – aspira a essere addirittura il primo alle prossime elezioni, che si fonda proprio su questi principi ed è in cerca di alleanze in Europa per costruire una lista europea unitaria alle prossime elezioni. Il punto fondamentale è la rinegoziazione dei trattati internazionali di austerity che hanno condotto all’attuale situazione di difficoltà. In Italia c’è il tentativo di costruire una lista unitaria che si appoggi a Syriza; tentativi simili sono presenti anche in Spagna e in Portogallo e, a quanto mi risulta, anche in Germania e in Francia».
[...]
Un’ultima domanda: come fare a spiegare ai propri bambini che non c’è mai stato tanto cibo al mondo, eppure non c’è mai stata tanta gente che muore di fame?

«Bisogna cercare di spiegarlo in una maniera molto semplice: nel mondo di oggi il cibo, per poter essere mangiato, ha bisogno di essere comprato e venduto, perché le persone che possono vivere in autosussistenza coltivando il proprio campo sono sempre meno (un po’ perché sono sempre più, come abbiamo visto prima, quelli che vengono espropriati a favore delle grosse coltivazioni; un po’ erché sono ben pochi quelli il cui orto rende a sufficienza da sfamare l’intera famiglia e al contempo procurarsi tutto il resto che serve per vivere, dai vestiti al denaro per i servizi fondamentali). Tutto il resto del cibo è in mano ad aziende enormi che comprano il cibo a bassissimo prezzo da chi lo produce e lo rivendono ad altissimo prezzo a chi se lo può permettere. Chi è fuori da questi circuiti, semplicemente, non mangia».

dal dossier Il veleno nel piatto - "L'altra pagina" - febbraio 2014

20.3.15

Stupro in caserma, la notizia scomparsa. Malagiustizia e malainformazione (S.L.L.)

Quattro anni fa i giornali diedero notizia di un fatto, accaduto in una caserma dei carabinieri di Roma, che era eufemismo definire allarmante. Ne scrissi tentando di comunicare l'amarezza attraverso l'ironia. Ecco il pezzetto postato nel blog sul finire di marzo 2011.

Collaborazione tra polizie. 
Il Quadraro: un esempio raro.
Il 5 marzo le cronache davano notizia di un’indagine giudiziaria per la violenza sessuale esercitata su una donna di Crema in stato d’arresto, una presunta ladruncola del Nord arrestata in un supermercato. Lo stupro sarebbe avvenuto alla Stazione dei Carabinieri del Quadraro, alla periferia di Roma, nella notte tra il 22 e il 23 febbraio. Pare che l’abuso sia stato commesso da uno solo, mentre gli altri guardavano e proteggevano le operazioni. Gli indagati, tre carabinieri e un vigile urbano, sono stati poi rinviati a giudizio, mentre il GIP ha negato l’arresto il 21 scorso, perché non ci sarebbero più possibilità di inquinamento delle prove. I tre carabinieri, a quanto pare, sono stati trasferiti in un’altra città (Torino) in uffici ove non c’è alcun contatto con il pubblico, mentre si legge che il vigile è ancora nell’Urbe, a vigilare. Non vogliamo anticipare giudizi, ma, se la sentenza confermasse le risultanze delle indagini, ne verrebbe fuori un bell’esempio, peraltro assai raro, di collaborazione tra diverse forze di polizia. (S.L.L.)

Ho cercato in rete notizia di come sia andata a finire e ho trovato che nell'ottobre del 2012 (1 anno e mezzo dopo il fatto!) i magistrati della Procura hanno completato l'indagine. Ecco la notizia AGI pubblicata sulla Gazzetta del Sud online.

Violentata in caserma. 
Nei guai vigile e 3 Cc
18/ 10/ 2012
Rischiano il processo con l'accusa di violenza sessuale tre carabinieri e un vigile urbano per lo stupro avvenuto nella notte tra il 23 e 24 febbraio dell'anno scorso nella stazione dei carabinieri del Quadraro di Roma.
La vittima era una romana di 33 anni costretta a trascorrere una notte in una cella della caserma, in stato di fermo, perché sorpresa a rubare in un supermercato. Secondo quanto accertato dal procuratore aggiunto Maria Monteleone e dal pubblico ministero Eugenio Albamonte, che ora hanno concluso l'inchiesta, i quattro avrebbero partecipato allo stupro con ruoli differenti dopo aver costretto la vittima a bere alcolici.
Depositati gli atti, i magistrati solleciteranno la richiesta di rinvio a giudizio per il reato di violenza sessuale commessa "su persona sottoposta a limitazione della libertà personale e con l'aggravante dell'abuso dei poteri e doveri inerenti a una funzione pubblica e dell'uso di sostanze alcoliche" (AGI).

La vittima dello stupro è qui diventata “romana” (l'incertezza si deve probabilmente alla differenza tra la città di nascita, Crema, e quella di residenza, Roma), ma l'impressione è che “ci siamo”, che finalmente si giunge a sentenza.
Non è così. Nuove notizie sul processo si trovano in rete solo nella primavera 2014. Riguardano la chiamata in causa del Ministero degli Interni e della Difesa per l'eventuale risarcimento. La si trova in un notiziario telematico romano “RomaReport.it”.

