29.4.11

La radicale distruttività delle scelte neoliberiste.

Nel suo ultimo libro, Il grande saccheggio, lo storico Piero Bevilacqua traccia una diagnosi impietosa dei danni prodotti dal dominio capitalistico e suggerisce alcune proposte politiche immediate. Propongo qui l’utilissima sintesi contenuta nella recensione di Michele Nani su “il manifesto” del 19 aprile 2011. (S.L.L.)
Mentre l'economia globale passa da una crisi all'altra, la scienza economica ufficiale rifiuta di prendere coscienza delle radici dell'instabilità. Anche quando si vuole critica e, ad esempio, denuncia la speculazione finanziaria, non arriva a chiamare in causa gli squilibri nella distribuzione della ricchezza, determinati dalla logica intrinseca della produzione capitalistica e dal modello di accumulazione degli ultimi decenni. Nel tentativo di frenare la caduta dei profitti, le politiche neo-liberiste hanno sancito la ripresa del comando padronale sull'economia e hanno prodotto precarizzazione, disoccupazione di massa, allungamento della giornata lavorativa e compressione salariale; hanno inoltre intensificato, nel quadro di una concorrenza sempre più sfrenata, la corsa al deterioramento dell'ambiente. Il capitalismo è entrato in una fase di «distruttività radicale»: questa la tesi centrale del Grande saccheggio (Laterza 2011, pp. XXXII-217, euro 16), l'ultimo saggio di Piero Bevilacqua, tra i più importanti storici italiani.

Macchine oligarchiche
Sul versante dell'analisi si insiste sull'attualità della lezione marxiana: le crisi sono elementi strutturali dell'economia capitalistica. Rispetto al quadro novecentesco siamo però in presenza di una novità storica: senza la resistenza del movimento operaio, il libero dominio del capitale regredisce alle forme di sfruttamento delle origini. Con esse non può ovviare alla crisi, ma solo riprodurla in forme ancor più laceranti, distruggendo ricchezza e polarizzando ulteriormente le società.
Lo spreco di risorse ne è lo specchio più eloquente: per citare solo due degli esempi ripresi nel volume, l'iperconsumo euro-americano colonizza l'immaginario infantile e genitoriale nel segno del disciplinamento consumistico (negli Stati Uniti la spesa trainata dai bambini è superiore all'enorme bilancio militare) e procede inesorabile sulla strada del degrado ambientale (cementificazione dei suoli, aumento del traffico e dell'inquinamento atmosferico, proliferazione di rifiuti). L'enorme capacità scientifica oggi disponibile per una diagnosi accurata dei danni prodotti dal dominio capitalistico è resa meno efficace dalla frammentazione del sapere, per la logica disciplinare imperante nelle università e, soprattutto, dall'incapacità delle dirigenze politiche di tenerne conto per prevenire esiti catastrofici. L'imprevidenza, per usare un eufemismo, della privatizzazione dell'acqua e dell'opzione nucleare offrono conferme evidenti a questi assunti. Solo il conflitto di classe può porre dei limiti a una china pericolosa, sia sul piano delle lotte del lavoro che su quello politico.
La diagnosi offerta da Bevilacqua sull'involuzione della sfera politica è tanto impietosa quanto  radicale (è) la disamina del meccanismo capitalistico riassunta nelle pagine precedenti.
Macchine oligarchiche che riproducono un vero e proprio «ceto politico», i partiti odierni hanno conservato solo un flebile legame con progetti e programmi, e hanno così iniettato, giorno dopo giorno, dosi massicce di cinismo nella popolazione, sempre più consapevole della separatezza dei «politici» dalla vita quotidiana. Le «politiche della paura» producono ad arte sensazioni di insicurezza per conservare un legame - malato e intimamente autoritario - fra i rappresentanti e la base sociale che li sorregge con il voto. Separatezza e paura impediscono la formazione di risposte di classe alla crisi capitalistica e producono, con Benjamin, il regresso dei lavoratori a «massa» o «folla».

La logica del risentimento
L'Italia rappresenta un «caso esemplare» di (auto)cancellazione della sinistra politica e di diffusione nelle classi subalterne di culture del risentimento che favoriscono l'imbarbarimento politico (l'atteggiamento sulla guerra libica e sui profughi ne è solo la più recente manifestazione). Come negli anni Venti, l'Italia è ancora un laboratorio: «il capitale che si mangia la politica» ha trovato qui un'incarnazione perfetta nel fenomeno-Berlusconi. Perché? Bevilacqua recupera le pagine dei Quaderni gramsciani per ricordare al lettore la storica mancanza di egemonia delle classi dirigenti nazionali (varrebbe la pena ricordarlo, in tema di 150°), da cui la vocazione al particolarismo, alla violazione delle regole e all'eversione.
Si rifiuta qui l'invocazione di una pretesa «mutazione antropologica» degli italiani a spiegazione degli esiti politici prevalenti dal 1994. L'antropologia dell'Italia democristiana, ci ricorda l'autore, non era poi così diversa e, soprattutto, nella storia del Belpaese è esistita un'opposizione di massa di ben altra qualità etica e politica. Un'altra Italia tuttora viva, come dimostrano le mille resistenze, dalla denuncia della gestione dei rifiuti in Campania ai «no-tav» valsusini.
Come uscire dalla crisi e dalla politica che produce anti-politica? Innanzi tutto per Bevilacqua occorre opporre alla logica del risentimento quella della visibilità del conflitto di classe: i problemi sociali trovano le loro radici nella diseguaglianza e nello sfruttamento, che non sono fenomeni inevitabili e invarianti, ma sono legati a rapporti di forza che si formano nel cuore della produzione capitalistica. Il peggioramento delle condizioni materiali di vita, come i rischi di catastrofi ambientali, hanno precisi responsabili, poiché esiste una catena causale alle origini del loro prodursi. Riaffermarlo pubblicamente e costruire una politica fondata su questi assunti è la precondizione per invertire la rotta. Di questi tempi, ribadire esplicitamente che la politica si fonda sui processi sociali e deve tendere alla loro trasformazione fa del Grande saccheggio un libro prezioso. Anche le forme della politica rappresentano però un problema. Le ragioni del cinismo dilagante in Italia, ma anche della difficile connessione e rappresentanza dei ricchi movimenti di base, stanno nella moderazione di quel che resta dei partiti di opposizione. La loro condotta quotidiana risponde alle stesse dinamiche del resto del «campo politico», nella distanza dai bisogni elementari della popolazione e nei contenuti troppo vicini a quelli degli avversari e dei gruppi economici dominanti.
Per di più, le esperienze di governo di «centro-sinistra» hanno aggravato la sfiducia popolare, poiché non hanno offerto miglioramenti palpabili, possibili solo nel quadro di una politica economica alternativa ai fondamenti delle linee neo-liberiste responsabili della distruzione sociale e ambientale. Bevilacqua sa bene che alla crisi di sistema si può rispondere solo con una radicale riduzione dell'orario, che redistribuisca il lavoro ed elimini la disoccupazione, fonte di miseria e di ricattabilità. Nell'immediato, tuttavia, oltre a sollecitare la ripresa dell'iniziativa da parte di un sindacato giudicato eccessivamente immobilista, ritiene più realistico immaginare un «piano del lavoro giovanile», incentrato sul recupero delle aree interne, nel segno dell'agricoltura, di piccole agro-manifatture, di artigianato teso al riciclo e alla riparazione, di politiche dei rifiuti, di energie alternative, di nuovi istituti di ricerca pubblica (sul modello delle francesi Maisons de science de l'homme).
Come imporlo alle classi dirigenti? Occorre prima di tutto restituire la politica ai cittadini, sgretolando la separatezza del ceto politico, attraverso il varo di provvedimenti specifici. Per citarne alcuni: un tetto alle spese elettorali, la riduzione di stipendi e privilegi parlamentari, il divieto del cumulo di cariche, il ritorno al sistema elettorale proporzionale. Giudicata impossibile l'auto-riforma del ceto politico, la proposta che chiude Il grande saccheggio è indirizzata in primo luogo ai movimenti: una nuova campagna referendaria (evidente è qui la lezione della recente mobilitazione per l'acqua e antinucleare), centrata sulla riforma della politica potrebbe configurare un salto di qualità nell'opposizione sociale, consentendo il superamento della frammentazione e la costruzione di uno sbocco politico. Vedremo nei prossimi mesi, prima e dopo il voto di giugno, se i destinatari raccoglieranno l'invito.

