30.11.18

Terni, la miniera delle cartoline. I fotografi Alterocca (Jenner Meletti)



TERNI

La Balilla nera era davvero un mistero. Era parcheggiata davanti a una chiesa di Avola, appariva in una stradina della Calabria, era in bella mostra davanti a una locanda di Sorrento o a un albergo di Tortona. Dal Sud al Nord, come per miracolo, l’ auto si esibiva davanti all’ obiettivo del fotografo. «Usando una lente, abbiamo letto la targa, Tr 1921, e il mistero è stato svelato: la Balilla era quella dei fotografi Alterocca. Uno di loro ci ha spiegato che erano gli stessi abitanti a chiedere di mettere l’auto "dentro la cartolina", così il paese sembrava più moderno».
È una miniera ancora inesplorata, l’archivio fotografico Alterocca, magnifica raccolta di un milione di negativi su lastre di vetro al bromuro e lastre di zinco. Con questi negativi sono state stampate centinaia di milioni di cartoline illustrate (negli anni Trenta l’Alterocca sfornava cinquanta milioni di pezzi all’anno) che in un’ Italia dove l’unico viaggio era quello per andare a fare il soldato, raccontavano ad amici e parenti luoghi mai visti: «A Roma andai e a te pensai». Non solo saluti ma anche preghiere. Una rondine vola sulla piazza della Madonna di Loreto. Con il becco sostiene un cartello: «Ti porti i miei saluti la rondinella pia / e la benedizione celeste di Maria».
Quasi cent’anni di cartoline, dal 1876 ai primi anni Sessanta. Le mappe di Google, con il satellite, raccontano l’Italia di oggi. Le lastre Alterocca riescono a raccontare anche il passato. «I fotografi andavano più volte nello stesso paese, a distanza di anni. E così possiamo vedere, ad esempio, come i paesi italiani si sono sviluppati. I fotografi - dipendenti o collaboratori fissi - erano inviati dalla ditta ma lavoravano anche su commissione. A chiamarli erano i tabaccai, che accanto ai sigari e alle sigarette sfuse vendevano le cartoline. Chiedevano immagini della piazza, della chiesa, della processione con il Santo patrono, dell’intero paese. Sceglievano quattro o cinque scatti e per ognuno di essi ordinavano dalle duecento alle mille cartoline».
Francesca Boscherini, imprenditrice, nel 1989 ha comprato l’archivio in un fallimento e ha fondato l’ Alterocca Media. «Non volevo che un patrimonio come questo andasse diviso e disperso nelle case dei collezionisti. Credo di avere fra le mani un vero tesoro, che purtroppo dopo tanti e costosi traslochi oggi è chiuso in sei stanze di palazzo Carrara. E meno male che il nuovo sindaco di Terni, Paolo Raffaelli, ha messo a disposizione quei locali. Io ho ormai perso la speranza di guadagnare qualcosa. Vorrei però che l’archivio diventasse davvero fruibile. Lo stiamo mettendo in ordine, piano piano, con l’aiuto di Benedetta Toso, esperta di archivistica immagini fisse. E ogni volta che apriamo un cartone della Ferrania, che custodisce le lastre tredici per diciotto, torna alla luce un prezioso frammento del passato».
Erano bravi, i fotografi Alterocca. «Quando partivano per la Sicilia nei giorni in cui la raccolta delle arance era terminata, se ne procuravano comunque una cassetta. Nei paesi chiedevano la cartolina che mostrava chiesa e campanile sotto un ramo ricco di arance e loro appendevano ai rami spogli i frutti comprati al mercato. Se per caso, anche con queste astuzie, la cartolina non risultava gradita, entravano in azione i ritoccatori». Ci sono ancora i pennelli usati dai ritoccatori, con tre, due o un solo pelo. «Ecco, i fili d’acqua che escono da questa fontana di Roma, "Panorama dall’Accademia di Francia", sono dipinti con pennelli a un solo pelo. Il ritocco serve ad esaltare i contrasti. Il grigio diventa bianco o, all’opposto, nero. Poi la fotografia viene rifotografata e appare nitida. Abbiamo trovato biglietti con ordini precisi per il ritocco. Per questa fotografia di un paesino siciliano, ad esempio, si prescrive di "togliere le crepe dai muri, eliminare le erbacce dal marciapiede e soprattutto fare sparire la gallina che sta in mezzo alla strada"». 
Anche la storia va ritoccata. «Cartoline scattate quando c’era il Duce non vanno più bene dopo la Liberazione e non si può certo tornare in tutti i paesi a cercare nuove immagini, perché i fotografi costano. Ecco allora i ritoccatori al lavoro, per togliere fasci littori dai palazzi o monumenti a Mussolini. Si fanno anche errori clamorosi: si elimina con il pennello il Duce a cavallo ma nella piazza resta l’ ombra del monumento. Abbiamo trovato la cartolina fra gli scarti». «La cartolina illustrata - scriveva nel 1906 il fondatore della tipografia e del grande studio fotografico, Virgilio Alterocca - è potentissimo tramite di cultura e di gentilezza. Deve essere asservita all’ educazione del sentimento e del gusto e non
Terni. La palazzina Alterocca
immiserita a fini disdicevoli». Virgilio Alterocca è un dirigente del Partito Socialista, insegnante, industriale con mille idee. A Terni costruisce il teatro Politeama e la rete telefonica. La cartolina deve portare quella cultura che il popolo non si può permettere, ed è anche informazione. Oltre alle foto degli «edifici architettonicamente più importanti», sulle cartoline vengono stampate le immagini dell’ eccidio di Umberto I a Monza, gli spettacoli teatrali tratti da opere di D’ Annunzio, la messa in scena di opere liriche, episodi dei Promessi Sposi e della Divina Commedia. 
L’industria decolla dopo la morte di Virgilio Alterocca (1853-1910) ma grazie alle idee e agli investimenti del fondatore, che andava a cercare nuove macchine alle Expo di Parigi e di Berlino. Nel 1930 nella tipografia e nel laboratorio fotografico lavorano duecento persone. «La cartolina - scrive Alterocca - deve mostrare le meraviglie della natura e dell’ arte che fanno così bello il nostro paese, favorendo l’ affluenza dei forestieri anche nei centri minori, diffondendo fra gli amatori la conoscenza delle bellezze pittoresche e delle opere classiche, che fino ad ora furono in gran parte tesori ignorati per gli stessi italiani». Ordini di cartoline Alterocca arrivano anche dalla Cina e dal Brasile. Un imprenditore egiziano, negli anni Trenta, manda una fotografia del suo albergo, ai margini di un deserto. Ne chiede mille copie, «virate seppia» e chiede un favore. «Potete mettere qualche nuvola in cielo?». Viene accontentato. Lo stabilimento che fu del dirigente socialista illustra le conquiste coloniali e la guerra di Albania. I soldati possono così mandare a casa le immagini di "Tripoli, such el Giuma", il "Panorama della fortezza veneziana a Durazzo" o "La famiglia reale di Albania". Ma sono i paesi e le città la miniera dell’ azienda. E a chiamare i fotografi non sono solo i tabaccai, antesignani delle future aziende di promozione turistica, ma anche i proprietari di alberghi, pompe di benzina, ristoranti. Il filone d’ oro viene trovato nei santuari e nei conventi. Sono i primi, in Italia, a scoprire la necessità della promozione. Nel 1934 i monaci di Camaldoli aprono la loro foresteria e cercano clienti e pellegrini. Il priore, in una lettera, chiede anche una foto «ritoccata a colori», e allora a Terni si mettono al lavoro le donne pittrici. Le suore agostiniane di Cascia mettono in posa - in chiesa e ritratte di spalle - le piccole orfane dell’ Alveare di Santa Rita. La foto finisce nel bollettino delle suore, anche questo stampato da Alterocca, che viene inviato ai possibili benefattori. Sempre a Cascia i bimbi della materna parrocchiale vengono sistemati in cortile e fotografati dall’ alto. Tutti assieme formano la scritta: «Auguri». Anche per i santuari i ritoccatori (e gli illustratori) hanno molto lavoro. Ecco dunque apparire modernissimi aerei nel cielo del santuario della Madonna di Loreto, «protettrice degli aviatori», o l’ immagine di San Gabriele che dall’ alto ferma un autobus di pellegrini che sta cadendo da un ponte. «L’ autobus con sessanta pellegrini rimase sospeso sull’ abisso», assicura la didascalia. Anche il Vaticano è un ottimo cliente. Chiama gli Alterocca per l’ inaugurazione del potentissimo centro di radiotrasmissione della stazione vaticana, il 27 ottobre 1957. Fotografie e composizioni diventano cartoline da inviare in tutto il mondo: «Antenna Ave Maria, per fare del mondo una sola famiglia». Le didascalie delle cartoline che mostrano la grande antenna a forma di croce sono in latino: «Antemnae radiophonici pontis, S. M. di Galeria». La cartolina, diceva il fondatore, «non deve essere immiserita a fini disdicevoli», ma il mercato è mercato e la concorrenza si fa forte. Quando si elegge un nuovo Papa, lo stabilimento va in fibrillazione, perché Roma è a soli ottanta chilometri e bisogna arrivare prima degli altri. Il fotografo Angelo Cardaio è pronto. Si procura le immagini di vecchi papi, alti, bassi, magri o grassi. Si procura le fotografie del volto dei cardinali papabili. Appena in San Pietro viene annunciato l’ «Habemus Papam», ecco che il volto del cardinale prescelto viene appiccicato sul corpo già pronto. L’ ultimo fotomontaggio viene fatto per Paolo VI. Senza rinforzi finanziari, tutto l’ archivio Alterocca rischia di restare una miniera chiusa. Finora è stata fatta una sola mostra, Ascoltaci, o Signore, grazie all’ aiuto dell’ allora presidente della Regione Umbria, Bruno Bracalente. «Io metto nell’ archivio - dice Francesca Boscherini - parte dei denari che guadagno in fabbrica, ma non bastano. Ho qualche idea. So che le associazioni di italiani in America finanziano fotografi che vengono qui per ritrarre i paesi di origine degli emigrati. Noi potremmo fornire non le foto di oggi, ma quelle del tempo in cui partivano i bastimenti. Le lastre dell’ archivio - sono ancora perfette e permettono stampe nitidissime - potrebbero poi essere utili per il Fai, il Fondo ambiente italiano: avrebbe le "prove" di come il paesaggio italiano è stato cambiato o manomesso. Potrebbe intervenire anche l’ Anci, l’ Associazione dei comuni italiani. Il nostro archivio potrebbe fornire immagini per organizzare una mostra in quasi tutti i comuni. E sono immagini che raccontano la storia vera di un paese. Insomma, per aprire la miniera, serve qualche investimento, che sarà ben ripagato. Tutti cercano le loro radici. Qui le abbiamo fotografate».

