30.11.17

Filippo Neri, il santo che per Goethe liberò Dio nel tempo di Lutero (Fabrizio d’Esposito)

Una immagine di San Filippo Neri
La Chiesa di Roma e i cattolici non piacevano per nulla al genio di Johann Wolfgang Goethe. Con qualche eccezione: san Filippo Neri, il santo umile e umorista che al cinema e in televisione è stato interpretato da Johnny Dorelli (1983) e Gigi Proietti (2010).
San Filippo Neri visse nel sedicesimo secolo e fu grande nemico della vanità nonché fondatore a Roma dell’Oratorio, con cui avvicinò tanti ragazzi alla fede, anche giocando e cantando in chiesa (per fortuna all’epoca non c’erano ancora i tradizionalisti). Fu amico di papa Clemente VIII e rifiutò persino la porpora cardinalizia. Due secoli dopo Goethe fece il suo leggendario viaggio in Italia, tra il 1786 e il 1788, e rimase folgorato, nonostante l’avversione per il papato, dalla figura del santo. Ne scrisse delle meravigliose pagine che formano un volumetto uscito per Edb (Edizioni Dehoniane Bologna) nella collana “Lampi d’autore”: Il santo spiritoso, breve biografia di Filippo Neri (60 pagine, 8,50 euro).
Il testo goethiano, seguito da una nota del saggista Vito Punzi, è attuale anche per la concomitanza dei cinquecento anni della riforma luterana: “Ancor più significativo è che ciò avveniva al tempo di Lutero e che nello stesso periodo, proprio in Roma, un uomo capace, timorato di Dio, energico, attivo aveva avuto anche lui l’idea di mettere insieme il sacro, anzi il santo con il profano, di introdurre le cose del cielo in quelle del mondo e di preparare anche lui una riforma. Solo e soltanto qui infatti si trova la chiave per aprire le prigioni
Wolfgang Goethe
papali e ridare al mondo così liberato il suo Dio”. Goethe fu affascinato dalla forza fisica e spirituale di Filippo e ignorò del tutto san Francesco durante la sua visita ad Assisi.
Come ricorda Punzi nella nota finale: “Di san Francesco d’Assisi, sebbene santo poeta e innamorato della natura, Goethe non si era accorto, anche visitando Assisi. Ma ora scopre questo ‘santo umorista’ e se ne invaghisce, ne riferisce gli aneddoti, le geniali stravaganze, l’acume psicologico ammantato di paradossi”.
Ai suoi ragazzi, san Filippo Neri ripeteva sempre una frase in romanesco, diventata quasi il suo motto: “State bboni, se potete!”.


Il Fatto 28 novembre 2017

La fiducia del giusto. Salmo 10


[1]Al maestro del coro. Di Davide.
Nel Signore mi sono rifugiato, come potete dirmi:
«Fuggi come un passero verso il monte»?

[2]Ecco, gli empi tendono l'arco,
aggiustano la freccia sulla corda
per colpire nel buio i retti di cuore.

[3]Quando sono scosse le fondamenta,
il giusto che cosa può fare?

[4]Ma il Signore nel tempio santo,
il Signore ha il trono nei cieli.
I suoi occhi sono aperti sul mondo,
le sue pupille scrutano ogni uomo.

[5]Il Signore scruta giusti ed empi,
egli odia chi ama la violenza.

[6]Farà piovere sugli empi
brace, fuoco e zolfo,
vento bruciante toccherà loro in sorte.

[7]Giusto è il Signore, ama le cose giuste;
gli uomini retti vedranno il suo volto.


Dalla Bibbia cattolica – Traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana

Italia d'oggi. È anche un Paese di maggiordomi (Pietro Pruneddu)

Abito nero e guanti bianchi sono finiti nell’armadio. La livrea d’ordinanza ormai è una rarità, sostituita dall’imprescindibile smartphone. E la rigorosa serietà nel portamento ha lasciato il passo a capacità manageriali e un’impeccabile conoscenza di due o tre lingue.
Il maggiordomo del nuovo millennio è un lontano parente del suo predecessore di un secolo fa. Ha attraversato i decenni cambiando pelle. Sembrava un mestiere destinato all’oblio, confinato in qualche aristocratica tenuta del Kent o del Berkshire. E invece il butler non solo è sopravvissuto ai tempi, ma non ha mai goduto di così tanto successo. Secondo la società internazionale Nanny & Butler, nel 2015 la richiesta di questa figura professionale è aumentata del 20% in Italia (soprattutto in Veneto, Lombardia e Piemonte) e del 60% in Svizzera e nel Regno Unito, con una crescita notevole anche in Cina. E in un mercato del lavoro globalizzato, i maggiordomi più ricercati sono inglesi e italiani. Sauditi, russi, americani, inglesi e svizzeri sono disposti a spendere cifre esorbitanti per garantirsi i servizi di personale made in Italy altamente qualificato. All’estero, una tata può arrivare a guadagnare 4 mila euro al mese. Un maggiordomo capace di gestire un intero staff domestico arriva a 100 mila euro netti all’anno, più vitto, alloggio e altri benefit.
Nel nostro Paese, dal 2009, è attiva l’Associazione italiana maggiordomi (Aim), un ente no profit che si occupa della formazione e del placement della categoria. «Si tratta di un mercato in forte crescita da anni», spiega il presidente dell’Aim Elisa dal Bosco, «famiglie e hotel sono sempre in cerca di queste figure». Gli stipendi in Italia partono dai 1.500 euro mensili per i junior, a salire fino a 10 mila per chi ha alle spalle anni di curriculum. Ma non si tratta di un lusso esclusivo per nababbi. Sono in aumento anche coloro che “affittano” un maggiordomo per farsi organizzare una cena speciale con la fidanzata o per pianificare nei dettagli un trasloco. Un servizio del genere, a giornata, costa intorno ai 300 euro. Il livello qualitativo richiesto è altissimo, la preparazione meticolosa. Non ci si improvvisa maggiordomi. Per questo l’Aim organizza in tutta Italia corsi professionali, di durata variabile tra 100 e 400 ore, dedicati alla formazione di questa eccellenza nostrana. In Lombardia, con la partnership della società Formawork, ne sono stati portati a termine cinque nel solo 2015, completamente gratuiti per i disoccupati under 29. Il prossimo, con iscrizioni ancora aperte, partirà a inizio febbraio. «Diamo una mano a chi cerca lavoro: il 70% dei nostri corsisti ha trovato un impiego», spiega dal Bosco. Pochi e molto ambiti i posti a disposizione nei corsi: si impara a fare una valigia, gestire un guardaroba, pulire una calzatura o l’argenteria. Si studiano materie come galateo, cucina, management, usanze culturali, cura degli animali.
«Gli allievi hanno tra i 18 e i 60 anni, alcuni di loro lavorano in tutto il mondo», dice la presidente dell’Aim, che al momento ha circa 300 professionisti nel suo organico. Ex funzionari di banca, agenti di viaggio, neolaureati, casalinghe: c’è chi ha perso il lavoro e vuole reinventarsi, chi semplicemente ha trovato la sua soluzione alternativa alla crisi. Capita anche che ai corsi si iscrivano manager che vogliono imparare come comportarsi in occasioni di gala o imprenditori interessati a migliorare la gestione del proprio personale. Dopo l’apprendistato si aprono opportunità lavorative molto diverse: alberghi, yacht e navi da crociera, case private.
Le sfaccettature professionali sono infinite: si va dall’assistente personale al manager della casa fino al gestore delle spese domestiche o all’event planner. Un problem-solver dalle mille etichette. «Immaginiamo il maggiordomo come come un direttore d’orchestra, capace di dare armonia e tempi a più voci», si legge nel sito dell’Aim. Secondo gli esperti del settore, anche in questo campo italians do it better. «Tate professioniste, cuochi privati e maggiordomi italiani non sono mai stati richiesti come adesso, anche dall’estero, in particolare in Svizzera e a Londra», spiega Paola Diana, fondatrice e amministratore di Nanny & Butler (nannybutler.com), società di ricerca e selezione di personale specializzato nella cura della casa e dei bambini, con sedi a Roma, Milano e nella capitale del Regno Unito. «L’essere italiani si associa nell’immaginario comune all’eleganza, alla dolcezza nella cura dei bambini e al buon cibo, ed è sicuramente un valore aggiunto per chi cerca queste figure».
Lo stile del maggiordomo made in Italy, insomma, si distingue dal classico cliché british tanto caro a cinema, serie tv e romanzi gialli (vedi il box). Non è un caso quindi che sia italiano uno dei primi flying butler al mondo. Si tratta di Roberto Lietti, 33enne proveniente dal comasco, che da circa un anno fa parte della ristretta squadra di 13 maggiordomi volanti che operano a bordo degli Airbus della Etihad Airways. La compagnia di bandiera degli Emirati Arabi Uniti nei suoi voli da Abu Dhabi a Londra, Sydney e New York mette a disposizione il pacchetto The Residence: tre camere private con doccia, soggiorno e butler personale. Il tutto a una cifra tra 15 e 20 mila euro a tratta. Con eleganza e discrezione, sempre a passo felpato, il maggiordomo è passato dai gialli di Agatha Christie alla conquista dei cieli.