Novecento italiano. Il fumo letterario (Massimo Raffaeli)

Beppe Fenoglio
Scrivo fumando senza tregua è un verso bellissimo e l'ha scritto una volta sul manifesto Luigi Pintor. Oggi ritenuto politicamente scorretto e indifendibile, il fumo rimane tuttavia nella letteratura italiana un'insegna del secolo che ci sta alle spalle. Fumava Giovanni Papini, da matti, e affumicava insieme con le lenti a culo di bicchiere tante pagine del proprio magistero reazionario, come fumavano, e sapevano di fumo e nebbia i loro personaggi, gli scrittori anni Trenta della fronda antifascista, ad esempio Pavese, che nel fumo incubava enigmi esistenziali, anzi li ruminava in un silenzio spasmodico, e poi l'Elio Vittorini di Uomini e no, le cui nazionali sapevano in sogno d'arancia e limone, e infine Romano Bilenchi, un nostro compagno che dietro al fumo delle Nazionali strizzava gli occhi per pensare meglio, per alleviare ulteriormente la pagina, per indovinare un interlocutore più fraterno.
Fumo e cenere, in allegoria, stanno dentro i testi della grande tradizione poetica, da Eugenio Montale che ne aveva le dita gialle e corrose, a Vittorio Sereni le cui boccate prima che smettesse somigliavano ai suoi versi lunghi e meditati, quasi sospirati.
Umberto Saba fumava la pipa, volentieri morsicandola e peraltro inebriandosi di fumo altrui nelle vecchie osterie, Giorgio Caproni tirò a lungo dalle vecchie Macedonia ma nessuno forse ha fumato tante sigarette quante ne ha fumate Edoardo Sanguineti nel tempo che passa tra i suoi libri apicali, Laborintus ('56) e Postkarten ('78).
Due sono, comunque, e antipodi, gli emblemi novecenteschi del fumo: da un lato quello iscritto nel celeberrimo capitolo terzo della Coscienza di Zeno ('23) di Italo Svevo, sinonimo di coazione a ripetere e inettitudine, mite schiavismo accettato alla stregua di una fatale irresolutezza (perché Zeno proclama di liberarsene nel momento in cui più disarmatamene vi soccombe).
Dall'altro le sigarette povere, carta e foglie le quali arrotolano tabacco grezzo, che fumano i partigiani di Beppe Fenoglio, prima durante e dopo ogni loro azione, vale a dire i Milton, i Nord, i Johnny: non c'è foto superstite di Beppe Fenoglio in cui manchi la sigaretta al lato della bocca, simbolo stesso del meditare e intarsiare la prosa (e lui proprio di tale doppio accanimento morirà quarantenne) così come non c'è sequenza del suo grande ciclo epico che non preveda il fumare alla maniera di una cadenza esistenziale, e di una necessaria introversione.
Nemmeno questo può essere un caso, in definitiva: pochi rammentano infatti che il secolo da noi si era aperto con un libro all'insegna del buffo, Il codice di Perelà (1911), a firma Aldo Palazzeschi, dove appunto folleggiava un nipote degenere di Zarathustra, l'omino fatto tutto quanto di fumo. Perelà amava le domande dei semplici e odiava le risposte dei filistei, era la leggerezza anarchica di contro alla pesantezza dei poteri costituiti. Dunque rappresentava la mitezza antipode della brutalità. Nel suo niente era tutto, ovvero (e sia detto dopo il ben altro fumo di Auschwitz e Hiroshima) avrebbe potuto esserlo sul serio.
da "il manifesto", 7 luglio 2004

Vento. Una poesia di Attilio Bertolucci.

Vento
Come un lupo è il vento
Che cala dai monti al piano,
corica nei campi il grano
Ovunque passa è sgomento.

Fischia nei mattini chiari
Illuminando case e orizzonti,
Sconvolge l'acqua nelle fonti
Caccia gli uomini ai ripari.

Poi, stanco s'addormenta e uno stupore
Prende le cose, come dopo l'amore.

28.4.11

Poveri noi. Da "operai" a "plebe". (di Roberto Monicchia)

Nel numero di aprile 2001 di “micropolis”, Roberto Monicchia, mentre recensisce il libro di Marco Revelli sull’esclusione sociale, ragiona sui processi di pauperizzazione, emarginazione, plebeizzazione di lavoratori e pezzi di popolo e sulle loro conseguenza politiche. (S.L.L.)
Nel tentativo di dare conto dell’incubo berlusconiano in cui siamo pesantemente inviluppati, privilegiamo di volta in volta il lato politico, sociale o morale, oscillando al contempo fra la convinzione dell’assoluta anomalia del caso italiano e la sua riconduzione ad uno sviluppo specifico ma coerente della sfera politica nella società globalizzata e postideologica. In questo piccolo e prezioso libro (Poveri, noi, Einaudi, Torino 2011), che raccoglie l’esperienza compiuta alla guida della Commissione di indagine sull’esclusione sociale, Marco Revelli prova a tenere insieme i diversi lati della questione, fornendo un quadro lucido e impietoso del declino generale del nostro paese.
Il punto di partenza è un accurato repertorio statistico, che dimostra senza possibilità di errore che la crisi economica internazionale ha aggravato e cronicizzato la tendenza già in atto all’impoverimento della società italiana. L’aumento della percentuale sia in termini assoluti che relativi svela come la
povertà non sia più un fenomeno di marginalità sociale, riservato ai senza lavoro, ai disagiati e ai disadattati. Nell’era postfordista la fascia dei “non garantiti” non corrisponde più agli “esclusi” dal mercato del lavoro. Il fenomeno è particolarmente rilevante per quanto riguarda il lavoro dipendente, dove si è estesa notevolmente la fascia dei working poor, di coloro che pur lavorando non riescono con il proprio reddito a sostenere un’esistenza decorosa.
Ovviamente il fenomeno cresce in presenza di famiglie numerose e con l’estensione della precarietà. La secca perdita di quota di reddito del lavoro dipendente è un esito diretto del declino del fordismo e delle varie forme di compromesso sociale ad esso connesse. In Italia, dove più forte era stata la crescita del potere di contrattazione dei lavoratori, è più netta che altrove la perdita del nesso tra lavoro, diritti sociali e cittadinanza, e più evidente l’eclissi della rappresentanza politica del lavoro dipendente, vero e proprio “peccato capitale” che è all’origine del fallimento delle sinistre e del successo delle destre anche in ambito operaio. Con la crisi entrano in sofferenza anche diverse fasce del ceto medio, da quello legato ai servizi per la produzione, alla piccola impresa familiare dei “distretti”, fino alle figure ultramoderne legate all’economia biopolitica e cognitiva. In questa sfera l’impoverimento è vissuto tanto più drammaticamente quanto più forti erano state le aspettative di crescita di ricchezza e di status; i segni più evidenti sono da un lato il crescente ricorso all’indebitamento, dall’altro un senso di frustrazione permanente che esplode in forme anche estreme, sia a livello individuale che collettivo.
Come si è accennato, la povertà e l’irrilevanza del lavoro sono l’esito del mutamento di paradigma produttivo, dal postfordismo alla produzione globale, che dà corpo ad una “modernizzazione regressiva”, che si esplica in una separatezza sociale quasi incolmabile, in cui ad esempio il tema della redistribuzione del reddito (cioè l’obiettivo dell’uguaglianza delle condizioni) perde ogni legittimità. In questo quadro la reazione dei ceti impoveriti tende ad assumere non le forme classiche dell’organizzazione e del conflitto, ma quelle ambigue e frammentate del risentimento, dell’esplosione rabbiosa, di un generale senso di impotenza. Ciò è tanto più vero nel caso italiano, laddove per molto tempo si è scambiato il declino per crescita, e la chiusura provinciale in “modello” di sviluppo, e laddove più forte era stata la conquista di cittadinanza sociale a partire dal conflitto di fabbrica, e più dura la sconfitta del movimento operaio.
Un elemento importante di questa trasformazione lo si coglie nel tanto vissuto quanto ostentato “lavorismo”, diffuso a nord tanto tra gli imprenditori quanto tra gli operai. In esso si manifesta la riduzione ad una forma di individualismo esasperato di un modo di essere e di un immaginario che è stato privato della funzione di veicolo di riscatto individuale e collettivo.
Ma più in generale, nell’intolleranza e nella rabbia verso immigrati e rom, nella diffusa insofferenza verso ogni forma di solidarietà sociale, si colgono i segni dell’affermazione della “politica del risentimento” o “psicopolitica”, su cui le forze della destra populista costruiscono le proprie fortune. All’inabissamento del conflitto redistributivo corrisponde l’entrata in scena prepotente dell’invidia sociale, che assume peraltro una configurazione del tutto inedita, orientandosi non più verso l’alto, ma verso il basso. Laddove le gerarchie sociali vengono considerate sostanzialmente immodificabili, ci si fa forza e si resiste puntando l’obiettivo verso gli individui e i gruppi in condizioni di disagio maggiore del nostro, sia per esorcizzare la paura di cadere nella stessa condizione, sia per trovarvi una specie di risarcimento simbolico alle proprie frustrazioni.
Ecco così squadernati davanti a noi tutti gli ingredienti economici, sociali e culturali che compongono la miscela esplosiva che alimenta il successo del populismo politico.
Anche qui: si tratta di un fenomeno globale, ma i tratti della “psicopolitica” italiana sono più marcati e grotteschi, e i suoi interpreti più spregiudicati e pericolosi, sia sul versante leghista che su quello berlusconiano. L’aumento del tasso di povertà si rivela ben più di un fenomeno transitorio o marginale, dalla sua analisi si colgono i segni di una crisi sociale generale che mette a rischio la stessa natura democratica del paese. In un sistema che annulla ogni idea di eguaglianza e trasforma i diritti in concessioni dall’alto, infatti, la dialettica sociale e politica diventa uno “scambio diseguale” tra “protezione” e “fedeltà”. E come se, in conclusione, “oltre il novecento”, il cui superamento era stato non solo registrato ma anche auspicato dallo stesso Revelli (cfr. La politica perduta, recensito da “micropolis” nel gennaio 2004), si riaffacciassero le strutture dell’ancient régime. E così torniamo al punto di partenza, al volto complessivo del berlusconismo.
Mentre stendevamo queste note si è svolto lo show del premier a Lampedusa: da giorni sul piede di guerra contro l’inerzia del governo, gli isolani hanno accolto con entusiasmo le parole di Berlusconi, che promette insieme l’evacuazione degli immigrati e l’acquisto di una villa sull’isola. Punire chi è povero perché è povero e ostentare la ricchezza come privilegio intoccabile sono elementi fondanti della “politica del risentimento”. Il consenso che questa continua a raccogliere illustra come il declino sociale sospinga pezzi consistenti dei ceti popolari verso la condizione di plebe. Probabilmente qui c’è una chiave della resistenza di Berlusconi e del contestuale deperimento della democrazia italiana.