La Repubblica. 2 settembre 2007

"Il tennis e la letteratura? Uguali". Matteo Codignola, editor dell 'Adelphi, parla del suo libro (Luigi Mascheroni)

Matteo Codignola

Sono quarant’anni, forse anche qualche palleggio in più, che Matteo Codignola ama forsennatamente il tennis («Scriva pure che ne sono vittima»). Lo ama da giocatore («Ho iniziato da ragazzino e non ho mai smesso»), da spettatore («Fosse per me lo guarderei in tivù anche 24 ore su 24»), da lettore («Diciamo che maneggio la materia»), e da scrittore: da tempo lo fa per un magazine di sport&cultura. Mentre di pubblicare un libro ci ha pensato per anni. Solo che non sapeva cosa raccontare. Poi, tempo fa, il suo amico Vincenzo Campo (editore sofisticato di Henry Beyle e cacciatore di mercatini) trova una valigia zeppa di vecchie fotografie d’agenzia, tra cui un centinaio sono di tennis, scattate nel circuito amatoriale del secondo dopoguerra, anni ‘50 e ‘60, prima che nascesse il professionismo come lo intendiamo oggi, cioè prima dell’era Open nel 1968. Campioni in azione, racchetta in pugno. Coppie di doppio misto. Strette di mano a fine match. Pause di gioco. Sbarchi di stilosi atleti in aeroporto... Vita quotidiana e partite, che poi per tutti loro erano la stessa cosa. «E lì ho capito che avevo trovato le storie giuste da raccontare. Ho scelto venti fotografie e per ognuna ho scritto una lunga didascalia, diciamo un capitolo». Ed ecco Vite brevi di tennisti eminenti (un po’ biografie d’autore, un po’ cronache al massimo livello di uno sport minore, un po’ riflessione autoironica sul gioco più serio che esista) pubblicato dalla stessa casa editrice di cui Codignola – genovese di nascita, milanese di rinascita e tennista più che amatoriale – è editor di lungo corso e traduttore. Tra gli altri di Patrick McGrath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John McPhee (autore peraltro ben noto a chi sa di letteratura e di tennis...).
Vite brevi, storie fantastiche (per quanto vere). Come quella del barone Gottfried von Cramm, nobile eleganza e classe teutonica, forse – secondo una battuta crudele ma perfetta – «il più forte giocatore a non aver mai vinto Wimbledon». O come quella («una delle mie preferite...») di Eleanor Teach Tennant, la prima grande coach della storia del tennis: indipendente, sessualmente libera, amica di mezza Hollywood, fanaticamente devota alla sue allieve. O quella del losangelino Pancho Gonzales (1928-95), «il più grande di sempre», ma che in pochissimi hanno avuto la fortuna di vedere, dato che giocava nei circuiti professionisti, quindi fuori dai tornei del Grande Slam, e che a 41 anni, nel ‘69, a Wimbledon, vince la partita più lunga mai giocata fino a quel momento...
Dietro quelle foto d’epoca ci sono storie meravigliose. Dietro le copertine e le conferenze stampa dei campioni di oggi...
«C’è quello che loro vogliono che tu sappia. Sono giocatori straordinari, intendiamoci. Ma sopratutto grandi personaggi mediatici dei quali, al di là di ciò che ti dice il loro portavoce, non sai niente. Una volta i tennisti giocavano di meno ma giravano di più. Li vedevi, ci parlavi, di loro si sapeva molto... Le cronache giornalistiche di quegli anni – ricchissime di aneddoti, battute, curiosità dentro e fuori dal campo – sono stupende... Un po’ meno i libri. Erano ragazzi che a 35-40 anni si ritrovavano senza sapere più cosa fare, e così si mettevano a scrivere un’autobiografia, con l’aiuto di un ghost, e quasi mai divertente: poco più di un elenco di match. Il tennis ha sempre prodotto un’editoria sotterranea mediamente noiosa».

Fino a Open. L’eccezione.
«Open è un notevolissimo caso di scuola, un libro che alla storia di Agassi aggiunge molto, e toglie anche qualcosa – diciamo così – di spinoso. Ma è un libro che si è fatto leggere da milioni di persone proprio perché è stato costruito da un grande scrittore, J.R. Moehringer, sull’impalcatura del Grande Romanzo Americano. È qualcosa un po’ più del tennis, qualcosa un po’ meno della letteratura».

Qual è il rapporto tra tennis e letteratura?
«Mi sono fatto l’idea che nel tennis, rispetto a tutti gli altri sport, c’è una indubitabile ricerca della bellezza, del bel gesto, un desiderio di eleganza formale che si può accostare a quell’armonia, o equilibro, che qualcuno – non tutti... – ricerca scrivendo. Di più: nel tennis c’è la stessa ossessione e la stessa incontentabilità che trovi in letteratura. Cerchi sempre la partita perfetta, senza sbavature, come nella scrittura. Se sbagli un quindici, appallottoli e butti via il foglio...».

Cosa significa – cito – che «tra la linea di fondo del campo e la rete ci sono più cose di quante ne contenga la filosofia di un giocatore»? O di uno scrittore...
«Significa che nel tennis tu pensi in continuazione, in maniera – anche qui – ossessiva, per tutta la durata della partita: pensi nelle pause, mentre colpisci la palla, mentre la raccogli. Pensi cosa c’è che non va, perché hai fatto quell’errore, pensi al terrore che ti paralizza quando la possibilità di vincere inizia a prendere forma. E pensi anche nei momenti in cui continui ostinatamente a ripetere, senza una logica apparente, il tuo errore. Il punto è, come disse un grande coach, che il giocatore di tennis non ha mai un piano B. Solo un piano A. Non so, in quello strano rettangolo c’è qualcosa di più di quello che vediamo...».