“Pagina 99”, 30 gennaio 2016

Quando a sbagliare è un genio. Errori veri e presunti di Einstein (Vincenzo Barone)

Per garantire un introito al suo collaboratore Leopold Infeld, che non aveva ancora un posto in università, nel 1938 Einstein decise di scrivere assieme a lui un saggio destinato a diventare famoso, L’evoluzione della fisica. Durante la stesura Infeld gli confessò di sentirsi particolarmente in ansia, visto che il libro avrebbe recato in copertina il nome del più celebre scienziato del mondo. «Non è il caso di preoccuparsi – lo tranquillizzò Einstein –, ci sono anche lavori sbagliati con la mia firma».
Einstein sapeva benissimo che gli errori fanno parte del gioco della scienza e riteneva che non dovessero creare particolari imbarazzi. Ne aveva commesso qualcuno e non si vergognava di ammetterlo. Nel linguaggio comune la parola «errore» ha varie sfumature, e quando la si applica alla scienza conviene essere accorti. Prescindendo completamente dall’uso del termine come sinonimo di «incertezza di misura» (frequente in fisica), possiamo distinguere due tipi di errori nella normale attività scientifica: 1) i veri e propri sbagli, nei calcoli, nelle deduzioni o nella conduzione di un esperimento; 2) le ipotesi, le teorie e i programmi di ricerca che si rivelano a posteriori fallaci. Entrambe queste situazioni sono perfettamente fisiologiche (la prima è addirittura universale – errare humanum), e solo una visione superficiale dell’impresa scientifica può dipingerle come macchie nella reputazione degli scienziati (anche dei più grandi) o come passi falsi sulla via della verità.
Nel caso di Einstein, gli errori del primo tipo sono spesso legati alla peculiare struttura logica della relatività generale, che rende di difficile lettura alcune sue predizioni. Fu così, per esempio, che egli pensò per un breve periodo, nel 1936, di aver dimostrato – vent’anni dopo averle previste – l’irrealtà delle onde gravitazionali. Di questo sbaglio si accorse quasi subito, mentre non corresse mai i risultati di quello che alcuni storici della scienza considerano il suo peggior lavoro scientifico, un articolo del 1939 in cui sosteneva l’impossibilità del collasso gravitazionale di una stella fino allo stato di buco nero (negli stessi giorni J. Robert Oppenheimer e Hartland Snyder erano giunti – correttamente – alla conclusione opposta).
Non un vero sbaglio, ma una svista, compare in un’altra famosissima nota einsteiniana, quella (molto breve) in cui il padre della relatività prevedeva il fenomeno delle lenti gravitazionali – la distorsione dell’immagine di sorgenti lontane a causa della presenza di grossi corpi che deflettono con la loro gravità i raggi luminosi. Ipotizzando che i corpi in questione fossero stelle, Einstein concluse che l’effetto era piccolissimo e impossibile da rilevare (per inciso, si noti come gli “sbagli” di Einstein andassero curiosamente sempre nella direzione di sottostimare la ricchezza fenomenologica della sua teoria). Pochi mesi dopo, l’astronomo Fritz Zwicky gli fece notare che, se ad agire da lente gravitazionale fosse stata una galassia, l’effetto sarebbe stato osservabile (come sappiamo, Zwicky aveva ragione, e dal 1979 – anno della loro scoperta – le lenti gravitazionali sono diventate un fenomeno comune).
Rientra invece nella seconda tipologia quello che Einstein stesso definì l’errore più grande della sua vita: l’introduzione della costante cosmologica. Nel 1917 Einstein aveva inaugurato la moderna cosmologia teorica applicando l’equazione fondamentale della relatività generale all’intero universo, immaginato come una massa fluida omogenea. Si era accorto però che ne risultava un universo in contrazione o in espansione, non statico, come tutti credevano che fosse (mancando indizi contrari). Per ottenere una soluzione statica, aveva allora introdotto nella sua equazione un termine correttivo che conteneva un parametro arbitrario, la costante cosmologica. L’equazione aveva perso in eleganza e in semplicità, ma guadagnato apparentemente sul piano empirico. Nel 1929, tuttavia, l’astronomo statunitense Edwin Hubble scoprì che il cosmo era tutt’altro che statico. Le galassie si allontanano da noi – e da qualunque punto di osservazione – con una velocità proporzionale alla loro distanza, segno inequivocabile di un’espansione dell’universo. La costante cosmologica, dopo questa scoperta, non serviva più e l’equazione di Einstein, liberatasi da un orpello non necessario, poteva tornare a rifulgere in tutta la sua bellezza.
Ma, secondo il matematico e divulgatore David Bodanis, «il più grande errore di Einstein» (sempre del secondo tipo, nella nostra classificazione) non fu – diversamente da quanto pensava il diretto interessato – la costante cosmologica, bensì la pervicace ostilità nei confronti della meccanica quantistica. Con il senno di poi, Bodanis ha ragione: se solo il grande fisico avesse accettato la teoria quantistica nella forma che essa aveva preso a partire dalla metà degli anni Venti (per opera di Heisenberg, Schrödinger, Born, Dirac, e sotto la supervisione concettuale di Niels Bohr), probabilmente i trent’anni della sua vita spesi nella ricerca di una teoria unificata classica (che pure – va detto – hanno avuto effetti collaterali di una certa importanza) sarebbero stati ben più fruttuosi. C’è però da chiedersi: poteva Einstein – il genio formatosi ancora nell’Ottocento, che diceva di aver assunto la teoria classica dei campi con il latte materno, il creatore solitario delle due relatività, l’alfiere di una concezione granitica della scienza come processo di comprensione del reale regolato da criteri di semplicità logica – poteva questo Einstein accettare la visione del mondo di Copenaghen?
Bodanis sostiene – ed è questa la tesi centrale, ma anche la parte più debole, del suo libro – che l’atteggiamento di Einstein nei confronti della meccanica quantistica fosse figlio dello smacco ricevuto con la scoperta dell’inutilità della costante cosmologica, che sarebbe stata introdotta per dar conto dei dati osservativi. Dopo quell’esperienza Einstein si sarebbe isolato sempre di più dalla comunità scientifica, «decidendo di poter ignorare gli esperimenti che sembravano confutare ciò che lui era convinto che fosse giusto». È una ricostruzione difficilmente sostenibile. Innanzitutto, Einstein aveva operato in isolamento già negli anni di gestazione della relatività generale (con Tullio Levi-Civita, nell’aprile del 1915, si lamentava di quanto poco i suoi colleghi fossero «sensibili all’esigenza di una vera teoria della relatività»). In secondo luogo, il suo lavoro cosmologico, più che dai dati astronomici (che conosceva poco), era guidato, come al solito, da considerazioni e princìpi fondamentali – in particolare, dall’idea, dovuta a Ernst Mach, di un legame tra inerzia e distribuzione della materia. Infine, l’ostilità nei confronti della meccanica quantistica risaliva a ben prima del 1929 e prescindeva dai fatti empirici, muovendo più che altro da una critica ai fondamenti generali e non ai risultati applicativi della teoria (nella quale, peraltro, non faceva fatica ad ammettere che ci fosse qualcosa di “vero”).
Il rapporto di Einstein con l’esperimento fu sempre piuttosto articolato (a dispetto di certe sue battute). Salvo che negli anni giovanili, i programmi di ricerca einsteiniani non scaturirono mai da necessità empiriche. Ciò non significa però che egli considerasse il confronto con i dati irrilevante: nel 1915, a convincerlo della correttezza delle equazioni del campo gravitazionale appena ottenute fu tanto la loro eleganza formale quanto il fatto che esse spiegavano un piccolissimo fenomeno noto da tempo, l’anomalia dell’orbita di Mercurio. Il successo della relatività generale, basata su un postulato di simmetria e su un’equazione che è la più semplice equazione possibile coerente con tale postulato, lo convinse a procedere, nella costruzione teorica, sempre in quel modo. Ma non fu in grado di ripetere il successo. Era un uomo di princìpi (filosofici ed epistemologici), come le teorie che prediligeva e inventava, ma i princìpi, a volte, possono privare di quella flessibilità necessaria a riconoscere un vicolo cieco e a cambiare strada.
Ironia della sorte, la recente scoperta che l’espansione dell’universo sta accelerando ha riportato in auge la costante cosmologica di Einstein, che descrive proprio tale accelerazione. Difficile, a questo punto, considerarla un errore! È il destino della fisica teorica. Molti dei lavori che quotidianamente compaiono sulle riviste specialistiche finiranno nel dimenticatoio o nella carta straccia. In compenso, tra la carta straccia di qualche mente ingegnosa potrebbe nascondersi l’idea che gli altri stanno faticosamente cercando.