"Zero rifiuti", un prezioso librino di Marinella Correggia (Paola Dessai)

Nella rubrica “TerraTerra” di martedì 19 aprile 2011, “il manifesto” ha pubblicato una breve recensione, dal titolo Spazzini di noi stessi, firmata da Paola Dessai. Ne è oggetto un libro recentissimo, piccolo e poco costoso, sulla questione dei rifiuti. (S.L.L.)

Piazza Armerina, Estate 2009

Ci sono due modi per affrontare il problema della «monnezza» urbana. Uno è quello di realizzare sistemi seri di raccolta differenziata, in modo da massimizzare il ricliclo dei «materiali post consumo» e ridurre il volume di rifiuti urbani prodotti: in Italia molti comuni (soprattutto piccoli) hanno cominciato a farlo, e c'è da chiedersi perché non si riesca a generalizzare una raccolta differenziata sistematica e obbligatoria. A rigore però questa è una soluzione solo parziale. L'altro modo di affrontare il problema infatti è ridurre a quasi niente i rifiuti stessi. Ed è l'approccio che Marinella Correggia (autrice ben nota ai lettori di questa rubrica) illustra in un librino dal titolo Zero rifiuti, pubblicato dalle edizioni Altreconomia (aprile 2011).
Può sembrare un approccio estremo, e lo è: ma è estrema anche l'urgenza di fare i conti con l'enorme dispendio di materie prime, energia (inclusa quella incorporata nelle merci, cioè servita a produrle e trasportarle), reflui industriali solidi, liquidi e gassosi inglobato negli oggetti che trasformiamo in rifiuti - ovviamente da smaltire, con altro dispendio di energia, occupazione di terreni come discariche, produzione di reflui inquinanti da incenerimento.
«Rifiuti zero» non si limita a porre il problema: anzi, si presenta come un «manuale di pratiche individuali e collettive per prevenire i rifiuti, cambiare la propria vita e l'economia». Correggia cita il Mahatma Gandhi, quando diceva che ciascuno dovrebbe essere «lo spazzino di se stesso»... In effetti produrre zero rifiuti - o comunque produrne quasi nulla - richiede sforzi sia individuali (che chiamano in causa i propri consumi e stile di vita), sia delle comunità (luogo di lavoro, scuola, enti locali...). Il librino illustra possibili pratiche di «prevenzione»: dal ridurre l'uso di imballaggi, sacchetti scatole etc, al compostare gli scarti organici (cosa fattibile su scala individuale o collettiva), al riusare oggetti riutilizzabili (impressionante la quantità di oggetti inutili, o prodotti e scartati in tempo brevissimo, di cui siamo circondati). Dunque rifiuti zero « è una strategia che si propone di riprogettare il ciclo di vita delle risorse in modo da far tendere a zero i rifiuti che finiscono in discarica», scrive l'autrice. In Italia 25 comuni (con un totale di 400mila abitanti) hanno già aderito a questa strategia. Altri illustri esempi sono Canberra, in Australia, la prima capitale ad aver adottato (nel 1995) una legge «No waste by 2010»: la città in effetti ha eliminato il 73% di ciò che mandava in discarica. In California, San Francisco l'ha ridotto di tre quarti.
Il librino di Altreconomia ospita un intervento di Paul Connett, professore di chimica e capostipite del movimento «zero rifiuti», che illustra una strategia in dieci mosse. Organizzare la raccolta differenziata è la prima: e si tratta di un problema organizzativo, dice, non tecnologico. Quindi organizzare una raccolta differenziata porta a porta su almeno quattro tipologie (carta, organico, frazione non riciclabile, e multimateriale - cioè vetro, lattine e plastiche). Poi realizzare impianti di compostaggio, quindi iniziative per la riduzione dei rifiuti (un esempio: eliminare i troppi imballaggi alimentari usando sistemi di distribuzione di prodotti sfusi). Introdurre tariffe della nettezza urbana sulla base della quantità di rifiuti prodotti. E istituire centri di ricerca per i rifiuti zero, perché molto c'è da innovare se vogliamo diventare spazzini di noi stessi.

Un irriducibile. Profilo biografico di Emilio Sereni ("micropolis" ottobre 2007)

“Individui irriducibili ormai perduti alla causa della patria”, così il Tribunale speciale nel novembre 1930 si espresse a proposito di Emilio Sereni e Manlio Rossi Doria per giustificare una condanna tra le più dure: 15 anni di carcere. Sereni era nato nel 1907 a Roma, ultimo tra quattro figli in una famiglia di ebrei osservanti, colti e antifascisti. Rossi Doria era stato l’amico del cuore fin dal liceo. Insieme si erano iscritti nel 1924 all’Istituto Superiore di Agraria di Portici, insieme al Partito Comunista d’Italia nel 1928, in quella che fu chiamata la leva della “svolta”.
Altra presenza importante nella giovinezza di Emilio è il fratello Enzo, un “sionista del lavoro” che personalmente partecipava alla costruzione dei kibbutz in Palestina, ma già nel 1927, l’anno della laurea, Emilio gli comunica la scelta di “inserirsi politicamente nella III Internazionale”. La tesi di laurea sulla colonizzazione ebraica in Palestina, influenzata dallo studio di Marx e Lenin, è anche un addio al sionismo: ragionando di proprietà della terra, di vendite forzate, di espulsioni di affittuari, implicitamente denuncia la mentalità coloniale di molti sionisti.
Nel 1928 sposa Xenia Silberberg, ribattezzata Marina, figlia di due socialisti rivoluzionari russi (il padre impiccato nella rivoluzione del 1905, la madre rifugiata in Italia).
Incarcerato a Viterbo e poi a Civitavecchia, Sereni studia di tutto: tre libri al giorno si dice, che spesso ricorda a memoria. Concetto Marchesi più tardi, non senza una punta d’invidia, lo definirà “un immondezzaio di cultura”. Liberato per amnistia nel ’35, raggiunge clandestinamente Parigi, chiamato a far parte del Centro estero del partito. E’ il tempo delle purghe staliniane: Sereni è sotto accusa nella cosiddetta “ispezione” di Giuseppe Berti a causa della famiglia della moglie e dei legami con il cugino Eugenio Colorni (un giellino che Berti sospetta di trotzkismo; morirà eroicamente nella Resistenza). A Mosca nel 1937 è arrestato, “interrogato” dalla polizia politica, condannato a morte. Si salva scrivendo direttamente a Stalin una lettera nella quale proclama la sua devozione e fa autocritica per la scarsa vigilanza. Marina è espulsa, ma Emilio viene riammesso nel partito, alla redazione dello “Stato operaio”, sebbene escluso da compiti organizzativi.
Dopo lo scoppio della guerra Emilio Sereni organizza l’attività politica tra i soldati italiani che occupano le Alpi marittime. Arrestato nel ’43 è condannato a 18 anni dal tribunale di guerra italiano. Falliti i tentativi di evasione dal carcere di Fossano, è rinchiuso per sette mesi nel braccio della morte alle Nuove di Torino, sotto custodia delle SS, ma nell’agosto 1944 riesce a fuggire. Intanto il fratello Enzo, rientrato in Italia per partecipare alla Resistenza, è deportato a Dachau, ove sarà assassinato nel  novembre. Nel ’45 Emilio è tra i dirigenti dell’insurrezione e a dicembre, nel V congresso del Pci, è eletto membro del Comitato centrale e della Direzione (ci resterà fino al ’75). Nel 1946 pubblica una delle sue opere più note e discusse, Il capitalismo nelle campagne (1860-1900), alla cui preparazione si era dedicato negli anni dell’esilio parigino. Due volte ministro nel periodo dell’unità nazionale, senatore, membro dell’esecutivo mondiale dei Partigiani della pace, nel drammatico ’56, già prima dell’Ungheria, è tra i “bastoni” di Togliatti contro i fautori di un più deciso distacco dallo stalinismo. E’ noto l’episodio in cui, da presidente del Comitato Centrale, toglie la parola a Fabrizio Onori dopo pochissimi minuti, impedendogli di argomentare il suo dissenso.
Presidente dell’Alleanza nazionale contadini dal 1955 al 1969, direttore di “Critica marxista” dal 1966 al 1976 è instancabile nell’attività politica come nella capacità di studio.
Del 1961 è la Storia del paesaggio agrario italiano; nella postuma Terra nuova e buoi rossi (1981) confluiscono molti brevi saggi editi e inediti, scritti anche per l’accesso alla docenza nell’Università La Sapienza in Roma.
Negli anni 70 è promotore della nascita dell’Istituto Alcide Cervi per la storia dell’agricoltura, del movimento contadino, dell’antifascismo e della Resistenza nelle campagne. Nel corso delle celebrazioni del trentennale della Resistenza affida all’Istituto la sua biblioteca e la sua massa di schede e appunti.
Quando il 20 marzo 1977 muore, il suo archivio - diventerà il “Fondo Emilio Sereni” - conta oltre duemila buste, ci sono 63.000 pezzi e 1.843 voci, dalle questioni agrarie al Mezzogiorno, dall’archeologia e dall’antichità alla storia economica e sociale. Nei suoi interessi c’è posto anche per matematica, fisica, cibernetica, linguistica, folclore, canti popolari, storia dell’alimentazione.