Genio e sregolatezza vanno sempre insieme, nello sport e anche in letteratura. E così?
«Premessa. A me piacciono i talentuosi; mai avuto la mistica del mediano, o il culto del gregario. Ma credo che non esista il genio senza sudore e lavoro. Non ci credo. C’è l’intuito, la predisposizione, ci sono tante cose, certo... Ma per essere il numero uno devi studiare, allenarti, sputare sangue. Nella scrittura e nello sport. Roger Federer – che io reputo il giocatore più talentuoso mai esistito – è una splendida macchina da guerra. Ma non spunta dal nulla. È frutto di migliaia di ore di allenamento. Nel tennis, e in letteratura, non basta il talento. Non è mai bastato».
Beppe Merlo

Il libro, e il tennis in generale, è pieno di storie di inglesi, americani, australiani soprattutto. E di italiani anche. Cosa ha dato l’Italia al tennis?
«Molto. Grandi giocatori, come Giorgio De Stefani negli anni Trenta. Ha dato Beppe Merlo, esile, amatissimo dalle donne, che giocava pianissimo ma vinceva contro tennisti che avevano quattro volte la sua forza. E poi, in un’altra stagione, ha dato un giocatore come Panatta. Io non amo molto il tennis vintage e lentissimo, preferisco quello attuale. Ma di recente mi sono imbattuto nel documentario The French, sul Roland Garros... Ho visto tre spezzoni di Panatta. E mi sono ricordato delle cose sovrumane, per bellezza, che faceva».

Tennis e editoria. Come va la partita?
«Bene, meglio che nel cinema forse. Detto tra di noi Borg-McEnroe e La battaglia dei sessi, usciti l’anno scorso, sono due film ben fatti, ma deludenti. Le storie sono belle. Quello che manca è il gioco, che nessun tentativo di imitazione, o di ricostruzione, riesce a rendere. In compenso, sì, vedo che i libri sul tennis anche da noi cominciano ad avere il loro pubblico. A parte Tennis di John McPhee, che è uno scrittore gigantesco qualunque cosa scriva, e, uscendo da casa Adelphi, ci sono titoli molto belli di 66thand2nd, che è nata per pubblicare libri di questo genere. Finalmente anche da noi si inia ad apprezzare lo sports writing. Cosa che negli Stati Uniti si fa sempre. E infatti ci sono pezzi di “Sports Illustrated” che stanno tranquillamente a livello degli articoli più belli del tanto, giustamente, celebrato “New Yorker”...».

Il Giornale, 27 novembre 2018

Salvini felpato e ruspante (Massimo Gramellini)

Da Gramellini talora dissento e fa bene qualche amico a segnalarne gli sfondoni, che fanno a pugni con il perfezionismo che esalta. Ma questo pezzo su Salvini, di qualche giorno fa, mi pare particolarmente buono e degno di essere “postato” a futura memoria, soprattutto per il finale. (S.L.L.)


Per sedersi sul trono del centrodestra, influire sui palinsesti delle televisioni e stilare la formazione del Milan, Silvio Berlusconi aveva dovuto comprarseli: il centrodestra, le televisioni e il Milan. Invece Matteo Salvini sta riuscendo nell’impresa di fare le stesse cose gratis. Prima ha sostituito Berlusconi alla guida del blocco conservatore e nella scelta dei direttori dei telegiornali, e adesso anche nei panni di primo tifoso rossonero, quello che guarda le partite in tribuna accanto al presidente della squadra avversaria e dispensa acuti suggerimenti sui calciatori da sostituire. Tutto senza scucire un euro. Il vero sogno del maschio italiano medio, di cui il felpato (nel senso di felpa) e ruspante (nel senso di ruspa) Salvini è il campione indiscusso.
Qualcuno obietterà che il suo strapotere conosce ancora sparute sacche di opposizione. Pezzi di centrodestra e di televisione si ostinano a resistergli. Persino Di Maio si consente ogni tanto di alzare la voce. Quanto all’allenatore Gattuso, gli ha risposto per le rime senza soggezione alcuna, come al Milan non capitava dai tempi dell’immenso Nils Liedholm. Lo svedese, irritato dall’ennesima intromissione berlusconiana negli affari di spogliatoio, dichiarò in pubblico: «Presidente grande esperto di calscio: lui ha iocato in squadra oratorio». Durò pochi mesi. Vedremo se la stessa sorte toccherà al compagno Gattuso, e soprattutto a Di Maio.

Corriere della Sera, 27 novembre 2018

28.11.18

La sfida (im)possibile. Contare i numeri primi (Alessandro Zaccagnini)

Sir Michael Atiyah, celebre matematico

Qualche settimana fa la comunità internazionale dei matematici è stata scossa da un annuncio sorprendente: Sir Michael Atiyah, pluripremiato matematico di quasi 90 anni, in una conferenza ad Heidelberg ha sostenuto di avere finalmente dimostrato la Congettura di Riemann, uno dei più difficili problemi aperti di tutta la matematica.
Proviamo a spiegare di che cosa si tratta. Ricordiamo che i numeri primi sono quegli interi positivi come 2, 3, 5, 7, 11, che hanno esattamente due divisori, e cioè sé stessi e il numero 1. Per inciso, è preferibile non considerare primo il numero 1, perché questo costringerebbe a dare molte definizioni successive, necessarie nella teoria dei numeri primi, in modo piuttosto scomodo. Già i matematici greci del tempo di Euclide (III secolo a.C.) sapevano che esistono infiniti numeri primi, cioè che la lista data qui sopra prosegue senza limite. Una domanda ragionevole è: quanti sono i numeri primi fino a mille? Un milione? Un miliardo? C’è un modo per rispondere senza doverli elencare tutti? Anche avendo a disposizione un computer potentissimo, è chiaro che alzando l’asticella troviamo presto un limite invalicabile, una quantità per la quale una risposta diretta a questa domanda è impossibile.
Se invece ci accontentiamo di una risposta abbastanza precisa, non del tutto esatta ma non troppo difficile da calcolare, possiamo usare una formula scoperta alla fine del XVIII secolo da un giovanissimo matematico tedesco, Carl Friedrich Gauss. Gauss aveva il curioso passatempo di contare il numero di numeri primi in intervalli di mille interi consecutivi e, sulla base dei dati raccolti pazientemente per anni, aveva notato che la sua formula, scoperta quando era ancora adolescente, pur non essendo esatta era piuttosto accurata. Per dare una prospettiva al nostro discorso, è utile ricordare che, nella sua lunga e fecondissima vita di matematico, Gauss non è riuscito a dimostrare rigorosamente che la sua formula, pur nei suoi limiti, sia sostanzialmente giusta.
La dimostrazione è arrivata solo alla fine del XIX secolo e si basa in modo essenziale sulle idee esposte da Georg Bernhard Riemann in un brevissimo articolo pubblicato nel 1859. Gli articoli scritti in riviste specializzate sono il mezzo con cui i matematici comunicano ricerche e scoperte: contengono i calcoli, o almeno una parte significativa, che servono a dare una dimostrazione formale dei teoremi enunciati, in modo da convincere i colleghi della correttezza dei risultati. Riemann, tra i giganti della matematica di tutti i tempi, a differenza dei suoi predecessori ha scritto pochissimi articoli nella sua vita relativamente breve e tormentata dalla malattia, ma ciascuno di questi articoli ha aperto un nuovo campo della matematica, dall’analisi complessa alla geometria differenziale alla teoria dei numeri di cui parliamo qui. Una sola tra le molte affermazioni contenute nell’articolo di Riemann del 1859 non è stata dimostrata, da lui stesso o da altri matematici. Si tratta appunto della Congettura di Riemann, che, in attesa della conferma della validità della strategia abbozzata da Atiyah, resta ancora oggi aperta, a quasi 160 anni dalla sua prima formulazione.
Come abbiamo ricordato sopra, Gauss ha proposto una formula per contare, approssimativamente, quanti sono i numeri primi più piccoli di un certo numero molto grande. La formula è relativamente semplice da calcolare ma non è esatta: le sue previsioni sono corrette entro un certo intervallo. È un po’ come prevedere che domenica prossima a mezzogiorno ci sarà una temperatura di 20 gradi, con un errore in più o in meno di un grado. A voler essere pignoli, Gauss non è riuscito a determinare l’ampiezza di questo intervallo di indeterminazione, anche se è chiaro da quanto ha scritto in alcune lettere che si rendeva conto di aver scoperto una formula molto accurata. L’obiettivo principale di Riemann era appunto riuscire a valutare con precisione la bontà della formula di Gauss. In particolare, se vale la Congettura di Riemann, è possibile ridurre moltissimo l’incertezza, cioè l’ampiezza dell’intervallo fra il valore esatto e quello dato dalla formula di Gauss: tornando alla metafora qui sopra, è come predire che la temperatura sarà di 20 gradi, con un errore in più o in meno di un centesimo di grado.
Distribuzione gaussiana dei numeri primi (Wikipedia Commons)
Ci si può chiedere come mai si investa tempo a cercarne la dimostrazione: nella matematica avrebbe conseguenze non solo sul problema di come sono distribuiti i numeri primi, che è interessante di per sé, ma le tecniche dimostrative sarebbero applicabili ad altri problemi. Inoltre, molte dimostrazioni sarebbero enormemente semplificate. A molti di noi capita spesso di dover enunciare due versioni dei propri teoremi, la più interessante delle quali è preceduta dalla fatidica frase «Supponiamo che sia vera la Congettura di Riemann». In generale, inoltre, occuparsi di numeri primi, nel XXI secolo, è utile non solo per una ristretta cerchia di matematici. Per esempio oggi sappiamo che ci sono abbastanza numeri primi per far funzionare i protocolli crittografici con i livelli di sicurezza dei dati adeguati alla vita moderna.
Tornando ad Atiyah, chi in questi giorni ha provato a cercare reazioni in rete, avrà notato una robusta dose di scetticismo. Trattandosi di una novità potenzialmente rivoluzionaria, la dimostrazione sarà sottoposta a un esame rigorosissimo, perché affermazioni straordinarie richiedono dimostrazioni altrettanto straordinarie. In questo momento è impossibile prendere posizione, dato che il professor Atiyah ha distribuito solo un sunto di 5 pagine, insufficiente per farsi un’idea precisa della dimostrazione completa: verosimilmente sarà lunga almeno un centinaio di pagine e sarà sottoposta al più scrupoloso vaglio degli esperti.
La cautela non dipende dall’età di Sir Michael: Leopold Vietoris, un matematico austriaco, ha pubblicato un articolo di ricerca quando aveva 103 anni. La visione tradizionale della matematica come sport per giovani è sempre più difficile da sostenere: i matematici attivi ben oltre l’età della pensione crescono senza sosta.
In conclusione, cosa cambia nella vita quotidiana di tutti noi? Poco o nulla: non dovremo cambiare le password, non è in pericolo la sicurezza dei protocolli crittografici che più o meno consapevolmente usiamo tutti i giorni. Cambia qualcosa per qualche centinaio di persone nel mondo che, nei congressi specializzati, non dovranno sentire i colleghi iniziare le conferenze con la frase «Supponiamo che sia vera la Congettura di Riemann». Ma il desiderio di conoscere se c’è qualche regolarità nella distribuzione dei numeri primi sembra andare oltre la comunità degli specialisti, come dimostra l’interesse emerso nelle ultime settimane.