“Il Sole 24 Ore”, Domenica 29 luglio 2017

Il Risorgimento che non c'è stato nelle letture di Gobetti, Gramsci, Salvemini (Marco Revelli)

Quello che segue è un testo d'occasione, scritto nel 2011 per uno speciale che “il manifesto” dedicò ai 150 anni di unità d'Italia. A me sembra un'efficace sintesi di una lettura storiografica che nel tempo ha coinvolto il meglio dell'intelligenza democratica nel nostro paese e un'occasione per leggere meglio - in quella chiave - anche i tempi più recenti della nostra nazione. (S.L.L.)

«Il Risorgimento italiano è ricordato nei suoi eroi. In questo libro mi propongo di guardare il Risorgimento controluce, nelle più oscure aspirazioni, nei più insolubili problemi, nelle più disperate speranze: Risorgimento senza eroi». Così scriveva Piero Gobetti, alla metà degli anni Venti, nella prefazione a un libro destinato a essere pubblicato postumo. E concludeva: «L'esposizione non piacerà ai fanatici della storia fatta: essi mi attribuiranno un umore bisbetico per rimproverarmi lacune arbitrarie. Ma io non volevo parlare del Risorgimento che essi volgarizzano dalle loro cattedre di apologia stipendiata del mito ufficiale. Il mio è il Risorgimento degli eretici, non dei professionisti» (Risorgimento senza eroi, 1926).
A fronte della vulgata apologetica dell'epopea risorgimentale - del suo «mito ufficiale» - non c'è solo la letteratura reazionaria e sanfedista dei nostalgici dell'Ancien Règime. O il localismo gretto della «piccola storia» che parla male di Garibaldi in odio al rosso delle sue camicie e alla lunghezza dei suoi viaggi. C'è anche una solida tradizione di pensiero radicale e democratico - radicalmente democratico - che ha guardato ai «mancati risultati» del Risorgimento per cogliervi il segno dei «vizi storici» della politica italiana. Che ha cercato tra i cocci del mito infranto di quell'ambiguo passato le ragioni del proprio cattivo presente (della propria, eternamente ritornante, «autobiografia della nazione»).
I nomi sono noti: Gaetano Salvemini, in primo luogo, e poi Gramsci, buona parte del «meridionalismo rivoluzionario» con Guido Dorso in testa, e Tommaso Fiore, il neoprotestantesimo di Gangale, oltre, naturalmente, a Piero Gobetti e con lui buona parte dei collaboratori della sua 'Rivoluzione liberale?... Per tutti un comune denominatore: l'idea del Risorgimento italiano come rivoluzione mancata (rivoluzione politica fallita, ma anche rivoluzione sociale e in particolare «rivoluzione agraria» neppur tentata, e «rivoluzione morale» o religiosa soffocata sul nascere dal prevalere del neoguelfismo). E una comune preoccupazione: comprendere come, a mezzo secolo dal compimento del moto risorgimentale, l'Italia avesse potuto cadere nella dittatura. Il che spiega perché buona parte di questa riflessione anti-apologetica del Risorgimento si concentri soprattutto a ridosso dell'avvento del fascismo e trovi il proprio epicentro negli anni Venti del Novecento.
Anche i termini della critica, sono noti. In primo luogo il tema della «conquista regia». Se l'Italia non ha avuto la propria rivoluzione - se il suo passaggio alla «modernità» non è avvenuto, come nei paesi a democrazia matura quali la Francia, in primo luogo, ma anche l'Inghilterra, attraverso una «cesura storica», con una esplicita «soluzione di continuità» nella successione delle sue classi dirigenti capace di coinvolgere le masse popolari nella costruzione del nuovo Stato - ciò è dovuto al carattere prevalentemente burocratico-militare del processo unitario. Alla sua gestione «dall'alto», da parte di una dinastia (conservatrice e tradizionalmente avara), di un esercito (disciplinato ma ottuso) e di una diplomazia a guida moderata che emarginarono o, alternativamente, egemonizzarono le componenti radicali, nella sostanziale passività del popolo. Ne derivò - come scrive Dorso, il principale interprete di questa lettura - «una conquista grigia, fredda, uniforme, che lasciò, a mano a mano che progrediva, insoluti tutti i dati ideali della rivoluzione: la libertà, le autonomie locali ed i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, campo classico ove si saggiano le limitazioni della libertà». E soprattutto che inaugurò o quantomeno consolidò il pessimo vizio italiano «di eludere le soluzioni ideali, per stendere su di esse il velo della transazione politica», prodromo di tutti i trasformismi e di tutti gli immoralismi futuri.
È ciò che Gramsci definirà, sulle orme del Cuoco, col termine «rivoluzione passiva» (una rivoluzione, cioè, senza rivoluzionari e, in sostanza, «una rivoluzione senza rivoluzione»), sottolineando come carattere qualificante di tutto il moto risorgimentale la sistematica egemonia che i moderati riuscirono a esercitare, strategicamente, su tutte le altre componenti, compresa quella più radicale rappresentata dal cosiddetto Partito d'Azione (quello di Garibaldi e Mazzini, per intenderci). Il quale non fu solo sistematicamente marginalizzato dall'iniziativa moderata, ma anche in buona parte «diretto», e riassorbito, nelle file dei moderati, fino all'unità, e anche oltre: «I moderati - scriverà Gramsci - continuarono a dirigere il Partito d'Azione anche dopo il '70 e il trasformismo è l'espressione politica di questa azione di direzione; tutta la politica italiana dal '70 ad oggi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall'elaborazione di una classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il '48, con l'assorbimento degli elementi attivi sorti dalle classi alleate e anche di quelle nemiche». Né poteva essere diversamente - come non cessò mai di ricordare Salvemini - vista la clamorosa assenza dalla scena sociale e politica dei contadini (e con essi di ogni significativo «soggetto sociale» capace d'iniziativa politica).
Così in questa lettura iconoclasta del Risorgimento, il tema del fallimento politico di ogni ipotesi di modernizzazione dal basso si salda con quello, strutturale, del fallimento sociale ed economico di ogni modernizzazione tout court, ben simboleggiata dall'assenza altrettanto clamorosa di un sia pur flebile segno o conato di «rivoluzione agraria». E dalla permanente forza mantenuta dalla grande proprietà terriera, soprattutto meridionale, mai in realtà sfidata, anzi quasi sempre blandita, o comunque incorporata nel ventaglio delle alleanze necessarie per un progetto unitario che finiva per dispiegarsi, così, non solo senza ma per molti aspetti anche contro le aspirazioni di emancipazione di una massa contadina mantenuta in condizione di servaggio semi-feudale.
Non si tratta - è bene ricordarlo spesso - di una lettura «idealistica» della nostra storia patria. Di una somma di pii desideri, in cui ciò che è si confonde con ciò che si vorrebbe che fosse. Al contrario. La cifra di tutta questa letteratura anti-apologetica è il «realismo». L'analisi disincantata delle forze in campo. La misura spietata dei rapporti di forza. L'egemonia moderata tanto deprecata, è tuttavia considerata l'unica storicamente possibile. La sola capace di vincere.
In questo Salvemini è maestro, là dove dopo aver preso in considerazione l'intero ventaglio delle opzioni federaliste - quelle a cui andava senza dubbio la sua approvazione e che meglio avrebbero servito la causa di una via compiutamente democratica all'unificazione nazionale, a cominciare dall'autonomismo democratico di Cattaneo, e quelle meno auspicabili, ma non meno interessanti, come il federalismo censitario dei moderati piemontesi - ne decreta, tuttavia, l'inevitabile inefficacia, di fronte al macigno rappresentato dalla passiva subalternità delle plebi rurali meridionali, e dalla loro manovrabilità da parte di un clero reazionario e nostalgico dell'antico regime borbonico. «La grande maggioranza dei contadini, scrive Salvemini, abbandonata a sé nelle amministrazioni locali autonome, a base di suffragio universale, avrebbe dato, in poco tempo, la prevalenza alle forze legittimiste. Perciò i moderati rigettavano la teoria autonomista e democratica di Cattaneo». E per questa ragione, si può aggiungere, rinunciarono all'originario federalismo censitario cavourrino, per volgersi alla prospettiva centralista di impronta mazziniana, amputata dei suoi connotati democratici (il suffragio universale, o anche allargato) e coniugata con un sistema elettorale ristretto su base di censo. L'unica in grado di vincere. Ma, appunto, a un
prezzo tanto caro da ipotecare l'intero sviluppo sociale e politico successivo.
Il risultato sarà, appunto, «uno Stato a cui il popolo non crede perché non l'ha creato con il suo sangue», nel quale si misura, senza remissione, il fallimento del progetto liberale, al quale dovrebbe essere intrinseca la ricerca dell'autonomia, individuale e collettiva, delle persone e dei gruppi sociali. Fallimento a cui non porterà sollievo il parallelo dispiegarsi del progetto socialista, caduto nel momento in cui con Turati, «accettò l'eredità di una corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria», a riprova della dura legge storica che condanna i radicali a una dura egemonia moderata. Cosicché, nella caduta degli unici due progetti emancipativi del moderno, l'Italia resterà esposta al costante rischio della ricaduta nelle molteplici forme di servitù che la sua storia le ripresenta, come fantasmagorico repertorio dei propri vizi atavici e delle proprie illusorie virtù. Sempre incapace di scelta e di responsabilità. Sempre tentata dall'istrionica rappresentazione e dall'identificazione nei peggiori. Condannata, comunque, a riproporre, ciclicamente, quello che, ancora Gobetti, definirà «l'equivoco fondamentale della nostra storia» - quello che l'apologetica risorgimentale rimuove, ma che del moto risorgimentale costituisce una verità scomoda - e cioè il suo essere stato, in prevalenza, «un disperato tentativo di diventare moderni restando letterati con vanità non machiavellica di astuzia, o garibaldini con enfasi tribunizia». E, di conseguenza, l'aver sacrificato all'idea di libertà la pratica - ben più sostanziale - dell'autonomia. L'aver sovrapposto al mito dell'unità la ricerca dell'unanimismo. E all'orgoglio della lotta, l'affidamento a un Re. O a un Capo. O alla benevola configurazione di una favorevole congiuntura internazionale.