I bombardieri. Napolitano, Berlusconi e la Libia. (di Antonio Moscato)

Di Antonio Moscato, un compagno trotzkista e internazionalista di lungo corso e di grande intelligenza e generosità, mi è già accaduto di “postare” qualche scritto. Qui riproduco, l’uno dopo l’altro, due brani da due diversi articoli che utilmente si integrano sulla partecipazione italiana alla nuova guerra di Libia e peculiarmente sul ruolo di Berlusconi, di Napolitano e del Pd. Non la condivido al 100%, ma nelle sue linee essenziali l’analisi mi pare fondata e rigorosa. (S.L.L.)
Chi volesse leggere integralmente gli articoli di Moscato, che contengono interessanti corollari storici e teorici, li troverà al seguente link:
http://antoniomoscato.altervista.org/

Facce da bombardieri e teste di cuoio

Charles Aznavour (Giovanni Vacca - da "alias" 9 aprile 2011)

In attesa dell’esibizione romana di Charles Aznavour all’Auditorium, svoltasi il 13 aprile successivo, Giovanni Vacca, su “alias” del 9 aprile 2011, ha pubblicato un articolo sullo chansonnier franco-armeno, di cui qui riporto un ampio stralcio.  (S.L.L.)

Aznavour è, insieme con Juliette Gréco, l'ultimo grande rappresentante che ci resta di quella straordinaria stagione della canzone francese apertasi nell'immediato secondo dopoguerra quando il clima esistenzialista che dominava in Francia, le lotte sociali, il ricordo dell'occupazione nazista e alcuni cambiamenti nel costume favorirono l'emergere di tematiche nuove nella canzone: alfieri di questa «rivoluzione», che sotto il profilo musicale e scenico portava a compimento le sedimentazioni di una lunga tradizione espressiva sviluppatasi nell'arco di un secolo, furono una schiera di eccezionali figure come Ives Montand, Léo Ferré, Georges Brassens, Jacques Brel, Gilbert Bécaud, Boris Vian, Serge Gainsbourg (e, tra le donne, la menzionata Juliette Gréco affermatasi accanto alla già popolare Edith Piaf) che proseguirono l'opera di modernizzazione iniziata da Maurice Chevalier, Mistinguette e Charles Trenet. Quell'irripetibile momento storico si concluse più o meno verso la fine degli anni Settanta, dopo il grande successo della canzone impegnata sull'onda del '68, con la scomparsa di alcuni dei protagonisti (Brel nel '78, Brassens nell'81) e la definitiva trasformazione della scena musicale sotto la pressione del rock e della canzone d'autore statunitense.
Rispetto agli autori «engagés» come Brassens o Ferré, Charles Aznavour è stato però spesso visto come un personaggio sostanzialmente estraneo a quella tradizione, un autore commerciale, un cantante confidenziale alla Sinatra, oltre che un oculato amministratore del proprio talento. In realtà Aznavour è molto più di tutto questo e merita sicuramente una riconsiderazione critica che lo riporti al posto che gli spetta nella storia della canzone d'oltralpe.
Nato a Parigi da famiglia di origine armena (si chiama in realtà Charles Aznavourian), cresciuto ascoltando sia le canzoni dell'epoca trasmesse dalla radio che quelle della propria comunità che si riuniva nel ristorante gestito dal padre, appassionato di musica e cantante occasionale, l'artista francese è innanzitutto lo chansonnier che, più di ogni altro, ha puntato fin dall'inizio sul mercato estero oltre che su quello interno: registrando in molte lingue straniere e sottoponendosi a lunghe ed estenuanti tournée internazionali nella sua lunghissima carriera egli è senz'altro diventato, rivaleggiando forse con la sola Edith Piaf, il cantante francese più noto al mondo. La scelta di lavorare molto anche all'estero … lo ha indotto nel tempo, al fine di ampliare costantemente il suo pubblico, a soluzioni musicali «mainstream» e tarate sul gusto prevalente del paese in cui i suoi dischi sarebbero usciti, con l'ingombrante presenza di orchestrazioni ridondanti e l'innesto non sempre felice di sonorità derivate da quella che allora veniva chiamata musica «leggera».
Le sue prime composizioni lasciano invece intravedere una notevole capacità nella costruzione di canzoni perfettamente in linea con quelle dei suoi colleghi e funzionali a valorizzare la sua particolare vocalità tramite l'uso intelligente di stilemi ritmici di tipo jazzistico o richiami alle musiche popolaresche urbane. Come per molti cantanti venuti alla ribalta nel secondo dopoguerra, agli inizi della sua carriera il problema era una voce che non corrispondeva ai canoni allora in voga, ancora legati a criteri di immediata gradevolezza: gli si rimproverava, insomma, di voler interpretare canzoni che sarebbe stato bene far cantare ad altri (erano quelli, ricordiamolo, anni che dal punto di vista musicale coincisero con la progressiva legittimazione della vocalità «naturale», cioè non educata, finalmente accettata dal pubblico di massa grazie proprio a quegli interpreti che seppero imporla nella canzone popolare). La tenacia dello chansonnier e il suo grande successo fecero sì che questi giudizi fossero in seguito completamente rovesciati, fino a che i critici scrissero
addirittura che le sue canzoni non avrebbero potuto essere eseguite che da lui stesso, cioè da quella voce caratterizzata da una «cavernosa raucedine» e «ricca di tonalità tragiche», come scrisse Ives Salgues (che curò la raccolta dei suoi testi in un volume della serie Poètes d'aujourd'hui, la prestigiosa collana creata nel 1944 dall'editore Seghers). Aznavour fu inizialmente apprezzato soprattutto negli ambienti bohèmien del Quartiere Latino, che videro in lui il cantore dell'inquietudine esistenziale e del sarcasmo contro il perbenismo e i suoi rituali come in Je hais les dimanches, un pezzo degli anni Cinquanta (ma le prime canzoni sono difficili da datare con precisione) e di un nuovo modo di pensare l'amore in un rinnovato clima culturale, che consentiva all'erotismo e alla sensualità di cominciare a circolare più liberamente nella canzone come già accadeva nel cinema e nella letteratura. I testi delle sue composizioni dunque, forse davvero come quelli di nessun altro, possiedono un'eccezionale capacità di raccontare la passione amorosa e i dubbi, le inquietudini, le incomprensioni e le lacerazioni del rapporto di coppia con un linguaggio scabro e franco, ricco di immagini e che, pur impiegando prevalentemente parole di uso corrente, non è privo di momenti di autentica poesia: «Non desideravo, ma proprio per nulla, - ricorda in un suo libro autobiografico (A bassa voce, pubblicato anche in Italia) - scrivere delle canzoni nello stile di quelle che ascoltavo alla radio. Questo non significava che non le apprezzassi, al contrario. Ma ciò che mi importava era raccontare la vita come la vedevo attorno a me, senza fiorettature, senza abbellimenti di versi alessandrini. Non avevo la pretesa di essere un poeta». In brani come Je veux te dire adieu, per esempio, la fine di un amore è esplicitamente associata alla percezione del godimento dell'ex amante tra le braccia di un altro uomo, mentre, in Mourir d'aimer, il dolore di una separazione viene vissuto come baratro esistenziale («Le pareti della mia vita sono lisce/ mi ci aggrappo ma scivolo lentamente verso il mio destino/ morire d'amore»). Aznavour ha cantato anche, specialmente ai suoi inizi, il mondo dei marginali, quello delle bische di poker e della Parigi che vive ai margini della legalità, come in Moi j'fais mon rond, ma una sua costante fonte di ispirazione è stata la vita degli artisti, in genere mostrata nei suoi aspetti duri e difficili ma allo stesso tempo ammalianti. Così, nel quadretto de Les comediens, si ricorda la fatica degli attori da baraccone, ma anche l'incanto che provocavano nelle piazze di paese o di periferia, e l'ironica Je m'voyais déjà è dedicata alle illusioni di chi pensa di sfondare facilmente nel mondo dello spettacolo («Mi vedevo già raccontare la mia vita/ l'aria annoiata, a dilettanti avidi di consigli»). La struggente e celeberrima La bohème, invece, descrive le difficoltà a tirare avanti di un giovane pittore di Montmartre e della sua compagna, intrecciandole a una denuncia delle mutazioni urbanistiche di Parigi che cancellano i luoghi della vecchia città.

