29.9.17

In trattoria. Una poesia di Massimo Ferretti (da "Officina", 1957)

In questa trattoria di gente stanca
dove mangiare significa reagire,
dove la grazia d'una dattilografa
si percepisce nel tono delicato
d'un piatto di fagioli chiesto tiepido,
dove un viaggiatore analfabeta
emancipato per via dello stipendio
spiega a una turista anacoreta
che il rialzo dei biglietti ferroviari
dipende tutto da questioni atlantiche —
non ho ragione d'essere contento
se il cameriere lieto della mancia,
leggendo la commedia del mio viso
m'ha detto che ho una maschera da negro?

In questa trattoria di gente ottica
dove non so salvarmi dagli sguardi,
condannato al sentimento della morte,
serrato tra furore e timidezza
— non ho ragione d'essere felice
quando divoro una bistecca che fa sangue?

Il mio complesso è una tragedia antica:
devo scrivere e vorrei ballare.


"Officina", n.9-10, giugno 1957

27.9.17

Primavera indimenticata. Dubcek e Longo a Praga nel maggio 68. Il verbale dell'incontro

Nel 1988 “L'Unità”, al tempo diretta da Massimo D'Alema, pubblicò come supplemento un libretto dal titolo Primavera indimenticata in occasione della visita di Dubcek in Italia, che vide il conferimento al leader della “primavera di Praga” di una laurea ad honorem all'Università di Bologna e di un incontro, molto emozionante, ad Assisi, venti anni dopo il tentativo di grande riforma del socialismo, poi stroncato con i carri armati. Si trattava di una scelta di un certo valore politico, perché, se è vero che a Mosca era in pieno sviluppo la Perestrojka di Gorbaciov, a Praga gli eredi della “normalizzazione” erano molto restii ad accoglierne le novità. Sappiamo come andò a finire, a Mosca come a Praga. 
Le riforme di Gorbaciov erano in verità “fuori tempo massimo”. L'ultima possibilità realistica di una “grande riforma” del socialismo reale era stata appunto la primavera cecoslovacca, soffocata dall'intervento dei “cinque paesi del Patto di Varsavia”.
Nel supplemento de “l'Unità” trovavano posto le note di verbalizzazione che Giuseppe Boffa raccolse durante l'incontro tra Alexander Dubcek, segretario del Partito Comunista Cecoslovacco e Luigi Longo, segretario del Partito Comunista Italiano. Chi avrà la pazienza di leggere scoprirà di trovarsi davanti a due rivoluzionari di grande spessore: apertura mentale, coraggio, attenzione a tutti gli elementi della situazione erano doti comuni ad entrambi. Si sbagliarono, non valutarono fino in fondo la refrattarietà al cambiamento dei capi sovietici, l'ottusità che finì per perdere l'Urss. Longo, alla notizia dell'invasione, il 21 agosto del 1968, ispirò una condanna senza se e senza ma da parte del Pci. Era anche un occasione per il partito italiano, la possibilità di fare davvero e fino in fondo i conti con lo stalinismo; e invece, dopo la tenuta dei primi giorni, il Pci si impantanò, si illuse in un accordo che mantenesse viva almeno qualche conquista della “primavera” e nulla fece per sostenere la resistenza cecoslovacca alla “normalizzazione”. E la denuncia di tutto ciò sul mensile “il manifesto” appena nato (l'articolo Praga è sola) fu tra le ragioni della radiazione dei promotori di quella iniziativa politico-editoriale. (S.L.L.)

L’incontro fra Luigi Longo, segretario del Pci, e Alexander Dubcek ebbe luogo a Praga il 6 maggio 1968. Fu lo stesso Longo a chiedermi di prendere nota della conversazione per la stesura di un eventuale verbale. Quelle note sono la fonte del testo qui presentato.
Dopo il colloquio fu offerta ai compagni italiani ma colazione nell’edificio dell’antico convento dei barnabiti: ad essa erano presenti anche altri tre fra i più noti dirigenti della «primavera» praghese, Smrkovski, Cemik e Cisar. Longo ebbe poi occasione di incontrare anche l'economista Ota Sik e Gustav Husak. La visita a Praga fu coronata da una grande conferenza stampa e da un ’intervista al quotidiano del Pcc, “Rude Pravo”. (Giuseppe Boffa)

Presenti: per il Pc cecoslovacco, Dubcek, Lenart, Kaderka; per il Pc italiano, Longo, Boffa.

DUBCEK: propone che ognuno faccia una sua esposizione, cui seguiranno discussione e domande.

LONGO: è d’accordo.