Da La conquista. 1815-1870 l’unità italiana nell’era della borghesia (a cura di Gabriele Polo) – supplemento a “il manifesto”, 28 settembre 2011

29.11.17

L'“utopia” della liberazione ha un futuro? Il comunismo potenziale e possibile (Cesare Luporini 1989)

Una domenica di novembre, nel 1989, a pochi giorni dalla “svolta della Bolognina”, con cui Occhetto proponeva al Pci di trasformarsi in un nuovo partito, abbandonando il nome di “comunista” e il simbolo della falce e martello, “il manifesto”, che si definiva “quotidiano comunista” dedicò al tema un'ampia sezione del quotidiano intitolata Finale di partito. Vi si potevano leggere un colloquio con Achille Occhetto, un intervento critico di Gavino Angius, dirigente di partito, servizi sullo stato del Pci, sulla federazione giovanile, sui rapporti con la questione femminile. Ma il pezzo forte, l'unica cosa che secondo me dura, era un articolo di Cesare Luporini, il filosofo, cui la redazione aveva chiesto qualche riflessione sul buon uso della parola «comunismo», usata oggi ugualmente come «utopia d’una società altra» e come esperienza storica del «socialismo reale». Ne ripropongo un ampio stralcio. (S.L.L.)

[…] Le interpretazioni sistemiche di quelle società mi sembra che mostrino il loro fallimento. La scossa è mondiale perché si trasforma completamente uno dei poli su cui si è retto l’equilibrio antagonistico del mondo per quasi mezzo secolo, dopo la guerra.
La questione del comunismo, in senso proprio, si pone su un altro livello, non foss’altro per un semplice motivo: che nessuno di quei regimi ha mai preteso all’esistenza in atto di un «comunismo reale». Nessuno di quei partiti monocratici e monolitici, che si chiamano o si chiamavano comunisti, ha mai presunto tanto; essi hanno solo preteso di essere su quella strada, molto ideologicamente, attraverso un sistema dogmatico artificioso (e imposto) detto «marxismo-leninismo», che è stato travolto anch’esso. E speriamo che se ne prenda atto fino in fondo e al più presto. L’espressione «comunismo reale», che pure è stata adoperata in Italia, proprio nel mio partito, è, a mio parere, una mistificazione concettuale.
Ora tutte le questioni anche teoriche di socialismo e comunismo sono riaperte, ma non sono ingabbiabili, mi pare, in semplici schemi liberal-democratici. Già lo stesso compattarsi di questi due termini, nel secolo scorso oppositivi, intendo «liberalismo» e «democrazia», è una ideologizzazione - e se vuoi una teorizzazione - non avvenuta per caso, ma sotto la spinta antagonistica e motivata di grandi movimenti sociali, e in primo luogo del movimento operaio, delle sue formazioni di classe politiche e sindacali. Non è qui il luogo di rifarne la storia, prima e dopo la rivoluzione di ottobre, anche se sarà necessario rivederla a partire dalla situazione attuale, ivi comprese le due guerre mondiali, che hanno pur qualcosa a che fare col capitalismo.
Comunismo è un concetto teorico (molto più chiaro che non «socialismo», a mio parere) che certo preesisteva a Marx, ma che ha trovato in Marx un radicamento storico in quella che per lui era la forza sociale del cambiamento rivoluzionario, e cioè nella classe dei salariati, interni e insieme antagonistici al modo di produzione capitalistico. Comunismo in questo senso non è soltanto «movimento reale» (espressione dello stesso Marx), ma è un orizzonte di libertà e di liberazione («libero sviluppo di ognuno» come «condizione del libero sviluppo di tutti») che con qualche difficoltà (ma non voglio fare questione di parole) chiamerei «utopia», proprio perché aderisco alla richiesta marxiana di radicamento storico, appunto, in forze e movimenti sociali da liberare («come sia empiricamente possibile il comunismo», si chiedeva Marx).
Se guardo non solo ai paesi sviluppati, ma a tutto il genere umano che è ormai un insieme reale di parti comunque interdipendenti, se guardo ai suoi conflitti tragici, alle lotte di liberazione, alla gerarchia delle potenze, e infine alle minacce che nascono dal mondo industrializzato e che gravano in comune sulla sopravvivenza della vita in terra, mi pare che l’orizzonte del comunismo nonché scomparire si sia straordinariamente allargato e si siano moltiplicate le sue radici sociali ed etniche possibili. Marx da scienziato (oltre che rivoluzionario) dell’800 era mentalmente dominato dalla categoria della «necessità», che si è dissolta, o quasi, anche nelle scienze naturali, oggi. Così egli tendeva a vedere come «necessità» il passaggio dal capitalismo al comunismo, quasi fossero due fasi storiche di un unico sistema dinamico. Oggi, lo dobbiamo vedere invece come potenzialità e possibilità, cioè in questa diversa dimensione categoriale.
Ma perché dovremmo compiere questa opzione? Forse che il capitalismo, il libero mercato, il consumismo conseguente e magari le relative «alienazioni», non ci si addicono, purché siano abbastanza garantiti sistemi politici democratici e di controllo degli abusi? Detto in parole povere questo mi sembra il nodo ultimo della questione. Certo vi è chi rimane fuori, è «emarginato»: una buona fetta della società. Ma Marx stesso diceva che una società sviluppata (capitalisticamente) troverà sempre il modo di assistere i suoi poveri... e quanto alla miseria spirituale, oggi provvedono i media a camuffarla, quotidianamente.
Che cosa impedisce allora di rinunciare a quell’orizzonte del comunismo? E rinunciare cioè a una critica radicale dell’esistente? Ebbene, a me sembra che la risposta stia proprio in qualcosa di assolutamente nuovo, e non di vecchio, l’unificazione di fatto del genere umano - pur tanto diviso conflittualmente tra culture, civiltà, morali, religioni ed etnie diverse - non solo nelle interdipendenze accennate, ancora cariche di effetti di dominio e di subalternità spesso tragici, ma unificazione, ripeto, di fatto, di fronte a ciò che minaccia la vita biologica almeno ai suoi livelli superiori, sul pianeta (quindi al di là della stessa questione «guerra-pace»).
C’entra qualcosa col comunismo, in tale senso allargato? A me pare di sì. Per una ragione molto semplice. Perché è impensabile l’estensione a tutto il genere umano del capitalismo sviluppato, con i consumi e le dilapidazioni energetiche che esso comporta. Qui vi è un limite e una qualità di esso che Marx non era in grado di prevedere, almeno nelle dimensioni attuali.
Ci sono in Marx due concetti di dominio e anche sfruttamento: uno da promuovere, l’altro da rimuovere. Il primo è il cosiddetto dominio dell’uomo sulla natura; il secondo è quello che egli chiamava «seconda natura», e cioè le «potenze estranee» (stando al suo linguaggio) prodotto dagli uomini stessi nella loro prassi di reciproca cooperazione, che dà luogo ai rapporti di dominio e subordinazione fra gruppi sociali e anche fra popoli. La storia tragica di questo secolo almeno una cosa ci ha insegnato: che restando intatta la spinta alla prima forma di dominio, non si cancella neppure la seconda. Non si può più accettare - pena la catastrofe - uno sviluppo illimitato dello sfruttamento dalla natura, eredità del capitalismo nella tradizionale ideologia e pratica comunista (e socialista).
Dove siamo storicamente e geograficamente collocati, certo dobbiamo operare ancora nel sistema capitalistico e all'interno dei congegni auto-regolativi che esso ha saputo mettere in opera fin qui, insieme ad altre tecniche per superare e controllare le proprie crisi, ma lottando contro i maggiori abusi e per forme sempre più democratiche di convivenza. Ma guai se perdiamo di vista quell'orizzonte totale, cioè universalmente umano, che mette in evidenza anche i limiti intrinseci al sistema, perché condizionati dal suo scopo immanente, l’accumulazione del capitale, cioè dal suo equilibrio dinamico. Mantenere l’orizzonte del comunismo significa appunto questo.
Ma gli orizzonti sono mobili, si spostano; e i soggetti coinvolti si sono moltiplicati in parte potenzialmente, in parte già di fatto. Non più soltanto la classe operaia e i suoi «alleati», come si diceva una volta, anche se la questione del lavoro e di ciò che esso valorizza rimane centrale, con tutte le modifiche però introdotte dalla rivoluzione informatica. Ma si tratta anche di altro.