Per le strade di Hanoi (di Alessio Fratticcioli)

Su “micropolis on line” il 30 Dicembre 2010, veniva pubblicato un bel reportage da Hanoi di Alessio Fratticcioli, che, usando come epigrafe un Gaber amato da molte generazioni, con un occhio giovane e non velato dalla nostalgia per Ho Chi Minh e i vietcong tipica dei vecchi militanti, rappresenta una città in bilico tra l’austera tradizione rivoluzionaria e le tentazioni del turbocapitalismo a partito unico alla cinese. (S.L.L.)
“C’è solo la strada su cui puoi contare
la strada è l’unica salvezza,
c’è solo la voglia e il bisogno di uscire
di esporsi nella strada e nella piazza,
perché il giudizio universale
non passa per le case,
le case dove noi ci nascondiamo,
bisogna ritornare nella strada,
nella strada per conoscere chi siamo.”
Giorgio Gaber, C’è solo la strada
Hanoi, dicembre 2010
Me ne vado a zonzo per la capitale vietnamita, tra le viuzze contornate da alberi nodosi. Faccio una camminata fino al Lago della Spada Restituita (Ho Hoan Kiem), il magico cuore della Città Millenaria. Giovani ragazze con bilancieri di bambù si affollano attorno ai turisti cercando di vendere banane e ananassi, che nel loro inglese dolcemente storpiato pronunciano balalà panapò (dall’inglese banana e pineapple). Una donna dall’aspetto intellettuale legge un libro, ha i capelli mossi dal vento, gli occhi piccoli dietro occhiali troppo grandi che sembrano lì lì per cadergli dal naso. Attorno a lei, un nutrito gruppo di ragazze e donne di ogni età nel bel mezzo di una lezione di aerobica non sembrano per nulla imbarazzate nell’indossare tutine attillatissime di fronte ai tanti vecchietti che camminano a fianco per farsi una passeggiatina serale, o forse proprio per allungare i vispi occhietti a mandorla sull’abbigliamento succinto che lascia intravedere i freschi corpi che saltellano. Mi siedo su una panchina di fronte all’isoletta col Tempio della Tartaruga, all’estremità inferiore del Lago della Spada Restituita, ad osservare due vecchi e le loro lente partite di scacchi cinesi. Sono seduti a terra, sopra dei giornali, al riparo di un albero, tra un tè, un frutto e una sigaretta, aspettano la fine di un’altra giornata. È anche per cose come queste che amo Hanoi: a tratti appare ancora come un bastione di puro Vietnam, pervertito e graffiato dalla modernizzazione solo in superfice.

Il cibo
Passo oltre il Lago della Spada Restituita ed arrivo su una stradina del Quartiere Vecchio dal marciapiede completamente occupato da tavolini pieni zeppi di gente che banchetta. In questa città, nessuno si sorprende se vuoi mangiare tre pasti al giorno in strada. Anzi, subito tutti si dimostrano prodighi di consigli “logistici” e in men che non si dica sai esattamente quale sia la strada migliore per la colazione, su quale marciapiede sedersi per un buon pranzo e dove si possa andare a gustare una deliziosa cena a poche decine di migliaia di Dong. Per l’ultimo pasto della giornata il luogo migliore sembra essere Pho Hang Bong. È sempre piena di donne, giovani e vecchi, che seduti su consumati materassini assaporano calamari grigliati e involtini primavera fritti bevendo una birra “Tiger” o “Halida”. Al numero 67 di Hang Bang invece si possono degustare molte specialità di pesce e frutti di mare. Una lunga fila di scooter circonda un gruppo di tavolini con al centro un fuoco sopra al quale bolle un pentolone pieno di granchi esageratamente grandi. Una ragazza lava i piatti sporchi in un secchio sopra un tombino che sicuramente è la porta di casa di varie famiglie di ratti. Nessuno sembra essere minimamente a conoscenza degli avvertimenti delle autorità competenti o degli scandali correlati alla sicurezza alimentare e all’igiene recentemente denunciati da tutti i mass media. Secondo studi ufficiali l’81% del cibo delle bancarelle è contaminato con pericolosi microrganismi come l’Escherichia coli (per gli amici E. coli, un simpatico batterio di origine quasi esclusivamente fecale). In sostanza, buona parte del cibo analizzato non raggiunge gli standard igienici minimi fissati dalle autorità alimentari locali, che immagino siano meno severi di quelli previsti dalle autorità alimentari europee.
Ad ogni modo, la mia passeggiata prosegue poi fino a Pho Trang Tien, la via degli ottici e delle librerie, dove al numero 35 la solita folla di gente è seduta a mangiare il gelato - quelli che non hanno trovato spazio si accomodano sui loro scooter, sono appoggiati al muro o addirittura siedono sull’altro lato della strada. Ne prendo uno anch’io, cercando solamente di evitare il gusto del durian, un frutto dall’odore nauseabondo e dal gusto che resiste in bocca per ore, facendoti maledire quell’attimo di debolezza - del tipo “ma si, proviamo, perché no?” - tipico del turista in cerca di esperienze esotiche. Con il gelato in mano proseguo il mio vagabondare fino a un altro luogo estremamente intrigante, il mercato di Hang Be, al centro dell’affascinante Quartiere Vecchio, con le sue bancarelle di frutta, verdura, pesce e carne, e la sua gente che ci si infila dentro a piedi o in sella a una motoretta, il tutto avvolto in nuvole di fumo e vapori, colori e odori, confusione e vita.

La farmacia
Dal mercato di Hang Be proseguo fino alla strada che più amo nella giungla di Hanoi: via Lang Ong, la “farmacia della città”, posta nel cuore del quartiere Vecchio. Appena mi avvicino, quasi per ricordarmi dove sono arrivato, vengo avvolto da un inconfondibile odore di erbe. In Lang Ong - che prende il nome da una delle più grandi personalità della medicina tradizionale vietnamita, letteralmente: “Signor Pigro” - una moltitudine di erbe esotiche contenute in sacchetti di plastica, gechi e cavallucci marini essiccati, funghi grandi quasi quanto sombreri messicani, cortecce di alberi, fiori e semi sono appesi un po’ ovunque, a invadere tutto il marciapiede. Alle domande sull’utilità curativa dei buffi animaletti esposti come mummie tutti rispondono che cavallucci marini, gechi e altre lucertole essiccate sono ottimi afrodisiaci, come d’altronde altri articoli che mi vengono mostrati più all’interno dei negozi – ci sono peni di serpenti (di dimensioni irrisorie) e una speciale bevanda alcolica contenente anche sperma di capra (non chiedetemi come venga raccolto). Su delle mensole, esposte in bella vista, ci sono bottiglie e bottigliette di alcol con dentro serpenti, scorpioni e altri rettili e insetti. Mi dicono che pezzi di palchi di cervo triturati sono ottimi per il mal di schiena, che le ossa di tigre sono una mano santa per i reumatismi e che la vescica di orso può essere d’aiuto per i problemi di digestione e più specificamente per i lividi.
Dentro qualche negozio, praticanti di medicina tradizionale si intrattengono con alcuni pazienti. Altre persone, nel buio di stanzucce umide dai muri incrostati, sono addette alla macinatura delle erbe. Una consultazione medica generalmente è gratuita, eventualmente il paziente pagherà solamente le erbe di cui avrà bisogno. La ragione filosofica è che la medicina tradizionale “esiste solo per curare, non per portare profitti”. Anche la pubblicità è quasi inesistente, perché - mi spiegano - “sarebbe come augurare alle persone di cadere malate”. Ogni praticante di medicina tradizionale giura che questa è una professione che non ricerca profitto, ma vuole solamente “creare un karma positivo” per colui che cura le persone malate.