DUBCEK: dà il benvenuto. Si rallegra di vedere Longo così giovanile. Del resto, le differenze fra marxisti non dipendono tanto dalla diversità di generazioni, ma dal modo di intendere il movimento presente della società e lo stato attuale del pensiero socialista. Anche giovani di età possono essere vecchi da questo punto di vista.
Nelle sessioni del Comitato centrale di ottobre e dicembre abbiamo affrontato problemi ormai maturi nel nostro partito e nella nostra società. Era necessario il cambiamento per ridare respiro a tutta la vita del Partito e far valere la sua guida nelle nuove condizioni. Non si tratta di stabilire se il Partito deve o no guidare il paese. La nostra esperienza ci dice che sono importanti i metodi con cui si cerca di affermare meglio questo ruolo. Vogliamo estendere innanzitutto la democrazia nel partito perché questo è il problema essenziale: ogni iscritto deve sentire una responsabilità, non solo per l’applicazione della linea ma anche per la sua formazione. È questa la condizione per cui tutti siano attivi, tutti sentano che nel Partito conta la loro opinione. Assai importante è anche il rapporto fra noi che lavoriamo nel Partito e i compagni che lavorano all’esterno, ad esempio nelle organizzazioni giovanili o sindacali. Non possiamo impartire noi le ricette secondo cui debbono operare: dobbiamo stabilire insieme una linea di comportamento in stretto contatto con loro. Se non conosciamo come la pensano, possiamo fare fallimento, così come è successo nell’attività economica, tra la gioventù e altrove. Essenziale è elaborare con loro la politica da svolgqrre nelle condizioni specifiche del loro lavoro.
Veniamo ai nostri rapporti con gli altri partiti del Fronte nazionale. Sono cinque. Esiste la possibilità che, se anche hanno caratteristiche diverse dalle nostre, specie per la loro ideologia, continuino a restare uniti e ad unirsi con noi in base ai comuni interessi dei lavoratori per la costruzione del socialismo. Quale che sia la loro tendenza, tutti vogliono che si viva meglio. Intendiamo quindi consolidare il Fronte nazionale come organizzazione comune. Non so se ci riusciremo, ma sono ottimista. Finora possiamo ritenere che la nostra politica sia giusta.
Alcuni compagni esprimono preoccupazioni, talvolta giustificate. Vi sono infatti tendenze che mirano non all’unità, ma a creare una piattaforma di opposizione contro il Partito comunista. Ora, sviluppare una dialettica nel Fronte e dar vita ad una opposizione sono cose ben diverse. C’è una tendenza della piccola borghesia per tornare alla repubblica antecedente Monaco. Lo comprendiamo. Ma non vogliamo un’opposizione politica contro il partito, cioè l’apertura di una lotta per il potere politico. Questo ci riporterebbe alla situazione che c’era prima del febbraio ’486. Certi elementi antisocialisti avrebbero la possibilità di costituirsi in opposizione politica contro lo stesso Fronte e quindi di scontrarsi col Fronte. Per questo cerchiamo di chiarire che non si tratta di creare un’opposizione decisa a togliere il potere al partito, ma di dar vita ad una dialettica nel Fronte, pur restando uniti in base al comune interesse per il socialismo. Se ciò è chiaro, a questo punto non è importante che il partito popolare sia di ispirazione cristiana e noi marxisti. Essenziale è che entrambi si stia con fermezza per gli interessi dei lavoratori e il consolidamento del socialismo. Vogliamo più possibilità di democratizzare tutta l’attività dello Stato socialista. Vogliamo unità tra socialismo e democrazia: questo è quanto deve scaturire dal socialismo. Prepariamo la federazione fra cechi e slovacchi per risolvere il problema del loro rapporto. È necessaria l’uguaglianza fra le due nazioni. Ci sono nel nostro paese anche più piccole minoranze nazionali. È difficile organizzare la loro autonomia territoriale perché non ci sono territori omogenei: le popolazioni sono mischiate. Pensiamo quindi di dare a queste minoranze l’autonomia culturale.
Non pretendiamo che le nostre soluzioni siano modelli per altri paesi. Si sono fatti errori in passato. Si diceva: il migliore modello è quello jugoslavo. I sovietici invece vantavano il loro. I cinesi dicono: questi europei non si comportano bene, devono essere rivoluzionari come noi. Non faccio polemiche. Dico solo che quando si presenta il proprio specifico come ricetta per gli altri, si viene meno proprio a quel che di specifico dobbiamo fare.
Per noi, se possiamo contribuire al patrimonio comune con la soluzione dei nostri problemi specifici sarebbe già sufficiente. Nessuna soluzione può essere trapiantata in altri paesi. Il cappello va scelto a misura della testa.
Le decisioni del Comitato centrale sono state approvate in tutte le conferenze distrettuali e regionali. È un periodo complicato per il nostro partito. Quando si cambiano metodi e forme di attività, ciò comporta sempre difficoltà ed eccessi. Il nostro programma di azione ha fornito le indicazioni fondamentali. Quello è ciò che vorremmo fare. Ma le buone intenzioni devono sempre farsi valere in lotta contro qualche cosa. Da una parte ci sono motivi che sono invecchiati (non solo sbagliati, ma superati) nel nostro partito. Ci sono coloro che chiedono più disciplina, vorrebbero avere tutto nelle loro mani: dirigere così è più facile, richiede meno fatica. D’altra parte, la nostra democratizzazione del partito e dello Stato, la possibilità di creare nuove organizzazioni, tutti questi elementi innovativi introdotti nella nostra società creano anche possibilità per la manifestazione di quei gruppi che vorrebbero dar vita ad una opposizione e non sempre da posizioni socialiste. I ventitré anni trascorsi dal 1945 non sono un periodo lungo. Abbiamo quindi a che fare con la resistenza politica di chi vede la democrazia con occhi prebellici. La democrazia come la vogliono loro (anche se non sempre lo dicono, ma già noi lo avvertiamo) sarebbe la possibilità di organizzarsi per una serie di forze che in questi ventitré anni non sono sparite: penso non solo ai vecchi proprietari, ma ai loro figli, agli esponenti dei vecchi partiti borghesi, socialisti nazionali e popolari, soprattutto in Boemia, meno in Slovacchia. Se queste forze potessero sfruttare a loro modo le nostre buone intenzioni finirebbero in realtà per stimolare una reazione contraria al nostro processo di democratizzazione.
Noi sappiamo di non poterci fermare a metà strada. Dobbiamo andare avanti. Ma i nostri passi dipendono anche dalla misura in cui le forze avversarie possono organizzarsi e trovare appoggi all’esterno, nell’emigrazione, oltre che dalla misura in cui le agenzie imperialistiche possono tentare di sfruttare a loro vantaggio la situazione interna cecoslovacca. Se noi sappiamo trovare una via democratica al socialismo, queste forze non ne proverebbero certo piacere. Esse hanno anche una piattaforma legale che si fonda su due fattori: il primo è la correzione che noi stessi facciamo dei nostri errori; il secondo sono le cose sbagliate che noi abbiamo commesso, le violazioni passate dei metodi democratici nel partito e della stessa legalità statale. La Cecoslovacchia è uno dei paesi che ha più sofferto per le repressioni. Noi cerchiamo di mettere tutto in chiaro, ma non siamo interessati ad esasperare passioni e risentimenti.
Questi temi sono seguiti con particolare attenzione all’estero, dove si cerca di drammatizzare ogni cosa per coinvolgere nella condanna l’intero partito. Gli avversari cercano di dire che tutto il partito non vale niente, che ci vuole un nuovo partito, che occorre una nuova politica con uomini nuovi, che tutti coloro i quali hanno lavorato per il socialismo non hanno le mani pulite. Ciò può influenzare soprattutto le nuove generazioni, non quelle intermedie. Tali tendenze sono il più grave ostacolo per i nostri programmi. Si cerca anche di organizzare provocazioni per costringerci a prendere misure repressive e poi dire: vedete, è stato tutto un fenomeno passeggero. Si cerca il conflitto per farci tornare indietro, sapendo che ciò sarebbe molto svantaggioso per noi.
Qualcosa sull’attività della Chiesa. Vogliamo rispettare ampiamente tutti i diritti religiosi. Non possiamo permetterci misure amministrative contro la libertà di culto. Che dobbiamo però constatare? C’è una tendenza a rivedere i rapporti fra la gerarchia ecclesiastica e lo Stato. Vi sono due modi di intendere la separazione fra Chiesa e Stato. Questo è qualcosa di specifico per il nostro paese. Il nostro Stato ha nel suo bilancio le spese per la Chiesa. L’istruzione religiosa non viene fatta nelle scuole pubbliche, ma organizzata dalla Chiesa. Lo Stato deve esprimere il suo accordo per la nomina dei vescovi. La nostra posizione è dunque la seguente: fate quello che volete, ma siate leali verso il nostro Stato; massima libertà alla religione, ma niente attività contro lo Stato e il suo governo. Al socialismo non nuoce se la gente va in chiesa o se la Chiesa insegna ai bambini la religione. Non bisogna però agire contro di esso. Se il problema è quello della libertà religiosa, allora tutte le possibilità sono aperte.
Noi faremo di tutto perché le nostre due nazioni, Ceca e Slovacca, restino saldamente su basi socialiste. Se qualcuno volesse invece minacciare il potere popolare e i risultati della nostra rivoluzione, opporremo una resistenza non soltanto a parole. Ci spiacerebbe, è vero, perché questo comprometterebbe i nostri propositi.
Dobbiamo restare su posizioni internazionaliste. Faremo di tutto per unire gli sforzi dei paesi socialisti e dei partiti comunisti. Sappiamo che non solo la nostra posizione geografica, ma anche la storia del nostro paese danno a noi maggiori possibilità di esercitare un’influenza sullo sviluppo del socialismo in Europa. La Cecoslovacchia ha sempre avuto buone relazioni con l’Europa centrale. Certe influenze possiamo averle meglio noi che non, poniamo, i bulgari o i sovietici. La nostra politica è nell’interesse dell’unità di tutti i paesi socialisti. Non è diretta contro di loro. Vorremmo anche dare un contributo all’unificazione del movimento operaio e rivoluzionario internazionale. Ci separa ancora molto tempo dalla conferenza9. Crediamo di dover agire in modo da potervi portare un nostro contributo. Di qui si può arrivare ad una opinione comune. Dal punto di vista di classe l’avversario è lo stesso.
Pensiamo sia necessario riunirsi per discutere con gli altri paesi socialisti i tratti specifici della politica di ognuno: non per imporli agli altri, ma per farli conoscere per quello che realmente sono. Quando abbiamo fatto i grandi cambiamenti nel governo e nella direzione del partito, eravamo comunque tutti d’accordo che la cooperazione economica e politica con l’Urss è per noi basilare. Siamo tornati ieri da Mosca. Eravamo un gruppo tutto composto da uomini nuovi. Abbiamo discusso e chiarito una volta di più il nostro orientamento di base. Posso dire che per il nostro popolo l’atteggiamento verso l’Urss è sempre una questione essenziale. Le speculazioni dell’occidente che ci fa complimenti al fine di indebolire i nostri legami politici, economici e militari con l’Urss non avranno successo: non indeboliamo e non indeboliremo questi legami. Per noi non è indifferente sapere che sul nostro confine ci stanno l’esercito americano e uno dei più forti eserciti europei. Sappiamo quanto sarebbe facile per loro utilizzare provocazioni che venissero organizzate nel nostro paese, tanto più che dal ’46 non c’è un solo soldato sovietico in Cecoslovacchia. Per questo è tanto ingiusto dire che il nostro ’48 sarebbe stato fatto con l’aiuto dell’esercito sovietico. I nostri rapporti con l’Unione Sovietica e con gli altri paesi socialisti hanno una base solida. Siamo internazionalisti e vogliamo dare un contributo alla causa comune.
I nostri ostacoli dipenderanno anche dal fatto se ci lasceranno lavorare in pace oppure no. In ciò che accade da noi c’è qualcosa di comune con i problemi che dovettero essere affrontati nel ’56 in Polonia e in Ungheria. Guidare in questa fase il partito e il paese senza le scosse che si ebbero in Ungheria e in Polonia sarebbe già un grosso successo. Vogliamo esserne capaci. Ma questo non è il nostro obiettivo ultimo. Vogliamo contribuire sempre più allo sviluppo della democrazia socialista. Vogliamo essere all’avanguardia dello sviluppo democratico, alla testa del movimento reale che si manifesta nel paese, perché non possiamo lasciare che questo movimento cada in altre mani.
Poche cose sui problemi minori. Per anni si sono chieste votazioni segrete nel partito. La direzione aveva sempre risposto in modo negativo, richiamandosi alle tradizioni. Eppure è una questione importante. Essa ha contribuito ad esempio ad alimentare la crisi e l’arbitrio personale nelle questioni nazionali. Ancora un anno fa non abbiamo potuto ottenere che Bratislava fosse la capitale della Slovacchia, dopo che già lo era stata nella prima repubblica. Oppure ogni due o tre anni si riducevano le competenze degli organi istituzionali slovacchi, il che contrastava con lo sviluppo socialista del nostro popolo.
L’arbitrio soggettivo ha molto ridotto l’autorità del nostro partito. Per molti problemi mancavano analisi fondate e oggettive. Si sono fatte affermazioni esagerate. Ad esempio, che la nostra generazione avrebbe visto il comunismo, oppure che il livello di vita delle campagne sarebbe stato nel ’70 uguale a quello delle città, oppure ancora che nel ’70 avremmo risolto completamente il problema degli alloggi. Sono tutte cose proclamate senza consultare largamente neppure i più attivi fra i comunisti. Perciò le correzioni che noi oggi introduciamo possono essere sfruttate anche dagli avversari: in qualche caso perché è proprio ciò che si vuole, in altri casi, specie tra i giovani, perché non si capisce bene.
Tra di noi molti accettano male il fatto che la radio e la televisione presentino a volte il nostro passato in tinte tutte oscure. Noi stessi diciamo a chi lavora in questi organismi: non possiamo trascurare tutto ciò che è stato fatto in questi venti anni. Alcune trasmissioni della radio e della televisione portano acqua al mulino degli avversari. Fra una parte della popolazione è diventata opinione corrente l'idea che quanto più si rinnega il passato, tanto più si aiuta il partito ad operare meglio per il futuro. Certo, noi vogliamo correggere i nostri errori, ma con questo non si esaurisce il nostro programma. Questo è volto soprattutto a farci andare avanti.
In sintesi, volevo dimostrarvi che lavoriamo in una situazione complessa: agli indirizzi positivi che abbiamo scelto si intrecciano anche fenomeni negativi. Ma posso assicurarvi che non indeboliremo le tradizioni socialiste nel Partito comunista cecoslovacco. Così come non indeboliremo i nostri rapporti con il Partito comunista italiano.