Nella famosa proposizione marxiana «l’associazione in cui il libero sviluppo di ognuno è condizione del libero sviluppo di tutti» (e non viceversa: cioè no a un collettivismo totalitaristico), ogni termine è problematico, lo sappiamo bene. Meno due (apparentemente), lo «ognuno» e il «tutti», in quanto sono pure categorie logiche. Ebbene non è più così. Anche lo «ognuno» si è differenziato. La rivoluzione delle donne ha giustamente rivendicato la differenza sessuale come elemento di non-neutralità irrinunciabile per una qualsiasi ricomposizione dei «tutti». Anche questa modificazione fa parte integrante ormai di quell'orizzonte mobile del comunismo che, a mio parere, non è questione morale ma direttamente politica. Perché le morali come le religioni ci dividono (nessuna è universale), ma la politica ci può riunire, su una scala universalmente umana. Se lo si voglia; responsabilmente e comunitariamente, e senza nascondersi le difficoltà da superare, ma prima che altre catastrofi sopraggiungano, se non è troppo tardi (poiché è lecito chiederselo). Non è una questione di potere e tantomeno di «potenze estranee». È piuttosto la grande questione del consenso, di cui parlava Gramsci, su cui hanno fatto naufragio i «socialismi reali».
Naturalmente parlo di una politica riformata, sostanziata di democrazia, sovrannazionale, portatrice di nuovi modi di convivenza fra diversi (e quindi essa stessa fondatrice di morale) per la quale vale la pena impegnarsi e combattere. Ed è una politica che, per definizione, non può essere lasciata ai soli «politici».

"il manifesto", 19 novembre 1989

28.11.17

“L’arte della recensione” (Salvatore Lo Leggio 2005)

Il testo che segue è la prefazione al libro di Roberto Monicchia Il mondo a pezzi, pubblicato da CRACE nella collana “I Pamphlet” nel 2005. (S.L.L.)

Negli anni settanta Franco Fortini raccolse in un aureo libretto le 24 voci da lui curate per un dizionario letterario in dispense e le corredò di una prefazione che è un vero e proprio elogio delle attività intellettuali “servili”, quelle che obbligano, per statuto e talora anche per vincoli contrattuali, a “un buon uso delle parole”.
L’uso parco, appropriato e mirato dell’arte dello scrivere, spiegava l’indimenticato maestro, ha anche un’efficacia etico-politica: da un lato mortifica la vanità piccolo-borghese dell’intellettuale, fiaccando il demone della magniloquenza; dall’altro lo spinge a “compartire il sapere”, prefigurando uno dei cardini del progetto comunista.
Vale, ovviamente, anche per la recensione, il cui autore è servo di due padroni. Del libro di cui scrive, che non deve essere frainteso, forzato nei significati, piegato a messaggi che non gli sono propri. Del lettore, che dalla recensione si aspetta un’idea dell’opera, ed anche un giudizio, esplicito o implicito che sia, ma non ama essere sopraffatto da responsi oracolari né vuole che gli sia negato il piacere di leggere e di confrontarsi con il testo in autonomia.
La recensione onesta è diventata, tuttavia, una merce introvabile. Il narcisismo, morbo intellettuale diffuso e pernicioso nell’era dell’immagine, imperversa sulle pagine culturali dei quotidiani e dei settimanali. Il recensore che ne è affetto raramente usa il suo spazio per raccontarci il libro, dirci come è fatto, ragionare sui punti critici, lo utilizza piuttosto come spunto per divagare, polemizzare, pontificare, come alibi per raccontarci i casi suoi ed informarci delle sue escogitazioni. In molti casi c’è fondato il sospetto che si sia limitato a leggere i risvolti, tutt’al più a sfogliare il volume.
Di certo non è così per le recensioni che Roberto Monicchia ogni mese, con grande puntualità, trasmette a “micropolis” da Vicenza, a partire dal fatidico settembre 2001. In un periodico con una impaginazione molto flessibile, dove poche sono le rubriche fisse, il suo articolo mensile è diventato abbastanza presto un’istituzione, un appuntamento fisso. Il primo anno le “letture da lontano” (come qualcuno della redazione le chiama con scherzosa allusione) ruotavano intorno a un tema: il movimento antiglobalizzazione, le sue caratteristiche, i suoi connotati ideologici, i suoi testi di riferimento, poi Roberto si è mosso con più libertà di scelta, toccando tanti argomenti: le dinamiche dell’economia mondiale, le caratteristiche e le contraddizioni del capitalismo contemporaneo, il ritorno prepotente della geopolitica e della guerra sulla scena internazionale, gli USA che spadroneggiano mentre declinano, la miseria italiana, il comunismo storico e le poche nuove riflessioni teoriche sulla società. Ogni mese una porzione di mondo indagata ed interrogata con il sussidio di un libro recente.
Sul suo metodo di lavoro Monicchia ci dà un ragguaglio nella nota introduttiva, ove mette in fila i precetti dell’onesto recensore: scegliere, leggere, rendere il senso testuale del libro, esplicitare le domande che suscita, i dubbi che lascia, i percorsi che apre.
La qualità del risultato è notevole. L’autore si schermisce, spiega di non essere storico, né economista o giornalista di mestiere, ma questo diventa paradossalmente un punto di forza. E non soltanto per il principio secondo cui le cose che riescono meglio sono proprio quelle che si fanno gratis, ma anche perché di economia, sociologia, politologia, storia e geografia Monicchia dimostra di capirne più di tanti mestieranti. Giornalista oltre tutto lo è d’istinto, e del tipo migliore: possiede le qualità native del divulgatore e del comunicatore, che proprio dall’approccio non specialistico risultano potenziate. È per queste ragioni che le recensioni pubblicate su “micropolis” presentano un pregio immediatamente evidente anche agli antipatizzanti: vi si ritrova un’esposizione del libro puntuale, chiara e sintetica, che invano altrove si cercherebbe (provare per credere!). Il recensore individua con sicurezza i nodi problematici del libro in esame, pone sul tappeto le questioni più delicate e controverse e intorno ad esse costruisce il pezzo.
La chiave di tutto è la politica e Monicchia ne ha forte la consapevolezza. La facilità con cui, anche e soprattutto a sinistra, si sono accettati i luoghi comuni dell’ideologia neoliberista, con gli annessi e connessi (dal paradigma della complessità alle irritanti profacole sul postindustriale e sul postmoderno), segnala una fuga dalla ragione, una dilagante poltroneria. Nei primi anni sessanta Franco Fortini, in un libro esemplare come L'Ospite ingrato, spiegava come l’espressione “fine delle ideologie” fosse un eufemismo volto a significare l’auspicata fine del comunismo. Adesso che il comunismo, almeno quello “realmente esistente” è finito davvero, le proclamazioni antiideologiche accompagnano l’accettazione supina dell’ordine sociale vigente, una resa incondizionata al dominio del capitale. Ma una volta che si rinunci a cambiare il mondo (anche solo riformandolo, non necessariamente rivoluzionandolo), ai più sembra una fatica inutile oltre che improba il tentare di comprenderlo. Le stesse minoranze di sinistra che si vogliono critiche e radicali alla dura ricostruzione di una prospettiva sembrano perciò preferire un opportunistico adattamento all’esistente attraverso la conquista di nicchie di sopravvivenza, per scavarsi le quali gli strumenti scelti sono quelli tipici dell’odierno mercato politico. Né è pagante a sinistra un grezzo movimentismo. Il libro di Monicchia guarda con simpatia ed esamina con acume i soggetti sociali vecchi e nuovi che si oppongono all’ordine costituito e talora riescono ad intaccarlo, ma i movimenti rischiano il disarmo e il disastro, se alla loro diffusione e crescita non s’accompagna la ricerca teorica, la definizione di obiettivi, l’analisi concreta delle situazioni concrete.
A questo andazzo le recensioni qui pubblicate oppongono una resistenza non soltanto ideologica. Il mondo fatto a pezzi dal dominio capitalistico e dalle ideologie dominanti, “complessificato” più che complesso, per Monicchia può essere afferrato solo da un “pensiero forte” che recupera e riabilita alcuni strumenti analitici dai più accantonati, ma niente affatto inservibili o superati. Piloni portanti ne sono, con tutte le contaminazioni richieste dalle circostanze, un anticapitalismo ragionevole e ragionato e un marxismo senza miti. Questa scelta rigorosa fa sì che il libro non sia una raccolta di brevi saggi su argomenti di varia umanità, ma un’opera profondamente unitaria. Non diremo che tutto si tiene: nelle fasi di sconfitta e di ricostruzione anche le analisi più accurate presentano scabrosità, scarti, intoppi. Ma una cosa è certa: il libro di Monicchia, oltre a proporci le domande su cui a sinistra dovremmo cominciare ad arrovellarci, indica una via: quella di una nuova centralità della battaglia culturale, di una politica che non si separa né dalla società né dalla scienza.