La Lettura – Il Corriere della Sera, 14 ottobre 2018

27.11.18

L'ultimo tango di Bertolucci

Per ricordare Bernardo Bertolucci, che se n'è andato, recupero la voce – stringata e a mio avviso perfetta - su una sua controversa opera dal Dizionario dei film 1996, 1995, Baldini & Castoldi, l'ormai celebre Mereghetti. (S.L.L.)


Ultimo tango a Parigi (Italia/ Francia 1972, col. 126') Bernardo Bertolucci. Con Marlon Brando, Maria Schneider, Jean-Pierre Léaud, Massimo Girotti, Maria Michi, Darling Legitirnus, Giovanna Galletti, Veronica Lazar.
♦ In un appartamento vuoto di Passy, a Parigi, si incontrano casualmente due storie e due corpi: Paul (Brando) è un americano sradicato, dalla vita intensa e drammatica, mentre Jeanne (Schneider) è una ragazza della borghesia parigina. L’accordo per un rapporto soltanto fisico, che esclude persino la conoscenza dei rispettivi nomi, viene rotto dall’uomo che, con una tragica illusione, vorrebbe cominciare una nuova vita. Film scandalo degli anni Settanta, sequestrato per quelle proverbiali prestazioni erotiche di Brando c della Schneider con il burro che in tempi di hardcore di massa non sconvolgono più nessuno.
Ultimo tango a Parigi (scritto da Bertolucci con Franco Arcalli) è invecchiato bene, ancora capace di parlarci della solitudine e della distanza fra i sessi nella nostra società: certo, molte cose sono superflue e anche «false» - come il personaggio di Léaud e certe strizzatine d’occhio a Bataille, a Freud e al romanticismo maledetto o il risaputo legame tra eros e thanatos - ma la «strana, infernale plasticità» di Brando, la luce pastosa di Vittorio Storaro e la «musicale mobilità» della macchina da presa di Bertolucci ne fanno un’opera indimenticabile. Un classico la colonna sonora di Gato Barbieri.

Wall Street ha rapito la nostra democrazia. Intervista a James Galbraith (Giuseppe Sarcina)


«Quali sono gli effetti politici delle ineguaglianze economiche?». È una delle domande fondamentali in questa fase di cambiamenti politici. Dagli Stati Uniti a molti Paesi europei, a cominciare dall’Italia. Galbraith, 66 anni, è il figlio del celebre economista di Harvard, John Kenneth Galbraith. È considerato uno degli esponenti della scuola progressista post-keynesiana. Insegna all’Università del Texas, che ha sede ad Austin. Tra i suoi libri più noti, The Predator State (Free Press, 2008).

Tra gli economisti è acceso il dibattito sull’origine delle disuguaglianze nella storia recente. Qual è stato il momento chiave?
«Per quanto riguarda gli Stati Uniti il punto di svolta risale alla fine degli anni Settanta e poi all’arrivo di Ronald Reagan alla Casa Bianca (1981-1989). È anche il periodo in cui Margaret Thatcher diventa primo ministro in Gran Bretagna (1979-1990). Più o meno da quel momento e per circa 25 anni, la ricchezza economica è stata sostanzialmente confiscata da un’oligarchia. E avere la ricchezza, come diceva Thomas Hobbes, significa detenere il potere. Quello che è successo e sta succedendo negli Stati Uniti non è molto diverso da quello che è accaduto in Russia, in Ucraina e in altri Paesi. In America le istituzioni che avrebbero dovuto garantire un certo equilibrio e una redistribuzione delle risorse sono state occupate e dominate da pochi gruppi molto facoltosi. Sono vicende ben note. Mi riferisco alla tumultuosa ascesa di Wall Street e della finanza, con l’appoggio delle grandi società multinazionali e poi alla nascita del polo tecnologico della Silicon Valley. Oggi vediamo quanto potere sia concentrato nelle mani di pochi soggetti. È un fenomeno che sta minando il corretto funzionamento della democrazia».

Le disparità continuano ad aumentare?
«Non ne sono convinto. I dati mostrano che negli Usa c’è stato un picco nel Duemila e poi una leggera flessione e una stabilizzazione».

Merito di Barack Obama? Servirebbe tornare a quelle politiche per combattere le disuguaglianze? All’interno del Partito democratico è in corso un’accesa discussione...
«È vero, la presidenza Obama si era posta l’obiettivo di contrastare le disuguaglianze. Ma quello che sembrava un autentico interesse è stato poi smentito dalla gestione concreta della grande crisi economica del 2008. Obama ha nominato nei posti chiave figure provenienti dal mondo finanziario. La priorità assoluta dell’amministrazione è stata salvare la finanza. Un solo esempio: il piano di salvataggio delle banche è stato concepito e applicato da personaggi vicini a quegli ambienti, a partire dal segretario al Tesoro Timothy Geithner. In sostanza la presidenza Obama non ha disturbato il controllo della politica economica da parte di personaggi legati agli ambienti finanziari. Tutto ciò non deve sorprendere perché le campagne elettorali dell’allora presidente, come pure quelle di Hillary Clinton, all’epoca segretario di Stato, sono state massicciamente sovvenzionate da Wall Street».

C’è chi sostiene che gli squilibri economici tra le fasce della popolazione e tra i diversi Stati abbiano spinto Donald Trump verso la Casa Bianca. È d’accordo?
«Be’, il quadro mi sembra un po’ più complicato. Se guardiamo ai dati, che ho verificato con accuratezza, viene fuori che nei 14 Stati in cui le disuguaglianze sono aumentate di più nel periodo dal 1990 al 2014 ha vinto Hillary Clinton. Invece negli Stati in cui le distanze tra i più ricchi e gli altri sono cresciute di meno, Trump ha vinto con largo margine. Ci sono stati tanti fattori che hanno giocato, anche a livello dei singoli Stati, ma non credo che il risultato elettorale del 2016 sia stato condizionato da una reazione alle disuguaglianze economiche».