LONGO: Ringrazia per l’informazione del compagno Dubcek, che ci ha dato un’idea più ampia e precisa della situazione, anche con i suoi problemi e le sue difficoltà. Noi diamo un apprezzamento molto alto dell’indirizzo rinnovatore scelto dall’attuale direzione del Partito comunista cecoslovacco e dei suoi sforzi per superare difficoltà e pericoli. Questi ci sono sempre in ogni momento di svolta profonda. Crediamo inoltre che difficoltà e pericoli vengano anche dal ritardo con cui determinati problemi sono stati affrontati. Ma crediamo anche che la via scelta sia la sola che consenta di superarli, sia pure a costo di pagare un prezzo, perché ulteriori rinvii possono soltanto aggravare la situazione e farla sfuggire di mano.
Le esigenze cui cercano di rispondere i compagni cecoslovacchi vanno al di là delle particolarità di un singolo paese. Certo, in ogni paese esse hanno aspetti contingenti. Noi le consideriamo però come un prodotto dello sviluppo del socialismo, un suo passaggio ad una fase superiore, che pone nuovi problemi non solo per la direzione economica e politica, ma per tutti i rapporti tra governo e masse. Non è nemmeno un caso che oggi vi siano spinte per modificare i rapporti fra potere e masse sia nei paesi socialisti che in quelli capitalistici. È una conseguenza dello stesso sviluppo tecnologico che ha accentuato la alienazione. È un compito che si risolve nei paesi capitalistici rivendicando maggiori libertà e nei paesi socialisti estendendo la partecipazione al potere.
Noi pensiamo che il socialismo sia una condizione di libertà. Senza di esso le libertà sono svuotate del loro contenuto. A questa condizione, i paesi socialisti possono non soltanto dare un contenuto concreto alle libertà classiche, ma arricchire in tutti i settori il socialismo con nuove libertà. Nelle nostre condizioni noi siamo per un pluralismo di forze e di contributi. Lo concepiamo non solo e non tanto come pluralismo di partiti, anche se nelle nostre condizioni questo è indispensabile, ma anche come un pluralismo di idee e di organizzazioni che siano in grado di fornire alla società il loro contributo. Di qui l’importanza che hanno per noi, ad esempio, le organizzazioni sindacali e contadine. Pensiamo che allo sforzo di trasformazione della società debbano partecipare diverse forze sociali sane, che hanno sempre una funzione da svolgere, come quelle degli artigiani e dei piccoli commercianti. Cito una nostra idea particolare: al nostro nono congresso abbiamo affermato che annoveriamo tra le forze motrici della rivoluzione italiana anche gli intellettuali d’avanguardia, al pari di operai e contadini. Non è possibile ignorare quanta importanza abbiano gli intellettuali in una società moderna ed avanzata.
Per questo consideriamo positivo il movimento studentesco, anche se rivolge critiche a noi come agli altri partiti. Riconosciamo del resto che in questo settore abbiamo avuto ritardi ed incomprensioni. Riconosciamo l’autonomia del movimento studentesco, anche se contrastiamo la tendenza a contrapporsi ai partiti. Sulle critiche che ci vengono rivolte accettiamo il dibattito. Combattiamo le tendenze a respingere il movimento studentesco perché sono prova di passività politica.
Anche verso gli intellettuali nel loro insieme abbiamo la stessa posizione: al mio ritorno avrò un incontro con alcuni di loro. So che vi si manifesteranno critiche verso di noi e verso i paesi socialisti. Per quanto riguarda questi ultimi riconfermeremo la nostra solidarietà, anche se dovremo dire che non comprendiamo i ritardi con cui si affrontano tanti problemi. Comprendiamo le difficoltà, è vero. Ad esempio, per la Polonia. Qui si aggiungono anche difficoltà specifiche: la posizione del clero, la tensione sociale. Neanche noi pretendiamo di offrire modelli. Ciò che facciamo lo riteniamo valido per la nostra realtà. La nostra esperienza potrebbe però costituire, a nostro parere, oggetto di studio. Pensiamo che nessun modello possa avere validità universale. Lo diciamo anche per la vostra esperienza. Salutiamo ed apprezziamo la tendenza che avete scelto; ma si tratta pur sempre di un’esperienza che appartiene a voi. Questo vale, beninteso, anche per noi.
Non possiamo però attirare e mobilitare certe forze con un’immagine del socialismo come quella che qui c’era. Occorre un’immagine più ricca, l’immagine di un socialismo giovane, dinamico, aperto alle esigenze nuove di libertà della cultura e di democrazia. Dobbiamo dare più vigore a questa immagine, che corrisponde del resto agli ideali di sempre del socialismo, se vogliamo conquistare i giovani.
Noi teniamo anche conto delle decisioni del Concilio Vaticano II e delle recenti encicliche che contengono una condanna abbastanza radicale del capitalismo. Vogliamo estendere i legami con i cattolici. Abbiamo avuto qualche risultato con le adesioni alle nostre liste elettorali. Questa volta anche i vescovi non hanno potuto prendere una posizione aperta di appoggio alla Democrazia cristiana. Tutto questo vale ancor più nella lotta per la pace. Importante è la posizione presa dal cardinale Lercaro. Abbiamo rapporti anche col Vaticano, sia pure in forma non del tutto esplicita. C’è una persona che stabilisce contatti fra me e il Papa quando è necessario. Il Papa viene oggi criticato da gruppi cattolici di sinistra. Eppure vi è una tensione, come si è potuto constatare anche quando Johnson si è recato in Vaticano.
I nostri rapporti con i socialisti. Il partito si è ora unificato, ma vi sono ancora differenze alla base. Vi sono gruppi che chiedono una revisione del Patto Atlantico. Anche la nostra posizione è andata più avanti. Dopo Karlowy Vary abbiamo avviato contatti anche con altre socialdemocrazie: dapprima tramite giornalisti; poi abbiamo proposto contatti a livello politico e diversi partiti hanno accettato. Alcuni di questi sono in crisi perché perdono voti e cercano vie nuove. 1 nostri contatti con la socialdemocrazia tedesca hanno avuto diverse ripercussioni. Ci sono nostri amici che non li hanno apprezzati molto, anche se noi li abbiamo sempre tenuti informati. Reimann è molto contento. La Sed, per dirla con un eufemismo, è invece meno entusiasta. Eppure noi ci siamo sempre battuti perché l’Italia riconoscesse la Repubblica Democratica Tedesca. Perché dunque noi non potremmo fare quello che fanno anche i comunisti di Bucarest? Abbiamo anche ottenuto qualche risultato. Per la prima volta un visto ufficiale è stato dato ad una delegazione della Sed. Questo è stato fatto anche in cambio dei nostri molti passi compiuti per stabilire un contatto fra l’Italia e il Vietnam. Fanfani ha cercato di far credere a Brandt e Kiesinger che non cambiava nulla, ma gli altri ne sono stati colpiti. Sono stati riconosciuti diritti anche alla delegazione commerciale della Rdt.
Continueremo a sviluppare tutti i rapporti. Avremo contatti politici e scambi di visite anche con i socialdemocratici scandinavi, finlandesi in particolare. Con i tedeschi abbiamo confrontato le nostre e le loro posizioni. Si sta preparando un nuovo incontro in Germania dopo le nostre elezioni. Era stato proposto che Brandt mi incontrasse privatamente in Italia; poi però, per i nostri diversi impegni di calendario, non è stato possibile. In Germania c’è stata anche una campagna di stampa contro questi rapporti. Un articolo ha attaccato anche i nostri rapporti con il Papa. In realtà il Pontefice aveva chiesto che un nostro compagno portasse un messaggio ad Hanoi. Io l’ho sconsigliato perché certamente avrebbe chiesto delle concessioni.
Per tornare alla socialdemocrazia, secondo le ultime informazioni, Bauer ci ha detto che i tedeschi sono molto preoccupati e — riferisco le sue parole — avrebbero l’idea di arrivare ad una rottura della «grande coalizione» prima delle elezioni, perché altrimenti temono una disfatta: questo a meno che non si arrivi invece a una rottura fra i democratici cristiani per il contrasto fra Strauss e Kiesinger.
Qualche altra informazione riguardante il Vaticano. Si ha l’impressione che Tomasek abbia proposto il suo programma massimo: ritorno di Bera, rientro di tutti i rappresentanti che sono in Vaticano, ritorno dei millecinquecento ecclesiastici che sono stati allontanati dalle loro funzioni e restituzione dei beni e degli edifici occupati a monasteri ed altri enti. Alcune personalità vaticane sono però contro questo programma massimo. Tra queste personalità vi è anche Casaroli poiché ritiene che tale programma potrebbe provocare le reazioni sovietiche (di cui sono preoccupati per ragioni più generali) e rendere difficile la situazione in Lituania. Casaroli propone che si proceda un passo alla volta: non porre adesso la questione di Beran, né chiedere la riapertura dei monasteri, ma lasciare se mai che queste proposte vengano fatte dal basso; lasciare facoltativo pure l’insegnamento della religione. Nei prossimi giorni comunque Casaroli verrà in Cecoslovacchia.
Torno un momento alla situazione cecoslovacca. Anche le vostre posizioni sui rapporti con i cattolici hanno un riflesso da noi. Le tesi che il compagno Dubcek ci ha enunciato sono convincenti. Noi siamo per buoni rapporti con i cattolici anche nel socialismo. Lo Stato socialista non deve essere né ateo né confessionale. Non devono esservi privilegi né per confessioni religiose, né per concezioni filosofiche, né per correnti culturali.
I nostri avversari sfruttano nelle loro speculazioni il nostro passato: i crimini che sono stati commessi vengono denunciati come conseguenza del socialismo. Contro queste posizioni noi ci battiamo valorizzando il vostro rinnovamento. Ma allora — ci ribattono — perché non condannate la Polonia? Noi rispondiamo che le nostre posizioni valgono per tutti. Diciamo che ogni partito ha i suoi ritmi di cambiamento. Riconosciamo però che i ritardi sono indubbiamente un male. Comunque noi in Italia difenderemo e difendiamo queste posizioni.
Vorremmo pure chiedervi come reagite alle manifestazioni studentesche in Polonia, anche in vista delle ripercussioni che possono avere fra i vostri giovani, i quali non conoscono neppure il capitalismo.
Abbiamo ascoltato con piacere quanto il compagno Dubcek ha detto sui rapporti con l’Urss e i paesi socialisti. Comprendiamo che vi è una parte di speculazione nelle voci diffuse in Occidente. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri partiti, sapete che alcuni di essi criticano duramente il nostro partito. Noi cerchiamo di comprendere le ragioni delle differenze esistenti. Se nelle conferenze internazionali si manifestano voci discordanti, a noi pare che questo sia qualcosa di positivo. Negativa e dannosa è stata piuttosto l’unanimità forzata del passato. Ricorda gli attacchi portati ai cecoslovacchi dal polacco Kliszko e da un dirigente tedesco. Sono metodi inaccettabili. Quanto a noi, abbiamo dato tante prove del nostro internazionalismo e della nostra fede nel socialismo. È una caratteristica dell’intero movimento operaio italiano prima ancora che del partito comunista. Perderemmo qualcosa di importante se venissimo meno al nostro impegno internazionalistico. Un rischio di questa natura c’è stato per voi, ma riteniamo che ormai sia stato superato, quando c’era l’impressione che voi e sovietici non faceste abbastanza per il Vietnam.