Agli amici. Una poesia di Franco Fortini

Si fa tardi. Vi vedo, veramente
eguali a me nel vizio di passione,
con i cappotti, le carte, le luci
delle salive, i capelli già fragili,
con le parole e gli ammicchi, eccitati

e depressi, sciupati e infanti, rauchi
per la conversazione ininterrotta,
come scendete questa valle grigia,
come la tramortita erba premete
dove la via si perde ormai e la luce.

Le voci odo lontane come i fili
del tramontano tra le pietre e i cavi…
Ogni parola che mi giunge è addio.
E allento il passo e voi seguo nel cuore,
uno qua, uno là, per la discesa.


da Poesia e errore, 1959, ora in Tutte le poesie, Mondadori, 2014

Le fontane di Militello (Leonardo Sciascia)

Militello, Fontana della Zizza, foto Pina e Nicola Sicilia
Militello in Val di Catania è antico, nobile e armonioso paese.
È affiorato clamorosamente alla cronaca l’anno scorso, tornatovi Pippo Baudo, che vi è nato, per celebrarvi le sue nozze con Katia Ricciarelli. Per Baudo era, credo, una scelta di sentimento; ma apparve e fu consumata sotto specie di sentimentalismo televisivo, escogitata per i media e pienamente arrivata a destinazione. Nessuno, dei tanti inviati a far resoconto dell’avvenimento, seppe o ricordò che la festa per le nozze di Baudo ripeteva e volgarizzava quella che Militello celebrò l’8 maggio del 1604, accogliendo don Francesco Branciforti e donna Giovanna d’Austria: festa di nozze, anche se il matrimonio era stato fastosamente
celebrato a Palermo l’anno prima. Ma Militello non poteva rinunciare a festeggiare le nozze quasi reali del suo signore: e tanto più che don Francesco corrispondeva all’affetto dei suoi sudditi con l’abbellire il paese e con l’addurvi copiosissime acque; acque che - promessa puntualmente mantenuta dopo febbrili lavori - da più fontane zampillarono il 28 aprile del 1607: e ancora una ne resta, chiamata della Zizza, bellissima. E sembra inverosimile ci sia stato un tempo, per un paese siciliano, in cui non solo la promessa di dare acqua veniva mantenuta, ma in cui la bellezza, è il caso di dire, faceva nozze con la pubblica utilità: ché oggi ci accontenteremmo di questa o di quella solamente.

Da Il ritratto di Pietro Speciale in Fatti diversi di storia civile e letteraria, Sellerio, 1989

Poesia e Rivoluzione russa. Un’intervista a Serena Vitale in occasione del centenario (Nicola Porcelluzzi)

Serena Vitale è una studiosa della letteratura russa con molti meriti, ma – secondo me – l'intervista che segue, di Nicola Porcelluzzi, un giovane slavista veneto, pubblicata da “Il Tascabile” e ripresa da diversi siti non le rende onore. La lettura proposta, una cultura e una poesia che all'improvviso maturano (nel primo ventennio del Novecento) e che la Rivoluzione uccide o spinge al suicidio, mi pare semplificata e semplificante al limite della banalizzazione. C'è un passaggio che viene ignorato e che non è secondario: e cioè che anche la Rivoluzione è frutto di quella improvvisa e meravigliosa esplosione di modernità e che i tragici travagli che affliggono i geni della poesia non hanno radice diversa da quelli che colpiscono le esistenze di tanti rivoluzionari (inclusi alcuni geni della Rivoluzione). Forse si dà un buon consiglio a Vitale e a Porcelluzzi, se li si invita a rileggere Poesia e rivoluzione di Trotzky. Li aiuterebbe ad una più ricca e serena comprensione dei processi. (S.L.L.)

“Studierai russo perché è la lingua di Lenin”, scriveva Majakovskij: anni fa mi sono trovato a studiarlo all’università, senza mai chiedermi perché – almeno all’inizio. I progressi nella lingua erano lentissimi, e sofferti; al contrario, l’eredità storica e letteraria di una terra che sfuggirà sempre alla nostra comprensione, velata da un principio di indeterminazione, ha contribuito a ri-cablarmi il cervello, ri-sintonizzarmi il cuore, e mi accompagnerà sempre. Non è scontato spiegare cosa significa studiare la letteratura russa, e soprattutto sovietica, a vent’anni compiuti. È un’immersione da cui si risale lentamente, cercando di apprezzare un paesaggio sempre meno cupo.
C’è però qualcuno che lo capisce bene, anzi, che ha vissuto per questo. In occasione del centenario della rivoluzione infatti, ho avuto la fortuna di intervistare Serena Vitale, una scrittrice (e insigne slavista) che questa immersione l’ha portata fino in fondo, sacrificandosi alla Letteratura già negli anni Settanta, quando da Mosca trafugava in Italia libri proibiti, intervistava classici del Novecento come Sklovskij, il padre del formalismo. Queste e altre storie vengono raccontate nel suo A Mosca, a Mosca!, un libro da leggere.
Riascoltando la nostra conversazione mi stupisco di quanto Vitale abbia ripetuto quell’intercalare, “come lei saprà benissimo”, un inciso che mi intimorisce, mi onora – anche se non corrisponde a realtà, e mi fa pensare che avrei voluto dirle quanto poco in realtà ne sappia, soprattutto di fronte alla sua erudizione, alla sua chiarezza espositiva e al suo coraggio.