Quali sono i provvedimenti concreti che andrebbero adottati per ridurre le disuguaglianze?
«Guardo alla realtà americana. Innanzitutto bisogna aumentare il salario minimo, come ha fatto di recente Amazon, portandolo a 15 dollari l’ora. E questa è una buona notizia. Poi bisogna estendere la copertura delle assicurazioni sanitarie e sociali. Frantumare le grandi banche in modo da creare entità più piccole, più competitive e sottoposte a controlli più efficaci. Ancora: riformare le tasse sull’eredità, in modo che non sia possibile trasferire oltre un certo limite le ricchezze. I fondi in eccesso andrebbero redistribuiti alle istituzioni che si occupano di salute, di istruzione. In questo modo verrebbero meno le dinastie familiari che dominano l’economia. Infine vanno tassati nello stesso modo i redditi da lavoro e le rendite da capitale».

È un programma molto vasto. Realisticamente potrebbe ottenere il consenso politico per essere applicato?
«Anche io ragiono da politico realista. E mi rendo conto che potrei anche non vedere la completa realizzazione di un programma come questo nel corso della mia intera vita. Ma se qualcuno mi chiede se esiste una via più facile per diminuire le disuguaglianze, la mia risposta è no. Queste sono le misure che occorrono, perché sono le uniche che funzionerebbero davvero».

Come giudica, allora, le politiche adottate dai nuovi governi populisti? In Italia i leader del Movimento Cinque Stelle hanno condotto la campagna elettorale promettendo che avrebbero migliorato le condizioni delle persone rimaste indietro...
«Posso solo dire che non sono persuaso che il governo italiano finora abbia adottato misure abbastanza forti per rilanciare l’economia e risollevare le condizioni dei lavoratori. Vedo che ci sono molti problemi all’interno dell’esecutivo, in particolare con il ministro Giovanni Tria, e con la Commissione europea».

E Trump?
«Non credo affatto che Trump e il Partito repubblicano si preoccupino davvero delle condizioni della working class. Credo siano state profondamente insincere le promesse rivolte ai lavoratori durante la campagna elettorale. Tuttavia l’amministrazione continua a mettere in campo provvedimenti di politica economica che favoriscono la crescita. E quindi è possibile che con una crescita più forte, e nonostante le reali intenzioni dei repubblicani al governo, anche la condizione della working class a un certo punto possa migliorare».

La Lettura – Corriere della Sera, 14 ottobre 2018

Necrologi. Diane Disney Miller, speciale come Walt (Mariuccia Ciotta)

Diane Disney Miller (18 dicembre 1933-19 novembre 2013)

Diane Disney Miller, figlia di Walt Disney, è morta a Napa Valley, California, il 19 novembre 2013 in seguito a una caduta. Aveva 79 anni, ne avrebbe compiuti 80 il 18 dicembre.
Diane si arrampicava sulle salite vertiginose di San Francisco come una ragazza, sottile ed energica, e mi lasciava indietro a rincorrerla su verso il grattacielo dove all'ultimo piano c'era la sua casa con grandi finestre aperte sulla baia. È lì, al numero 1080 di Chestnut street che abbiamo parlato di suo padre, tre giorni di ricordi e di grandi scoperte. Era il 2003, e Diane era ancora furiosa per la biografia non autorizzata di Marc Eliot, Walt Disney, Hollywood's Dark Prince, uscito dieci anni prima, zeppo di falsità, una raccolta di calunnie e di ignobili dicerie sulla vita di Walt. Diane mi condusse al piano terra dell'edificio in un box-cantina dove erano accumulati decine di fascicoli sulla causa intentata contro lo scrittore, e mi diede gli atti del processo dove punto per punto demoliva le bugie contenute nel libro, Walt antisemita, Walt figlio di una cameriera spagnola, Walt spia della Fbi...
Felice di poter raccontare il papà di Mickey Mouse e il suo, mi disse che a cinque anni scappò urlando da cinema davanti alla Regina cattiva di Snow white. Ma Walt, ricordò, non si commosse e non modificò le scene più dark, “Ai bambini piace questo genere di cose!”. Bambini come i compagni di scuola che le chiedevano stupiti “Ma tu sei figlia di Walt Disney? Proprio quel Disney?”. Lei non se ne rendeva conto, si godeva soltanto i disegni che Walt portava a casa, il regalo di una casa-giocattolo e la sua caduta fuori dalla finestra, quando insieme alla sorella Sharon, adottata nel '36, si sporse troppo per farsi fotografare.
Un'infanzia e adolescenza passata a Los Angeles, dove Walt si era trasferito nel 1923 dopo il fallimento del primo Studio a Kansas City, e poi i viaggi in Europa, Inghilterra, Francia, Italia, fonti si ispirazione per tanti cartoon, le sorprese come quella ferrovia che circondava la casa, i giri sui pattini e in bicicletta nei viali di Burbank, le creature magiche e fantastiche, spettri domestici che l'accompagnavano, “Non ci leggeva le fiabe, ma ce le raccontava quando eravamo in macchina... Parlava delle storie a cui stava lavorando...”.
Walt Disney con le figlie Diane e Sharon
Nella casa di San Francisco mi diede da sfogliare i libri illustrati che il padre acquistava in Europa, e in particolare un grande volume con le favole di Hans Christian Andersen. Le sue memorie di bambina erano piene di entusiasmo, ricordava, ridendo, il gusto per i cibi semplici di Walt: patate, granturco, stufato, zuppa di fagioli.... “Si raccontano storie di come mangiasse enormi bistecche, ma non è vero, non gli piacevano tanto...”. Meglio i fagioli in scatola di quando faceva la fame a Kansas City.
Diane, figlia di “quel” Disney aveva scoperto che era una persona speciale solo da grande perché nell'età d'oro di Walt, era nata nel 1933, l'anno di Franklin D. Roosevelt, era troppo piccola perfino per Biancaneve, ma ci teneva a ripetere che suo padre non era il marchio di una major, ma “una brava persona” e che avrebbe dedicato la vita a far conoscere l'uomo al di là del mito. Ed è per questo che ha deciso di amministrare, indipendentemente dalla major, l'eredità del padre e di finanziare manifestazioni culturali con la Walt Disney Family Foundation. Prima di tutto l'Auditorium Disney di Los Angeles a Downtown, opera di Frank Gehry, finanziato insieme all'amata mamma Lillian, e poi il Museo Disney di San Francisco, che ha avuto un lungo percorso prima di approdare nel verdeggiante Presidio davanti al Golden Gate.
La sua personale biografia di figlia, in polemica anche con l'ultimo testo di Neal Gabler, approvato dalla major senza il suo consenso, si estende lungo dieci stanze affollate di manifesti, giocattoli, monitor, premi Oscar, fotografie, filmati, schermi, miniature, lettere (tra le quali quella di ringraziamento di Charlie Chaplin). Era il suo vanto e la prova del suo coraggio nel raccontare momenti della vita di Walt Disney cancellati dagli Studios per mantenere intatta l'immagine di “zio Walt”. Lo sciopero del '41 a Burbank, per esempio, e i corti con Paperino anti-nazista.
Nel 2003, Diane mi aveva aperto la porticina di un grande capannone, sempre nella zona del Presidio, dove si nascondeva un tesoro, il materiale delle memorabilia disneyane accumulate in attesa del trasferimento al museo, che avrebbe aperto sei anni più tardi.
Diane si era dedicata a promuovere il monumento al pioniere dell'animazione, al rivoluzionario delle forme, anche in Italia, dove ancora l'ho incontrata per l'ultima volta nel 2011 in occasione del Biografilm Festival di Bologna, ed era vivace come sempre accanto al gigantesco e amabile Ron Miller, che a capo della Disney, dopo la morte dei Walt, ha prodotto una serie di indimenticabili commedie surreali (Il maggiolino tutto matto).
Anche Diane era una persona speciale e assomiglia a Walt per quel suo sguardo penetrante, l'ardore e l'ardire. Amava la musica, l'arte e il teatro, e perciò aveva aperto il Redcat, la “scatola nera”, una saletta aperta nel fianco dell'argenteo Disney Hall, dove tutto l'anno si programmano spettacoli d'avanguardia. Per il Museo, invece, aveva preferito San Francisco perché le sembrava una città più colta e sensibile di Los Angeles, più adatta all'artista Disney. Il primo incontro del Museo con la “City Light” di Ferlinghetti, però, era stato piuttosto freddo. Walt Disney, il venditore di fantasia? Ma Diane li aveva convinti che ce n'era un altro di Walt, e adesso il Museo, sempre affollato, è meta di giovani artisti e studenti di tutto il mondo.
Un altro motivo a favore di San Francisco è stato perché “noi viviamo lì!”, anche se la sua vera casa non era in città ma nella Napa Valley dove con il marito Ron, ex campione di football, produce un vino pregiato, il Silverado declinato in Cabernet, Chardonnay, Sauvignon bianco... E dove ha allevato sette figli, il numero dei famosi nanetti.
L'impegno a diffondere la “verità” sul padre ha segnato gli ultimi anni della vita di Diane. Il suo tour italiano alla memoria è iniziato alle Giornate del cinema muto di Pordenone, artefice di iniziative editoriali e di retrospettive sui corti dell'origini. È lì che l'ho incontrata per la prima volta, sempre a fianco di Ron, ed è lì che resta l'incanto della figlia di Walt Disney, combattente dagli occhi splendenti che ci lascia all'improvviso. E come accadde il 15 dicembre 1966, il mondo con le orecchie di Topolino piange.