DUBCEK. Longo ha parlato di un certo ritardo nostro nell’affrontare i cambiamenti. Si tratta di una osservazione giusta. Sta qui la causa delle nostre maggiori difficoltà. Vi erano membri del Comitato centrale che segnalavano i nostri errori nei vari settori. Se queste critiche fossero state accettate, se fosse stato possibile correggere gli sbagli senza dover per questo impegnare una lotta contro la precedente direzione del partito, tutto sarebbe stato più semplice. Era chiaro che sbagliavamo nei rapporti con i giovani, come nella questione nazionale. Adesso tutti i problemi esplodono contemporaneamente. Siamo sotto pressione. Il tempo stringe. Eppure dobbiamo compiere delle analisi profonde prima di prendere delle decisioni, proprio per non incorrere in altri errori. Questo può dare l’impressione che siamo talvolta alla mercé degli eventi. In qualche caso ciò può anche essere vero. Ma nell’insieme sappiamo dove vogliamo andare.
In Francia, in Italia, in Germania si conoscono i nostri programmi per cambiamenti strutturali nella nostra economia. Cerchiamo, in particolare, di migliorare il livello tecnologico della nostra industria chimica e della produzione di beni di consumo. I nostri istituti scientifici hanno molti contatti con l’estero. Certi circoli economici italiani manifestano negli ultimi tempi molto interesse per noi. Sanno che potremmo chiedere prestiti perché ciò ci consentirebbe di andare avanti più rapidamente. Per la verità, in questo momento francesi, tedeschi e italiani, fanno a gara per prospettarci offerte. Sanno che i rapporti con noi possono essere vantaggiosi, perché il carattere statale della nostra economia costituisce una garanzia. Vogliamo comunque che voi siate informati. Non abbiamo ancora deciso a chi rivolgerci, ma per il momento abbiamo un interesse minore per la Germania. Sicuramente faremo qualcosa con l’Italia. Quando negozieremo vi terremo comunque informati.

LONGO: Noi abbiamo contatti abbastanza stretti e reciprocamente proficui con l’Eni: non solo per gli idrocarburi, ma per i complessi petrolchimici. Personalmente avevo ottimi rapporti con Mattei, ma li ho buoni anche con Cefis, che pure ha partecipato alla Resistenza. È lui che conduce le trattative per il metanodotto. Ci informa anche delle resistenze politiche. L’Eni ha una funzione che la porta a scontrarsi con i monopoli internazionali, particolarmente americani. Anche nella morte di Mattei vi sono punti oscuri.

DUBCEK: Nonostante le nostre difficoltà, noi oggi superiamo del sette per cento il piano nell’industria. Anche il rapporto fra incremento della produttività e aumento dei salari è favorevole al primo termine. La situazione per il momento sembra buona anche nell’agricoltura.
Avete visto che il compagno Lenart è uscito. Due giorni fa abbiamo avuto una manifestazione studentesca conclusasi con una dichiarazione sulla Polonia. I nostri giornali hanno dato notizia di prese di posizioni di solidarietà con studenti ed intellettuali polacchi. In questo momento l’ambasciatore consegna a Lenart una protesta ufficiale. Noi diciamo ai nostri compagni che, poiché non vogliamo che altri si ingeriscano nei nostri affari, dovremmo evitare a nostra volta di ingerirci in ciò che accade in altri paesi. Ma è un argomento poco efficace. Questo può riflettersi sui rapporti fra i nostri partiti. Gomulka è uomo di temperamento caldo.
Per quanto riguarda l’Unione Sovietica vi assicuro in modo non formale che nella direzione del nostro partito, tanto fra i cechi che fra gli slovacchi, non ci sono differenze di posizione. Lo abbiamo già detto dopo la sessione di gennaio del Comitato centrale proprio per impedire alla propaganda ostile di seminare diffidenze. Lo ripetiamo in ogni occasione. Ogni indebolimento dei nostri legami potrebbe minacciare l’unità internazionale. Anche personalmente ho buoni rapporti con i dirigenti sovietici. Sono preoccupati, ma si tratta di preoccupazioni che sono anche nostre e che abbiamo quindi ben presente.

da Primavera indimenticata, supplemento a "l'Unità" dell'11 novembre 1988

Cuore & Martello. I comunisti e l'amore (Nello Ajello)

Luigi Longo, Teresa Noce e, al centro, il figlio Gigi, nel 1924
L'intervista è famosissima. La concesse Lenin a Clara Zetkin. Fra i vari temi dei colloqui, uno faceva spicco: i comunisti e i sentimenti, la partecipazione politica e l'amore. Il leader della rivoluzione mondiale si mostrò inflessibile: le questioni di cuore, decretò, vanno rimandate a dopo l'avvento del socialismo. Ma perché? Perché "la rivoluzione esige concentrazione". Quando Nilde Iotti scrive a Palmiro Togliatti proponendogli di porre fine alla loro relazione, siamo sullo scadere del 1947. È passato circa un quarto di secolo dalla sentenza di Lenin, alla quale il Pci si attiene.
In teoria. Nella pratica, le cose vanno in maniera diversa: mentre nei quadri comunisti la pedagogia rimane severa, molto meno lo è il comportamento. Non capita più che qualche dirigente di un certo nome venga allontanato dal partito "per storie di donne" come accadeva - lo ha raccontato Teresa Noce a Daniela Pasti, che ne riferisce nel libro I comunisti e l' amore - durante il periodo del "centro estero" di Parigi. Non è più tempo di amori contrastati e problematici. Come quello di Velio Spano per Pina Zolla, sposata a un compagno autorevole, Giorgio Jaksetich (la vicenda si risolse con il trasferimento in Russia della legittima moglie di Spano, Felicita Ferrero, per curarsi la salute: ma le trattative con la direzione del partito erano state defatiganti). Ora, nelle più autorevoli famiglie comuniste, gli "assestamenti coniugali" sono frequenti. Luigi Longo, durante la guerra partigiana, ha sacrificato sua moglie - la simpatica, autoritaria e poco avvenente Teresa Noce - a un nuovo amore. Qualcosa di simile ha fatto Agostino Novella, interrompendo, per un altro legame, il rapporto con la sua compagna del periodo clandestino.