Ho recuperato un volume di Lo Gatto, una Storia della letteratura sovietica, perché so che la definizione vaga di “poeti della rivoluzione” non la convince, anzi, la respinge, ed è stato intenso tornare a pagine che avevo letto avidamente non troppi anni fa, cinque o sei, anni che sembrano essersi moltiplicati per via di quello che è successo nel frattempo, sia – banalmente – a livello autobiografico che, meno banalmente, a livello sociale, politico, culturale. Ecco Lo Gatto: “sul piano rivoluzionario, la rivoluzione non era avvenuta. Le origini di quello che sarà il campo letterario sovietico dei primi anni Venti si possono già individuare nel simbolismo”, in Gorkij, in Pietroburgo di Belyj…
Ma guardi, non ricordavo che l’avesse detto il grande Lo Gatto, che io ho avuto l’onore di conoscere quando andavo all’Università di Roma, lui veniva – già fuori ruolo – spesso alle feste che facevamo a Natale, il grande padre della slavistica italiana. Lo vado ripetendo da giorni e mi guardano come una matta, avessi saputo che c’è l’autorità di Lo Gatto… Certo, tutto ha inizio con il simbolismo, con la décadence, con questo improvviso aprirsi della Russia alla fine dell’Ottocento ma soprattutto all’inizio del Novecento, alle influenze che arrivano da Occidente, e come è solita fare la Russia (si pensi alla cristianizzazione), assorbe un influsso, un richiamo e lo rielabora in modo del tutto autonomo.
Il simbolismo in Russia assume delle connotazioni mistico-religioso-filosofiche che sono quelle che fanno anche nascere il pensiero filosofico russo di quegli anni. Si dice infatti che non esiste una filosofia in Russia, ma altroché se esiste. Se si prendono i grandi pensatori di inizio Novecento, se si considera quella specie di koiné in cui i filosofi, i poeti e gli scrittori agivano insieme, si scambiavano le proprie impressioni: penso ai discepoli del simbolismo, che tra l’altro riconoscevano l’autorità di maestri come Blok, o gli studiosi geniali dei meccanismi della lingua e della poesia come Belyj – su cui ho fatto la tesi di laurea… Di Belyj poi non è solo la poesia a svettare, è il suo pensiero che è grandissimo.

È difficile raccontare a un pubblico, a una persona che non si è occupata di queste pagine, come la tradizione letteraria russa in due secoli (Settecento e Ottocento) abbia preso tutto quello che si chiamava letteratura in Europa, condensandolo e arrivando al Novecento pronta per dire la sua.
La letteratura russa in quel periodo è esplosa. Fino ad allora era confinata alla religione, la narrazione era nata all’interno dei monasteri, poi per lungo tempo restò confinata alla nobiltà – neanche tanto tempo poi, mezzo secolo appena – e infine è scoppiata. Come comprendere questa esplosione? Esplode anche insegnando all’Europa, perché il grande romanzo russo ottocentesco a volte addirittura supera la tradizione europea. La Russia è un paese di enorme potenziale che in queste oscillazioni tra Oriente e Occidente riesce sempre a trasformare e rielaborare questo materiale che la trasforma in maestra. Come spiegarlo, sono i miracoli della storia, difficile riassumerlo in poche righe.

Un’altra cosa complicata è spiegare agli amici, a chi legge, quanto davvero sia affascinato e sconvolto dalla ricchezza del primo decennio della prima letteratura sovietica, tutto quello che è successo tra il 1917 e il 1929 (anno in cui iniziano a spandersi i tentacoli del Realismo Socialista). È successo di tutto.
Di tutto. Tenendo conto che la reazione alla crisi del simbolismo da parte di tutte queste persone che ci hanno affascinato… come dire, io stessa ho fatto l’errore di intitolare un mio saggio Avanguardia e rivoluzione, ma non è proprio così, le due cose non sono vincolate. Le avanguardie si svilupparono dalla crisi del simbolismo in un’epoca che poi visse il trauma della rivoluzione: Majakovskij, per esempio, aderì al bolscevismo, certo, ma per il resto il governo bolscevico fece strame di questi poeti, di questi letterati. Dopo la presa del potere, quando il nuovo soviet chiamò a raccolta gli intellettuali al Palazzo Smol’nyj si presentò solo Majakovskij. Per il resto fu un’ecatombe.
Quello che bisogna capire è che non fu l’oligarchia bolscevica al potere a perseguitare le avanguardie che ci affascinano tanto, il cubo-futurismo, l’acmeismo, e tutta quella fioritura straordinaria che la poesia europea forse non ha mai conosciuto, futurismo e surrealismo compresi; furono soprattutto i rappresentanti delle Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a Majakovskij, a Chlebnikov. Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta. Considero la data della morte di Majakovskij come la fine simbolica dell’Avanguardia, una fine violenta. Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni – questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci – abbia prodotto questa dozzina di geni, e di questi geni quasi nessuno è morto nel proprio letto. In Russia allo scrittore viene delegato un ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che non ha pari nel mondo.

Facciamo un gioco, provo a tirare fuori i nomi di questi dodici geni, e lei mi corregge.
Proviamo.

Allora, immagino che ci siano Blok e Belyj.
Belyj non lo includo, parlavo di grandi poeti; però lo includo volentieri tra i geni. Se mettiamo anche i filosofi e i teorici del linguaggio poi superiamo la trentina di voci. Senza Belyj non ci sarebbe stato il formalismo, lo strutturalismo, Belyj è un genio della teoria del linguaggio. I romanzi sono straordinari, Pietroburgo, il ciclo moscovita… ma parliamo di poeti.

Mi affido alla memoria e al cuore. Majakovskij, Blok, Chlebnikov?
Un grandissimo. Riconosciuto da tutti come maestro. Vuole che le dica come sono morti? Blok di quello che chiamo suicidio bianco, tentò di aderire alla rivoluzione ma non gli venne permesso di andare all’estero per curarsi, e morì così, inerte. Majakovskij, l’abbiamo detto, suicida [L’ultimo libro di Serena Vitale per Adelphi è Il defunto odiava i pettegolezzi, e parla di questo]. Continuiamo il gioco.

Poi c’è Esenin.
Grandissimo poeta contadino, melodioso come solo la campagna russa poteva produrre, anche se non è il mio preferito. Anche lui inizialmente aderisce alla rivoluzione, per poi accorgersi che la campagna russa da lui idolatrata si trovava ancora peggio di prima. Un altro suicidio, da parte di un alcolizzato, un uomo che non riusciva a trovare il suo spazio.

Dilaniato tra i due poli irrisolvibili, tra la nostalgia di una vita più dura e i bisogni di una città che non lo capiva.
Mosca non lo capiva, Esenin dava scandalo, però la campagna di cui cantava era distrutta, la civiltà del treno lo ossessionava – la figura del teppista urbano nasce con lui.

Poi c’è Pasternak.
Pasternak è morto nel suo letto, ma tutti conoscono le persecuzioni che subì nell’ultima fase della sua vita. Durante gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione per un po’ tacque, scrisse le cose meravigliose di Mia sorella la vita, dove c’è una poesia in cui si affaccia dall’abbaino e chiede, “Compagni ditemi, che secolo c’è fuori?” e da qui si capisce il suo estraniarsi, il suo prendere le distanze. Aderì a un gruppo minore del cubo-futurismo, e fino agli anni Trenta lo lasciarono in pace. Stalin gli telefonò per chiedergli “ma Mandel’štam secondo lei è bravo?”, una di quelle telefonatine che faceva ogni tanto, l’orrore del potere. Però poi tacque, e sappiamo la storia di Zivago, le persecuzioni, più che personali rivolte verso le persone amate, come la seconda moglie finita in un lager. Gli resero la vita impossibile.