Il cesso 
Abbandonata via Lang Ong senza aver acquistato nemmeno uno straccio di cavalluccio marino essiccato, mi incammino verso un’altra strada che amo particolarmente: Pho Thanh Nien (Via della Gioventù), tra il Lago Truc Bach (dove il pilota americano John McCain precipitò con la sua macchina di morte e gli abitanti, invece di linciarlo per essere arrivato dritto dritto dall’altra parte del mondo col solo proposito di sganciare bombe sulle loro teste, lo salvarono da un probabile annegamento trasportandolo a riva) e il grande Lago Occidentale (Ho Tay, che in realtà si trova a Nord del centro cittadino). La romantica Pho Thanh Nien è sempre affollata di coppiette che si baciano sulla riva di uno dei due laghi o che si avventurano in acqua su dei pedalò a forma di cigni. In mezzo a questo paradiso di amore e gioventù, un pomeriggio vidi una donna urinare praticamente davanti a tutti, accucciata su un’aiuola. Che sia un uomo o una donna, su di un prato o ai piedi di un albero, ad Hanoi non è raro assistere a “manovre” di questo genere. Ricordo che un giorno un’elegante giovane donna vietnamita avanzava lungo il marciapiede come una vera principessa, sicura sui suoi tacchi a spillo tanto da sembrarmi irraggiungibile e persino arrogante, ero perso nelle sue grazie, solo la sconvolgente visione di quella Dea che gettava in strada il suo sacchetto di plastica nero, scatarrandoci rumorosamente sopra, ha interrotto bruscamente le mie serene meditazioni.
D’altronde, se la strada può essere utilizzata come un cesso, perché mai i vietnamiti non dovrebbero considerarla anche una discarica?

L’amore
A parte le naturali differenze nella concezione dell’igiene, che spesso è una delle prime cose a balzare agli occhi di un occidentale che arriva in questo Paese, Hanoi rimane una città estremamente romantica, che non può non toccare le corde più intime degli spiriti più sensibili… Forse è anche per questo che a volte le sue strade o i suoi spazi verdi vengono utilizzati a mo’ di alcove. Non è raro assistere allo spettacolo di due giovani che si scambiano un po’ d’amore sdraiati uno sull’altro in terra, su una panchina o sul sellino di un motorino. La carne è debole e spesso le abitazioni sono troppo piccole e troppo affollate per poter godere di un po’ di intimità.

I moto bike
I “cittadini onorari delle strade” di Hanoi, però, coloro che conoscono ogni quartiere, viale, viuzza e angolino remoto, di questa meravigliosa città, sono gli “xe om” drivers, i conducenti dei moto-taxi… dei poveri “cristi” che utilizzano il loro motorino come un taxi. Sono appostati in ogni angolo strategico della città, sono migliaia, forse decine di migliaia (a volte penso sia il mestiere più diffuso tra la popolazione maschile, naturalmente dopo quello di commerciante-negoziante-mercante-rivenditore). Difficilmente si riesce a camminare nelle vie del centro per qualche centinaio di metri senza sentire il loro richiamo – “Sir? Moto bike?” – o le loro profferte di merci illegali, come droghe e “massaggiatrici”. Utilizzare il loro servizio, veramente economico, è un’esperienza generalmente piacevole, ma sempre avventurosa e occasionalmente drizzacapelli. Spesso è richiesta una certa dose di tolleranza nei confronti dell’odore non proprio “floreale” del proprio conducente, ma è di dovere la massima fiducia nelle sue capacità di guida – che a volte vuol dire esclusivamente chiudere gli occhi nel bel mezzo di una gimcana e pregare o imprecare quando si attraversa a sessanta all’ora un pericolosissimo incrocio, denso di auto, motorini, cyclo, bici e pedoni che si fiondano da tutte le parti senza la benché minima nozione del codice della strada.

L’umanità in strada
Nel più celebre romanzo ambientato in Vietnam, The Quiet American di G. Green, i vietnamiti non vengono connotati né positivamente né negativamente, semplicemente emergono per quello che sono, in tutta naturalezza. Lo stesso mi sembra di notare ancora oggi, osservando questo museo di antropologia a cielo aperto che sono le strade di Hanoi. O conoscendo chi nelle strade ci vive.
Ricordo ancora di quella volta in cui passeggiavo per Pho Dien Bien Phu, la strada che dal Quartiere Francese si dirige verso il centro della città, mi fermai sotto il monumento di quel Lenin che ancora si ostina ad indicare un futuro che non è mai arrivato. Iniziai a osservare la differenza tra l’aria eroica di quel monumento in stile realismo socialista e la condizione abietta e quasi disumana dei tanti pezzenti e disgraziati ambulanti. Inaspettatamente venni invitato a bere tè e a fumare da una pipa di bambù, da un gruppo di xe om e cyclo drivers. Quando poi alcuni dei miei interlocutori si alzarono, mi intrattenni a parlare con Nam, un ragazzo di trent’anni che per mandare avanti la famiglia scorrazza in giro la gente sul suo motorino. Mestiere che nonostante tutto alla fine del mese fa intascare qualche decina di dollari in più rispetto al lavoro dei campi. Nam mi raccontò che vive in strada sei giorni su sette, quasi ventiquattro ore su ventiquattro, casa sua dista un’ottantina di chilometri da Hanoi e in genere torna a trovare la sua famiglia solo un giorno a settimana. Il suo letto è il sellino del suo Honda Wave, ma non è triste anzi… “ve tris i mai om” (“the street is my home”) ricordo che mi disse. Fui colpito dalla sua sincerità, dalla naturalezza dell’espressione del suo viso, da quel sorriso semplice e amichevole… proprio come la vita nelle strade di Hanoi.
Sedendo in mezzo a questi uomini vistosamente felici delle loro vite e cercando in qualche modo di scambiare flussi di energia e calore umano, di comunicare e di capire qualcosa delle nostre esistenze, mi sovviene ancora l’attimo in cui scoccò in me qualcosa: improvvisamente mi parve inverosimile l’idea di condurre un’altra vita, di andare da un’altra parte, lontano dal mercato dei fiori vicino alla mia cara via Ngoc Ha e dalla bia hoi di via Ta Hien, dal lago della Spada Restituita e dal Lago Occidentale, dal rumore delle viuzze del quartiere indigeno, dal parco Lenin e dagli odori di spezie orientali del mercato di notte. Non ho più incontrato Nam, ma non smetterò mai di credere che quell’uomo che vive in strada e dorme sopra un sellino è parte di un’umanità forte di un cuore più caldo e di un’anima più felice di tanti milioni di occidentali.

I cristiani e la violenza (Paolo Cristofolini in "Nuovo Impegno" n.11, maggio 68)

Dalla rivista "Nuovo impegno", n.11, maggio 1968 (data fatidica) recupero l'incipit di un articolo di Paolo Cristofolini Considerazioni sui cristiani e la violenza, che dà conto di un'inchiesta condotta dalla rivista tra i gruppi e le riviste del cattolicesimo di sinistra. La considerazione qui svolta mi sembra denunciare una contreddizione e un'ambivalenza che si protrae fino ai giorni nostri. (S.L.L.)

Ravenna, Cappella Arcivescovile, Cristo guerriero
Si ha l’impressione che una delle questioni su cui i cristiani in generale, e i cattolici in particolare, hanno le idee più confuse sia quella della violenza. Sembra che si aggroviglino diverse contraddizioni difficili a districarsi: la contraddizione fra i verbo d’amore del Nuovo Testamento e la ferocia del Vecchio; la contraddizione fra l’aspirazione sentimentale di tanti credenti a un mondo d’armonia e di pace, e il loro adagiarsi all’interno del sistema imperialista, produttore di razzismo e di guerra; la contraddizione tra la chiesa come struttura autoritaria, accentratrice, violenta e invadente con la sua storia antica e recente intessuta di massacri e di complicità, la contraddizione fra gli idilli della vita interiore e la dura realtà del mondo.
E’ difficile essere cristiani.
In questi ultimi anni si è venuta poi diffondendo l’idea che la posizione e il modo di affermare le proprie idee più confacente al cristianesimo sia quella della non-violenza , e si è pure diffusa l’opinione che la resistenza non-violenta abbia nel cristianesimo la sua ispirazione originale. Si tratta di un’errata opinione, sia perché i metodi di lotta non-violenti sono stati collaudati su vasta scala fuori dal mondo cristiano prima di raggiungerlo (possiamo indicare nel misticismo indù di Gandhi e nel razionalismo scettico di Bertrand Russell) le fonti più importanti, sia perché sono estranei a tutta la tradizione della Chiesa. Passi della Scrittura come il cap. VIII di San Matteo sul non resistere alla forza, sul porgere l’altra guancia, ecc., non possono fare testo, sia perché il concetto di non resistenza qui sostenuto è radicalmente diverso da quello di resistenza non-violenta, sia perché non risulta che vi sia molta gente, tra i cristiani e non, che metta in pratica quelle prescrizioni.  