Terracini e la signora
Nel 1948, il cinquantatreenne Umberto Terracini s'innamorerà perdutamente di una signora di trentun anni, Maria Laura Gayno. Ai cronisti la donna risulta regolarmente sposata con un ufficiale carrista della divisione "Acqui". La cerimonia nuziale fra Terracini e la signora si svolge comunque a Bologna, in municipio. Ad officiare il rito, in assenza del sindaco comunista Giuseppe Dozza, che al momento si trova in Ungheria, è l'assessore Paolo Betti. Togliatti, in cima al partito, si trova dunque in buona compagnia.
Gli esempi con cui confrontarsi non mancano. La sua resistenza alle virtuose pressioni di Nilde non si può dire temeraria. "Nel Pci", racconta il senatore Paolo Bufalini, "non c'era una parola d'ordine unitaria. La base operaia e popolare esprimeva umori conservatori. Era legata, in genere, all'unità della famiglia. Non così i vertici. Lì, nei rapporti di coppia si privilegiava il principio della lealtà, senza dare ascolto a un presunto interesse di partito. Potei sperimentarlo io stesso quando, trovandomi a dirigere il Pci in Sicilia, mi unii a una compagna che aveva vissuto 'more uxorio' con un deputato comunista dell'Isola, persona degnissima.

Secchia raccomandò prudenza
"Nel partito ci furono delle pressioni perché interrompessi il rapporto. Mi rifiutai. E fu Pietro Secchia, vice-segretario nazionale e responsabile dell'organizzazione, ad offrirmi l'appoggio più netto e fraterno. Mi disse che in questa mia storia personale non vedeva alcuna incompatibilità né politica né morale con la militanza comunista e con il mio incarico. Si avvicinavano le elezioni del 1953. Secchia si limitò a raccomandarmi una certa prudenza per non urtare la sensibilità di una parte di opinione del Pci in Sicilia. Perché non tutti, ripeto, la pensavano allo stesso modo".
Ma come erano, in genere, i rapporti fra un marito alto dirigente comunista, e la sua moglie o compagna? Nilde Iotti ha dichiarato di non condividere quell'"annullamento della personalità", quella "rinuncia all' autonomia" a favore del marito che si rileva dai ricordi di Marina, consorte di Emilio Sereni, o che distinse il ménage fra Giorgio Amendola e sua moglie Germaine. La scrittrice Clara Sereni, figlia della prima coppia citata dalla Iotti, ne fa una questione di epoca. "C'è stata una generazione di compagne di dirigenti comunisti che, durante la clandestinità o la detenzione dei mariti, ha svolto attività politica. Ricoprendo, a volte, incarichi notevoli: mia madre, per esempio, ha fondato “Noi donne”. Dopo la Liberazione, sono tornate a casa. O hanno lavorato, poniamo, all'Unione Donne Italiane. Sempre però in mansioni subalterne. L'unica che si sottrasse a questo destino fu Teresa Noce, e la pagò cara". E la Iotti? "Lei appartiene a una generazione diversa. È naturale che abbia nutrito insofferenza per quei vecchi comportamenti. Se oggi, in maniera molto elegante, esprime qualche riserva in merito a quel tipo di subordinazione femminile 'di partito', ha pienamente ragione. Io, come donna, gliene sono grata".


“la Repubblica”, 20 luglio 1993  

Valentino Parlato, il ragazzo del secolo scorso (Marco D’Eramo)

“Scendi al bar?” Quando Valentino ti diceva questa frase, incrociandoti nel corridoio della redazione del manifesto a via Tomacelli a Roma, sapevi già che voleva parlarti di una questione seria a proposito della linea politica del giornale, o delle difficoltà economiche, o dei rapporti non sempre idilliaci tra compagni. Perché Vale è sempre stato l’unico, tra i fondatori del manifesto, a curarsi dei giovani redattori. Se un compagno stava male, era Valentino a procurarti la visita con il celebre luminare, a farti saltare la lista d’attesa nel famoso centro chirurgico. Delle tue difficoltà economiche non parlavi con Luigi (Pintor) o Rossana (Rossanda): no, scendevi al bar con Vale e con lui cercavi una soluzione (quando sono entrato io nel manifesto, nell’agosto 1980, Luciana Castellina e Lucio Magri già erano usciti dal giornale, mentre Aldo Natoli veniva solo a collaborare di tanto in tanto). Detto fuori dai denti: Valentino è il più umano tra i padri del manifesto.
Forse perché, nato nel 1931, Valentino tra i fondatori era uno dei “giovani”: Natoli era nato nel 1913, Rossanda nel 1924, Pintor nel 1925, Eliseo Milani nel 1927, Castellina nel 1929. Solo Lucio Magri era di un anno più giovane di lui. Forse per questo Rossana e Luigi lo trattavano sempre come un “fratello minore” mentre, rispetto alla generazione dei redattori allora trentenni, i cinquantenni Valentino (e Michelangelo Notarianni) si vedevano nella parte degli “zii” di questi sessantottini casinari e rissosi.
Una simile posizione non era facile per un carattere, profondamente siciliano, come quello di Valentino, che da un lato era di una fedeltà assoluta, anche se riservata, sottotraccia, e dall’altro non dimenticava tanto facilmente i torti e condonava sì, ma senza realmente perdonare. Ogni tanto dalle sue reazioni, dai suoi racconti, emergevano l’infanzia e la giovinezza vissute a Tripoli, da una famiglia di coloni siciliani appunto (suo padre era un funzionario del fisco). Qualche suo ricordo era addirittura fantasmagorico: ti parlava di come avesse invano cercato di domare un cammello infoiato folle per la sua cammella; o della vera e propria guerra contro l’invasione delle cavallette, delle barriere di fuoco che si ergevano contro di loro, scavando trincee da riempire con bitume da incendiare, e poi fuggire a cavallo.
Il suo divenire comunista, la sua espulsione dalla Libia, l’arrivo a Roma nel 1951, la militanza nelle sezioni periferiche del Pci (p.es. da vicesegretario in Puglia, insieme ad Alfredo Reichlin), la sua formazione da economista, un viaggio in Brasile (ricordava il volo in aereo sulla giungla che “sembrava un campo di cavoli”).
Ma a fare della vita di Valentino un unico, irripetibile percorso umano, sono due contraddizioni, o meglio, due posizioni antitetiche che coesistevano in lui.
La prima: il convivere di una grande umiltà e di un’altrettanto grande coscienza di sé: una sorta di “presunzione modesta”, quella che, all’interno della direzione del giornale, gli permetteva di abbassarsi alle funzioni più umili senza mai perdere il senso di sé, di sporcarsi le mani col capitalismo, e con i capitalisti di tutte le risme, senza mai smarrire la certezza di essere un comunista. Valentino è stato l’uomo che per più di 40 anni è andato “a Gerusalemme senza ridere e senza piangere” a salvare “il manifesto” dalla bancarotta sempre imminente e incombente, a chiedere fidi a banche sempre più restie, ad allacciare rapporti con improbabili investitori che sempre promettevano e quasi mai mantenevano, a intessere relazioni con i salotti del capitalismo, a telefonare ai Romiti, agli Annibaldi, ai De Benedetti, ad avere una sponda nella Banca d’Italia e ingoiare i rospi della Banca di Roma. Addirittura, a volte percepivi un vezzo, come quello – fatte tutte le debite proporzioni – che nel Medioevo spingeva il pontefice Gregorio Magno, il vicario di Cristo su terra, a firmarsi “servus servorum dei”. Nello stesso modo, Valentino affermava la nobiltà del suo ideale politico nella pratica quotidiana del cabotaggio: letteralmente, per tutta la vita, Valentino si è “messo al servizio del comunismo”. E grazie a lui che, unico tra i fogli della nuova sinistra, “il manifesto” sopravvive dopo quasi 50 anni. Altri dirigenti che ho conosciuto non erano mai stati abbastanza umili da essere militanti; altri militanti non erano capaci di essere dirigenti. Parlato è stato un dirigente militante, o un militante dirigente.
Non per nulla, mi disse una volta Valentino, “i miei grandi maestri politici sono stati Lazarillo de Tormes e Benito Cereno”, l’uno il prototipo del personaggio picaresco spagnolo del ‘500 che, dopo averne passate di cotte e di crude, finalmente approda a una vita agiata da servo cornuto del suo padrone che si fa sua moglie; e l’altro, protagonista del racconto di Herman Melville, che da capitano sembra il despota assoluto della sua nave carica di schiavi e che invece – si scopre a poco a poco – è solo la marionetta i cui fili sono tirati da uno schiavo che ha guidato l’ammutinamento contro di lui. Questa “genealogia politica” basterebbe già da sola o mettere in evidenza l’autoironia di Valentino e il suo senso della tragicità della storia.
Valentino ha sempre amato le metafore militari. Lo pigliavamo in giro quando nelle (interminabili) discussioni di redazione cominciava a dire “On s’engage…” e noi tutti finivamo in coro “et puis on voit” (massima che Lenin aveva citato attribuendola a Napoleone). Questa concezione bellica della politica ci porta alla seconda contraddizione che ha sempre convissuto in lui, quella appunto tra una visione iperrealistica, tradizionale, dell’agire politico e invece l’aver fondato un gruppo e poi un quotidiano della nuova sinistra, che ha imbarcato culture e storie non si può più lontane. Cosa spinse un amendoliano come lui (Giorgio Amendola fu fino agli anni ’80 il leader indiscusso della destra del Pci) a un’“eresia” come il manifesto? E una persona dal suo senso della disciplina a esprimere nel 1969 apertamente il proprio dissenso sulla repressione della primavera di Praga e farsi radiare dal partito? Forse la sua familiarità col pensiero settecentesco, un certo libertinaggio, il piacere della trasgressione, il non farsi scrupoli ad andare contro corrente, come la sicurezza esibita dalle persone davvero eleganti quando calpestano il bon ton: due volte mi ha mandato in Libia quando c’era Gheddafi, nel 1982 e nel 2001, e poi lo difese quando gli occidentali (dopo aver tanto amato per decenni il leader libico) improvvisamente scoprirono che era un abominevole tiranno; proprio come l’anno scorso alle elezioni comunali di Roma ha votato per Virginia Raggi dei 5 Stelle.
Per parafrasare un titolo di Rossana, Valentino Parlato è stato lui il vero “ragazzo del secolo scorso”: fino all’ultimo giorno in cui ha lavorato nella redazione del manifesto, nel 2012, ha sempre scritto i suoi articoli tempestando la malconcia macchina da scrivere (anche Luigi Pintor aveva continuato a battere sui tasti dell’Olivetti fino alla morte nel 2003, mentre le fondatrici donne del giornale, Rossana e Luciana, si erano computerizzate subito senza alcuna difficoltà).
Anche nella scrittura giornalistica, la sua posizione di “fratello minore” lo ha fatto ingiustamente sottovalutare rispetto alle firme acclamate, come Luigi e Rossana: Valentino è stato un grande giornalista. Il giornale era la sua vita. Quando la nuova gestione lo allontanò (insieme a Rossana e a molti di noi), gli inferse un colpo da cui non si è mai più davvero ripreso. Oggi leggo i peana che gli intonano persone che lo cacciarono a calci: non mi stupisco, è un’infamia che nessuno merita, ma che toccherà a tutti.
Valentino, non mi chiederai mai più di scendere al bar per trovare il modo di tenere a galla un fuscello di speranza politica.