Siamo arrivati a Mandel’štam.
Su Mandel’štam non so neanche cosa dire. Bastano le date, 1891–1938. Fu vittima prima dell’apartheid, una persecuzione, una negazione della sua esistenza che lo portò quasi alla pazzia, e… [sospira] Secondo me è stato il più grande poeta del secolo. Prima condannato, poi esiliato, poi morto in un lager. Veniva dall’acmeismo, un movimento nato nel 1912… Anzi già che ci siamo nominiamo Anna Achmatova. La più grande insieme a Mandel’štam, diventa grandissima quando il potere perseguita i suoi cari. Non l’hanno mai toccata personalmente – anche se aveva sempre il KGB praticamente in casa – però avevano toccato quello che le era più caro, gli uomini che amava, soprattutto il figlio. Requiem è un cantico meraviglioso dove lei da poetessa da camera si trasforma in voce eroica ed epica di tutta la Russia al femminile, quella che faceva le code davanti alle carceri per i figli, i mariti.

Ricordo la fila che viene versificata nel libro, e se non sbaglio dedica l’opera alle madri in attesa all’esterno del suo carcere.
Certo, lei racconta nella prefazione che qualcuno le si avvicinò mentre era in attesa di fronte a una prigione di Leningrado, e le chiese “lei sarebbe capace di descrivere tutto questo?”. Lei ci pensò un attimo, e disse: sì. Mi commuovo ancora adesso. Il Requiem è una cantata tragica come solo una madre poteva scrivere, anzi, come solo una donna poteva scrivere, sugli orrori delle repressioni.

Così arriviamo al primo marito di Achmatova, Gumilëv.
Gumilëv, ucciso nel ’21. A quanti siamo arrivati, otto? Grande poeta acmeista che non ebbe il tempo di svilupparsi perché morì giovanissimo: venne accusato ingiustamente di un complotto monarchico. Il suo era un acmeismo in versione vitalistica, una poesia in cerca del primo giorno della Creazione. Cosa sarebbe diventato se non fosse morto a trent’anni, non è dato sapere.

Vado con l’ultimo che mi viene in mente al momento, Chodasevic.
Un grande, vede, lo sto ripetendo in continuazione. [ridiamo] Costretto a emigrare, c’è anche da tenere presente questa enorme emorragia di forze che causò l’avanzare del bolscevismo. Se emigravano, emigravano a volte anche per caso, pensando di potere tornare, la prima ondata migratoria degli anni Venti era ancora incerta, non si capiva ancora cosa sarebbe successo. Però rimase lì, in Francia, e scrisse una poesia molto europea, La notte europea infatti, di un pessimismo assoluto ma di una fattura meravigliosa, classica. E siamo a nove. Ah, c’è la Cvetaeva.

Collegamento nato anche grazie al comune destino di emigrata. Chodasevic l’avevo scoperto grazie a un libro incredibile, Necropoli.
Necropoli, il libro di memorie, ma le consiglio La notte europea, scriveva pochissimo, sul filo di questa linea puskiniana, però anche lui figlio dell’epoca, con quell’occhio terso, lucido sulla realtà che potevano regalare soltanto gli anni Dieci.

Uno dei preferiti di Nabokov. Chi stiamo dimenticando?
La Cvetaeva, è inutile parlarne, cosa dire ancora di lei? Il suo rapporto con la rivoluzione è molto complesso perché passa attraverso la figura del marito, controrivoluzionario.
Lo segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come, probabilmente suicida. Appena era tornata in patria le avevano portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi deriva da una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il giorno in cui ha saputo che anche il marito non c’era più. Quando si trovava in condizioni terribili, durante l’evacuazione bellica, sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il rapporto di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato da questo amore enorme per il marito, un amore difficile da comprendere per noi, sapendo delle sue avventure amorose – Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio pubblico. A quanti siamo?

Siamo a dieci.
Credo di avere dimenticato un poeta poco conosciuto in Italia che è Zabolockij, di cui è stato tradotto – non impeccabilmente… – solo Colonne di piombo, poeta eccezionale. Fu colpito da una specie di nevrosi ossessiva, un uomo profondamente segnato nella psiche dalla repressione, distrutto dalla paranoia. Purtroppo non posso ancora dimostrarlo in italiano, ma un gigante. E poi c’è tutto il gruppo OBERIU.

La mia tesi era proprio su un racconto di Daniil Charms.
Charms e Vvedensky furono i creatori di questa versione russa dell’assurdo, del dada russo. Figura unica nel panorama letterario, Charms dopo il secondo arresto si finse pazzo per essere ricoverato e morì in un letto di fame, in un ospedale psichiatrico durante l’assedio di Leningrado. Lui e Vvedensky condividono un destino tragico, terribile. Bisognerebbe tradurre tutto quello che hanno scritto. C’è un unico problema: per vivere erano costretti a scrivere poesie per l’infanzia. La poesia per l’infanzia – che visse una tradizione meravigliosa in Russia – ha sfamato molti poeti, il problema è che le poesie per l’infanzia di Mandel’stam, Pasternak, Majakovskij eccetera non si possono tradurre perché come tutte queste poesie sono sempre al limite del limerick, del gioco di parole, si tratta di un patrimonio inaccessibile per l’Occidente. Ah, mi è venuto in mente il dodicesimo: Klujev.

Un altro poeta contadino.
Poeta contadino, all’inizio blandito dal potere bolscevico che pensava di poterne sfruttare la naturale carica eretica, un’energia che c’era nella religione popolare, nelle sette eretiche russe, le sette rappresentate da Belyj ne Il colombo d’argento, per dire. La religione russa è sempre in odore di eresia e Lenin pensò addirittura di sfruttare questa energia, ma fu un idillio che durò pochissimo – le sette vennero castigate come la religione ufficiale, e Klujev muore in un lager nel 1937. Il suo russo è intraducibile, le sue radici antichissime.

La religione russa popolare presentava un lato mistico, quasi paganeggiante…
Certo, quella che veniva chiamata doppia fede, ne parla anche Esenin in un saggio. Dobbiamo ricordare che era un paese cristianizzato dal Mille dopo Cristo; è chiaro che chi dipende dal calendario agrario sovrappone le festività religiose a quelle del calendario agrario. Paganesimo e fede ortodossa si fondono in una miscela fantastica. Si tratta di documenti rari, ma se ancora adesso si va nelle foreste del Nord si trovano tracce di questa religione popolare, una doppia fede che non implica un’ambiguità, ma è caratteristica di una popolazione fortemente contadina – nella seconda metà dell’Ottocento il 90% circa dei russi era ancora contadino. Una tradizione monumentale che si è persa, e si trova ancora nella lingua di qualche nonna nascosta nella foresta.

Parlando di rapporto tra uomo/natura e prima letteratura sovietica, mi vengono in mente Bogdanov e Platonov, un altro gigante assoluto.
Un altro gigante. [ridiamo] Pensi che abbiamo parlato solo di poeti; si immagini che galassia di scrittori, pensatori, fisici, matematici, quante le idee che scorrevano… è un’idea di geni, non possiamo farci niente.

Oggi è il 7 novembre, considerato convenzionalmente come anniversario. Ho ripreso in mano una poesia di Majakovskij, si chiama 150.000.000, dove il poeta si immagina il centenario della rivoluzione, e scrive: “forse è il centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, forse è semplicemente un meraviglioso stato d’animo”. Cosa possono significare, per un russo, queste parole?
Niente. Non gli interessa niente. Tranne qualche superstite leninista magari… 150.000.000 fu giudicato da Lenin un libro per pazzi. Disse, non stampatene più di millecinquecento copie (o giù di lì), questo è un libro per pazzi. Un libro che in realtà glorificava l’evoluzione, e riflette un giovane Majakovskij che ha ancora non ha subito il verme della delusione.

Infatti è del 1919-20. Infine, grazie al potere della letteratura posso dire dove lei si trovava la sera di cinquant’anni fa. Si trovava nella casa di “un rivenditore specializzato in rarità editoriali” simboliste.
No no, quella era la mattina. Era uno di quelli che campava rivendendo agli stranieri cose come le icone, ovviamente delle croste, figure medio-legali che la polizia sopportava perché potevano sfilare qualche informazione. La sera invece vidi da in alto in alto, dal ventottesimo piano della NGU [sorta di mega-residenza universitaria, ndA], i fuochi… e la faccia di Lenin, enorme: poi ho scoperto il trucco, era sospeso da una specie di mongolfiera. Panem et circenses. Me lo ricordo bene perché in quei giorni facevano girare la vodka extra: uno scialo incredibile.

Uno scialo incredibile, nella migliore tradizione sovietica. La parte per il tutto.



Da “Il Tascabile” ( http://www.iltascabile.com/ )

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