Dal sito “Ciottasilvestri”, postato domenica 24 novembre 2013

Giuliano Procacci da Machiavelli ai neo-con. La passione civile sui sentieri della storia (Gianpasquale Santomassimo)

Ritrovo tra i ritagli questo necrologio di Giuliano Procacci. Fu senatore comunista dal 1978 al 1986 ed era nativo di Assisi. Ma, a mia memoria, ad Assisi e in Umbria è poco ricordato. “Posto” l'articolo perché riconosco in Procacci uno storico di grande valore, uno scrittore di storia brillante come pochi, un intellettuale impegnato e coraggioso. Un maestro e un compagno, insomma. (S.L.L.)


Allievo di Carlo Morandi, da cui ereditò il gusto della scrittura elegante e dell'ampiezza di orizzonti, Giuliano Procacci è stato uno degli storici italiani più aperti alle curiosità e alle innovazioni. La breve esperienza di studio in Francia dopo la laurea favorì certo la sua sensibilità verso il tema delle permanenze e delle continuità, ma il suo rapporto con la scuola delle Annales fu di tipo «dialettico», come si usava dire nel linguaggio d'epoca, nutrito di fascinazione e diffidenza, come accadeva a tutti i giovani storici marxisti del dopoguerra.
Perché Procacci fu storico senza dubbio «impegnato», se pure con ironia e distacco sorridente: tra i suoi primi scritti troviamo tanto studi sulla Francia in età moderna, quanto sui dibattiti della socialdemocrazia tedesca nell'età della Seconda Internazionale, ma anche inchieste sugli operai della Galileo a Firenze. Del resto l'intreccio tra storia e politica, non privo di innegabili rischi, per questa generazione non rappresentò accecamento ideologico, ma stimolo a studiare e comprendere la realtà che si voleva contribuire a mutare.
Giuliano Procacci
Gli studi su Machiavelli e il machiavellismo, la fortuna e la leggenda nera di questo grande pensatore, furono il primo contributo determinante, un autentico punto fermo storiografico (un interesse che di tanto in tanto si riaccendeva: Un Machiavelli per la Delta Force si intitola uno dei suoi ultimi scritti, a proposito della versione neocon di Machiavelli proposta al pubblico americano da Michael Arthur Ledeen). I suoi studi degli anni Sessanta sul movimento operaio si condensarono alla fine del decennio nel volume d'insieme Lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, memorabile per l'equilibrio della trattazione di spontaneità e organizzazione (termini fin troppo dibattuti nella polemica del tempo) e per la delineazione di geografia e struttura del movimento operaio (e contadino).
Arrivato a questo punto della sua carriera di studioso, mutò completamente oggetto del suo interesse, inaugurando una serie di studi sull'Unione Sovietica, che colmavano un vuoto avvertibile e vistoso nella storiografia comunista. Più che i suoi contributi, pure rilevanti, va qui ricordata la fondazione della prima scuola storiografica italiana che prese ad approfondire e dibattere in forma scientifica questo tema.
Ormai avviato questo lavoro di scuola, prese ad occuparsi del problema della pace e della guerra negli anni Trenta, con studi di grande acume critico e filologico che forse non ebbero il rilievo che avrebbero meritato: la questione della «pace possibile», dei tentativi dei movimenti internazionali per arginare la guerra (forse) evitabile, del fallimento doloroso di questi sforzi.
La sua opera più nota e fortunata rimane e probabilmente resterà la Storia degli italiani, che smentisce il luogo comune della incapacità degli storici accademici di farsi leggere e comprendere. Scritta per un pubblico straniero, muoveva dalla consapevolezza che per gli osservatori esterni l'Italia è spesso «il paese di Pulcinella». «Ma Pulcinella - aggiungeva Procacci - non è, come sappiamo, soltanto un guitto, ma un personaggio, una "maschera" di grande spessore e verità umana, che... ha molto vissuto, molto visto e molto sofferto ... Pulcinella non muore mai, perché egli sa che tutto può accadere nella storia. Anche che la sua antica fame venga un giorno saziata». Il libro si apriva con una citazione da La casa in collina di Cesare Pavese (Professore, ... Voi amate l'Italia? ... - No, ... non l'Italia. Gli italiani), e si chiudeva con la descrizione dei funerali di Togliatti, paragonato a Cavour per lucidità politica e fermezza, a cui «toccava di morire in un'Italia gaudente e volgare».
Il libro era datato aprile 1968, la fame antica sarebbe stata ben presto saziata con voracità disordinata e bulimica, e l'autore non poteva immaginare da quale Italia gli sarebbe toccato prendere congedo.

il manifesto 5 ottobre 2008

La matematica inafferrabile alla ricerca di territori inesplorati (Giulio Giorello)



Spesso gli studiosi somigliano a Cristoforo Colombo: partono con un programma di ricerca e arrivano dove non si aspettavano

Una catena di astrazioni potenzialmente infinita collega i pastori antichi che contavano le pecore agli apparati di calcolo che oggi servono alla dimostrazione di congetture sofisticate.