Dal blog di “Micromega”, 3 maggio 2017

Germania: se l’ultradestra avanza, diciamo “grazie” agli inciuci centristi (Samuele Mazzolini)

Come ormai succede da qualche tempo a questa parte, quando un partito o un politico della destra populista ottiene un successo elettorale, assoluto o relativo che sia, un manipolo di “illuminati” ritiene di dover andare a fare una piazzata a urne ancora fresche, mettendo in discussione, in barba a qualsiasi principio democratico, che una fetta dell’elettorato abbia deciso di votare a quel modo.
Ieri sera è toccato ad Alternative für Deutschland, colpevole di aver ottenuto il 12,6% dei consensi, divenendo di punto in bianco la terza forza politica della Germania. In parallelo, la timeline di Facebook si intasa di isteriche considerazioni contro l’avanzata dei populismi, “mala tempora currunt” di qua, “tifiamo asteroide” di là, sermoni pregni di tensione morale che puntano il dito contro l’incedere dei fascismi (disegnando così la fallace equazione tra fascismo e populismo). In un fenomeno paradossalmente non del tutto estraneo alla sinistra che storicamente aveva lottato per l’estensione delle franchigie democratiche, taluni paventano persino di revocare il voto agli imbecilli.
Intendiamoci subito: sono tempi bui per davvero perché l’estrema destra fa schifo sul serio e non c’è alcuna ragione di celebrare alcunché. Ma è l’analisi di fondo di quello che sta succedendo a fare acqua da tutte le parti. Le piazzate infatti andrebbero organizzate di fronte alle sedi dei partiti che hanno provocato lo sfacelo economico e sociale in cui versa l’Europa, sì proprio quegli attori politici “moderati”, “seri” e “responsabili” le cui politiche non si differenziano ormai quasi per nulla le une dalle altre.
Nella fattispecie, se il ritorno in auge dei nipotini dei nazisti fa legittimamente venire i brividi, la protesta va rivolta a Frau Merkel e Herr Schulz, sì proprio i leader dei due partiti più grossi che hanno fatto l’inciucio – lì la chiamano Große Koalition ma rimane pur sempre un “biscotto” – per otto degli ultimi 12 anni. E poco importa se Schulz ha promesso che è ora di finirla con questa storia: piccoli espedienti tattici che non intaccano la convergenza sostanziale sulle stesse politiche economiche, sullo stesso modello di Europa, sulla stessa solfa.
Gli amici “illuminati” si indignano perché il fascismo (o comunque vogliate chiamare quei pasticci ideologici dell’attuale estrema destra) è brutto, sporco e cattivo – come dargli torto, d’altronde? – ma non fanno quel passetto in più per comprendere il contesto in cui maturano e si sviluppano progetti di società così sordidi. Si impuntano ferocemente ad esprimere il proprio disgusto, sbattono i piedi, ma non capiscono che se la politica viene privata della sua dimensione più naturale, ovvero sia quella del disaccordo, della possibilità di scelta tra opzioni realmente diverse, l’antagonismo rischia di riemergere nelle forme più disparate e pericolose.
Ciò che non riesce loro di mettere a fuoco è che il disagio sociale che cova oggi giorno in Europa – sì perché anche in Germania, tra minijobbers e un Est impoverito, esistono sempre più diseredati – trova sfogo lì dove può, rendendo più importante la voce di dissenso rispetto al suo contenuto specifico. Non c’è da prendersela quindi con coloro che votano per formazioni che reputiamo oscene: bisogna tornare a sedurli, bisogna parlare con gli incazzati e far sì che quella rabbia possa essere veicolata in termini democratici e non razzistoidi. Se non lo faranno le forze votate alla giustizia sociale e l’uguaglianza, lo continueranno a fare le Le Pen, i Trump e le Alternative für Deutschland.
Piuttosto, il vero mostro contro cui scagliarsi è il consenso centrista e tecnocratico, il quale ha spacciato per un fatto naturale un modello contingente e correggibile che svuota di sovranità e di democrazia gli Stati e che precarizza progressivamente le nostre vite. La prossima volta che avanza l’estrema destra, smettiamo di fare la morale: torniamo a fare politica.


“il manifesto di Bologna”, 25 settembre 2017

Come una lupa (Donatien-Alphonse-François de Sade)

Il destino di una donna è di essere come una cagna, come una lupa: deve appartenere a chiunque la desideri.

La filosofia nel boudoir, Newton Compton, 1978

Come al Signore (Paolo di Tarso)

Il mosaico del Cristo Pantocratore nel Duomo di Cefalù
Le donne siano soggette ai loro mariti come al Signore: l'uomo infatti è il capo della donna come Cristo è il capo della Chiesa salvatore del suo corpo. Quindi, come la Chiesa è soggetta a Cristo, così anche le donne debbono sottomettersi in tutto ai loro mariti.

Lettera agli Efesini, 5, 22-24

Quasi-elegia. Una poesia di Federico Garçia Lorca

Tanto vivere.
Perché?
Il sentiero è noioso
e non c’è amore che basti.

Tanta fretta.
Perché?
Per prendere la barca
che non va da nessuna parte.
Amici miei, tornate!
Tornate alla vostra sorgente!
Non lasciate l’anima
nella coppa
della Morte.

da Suites in Poesie inedite, Paperbacks poeti, Newton Compton, 1976 - Traduzione S.L.L.