Stupro in caserma CC, 
ministeri citati per danni
1/ 4 / 2014
Sono stati citati il ministero dell’Interno e quello della Difesa come responsabili civili nel processo sul presunto stupro di una donna di 33 anni, avvenuto tra il 23 e il 24 febbraio del 2011 in una caserma dei carabinieri a Roma. La vittima, arrestata per un furto in un supermercato del Quadraro, aveva trascorso la notte in una cella di sicurezza. Il gup Alessandrino Tudino ha ammesso i due ministeri dando l’ok alla istanza di parte civile per il risarcimento. Il giudice deve pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di tre carabinieri e di un vigile urbano. I quattro, seppure con ruoli differenti, sono accusati del reato di violenza sessuale commessa “su persona sottoposta a limitazione della libertà personale e con l’aggravante dell’abuso dei poteri e doveri inerenti a una funzione pubblica e dell’uso di sostanze alcoliche”. La donna infatti secondo l’accusa fu prima costretta a bere e poi violentata.

Quattro anni. E un processo facile facile non è ancora arrivato al dibattimento. Poi ci saranno altri due gradi di giudizio. La condanna o l'assoluzione arriverebbero, l'una e l'altra, troppo tardi per avere un significato. E può darsi che si arrivi alla prescrizione.
Un caso di “malagiustizia”? Direi di no. Temo che sia il funzionamento normale. Indagini che si potrebbero chiudere in tre giorni, come questa, si chiudono dopo un anno e mezzo perché c'è l'arretrato e bisogna rispettare l'ordine cronologico: prima di questa bisogna condurre e chiudere altre, a volte ben più difficili, indagini. Così per la fissazione delle udienze processuali: sento dire o leggo che, dopo l'udienza preliminare, le parti vengono convocate dopo diversi mesi e che lo slittamento di una udienza, per qualsiasi ragione, inclusa l'indisponibilità giustificata di un avvocato, comporta a sua volta rinvii di sei, otto, dieci mesi.
Qualcosa bisognerebbe fare per interrompere questo andazzo, ma l'impressione è che la strada scelta dal governo, la “colpevolizzazione” dei magistrati non sia risolutiva, anche se colpe potrebbero qua e là esserci. Ci vorrebbe un intervento sull'arretrato. Proposte non ne mancano: da una amnistia magari limitata a una parte dei reati, ma incondizionata (tale cioè da non creare nuovi intasamenti e contenziosi negli uffici giudiziari), al declassamento a contravvenzioni di alcuni reati con effetto retroattivo. Non sono un esperto, ma sono convinto che magistrati, giuristi e avvocati possano suggerire al governo strade utili da percorrere. L'opinione pubblica è forcaiola? Se all'opinione pubblica si spiega che quel carico giudiziario arretrato è una zavorra insopportabile per il servizio giustizia e crea danni incalcolabili a tutti i cittadini, l'opinione pubblica capirà. Occorrerà però dichiararlo con insistenza e particolare solennità che questa amnistia è l'ultima.
Sarebbe necessaria anche una forte semplificazione legislativa e procedurale. Sui codici Parlamento e Governo dispongono di studi e proposte elaborate in lavori parlamentari di precedenti legislature, da utilizzare come base di partenza senza dover ricominciare daccapo. C'è poi da eliminare qualche garantismo incomprensibile, di quelli che ogni persona di buon senso trova fuori misura; bisogna garantire anche le vittime e la certezza della pena. Ci sono investimenti da fare, sul numero dei giudici, sul personale amministrativo, sulla strumentazione: senza soldi non si canta né Messa né giustizia. Sono soldi ben spesi, perché il cattivo funzionamento della giustizia incide negativamente sull'economia ben più di una “impossibilità di licenziare” più proclamata che reale. Sarebbe questa della giustizia una bella sfida per veri “riformisti”, ma nessuno si cimenterà nell'impresa.
Credo che la vicenda dello stupro in caserma debba far riflettere anche sul nostro sistema informativo. Non si può dare una notizia di questo genere, grave, senza seguirne gli sviluppi, senza “tampinare” la stessa magistratura. Gli insabbiatori mediatici, oltre tutto, hanno molte meno scuse e giustificazioni degli insabbiatori giudiziari.

Nel lontano profumo di una neve. Una poesia di Paolo Ottaviani

Nel lontano profumo di una neve
che non scese sui monti del mio cuore
né altrove mai imbiancò di vera neve

foreste o abeti o ne imitò il candore,
là in quella pura erranza di un disperso
aroma si nasconde in un bagliore

l’anima di un inverno buio e terso
che porta freddo e luce da remote
orme inseguite verso dopo verso.

È il cauto andare ineffabile dote
che si muta in pensiero
e un poco mi rischiara
come gioiosa corsa di un levriero
e mi accompagna dove va e ripara
ogni perduta cosa
che per caso passò, lattiginosa
e spesso senza nome,
accanto alle mai dome
chimere che in silenzio e lentamente
come la neve agitano la mente.


dal sito “Via Lepsius”

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