Yuri Manin
«La biologia studia gli organismi viventi; l'astronomia i corpi celesti; la chimica la varietà della materia e i modi delle sue trasformazioni... ma che cosa studia la matematica?», chiede il grande matematico russo Yuri Manin, ora alla Northwestern University a Evanston nell'Illinois. La domanda sembra assillare non pochi studenti ai quali, forse, manca il coraggio di rivolgerla al loro insegnante. La differenza importante, però, è che Manin ha tentato una risposta: «La matematica ha a che fare con concetti che si possono trattare come se fossero oggetti reali». Concetti che devono essere sufficientemente chiari da essere riconoscibili in ogni contesto in cui possano venire utilizzati, ma anche dotati di «forti potenzialità di connessione con altri concetti dello stesso tipo». Tali connessioni possono a loro volta assurgere a oggetti, iniziando «una gerarchia di astrazioni» che in linea teorica non ha fine: così, per esempio, l'algebra ha fatto diventare le operazioni aritmetiche i suoi nuovi oggetti, ecc. Salendo in questa gerarchia, comunque, non si perde il contatto con la realtà: decollando dal loro terreno di origine le nozioni matematiche si rivelano capaci di applicazioni insospettate, sia nella spiegazione dei fenomeni naturali sia nell'intervento tecnologico.
Pensiamo alla lunghissima storia che lega la prima attività del contare - coi vecchi e familiari numeri interi uno, due, tre ecc. - ai computer superveloci. Qualche millennio fa alcuni «protomatematici», ovvero prudenti pastori e sagaci amministratori, «numeravano pecore in fenicio», per dirla con una battuta del poeta Ezra Pound; oggi potenti apparati di calcolo contribuiscono a dimostrare sofisticate congetture, realizzando un'economia di pensiero che cambia la natura stessa del lavoro umano. Questo e altri aspetti della ricerca matematica sono messi in luce dall'articolo di Manin che apre il secondo volume della serie (di quattro) La matematica, a cura di Claudio Bartocci e di Piergiorgio Odifreddi (Einaudi). È dedicato a Problemi e teoremi, cioè alla linfa vitale di un'attività che forse più di ogni altra, a parte la musica, è insieme comprensione scientifica e opera d'arte, costruzione linguistica ed espressione di razionalità.
Il lettore vi troverà la storia delle grandi congetture che hanno resistito agli sforzi umani per decenni o addirittura secoli, cedendovi solo di recente, come «l'ultimo teorema di Fermat» (dimostrato da Andrew Wiles) o la congettura di Poincaré (dimostrata da Grigori Perelman), e quelle che ancora restano delle sfide aperte all'immaginazione di coloro che amano leggere nel grande libro matematico del mondo. È il caso, per esempio, della celebre «ipotesi di Riemann», cui è dedicato nel volume il bel saggio di J. Brian Conrey. E tutti i collaboratori mostrano come problemi e teoremi possono anche venire immersi in «programmi di ricerca», simili, per certi versi, a carte geografiche in cui alcune aree sono raffigurate con notevole chiarezza (sono quelle da dove partiamo: gli elementi di cui siamo sufficientemente sicuri), mentre altre vengono ricostruite sulla scorta di analogie (sono le «terre incognite»: i nuovi settori da investigare) - sicché le indagini qui assumono i caratteri dell'avventura, non troppo diversamente dall'impresa di Colombo. Com'è noto, questi si sbagliò nel suo tentativo di raggiungere l'Oriente passando per l'Occidente; ma l'ostacolo che trovò sulla sua rotta verso le Indie doveva rivelarsi un continente ricco di risorse inaspettate. E - dal calcolo infinitesimale alle geometrie non euclidee, dalla teoria dei numeri allo studio delle probabilità, dalle matematiche combinatorie alla topologia generale - l'impresa dei matematici ha saputo trovare la sua «America della conoscenza».
Si è trattato di un tipo di esplorazione così vario e complesso da rendere impossibile una rigida definizione dell'essenza della matematica. Sono stati soprattutto i filosofi a cimentarsi in questa impresa degna del despota Procuste; ma appena ne avevano tracciati i confini, si accorgevano che ne era rimasta esclusa una qualche componente di grande rilevanza e fascino. E forse la matematica è simile a un organismo vivente, che non si può costringere in uno spazio angusto, come faceva quel mitico tiranno, senza ucciderlo.
Un po' malignamente Manin osserva come, al tempo dell'antica Roma, che si veniva aprendo sempre di più alla cultura greca e a quella orientale, la matematica non ebbe grandi riconoscimenti: i valori imperiali di coraggio, onore, gloria, disciplina le lasciavano poco spazio. Colpa degli stessi matematici? Quando si mettono al tavolo e iniziano a lavorare, essi «dimenticano valori in conflitto come autorità, efficienza, ambizione, fede e così via». Ma questa indipendenza è il segreto della loro forza: non solo nei confronti del potere, ma anche della stessa filosofia, che talvolta cerca di rinchiudere l'animale matematico in gabbia, salvo accorgersi che, appena serrato il chiavistello, questo è evaso. Dobbiamo allora rinunciare a qualsiasi filosofia della matematica? O magari a qualunque filosofia, senza ulteriori qualificazioni? Le categorie filosofiche, al contrario dei concetti matematici, difficilmente diventano «oggetti» di quel tipo di indagine operativa che consente al matematico di trovare «al di là della superficie delle apparenze» (come diceva Bernhard Riemann) connessioni profonde tra campi apparentemente scollegati. Né esse hanno l'incisività delle idee portanti della fisica o della biologia - capaci di rinnovare di continuo ingegneria e biotecnologie. E infine, se è la matematica a innervare concettualmente l' impresa della conoscenza, c' è ancora bisogno di una filosofia che ci dica lei che cos' è la razionalità, e che cos' è la realtà? Mi ricordo che (un po' di anni fa) il mio maestro e amico Ludovico Geymonat, di formazione sia filosofica che matematica, ammoniva noi giovani a non cadere nella trappola di definizioni frettolose, guardando invece alla «effettualità» della pratica matematica (tra l'altro, segnalo che Bollati Boringhieri ha ristampato, di Geymonat, la Storia e filosofia dell'analisi infinitesimale, in origine 1948, con una nuova introduzione di Gabriele Lolli, che bene mostra come quel libro non sia affatto invecchiato). Alle prese con problemi formidabili, armato degli strumenti concettuali che la tradizione gli fornisce, ma al tempo stesso sospettoso di tutto quello che viene dato semplicemente per scontato, il matematico creativo è davvero il cittadino di un paese ove «regna la libertà», come diceva Georg Cantor, che edificò nell'Ottocento l'imponente teoria dei «numeri infiniti», nonostante l'ostilità di autorevoli colleghi e le perplessità di importanti filosofi. Glossa Manin: questa libertà è «la libertà di scelta tra alternative incompatibili», e perciò - aggiungerei io - è un' assunzione di responsabilità. E dove c' è libertà c' è anche spazio per la (buona) filosofia.

Corriere della Sera, 29 novembre 2008

26.11.18

La poesia del lunedì (Walter Cremonte, Novi Ligure 1947)


Onde

Quando le onde vengono piano
alla riva, dove vanno i pensieri
vanno dove vogliono andare
vanno e vengono, ritornano a riva
o vanno dove il mare è profondo
da dove non tornano ...

da cosa resta, aguaplano 2018

Parole di luogo: "Finestra". Quei trasparenti inganni (Alfonso M. Iacono)


Dalla serie Parola di luogo, pubblicata dal “manifesto” nell'estate del 1989, riprendo la voce FINESTRA, curata da Alfonso Maurizio Iacono, un filosofo agrigentino che insegna all'Università di Pisa, che ha tra le direzioni di ricerca – ormai da molti anni – il tema della visione e dell'illusione nel pensiero dell'Occidente. Iacono, che ha un approccio epistemologico ed interdisciplinare ai problemi filosofici, già nel 1987 aveva pubblicato L'evento e l'osservatore e dopo l'89 tornerà più volte sul tema della “finestra”. (S.L.L.)

René Magritte, La condizione umana

Che differenza c’è fra lo strano e il meraviglioso? E che rapporto hanno entrambi con la finestra? Nella Casa deserta, Hoffmann ci dice che «nella vita i fenomeni reali sono spesso più meravigliosi di tutto ciò che la fantasia più sbrigliata cerca d'inventare» (cito dalla traduzione di Ervino Pocar, in Hoffmann, L’uomo della sabbia, Bur, Milano 1983. Lo scritto fa parte dei Notturni). Apparentemente, qui Hoffmann sembra riprendere un tema antico, che la filosofia moderna aveva ravvivato sulla scia degli sviluppi della conoscenza scientifica. Il tema antico era già in Platone e in Aristotele, i quali ci dicono che la filosofia deriva dalla meraviglia. Essa si caratterizza, secondo Aristotele, per l’osservazione dei fenomeni della natura. È la loro regolarità che suscita meraviglia e ci impone delle domande sui moti degli astri e sul perché dell'universo ordinato.
Il termine greco, che indica meraviglia o ammirazione, deriva da «vedere». E la vista, per Aristotele, è il senso più sofisticato, più adatto alla conoscenza. La meraviglia comporta partecipazione conoscitiva al fenomeno, ma con distacco, come è proprio del vedere che coglie l’oggetto a distanza. Nel pensiero moderno, per esempio in Fontenelle, è assai forte la distinzione tra «falso meraviglioso» e «vero meraviglioso». Anche questa, in fondo, è una distinzione antica, che si riscontra, per esempio, già negli storici greci e va a incrociarsi con la separazione fra mito (storia falsa) e storia (storia vera) (cfr. E. Gabba, True History and False History in Classical Antiquity, in “The Journal of Roman Studies”, 1981). Per Fontenelle il «vero meraviglioso» è quello della natura e dei suoi fenomeni, che si contrappone al «falso meraviglioso» delle favole e delle credenze superstiziose.
La conoscenza «vera», cioè scientifica, della natura desta più meraviglia delle conoscenze «false». Si può ammirare la regolarità dei fenomeni naturali, una volta che i prodigi siano stati spiegati e piegati al controllo conoscitivo della scienza. Attraverso la meraviglia, o meglio, attraverso il «vero meraviglioso», la conoscenza scientifica si impossessa anche del godimento estetico che producono i fenomeni reali. Il meraviglioso dissolve così lo strano, l’irregolare e il pauroso.
Ma in Hoffmann non è più così. Lo strano e il meraviglioso acquistano un nuovo rapporto di vicinanza e di ambiguità. E i mezzi artificiali con cui la vista poteva amplificare il proprio potere per il godimento del «vero meraviglioso» - le lenti, il cannocchiale, lo specchio - diventano, o tornano a essere, gli strumenti del ritorno all’ambiguità fra lo strano e il meraviglioso. In alcuni casi ciò avviene attraverso le finestre, poiché quel «guardare attraverso», che queste consentono, marca la zona d’ombra fra il possedere-a-distanza, che la vista assicura, e l’illusorietà o precarietà di un simile possesso. Tra le maglie del meraviglioso torna a insinuarsi lo strano.