26.9.17

Ricordo di Gigi Burruano (Emiliano Morreale)

Dal sito “Le parole e le cose” riprendo questo omaggio a Gigi Burruano, il cui ricordo mi riporta alla giovinezza ribelle.
Una sera, dopo un piccolo incidente allo Shanghai, la trattoria al primo piano nella piazzetta della vucciria, Burruano si esibì per tutta la notte al “Bunker” di Nino Drago, con cui quella sera andava d'accordo, soltanto per me e Lillo Guarneri (un artista, che se n'è andato via piuttosto giovane, anche per la sua radicale incompatibilità con questa sporca società), incontrati per caso, recitando cose che di solito non faceva, come alcuni divertenti monologhi di Renzino Barbera.
Mi figuravo che prima o poi l'avrei rincontrato e gli avrei ricordato quella notte: lui – senza nulla rammentare di quel lontano passato – si sarebbe messo un'altra volta a recitare per me, con la generosità dei grandi uomini. (S.L.L.)

Luigi Maria Burruano, detto Gigi, era molto semplicemente uno dei maggiori attori che avesse l’Italia. Grazie al cinema in molti se ne erano accorti, seppure di sfuggita. Ma comunque sulla stampa nazionale la sua morte è stata consegnata a qualche trafiletto. Se ne è ricordata, ovviamente, la città di Palermo, per la quale Burruano era un mito.
Certo, lo si è detto: una carriera bruciata, stravizi, alcol, un malo carattere che lo aveva fatto finire anche in carcere per l’aggressione al genero, qualche anno fa. Gigi non era un furbo amministratore di sé. Negli ultimi tempi si era ritirato nel quartiere dell’Uditore, in parte clandestino nella sua città. Apparteneva a una tipologia di attori scomparsi, colti e insieme radicatissimi in un mondo lumpen scomparso che lui, proveniente dal mondo borghese, aveva adottato e da cui era stato adottato. Non a caso lo aveva scovato Salvo Licata, giornalista de “L’Ora” e drammaturgo, con il gruppo di cabaret dei “Travaglini”.
Era la fine degli anni ’60, e Burruano per un paio di decenni fu l’anima del teatro palermitano, insieme a una generazione di attori strepitosi e di comici molti dei quali poi confluiranno nelle televisioni private. L’uomo di teatro più grande di tutti era ovviamente Franco Scaldati, e che nel suo spettacolo Attore con la o chiusa (1974) fu diretto proprio da Burruano.
Purtroppo, per motivi generazionali e geografici, ho potuto conoscere solo di sfuggita quella stagione, ma ho la fortuna di aver visto Burruano e Giacomo Civiletti in coppia, e di assistere a un paio di performance teatrali di quelle più “alte”, più “ripulite” se si vuole, ma comunque irresistibili: Palermo o cara, in cui Burruano interpretava il Rancu Tanu, e una versione di Rinaldo in campo con Masssimo Ranieri, in cui lui e Civiletti ereditavano non indegnamente i ruoli di Franchi e Ingrassia.
La maschera tragica di Burruano con l’età si accentua, e il cinema ci ha consegnato soprattutto l’ultima fase della sua carriera. Dopo tante piccole apparizioni, erano stati Marco Risi e Aurelio Grimaldi a farlo conoscere, ma il suo primo ruolo da co-protagonista, e uno dei pochi, è stato in Liberi (1994) di Gian Maria Tavarelli, in cui interpretava il padre operaio di un giovanissimo Elio Germano.
Ma la sua estraneità al cinema italiano era subito da brivido, e tale è rimasta. Burruano era uno di quegli attori che illuminano un film anche comparendo cinque minuti, e a volte aprono in esso delle faglie vertiginose: questo lo rendeva prezioso, ma forse anche lo condannava a ruoli di caratterista. Splendido sul versante comico (con Ficarra e Picone, figli minori e già “borghesi” della tradizione cabarettistica, con Albanese), e per i più perversi commovente in tutti i ruoli di mafioso possibili, fino alle prime puntate dell’Onore e il rispetto. In brevi ruoli lo ha bene usato Tornatore, ma i più lo ricordano forse nel ruolo del padre di Peppino Impastato nei Cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana, insieme a Luigi Lo Cascio, suo nipote.
Il suo monologo, ubriaco, prima di essere investito da un’automobile, è straziante; ma forse ancora più incredibile è la sua apparizione nell’unica regia proprio di Lo Cascio, La città ideale: un film curioso, incerto, che non si capisce bene dove vada a parare finché, nell’ultimo quarto d’ora, entra in scena Gigi nei panni di un avvocato e il film decolla, e si resta letteralmente a bocca aperta.
C’era una sorta di istantaneo doppio movimento, nell’essere in scena di Burruano: da un lato, l’impressione scioccante di verità, nell’inflessione, e insieme l’esibizione di un recitare gigionesco, coinvolgente, quasi a rivolgersi al pubblico scavalcando il testo o la regia. Insomma, l’effetto era di avere davanti un attore che imitasse perfettamente, senza recitare, un uomo che agiva recitando. Come se l’istrionismo non fosse dell’attore ma del personaggio. Così si spiegava anche l’oscillare del personaggio tra mosse pseudo-aristocratiche, quasi parodistiche, e un basso continuo mimetico da suburra: qualcosa che faceva sogghignare con un rictus ai suoi ruoli drammatici, e stare col groppo in gola davanti alle sue performance comiche più pure. In questa sua tarda fase, per fortuna, ha incontrato anche Ciprì e Maresco, che lo hanno portato alla Biennale di Venezia nello spettacolo Palermo può attendere, con Scaldati e Mimmo Cuticchio (mai andato in tournée, e beato chi c’era: ne scrisse un elogio acutissimo Franco Quadri). E finalmente gli hanno assegnato un ruolo da protagonista, a fianco di Scaldati, nel Ritorno di Cagliostro, circondato dai personaggi del mondo di Cinico Tv e da glorie teatrali, da Civiletti a Gino Carista. Non è un caso che siano stati i registi più irregolari del nostro cinema a valorizzare la sua energia autodistruttiva e apocalittica che grazie al cielo ha illuminato, e sabotato, angoli del nostro cinema recente.


Dal sito “Le parole e le cose” (http://www.leparoleelecose.it/) 26 settembre 2017

Allons mon coeur. Una poesia di Guillaume Apollinaire dalla Grande Guerra

Avanti mio cuore d'uomo la lampada sta per spegnersi
Versaci il tuo sangue
Avanti mia vita alimenta questa lampada d'amore
Avanti cannoni aprite la strada
E arrivi infine il tempo vittorioso il caro tempo del ritorno.

da Poesie erotiche per Lou e Madeleine Paperbacks poeti, Newton Compton Editori 1976 - Traduzione S.L.L.

Finestra. Una poesia di Sandro Penna

Ritratto del poeta da giovane
È caduta ogni pena. Adesso piove
tranquillamente sull’eterna vita.
Là sotto la rimessa, al suo motore,
è – di lontano – un piccolo operaio.
Dal chiuso libro adesso approdo a quella
vita lontana. Ma qual è la vera
non so.
            E non lo dice il nuovo sole.

da Poesie [1927 - 1938] in Poesie, Garzanti, 2000

César Vallejo. Ande 1917: un sopruso universale (Vittorio Giacopini)