27.4.11

Toghe rosse (da "micropolis" - aprile 2011)

Quello che segue è un editoriale di prima pagina, non firmato perciò collettivo, dal numero di "micropolis" di aprile 2011.
Il processo Tyssen Krupp a Torino

Ancora una volta, nella storia italiana, la magistratura è protagonista.
Lo è stata in particolare in questo mese per i violenti e ripetuti attacchi di Berlusconi e per la sentenza di Torino. Gli ultimi colpi sferrati dal Cavaliere e dai suoi sodali sono stati così forti da suscitare la ferma reazione del pur cauto Presidente Napolitano che in merito ai famigerati manifesti milanesi di Lassini ha scritto di una situazione “al limite dell’esasperazione” e di “pericolo di degenerazioni”. Una preoccupazione, se ci è concesso, proprio per l’istituzione che l’ha espressa, ancora più allarmante di quella gridata da Alberto Asor Rosa dalle colonne de “il manifesto” che, al di là di ogni valutazione della proposta in essa contenuta – che tanto per essere chiari non condividiamo – ha avuto l’indiscusso merito di squarciare un velo di ipocrisia facendo uscire tutti allo scoperto.
Berlusconi è cotto; no, è ad un passo dal trionfo definitivo. Messa in questi termini la discussione rischia di assumere contorni da Bar dello Sport e tuttavia tanti e tra loro contradditori sono gli elementi che consentono di leggere quanto sta avvenendo nell’uno o nell’altro modo. Di certo - e lo scriviamo alla vigilia del 25 aprile, all’indomani per chi legge - non è buona cosa che a svolgere il ruolo di primo “resistente” vi sia la magistratura e non la politica, né ci consola il fatto che tale supplenza non sia una novità del presente. Supplenza che, come dimostra la sentenza di condanna della Tyssen Krupp per il rogo di Torino, si esercita anche in campo sociale. 
Una volta le morti sul lavoro si chiamavano “omicidi in bianco”, a sottolineare che non si trattava di fatalità, ma che avevano dei responsabili; e che gli assassini non vestivano tute blu o grigie, ma camicie e camici d’immacolato candore. Erano padroni, dirigenti, capi e tecnici, responsabili di un’organizzazione del lavoro e di un sistema di sfruttamento della manodopera che non esitava a sacrificare vite umane sull’altare del massimo profitto.
Poi l’espressione si modificò in “morti bianche” e, come accade, le parole anziché significare la cosa cominciarono ad occultarla, come se quelle disgrazie fossero incruente e non avessero colpevoli. Oggi la sentenza sulle morti alla Tyssen Krupp di Torino “raddrizza i nomi” e definisce “omicidio volontario” le scelte di quei manager che obbligavano gli operai a produrre in uno stabilimento obsoleto e pieno di trappole, pur consapevoli dei rischi gravissimi che facevano correre loro.
Molti, nel mondo politico e sindacale, hanno giustamente parlato di “sentenza storica” e perfino nel campo governativo e padronale più d’uno ha dovuto a denti stretti riconoscere che la sentenza getta un fascio di luce su un’intollerabile carneficina.
A Terni però, ove si concentra la produzione degli acciai speciali Tyssen Krupp dopo la chiusura dello stabilimento torinese, non è stato così: si è parlato di sentenza ingiusta, di pene eccessive, di rischi per l’occupazione, con larvate accuse di irresponsabilità verso magistrati e giudici.
Ha cominciato il sindaco, di centrosinistra, Leopoldo di Girolamo, che a caldo ha dichiarato: “Mi sembra che la giustizia sia stata ingiusta e abbia calcato troppo la mano”; e ha definito la sentenza “punitiva nei confronti dell’azienda e dei lavoratori che ora si troveranno in difficoltà”. Poi ha attenuato la forma, ma non la sostanza. Dopo il sindaco sono intervenuti il presidente della Provincia, consiglieri regionali e comunali di diversi gruppi, sindacalisti, tutti a dichiarare amore alla Tyssen Krupp e a chiederle di non andare via; non senza una qualche parola di pietà per i sette morti, resa scopertamente ipocrita dal contesto.
La cosa è rivelatrice di un milieu “corporatista”, in cui istituzioni locali, politica e organizzazioni sociali appunto “fanno corpo”, sotto la guida della multinazionale. E’ sintomatico che, perfino nei sindacalisti Cgil locali che difendono la sentenza, l’attenzione prevalente è ad eventuali ripercussioni sui piani d’investimento.
Così i politicanti del Ternano (ma altrove non è diverso) si attestano sulla linea un tempo craxiana, oggi berlusconiana in materia di giustizia. La magistratura – disse Craxi a proposito dell’arresto del banchiere Roberto Calvi - usi il pugno di ferro con i delinquenti di strada e (entro certi limiti) con le organizzazioni criminali, ma non osi toccare il governo, i poteri economici, i poteri finanziari, perché con tale irresponsabilità creerebbe disastri al paese. E’ la stessa ottica della “riforma Alfano”, con cui politici come Di Girolamo sembrano d’accordo.
In ogni caso siamo messi male. Molte battaglie sociali sono ormai delegate alla magistratura o alla parte di essa che intende resistere alla “normalizzazione” in atto, cioè alla piena sottomissione del lavoro.
Di fronte agli incidenti mortali in fabbriche e cantieri dell’Umbria, per esempio, da parte dei sindacati e degli enti locali, ormai si reagisce solo di fronte ai più clamorosi, quasi sempre insistendo sulla “cultura della sicurezza”, che scaraventa il peso del dramma sugli operai “incolti” e ignoranti o reclamando “protocolli sulla sicurezza”, forse utili, ma certo non risolutivi.
Il sindacato non sa più o forse non può più proporre controlli dal basso sulla nocività dell’ambiente, come su ritmi e straordinari che spossano, aumentando di molto per gli operai la possibilità di essere vittime di omicidi in bianco.
Dei partiti è meglio non dire.

26.4.11

Bertrand Russell (Paolo Cristofolini in "Nuovo Impegno,N.17-18", 1969-1970)

Firmato P.C. e scritto da Paolo Cristofolini, poi importante storico della filosofia e, peculiarmente, studioso di Spinoza, il brano che segue è tecnicamente un “coccodrillo”. La rivista dove venne pubblicato, “Nuovo Impegno”, aveva una storia simile alla “Giovane Critica “ di Giampiero Mughini.  La rivista era nata a Pisa come trimestrale di letteratura, cinema e filosofia, per proporre alle nuove generazioni intellettuali il punto di vista di una sinistra meno legnosa e corriva di quella rappresentata dagli intellettuali organici del Pci e meno tecnocratica e governativa di quella del riformismo socialista del tempo; divenne con il maturare della contestazione studentesca e del 68 un strumento di dibattito della sinistra estrema. La dirigeva lo scrittore Franco Petroni, che aveva seco in redazione intellettuali giovani (e meno giovani) del vigore di Romano Luperini, Carlo Madrignani, Gianfranco Ciabatti, Luciano Della Mea e, appunto, Paolo Cristofolini. Vi collaborarono, tra gli altri, Pio Baldelli, Sebastiano Timpanaro, Adriano Sofri, Augusto Vegezzi, Gianmario Cazzaniga. La rivista fiancheggiò, senza mai identificarsi del tutto con essi, prima “Il potere operaio” di Pisa (da non confondersi con Potere Operaio, un gruppo nazionale che venne dopo ed ebbe altri protagonisti e orientamenti) e poi la Lega dei Comunisti, un gruppo locale di orientamento maoista, guidato dall’italianista Luperini, che confluirà successivamente in Democrazia proletaria.
Questo pezzo, secondo me bellissimo, in memoria di Bertrand Russell, uscito nel numero doppio 17-19, datato agosto1969 – gennaio 1970,  smentisce la leggenda di un “gruppismo” sempre e comunque astrattamente estremistico e settario e ne svela non solo le durezze, ma anche le aperture, perfino nelle componenti tradizionalmente marxiste. (S.L.L.)  