Nell’Uomo della sabbia Hoffmann ci descrive Nataniele che scorge per la prima volta Olimpia attraverso una finestra. Tutta la scena è significativa al riguardo. L'inquietante Coppola entra nella stanza di Nataniele e cerca di vendergli degli occhiali che chiama occhi. Al rifiuto atterrito di Nataniele. Coppola fa sparire gli occhiali e tira fuori dei cannocchiali. Il terrore di Nataniele di fronte a Coppola dipende dal fatto che quest’ultimo assomigliava a Coppelius, l’amico del padre, l’«uomo della sabbia» di cui aveva saputo da piccolo, che rubava gli occhi ai bambini per portarli sulla luna.
Ma, «scomparsi gli occhiali, Nataniele ritrovò la sua calma e pensando a Clara capì che tutto l’incantesimo era nato dalla sua mente e che Coppola era certamente un onesto ottico e meccanico, non già il sosia maledetto di Coppelius. Oltre a ciò i cannocchiali che Coppola aveva messo sulla tavola non avevano niente di straordinario o di incantato come gli occhiali; sicché per aggiustare le cose Nataniele pensò di acquistare realmente un cannocchiale».
Apparentemente dunque Nataniele riporta la situazione su un piano di razionalità e di ragionevolezza. Coppola è un ottico e meccanico e un cannocchiale è un cannocchiale. Tuttavia è attraverso questo strumento che Nataniele entrerà nella storia di Olimpia, l’automa con sembianze di donna. «Ne prese un piccolo, tascabile, molto elegante, - continua a narrarci Hoffmann - e per provarlo guardò dalla finestra. Non gli era mai capitato di avere un cannocchiale che avvicinasse gli oggetti con tanta chiarezza e precisione.
Il cannocchiale, che amplifica il potere della vista e dunque del possesso a distanza, che ha permesso di scrutare il meraviglioso delle stelle, dei pianeti e dei satelliti, che ha aiutato la chiarezza e la precisione scientifica, qui diventa, al contrario, strumento di uno scambio inquietante. Olimpia, l’automa, diventa per Nataniele, che guarda dalla finestra un volto meraviglioso di donna. In Hoffmann, non è più l’automa a mostrarsi come una meraviglia della natura artificiale, che imita i movimenti e sembianze di una natura vivente. Tutt’al contrario, per Natamele la meraviglia deriva da una tragica confusione, cioè proprio dal fatto che egli non si accorge della natura morta dell’automa e la scambia per una natura vivente. La natura meccanica, che imita la natura vivente desta non meraviglia, bensì orrore. Nataniele prova meraviglia alla vista di Olimpia solo in quanto non si accorge della realtà.
Il cannocchiale, usato attraverso una finestra, contribuisce a tale scambio e a tale confusione. «Involontariamente guardò nella stanza di Spallanzani: come al solito Olimpia era seduta davanti al tavolino sul quale appoggiava le braccia e le mani giunte. Soltanto ora Nataniele ride il viso meraviglioso di Olimpia. Solamente gli occhi gli parvero stranamente fissi e morti. Ma aguzzando lo sguardo attraverso il cannocchiale gli parve che quegli occhi si illuminassero di umidi raggi di luna. Pareva che solo in quel momento vi si accendesse la forza visiva; e gli sguardi fiammeggiavano sempre più vivi».
Quanto più Nataniele, dunque, aguzza lo sguardo attraverso il cannonchiale, tanto più si immerge nella confusione. Quel che per lui è meraviglioso, per il lettore si mostra già come strano. Gli occhi di Olimpia sono stranamente fissi e morti. Essi si vivificano, allo sguardo di Nataniele, grazie alla luce dei raggi di quella luna, dove Coppelius usava portare gli occhi che rubava ai bambini.
Quel che Nataniele vede dalla finestra non sembra rientrare nelle distinzioni che Roger Caillois e Tzvetan Todorov hanno voluto fare fra strano e meraviglioso nella letteratura fantastica. In Hoffmann proprio la continua tensione fra strano e meraviglioso sembra produrre l’effetto narrativo.

D'altra parte Hoffmann stesso, ne La casa deserta, ci dice del rapporto fra lo strano e il meraviglioso. Nel dialogo iniziale fra amici, che precede il racconto, Teodoro osserva che si chiamano strane tutte le manifestazioni della conoscenza e del desiderio che non si possono giustificare con argomenti razionali, mentre è meraviglioso ciò che appare impossibile, incomprensibile, «ciò che sembra superare le forze della natura o, aggiungo io, pare contrasti col suo solito andamento. Ne dedurrai che a proposito della mia pretesa facoltà profetica hai scambiato poc’anzi lo strano col meraviglioso. Certo è però che l’apparentemente strano scaturisce dal meraviglioso e che talvolta non vediamo il tronco meraviglioso dal quale rampollano i ramoscelli strani con foglie e fiori». E, aggiunge Teodoro, l'avventura che racconterà sarà una mescolanza di strano e di meraviglioso.
Secondo Roger Caillois, è il fiabesco che appartiene al meraviglioso, come un universo parallelo al reale, che non lo sconvolge, né lo distrugge. Il fantastico, invece, è l’irrompere di qualcosa che provoca una rottura nella coerenza dell’universo. Esso appartiene allo strano e al pauroso. Ma, in Hoffmann, lo strano sembra irrompere direttamente nel meraviglioso e il meraviglioso nello strano. I livelli della realtà narrativa sono molteplici. Vi sono universi paralleli che si toccano e confliggono in alcuni punti. Spesso, almeno due storie si incontrano nel racconto.
Ne La casa deserta sarà ancora attraverso una finestra che lo strano e il meraviglioso si incroceranno. Questa volta però la scena è rovesciata. Teodoro, guardando la casa deserta, scorge dapprima una mano e un braccio che sporgono da una finestra in alto. Nataniele guardava attraverso la finestra dall’interno della sua stanza; Teodoro guarda attraverso la finestra dall’esterno della casa. Ed egli, la prima volta, usa un binocolo.
Le finestre rappresentano quella distanza del possedere che è caratteristica della conoscenza visiva. Una distanza che è segnata dalla separazione fra l’oggetto osservato e il soggetto osservatore. Le finestre rappresentano l’ambiguità di questo tipo di possesso: la separazione offre anche l’illusione di un possesso della verità, che invece risulta poi diversa da quel che appare.
Ne La casa deserta vi sono due tipi di animali, che Hoffmann fa evocare a due dei suoi personaggi: i pipistrelli e le talpe. E il racconto termina con il saluto di Francesco, che apostrofa Teodoro con questa battuta: «Buona notte, pipistrello di Spallanzani». I pipistrelli e le talpe non hanno nella vista lo strumento del conoscere. Ed è proprio per questo che gli uomini dotati della facoltà di vedere il meraviglioso sono paragonati ai pipistrelli. Questi, pur senza vista, hanno un sesto senso, dice Francesco, che è superiore a tutti gli altri sensi messi insieme. Chi ha la vista e guarda dalla finestra, con binocolo o cannocchiale, può essere ingannato proprio da quella tranquilla sicurezza che dà il conoscere a distanza della vista.
La distanza, e la separazione segnalata dalla finestra, del soggetto osservatore dall’oggetto osservato non sempre assicura quel tipo di conoscenza fredda, come è freddo l’occhio, che ci dice che quel che si vede appartiene all’oggetto e alle sue qualità. La finestra rappresenta l’illusione del non coinvolgimento del soggetto osservatore di fronte a ciò che osserva, ma che non tocca con mano. È l’inganno di una conoscenza che pretende di conoscere senza azione. Hoffmann vuole disvelare quella illusione e quest’inganno, ed è perciò che strano e meraviglioso coinvolgono l’osservatore a cui non basta certo una finestra per proteggersi dal coinvolgimento in questo gioco. Al contrario, è proprio il vedere a distanza, nella separazione che la finestra crea tra l’osservatore e la cosa osservata, che esplodono tutte le ambiguità del reale, dello strano e del meraviglioso, tra ciò che la mente costruisce e ciò che la realtà impone.
In pittura, saranno le finestre di René Magritte a mettere in discussione quel confine tra soggetto e oggetto che Leon Battista Alberti aveva segnato, definendo la rappresentazione pittorica una finestra sulla realtà.

il manifesto, 23 agosto 1989

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