César Vallejo
Tungsteno, carburo di tungsteno, e derivati, essenziali per l’industria pesante civile e militare, per i filamenti delle lampade a incandescenza, per le valvole termoioniche, per gli elettrodi, utili per la lavorazione di altri metalli e materiali, rilevanti anche nell’estrazione petrolifera eccetera. Siamo nel 1917; gli Stati Uniti si stanno preparando a entrare in guerra. Nelle zone minerarie delle Ande peruviane, dipartimento di Cuzco, gli yankee della Mining Society hanno un sempre maggiore bisogno di manodopera per incrementare i quantitativi di minerale da estrarre e inviare in patria. Tungsteno di Vallejo (Sur, Roma, traduzione di F. Verde, 2015), un fulminante romanzo-teatrale in tre quadri, è la cronaca-denuncia della crescente pressione del capitale sulle comunità locali, indios e cholos, e l’amara fotografia di uno sfruttamento politico, economico, sempre più duro. Grandissimo poeta, Vallejo affida a questo suo unico romanzo - un capolavoro - il compito di svelare un processo totale e impressionante di genocidio antropologico e lo fa raccontando una fine del mondo, del suo mondo.
Scrive contro il potere, Vallejo, ma senza ideologia, con estrema attenzione, quasi con pietas. Niente invettive gridate, niente lamenti. Gli yankee restano, il più delle volte, sullo sfondo. Quello che Vallejo coglie e denuda con più nitida coscienza sono le forme intermedie dell'oppressione, il ruolo
decisivo e osceno - dei complici locali, dei «notabili» del Paese, dei mediatori. Il primo, impressionante, «quadro» di Tungsteno è il racconto di uno stupro di gruppo, sino alla morte. In quella stanza, oltre a Weiss e Taick, i “padroni” gringos, ci sono tutti: il commissario, l’ingegnere e il professore, i negozianti. Gli stessi volti, più altri ugualmente indecenti, ugualmente torvi, tornano nel quadro secondo, quando inizia l’arruolamento forzato degli indios per le miniere. La protesta dei poveri finisce in una strage; sparano tutti: sottoprefetto, sindaco, giudice, medico, segretari comunali, persino il parroco.
Negli anni Trenta - il libro viene pubblicato non in Perù ma in Spagna nel 32 - questo modello di «arte proletaria» era importante. Vallejo, Brecht, Majakovsky e Piscator, la Seghers, Gor’kij, il misterioso B. Traven (con le sue storie di indios messicani), Ischerwood, Auden. Poi quel modello è stato criticato, o messo da parte, ma i tempi mutano e fa impressione rileggere oggi un romanzo secco, lineare ma non ingenuo o facile, come Tungsteno. Vallejo non era manicheo, lo era il suo mondo. Lo è anche il nostro. Deve esserci come una curva nel tempo, o una parabola, ma sta di fatto che nel nostro presente - globalizzato, anzi: delocalizzato - questo scarto tra il centro dell’impero e il resto, i margini, è tornato ad accentuarsi, con evidenza. Mentre il divario tra ricchi e poveri assume aspetti e volti e forme da Ottocento, il «tallone di ferro» dello sfruttamento raggiunge punte massime e paurose in questi territori immensi di miseria. L’esercito di riserva del capitalismo oggi sono le factory schiavistiche del vasto e muto Oriente, in India, in Cina, queste penitenziali galere delle grandi marche. Vallejo, ovvio, scriveva dei suoi tempi, per sabotarli. Siamo costretti a leggerlo come se scrivesse dei nostri, e contro i nostri.


“Il Sole 24 ore – Domenica”, 1 marzo 2015

La fine della nausea (Jean-Paul Sartre)

Scende la notte. Al primo piano dell'albergo Printania si sono illuminate due finestre. Il cantiere della stazione nuova odora forte di legno umido: domani pioverà, a Bouville.

La nausea - Einaudi,1967 - Trad. Bruno Forzi

Lo strazio e l’icona. Quando Guernica arrivò a Milano (Pablo Rossi e Giorgio Zanchetti)

Ottant’anni fa, il 26 aprile 1937, tra le 16.15 e le 19.30, gli aerei della Legione Condor tedesca, appoggiati dall’Aviazione legionaria italiana, bombardano a tappeto Guernica, centro della Biscaglia che fa parte dei Paesi Baschi. Alla fine la città è in fiamme, distrutta per metà. Si contano tra 400 e 800 morti e molti feriti. Perché questa azione spietata?
Da poco più di nove mesi in Spagna è in corso una guerra civile iniziata il 17 luglio 1936 con l’insurrezione di una parte dell’esercito guidata dal generale Francisco Franco, appoggiato dalle destre, contro la Repubblica governata dalle sinistre. Nel settembre 1936, nei Paesi Baschi i rivoltosi nazionalisti conquistano Irún e San Sebastián. Ma l’obiettivo prioritario è Madrid. La capitale, attaccata tra novembre e dicembre 1936, non cade nemmeno con le successive sanguinose battaglie del Jarama e di Guadalajara. Allora i nazionalisti attaccano la Biscaglia, ricca di industrie e risorse minerarie: pur essendo cattolica e conservatrice, si è schierata con la Repubblica. Il 31 marzo 1937 comincia l’offensiva del generale Emilio Mola, uno dei capi della rivolta, che annuncia: «Se la resa non sarà immediata raderò al suolo tutta la Biscaglia». E il 26 aprile tocca a Guernica.
Fin da gennaio la Repubblica spagnola aveva deciso di partecipare all’Exposition Internationale di Parigi: un gruppo di intellettuali spagnoli incontra Pablo Picasso a Parigi e lo convince a realizzare una grande opera di propaganda per il padiglione progettato da Sert e Lacasa, decorato con interventi di Sánchez, Renau, Miró e Calder. Alla fine di aprile Guernica diverrà il tema del quadro.
Siamo all’inizio di quella stagione tragica dell’arte del XX secolo che culminerà il 18 e il 19 luglio 1937 con la doppia inaugurazione, a Monaco, della Grosse Deutsche Kunstausstellung – la mostra dell’arte ufficiale nazista – e dell’esposizione dell’Entartete Kunst, la cosiddetta arte degenerata, che raggruppa senza distinzioni, in una sorta di abiura o di rogo simbolico, tutte le produzioni dell’avanguardia nei primi decenni del secolo. Dal 25 maggio al 25 novembre, all’Exposition Internationale des Arts et Techniques di Parigi si affronteranno, lungo i due lati del Champ de Mars, il padiglione tedesco di Albert Speer e il padiglione sovietico di Boris Iofan con le figure ciclopiche in acciaio de L’operaio e la kolchoziana modellate da Vera Mukhina.
Sconvolto dai reportage da Guernica e dalle prime immagini delle sue rovine sul quotidiano comunista «Ce Soir», Picasso sviluppa in forma completamente nuova alcuni spunti delle incisioni satiriche Sogno e menzogna di Franco, che assumono ora un valore di ben più stringente attualità. Da questi primi disegni – rinunciando simbolicamente al colore – nasce la grande composizione di Guernica, appuntata su una tela di 349 × 777 centimetri e poi sviluppata in un crescendo di brutale sintesi delle forme e di distillazione del suo contenuto drammatico tra l’11 maggio e il 4 giugno. Dora Maar, compagna di Picasso in quegli anni, ne ha fissato in una serie di scatti fotografici l’evoluzione inarrestabile e violenta da un insieme descrittivo ancora leggibile a icona che travalica ogni aspetto retorico e ogni simbolo attraverso l’implacabile tragicità dello stile. In un rapido centone di fonti visive – che corrono da Raffaello a David, fino a Goya – Picasso delinea quattro figure femminili ploranti e il corpo di un guerriero caduto, sotto gli occhi allucinati di due enigmatici animali simbolici: il toro e il cavallo straziato, che rappresentano al tempo stesso la forza del popolo spagnolo e la violenza bestiale della guerra, la sofferenza e il furore apocalittico del bombardamento nazista.
Il braccio del caduto, col pugno levato verso il cielo nelle prime prove, giace a terra abbandonato nell’opera finita; nell’altra mano è stretto il moncone di una spada spezzata. L’inaudito dramma urbano delle pareti divelte e delle case sventrate, impudicamente aperte sulla strada, è reso attraverso lo slittamento incoerente tra spazio esterno e spazio domestico: il sole, ancora presente nei primi stati del quadro, diventa infine una lampada elettrica. Una madre grida di dolore sul cadavere del suo bambino, un’altra donna si piega e corre fra le rovine, una terza leva al cielo le braccia nella casa incendiata. Su tutti si protende il gesto dell’ultima figura che illumina sconsolata la scena, consegnandola alla verità della storia.
Renato Guttuso ricorderà nel 1981 la rivelazione e il perdurante valore di questo «segno magico che univa impegno civile e ragione poetica (…). Guernica arrivò su una rivista che sfogliai nello studio di Malaparte. Poi su una cartolina inviatami da Cesare Brandi da New York, e che portai addosso per anni. Infine potei vedere il grande dipinto tra le rovine della Sala delle Cariatidi, nel Palazzo Reale di Milano». Dopo Parigi Guernica parte nel 1938 per una tournée in Scandinavia e in Gran Bretagna, quindi nell’aprile 1939 si sposta negli Usa per raccogliere denaro per i rifugiati spagnoli. Il 15 novembre 1939 giunge al Museum of Modern Art (Moma) di New York, dove rimarrà fino al 1953, trasformandosi in icona dell’arte moderna.
Nell’autunno del 1953 a Milano si prepara una importante mostra di Picasso. Nel comitato organizzatore c’è anche il pittore Attilio Rossi, che conosce bene l’artista spagnolo perché nel 1939 Picasso, Neruda e lui avevano collaborato per salvare gli intellettuali spagnoli dopo il crollo della Repubblica. Nel comitato inizia un serrato dibattito perché Rossi sostiene che Guernica deve assolutamente esserci alla mostra di Milano. Nonostante lo scetticismo degli altri, si reca da Picasso a Vallauris e lo convince al prestito, mostrandogli le fotografie della drammatica Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, devastata dai bombardamenti del 1943, e spiegandogli che Guernica sarà esposto proprio lì. Dopo 14 anni il quadro lascia il Moma per l’Europa e viene esposto per la prima e unica volta in Italia negli ultimi mesi del 1953. Da Milano Guernica va in Brasile, poi torna in Europa. Nel 1957 rientra al Moma e solo nel 1981 raggiunge Madrid, dove lo si può ammirare al Museo Reina Sofia.


“La Lettura Corriere della Sera”, 19 marzo 2017

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