Mentre “Nuovo Impegno” sta andando in macchina, i giornali di tutto il mondo diffondono la notizia della morte di Bertrand Russell. Tutti i borghesi si sentono in dovere di rendere omaggio al suo genio e alle sue qualità morali, e di giustificare o coprire sotto un velo di indulgenza le infinite grane procurate ai potenti della terra da questo vecchiaccio che pareva non voler crepare mai. Allo stesso tempo i cretini del marxismo ortodosso di ogni ortodossia nazionale si sentono in dovere di mettere in risalto il suo grande ingegno e la sua opera di intellettuale solidale, ma di sottolineare allo stesso tempo i suoi limiti di non marxisti.
“Nuovo impegno” non è “l’Unità”. Non abbiamo nessuno che si senta in grado di formulare un rapido giudizio sull’opera logico-matematica di questa mente geniale. Non siamo nemmeno in vena di necrologi. Non ce la sentiamo, infine, di sentenziare che il modo di pensare di Russel fosse un arcaico “razionalismo illuministico”, o altre scempiaggini del genere. Sappiamo bene che tutto lo sviluppo delle sue idee è avvenuto al di fuori dei canoni del marxismo-leninismo, e che di fronte agli sviluppi della rivoluzione bolscevica (soprattutto di fronte allo stalinismo) egli manifestò perplessità e avversione. Questa è la verità, e non ci dà noia. Sappiamo che anche Russell ha fatto la galera per propaganda disfattista durante la prima guerra mondiale, e che è poi rimasto tutta la sua lunghissima vita attaccato combattivamente ai suoi principi; principi magari non desunti dai classici del marxismo, magari ispirati, in ultima analisi, più al buon senso che a teorie (fatto, questo, che può suscitare allo stesso tempo stupore e simpatia, se si considera l’eccezionale capacità di astrazione della sua mente); ma principi che lo hanno condotto sempre a stare dalla parte degli oppressi contro gli oppressori, e che hanno fatto di lui un nemico implacabile dell’imperialismo e del socialimperialismo.
Non era marxista, è vero. Ma è anche vero anche che molti teorici e studiosi partiti da posizioni marxiste, o tuttora dichiaratamente marxisti, hanno trovato e trovano il tempo, senza raggiungere i settantasette anni, per tradire in tutti i modi possibili il proletariato e per diventare accademici del sistema. Russell insegna che tante volte certi elementari principi, che si possono definire “rispetto per l’umanità” o qualcosa di simile, valgono più di mille teorie a condurre uno alle scelte giuste. Se oggi scorriamo la bibliografia delle opere su Marx e su Lenin, è sorprendente il numero di traditori e di venduti.
Ricordiamo di lui almeno qualcosa: il suo martellamento demoralizzante e beffardo nei confronti di tutta la classe dirigente britannica; ricordiamo che nei giorni drammatici della crisi dei Caraibi Russell fu severo con Krusciov, trattò Kennedy come una pezza di piedi, e rispettò soltanto il popolo cubano. Ricordiamo infine che il tribunale da lui ideato per la condanna storica della guerra americana in Vietnam non nacque dal meschino spirito borghese del “salvarsi la coscienza” (Russell non ha mai avuto niente di cristiano), ma dall’esigenza di dare il massimo sostegno possibile, sul terreno della guerra psicologica, al popolo vietnamita in lotta. E’ un fatto positivo che l’azione del Tribunale prosegua anche in altre direzioni: tutto quanto potranno fare i membri del Tribunale Russell venuti a Milano per indagare sulla scomparsa del compagno Pinelli non potrà non essere salutato come un concreto appoggio militante da parte di tutti i compagni nel nostro paese.
Per quanto riguarda la parte della sua attività destinata a dargli, probabilmente, gloria nel futuro – e cioè i suoi studi di logica matematica – non possiamo che esprimere il rammarico per il fatto che essa, nella società borghese, non possa essere apprezzata e utilizzata che da pochi privilegiati della cultura. Il comunista per il quale noi ci battiamo è, fra le altre cose, uno stato di società in cui sia possibile l’accesso e il godimento collettivo anche dei prodotti dell’ingegno oltre che dei beni materiali. La filosofia di Russell, oggi, non appartiene al proletariato; ma avrebbe meritato di vivere in una società diversa, e in questa esplicarsi.

Dashiell Hammett, una strega a Hollywood (di Giuseppe Culicchia)

Per lui la frase migliore era notoriamente la più corta. E quando Dashiell Hammett morì di cancro a New York, il 10 gennaio 1961, gli americani timorati di Dio e ossessionati dal pericolo comunista non dovettero aver bisogno di molte parole per commentare la notizia. Lo scrittore che aveva inventato il genere hard-boiled, dando vita a personaggi leggendari quali Sam Spade e Continental Op, portati sul grande schermo da attori come Humphrey Bogart e William Powell per la regia di maestri del calibro di John Huston, un uomo che sulla soglia dei settant’anni era ormai tornato alla povertà che ne aveva contraddistinto l’infanzia, era ai loro occhi semplicemente un reietto.
Nel 1937, infatti, mentre in Spagna infuriava la guerra civile e colleghi come George Orwell ed Ernest Hemingway partivano per la penisola iberica per scoprire con un certo anticipo i metodi più hard che boiled dei commissari politici di scuola sovietica, Dashiell Hammett aveva deciso di iscriversi al partito comunista americano. E dopo la seconda guerra mondiale, a cui aveva partecipato in veste di volontario dirigendo un giornale per le truppe sul fronte del Pacifico malgrado la tubercolosi contratta nel 1918, quando in Europa aveva prestato servizio sulle ambulanze alla pari dell’autore di Addio alle armi ammalandosi di influenza spagnola, si era impegnato per contrastare la «caccia alle streghe» maccartista partecipando con il miliardario filo-comunista Vanderbilt alla creazione di un fondo spese a cui potesse attingere chi veniva accusato di professare idee anti-capitaliste. Fu così che negli Anni Cinquanta, in piena guerra fredda, il suo stile di scrittura per definizione «asciutto» e senza fronzoli, i suoi personaggi trasudanti cinismo e distacco, le sue trame complesse ma allo stesso tempo realistiche, e dunque spietate come sa essere non di rado la vita, finirono in secondo piano; a un tratto, Dashiell Hammett non venne più considerato il capostipite di un genere amato da moltitudini di lettori, ma alla pari di Charlie Chaplin e di tanti altri un nemico della democrazia e della libertà. Degno di finire, per cinque mesi, in prigione. I produttori di Hollywood, che nei suoi libri avevano trovato luoghi e protagonisti e intrecci perfetti per inchiodare alle poltrone il grande pubblico delle sale cinematografiche negli anni Trenta e Quaranta, gli voltarono le spalle. I radiodrammi tratti dalle sue opere vennero cancellati. E il governo federale lo accusò di evasione fiscale, confiscando tutti i suoi beni e condannandolo a una povertà cui non lo sottrasse la nuova attività di insegnante di scrittura creativa. Pochi anni più tardi, il senatore McCarthy sarebbe caduto in disgrazia, morendo alcolizzato. Ma ormai la sorte dell’ex alcolista Dashiell Hammett era segnata. Per uno come lui, doveva per forza di cose risultare tragica.

Egli stesso, d’altronde, prima di diventare uno scrittore capace di conquistare generazioni di lettori aveva fatto il detective per l’agenzia Pinkerton nel 1915 a Baltimora, e si era imbevuto di tragedie grandi e piccole, oltre che del linguaggio e dei modi di personaggi spesso immortalati dai flash dei fotografi specializzati in cronaca nera, e non lontani da quelli di Hollywood Babilonia. In quel periodo si era guadagnato le cicatrici che segnavano il suo corpo, a perenne ricordo delle zuffe con la mala, e da lì aveva tratto la linfa vitale destinata a dar forma a libri indimenticabili, da Piombo e sangue a L'uomo ombra. Tra pericolose fanciulle e impassibili investigatori, misteriosi omicidi ed equivoci trafficoni, ambigui confidenti e corruttibili poliziotti, tra rapide sparatorie e inattese coltellate magari nei vicoli bui di un quartiere cinese, Dashiell Hammett ha plasmato non solo i suoi personaggi ma anche quelli di tanti altri, a cominciare dal detective Marlowe, influenzando oltre a Raymond Chandler innumerevoli autori, tra cui mostri sacri come William Burroughs, Mickey Spillane, James Ellroy, e secondo alcuni addirittura Hemingway. Per arrivare, indirettamente, fino a Bret Easton Ellis, che nel suo ultimo Imperial Bedrooms si rifà in modo esplicito ad atmosfere e cliché tipicamente hard-boiled. Ma al di fuori degli Stati Uniti anche il nostro Hugo Pratt pagò il suo debito nei confronti dell’autore americano, ispirandosi per il cognome del suo Corto al romanzo Il Falcone Maltese, mentre André Gide confessò di ammirarlo.
Portato sul grande schermo da Fred Zinnemann nel 1977 con Julia, film in cui i panni dell’autore vennero indossati da Jason Robards Jr., e da Wim Wenders nel 1982 con Hammett: indagine a Chinatown, dove nel ruolo dello scrittore-detective comparve Frederic Forrest, Dashiell Hammett non sospettava certo di diventare a sua volta un personaggio per Hollywood. Fondatore della «scuola dei duri», ha certo rappresentato molto per il primo Giorgio Scerbanenco, e oggi viene indicato tra i «numi tutelari» da scrittori come Carlo Lucarelli e Andrea Camilleri. Ma la lunga lista dei suoi debitori è destinata senza dubbio ad allungarsi ancora, in futuro: almeno finché esisteranno i detective, al cinema o in letteratura.

Da "Tuttolibri" de "La Stampa", 8 gennaio 2011

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