31.10.18

Parcheggi e mobilità a Perugia. L'imperativo è fare cassa (Primo Tenca, micropolis – ottobre 2018)


La redazione di “micropolis”, mi chiede cosa penso della recente ristrutturazione dei posti auto in città, con particolare riferimento all'aumento smisurato di strisce blu ossia posti auto a pagamento. Dico subito che affrontare questo argomento senza contestualizzarlo nella più complessa situazione della mobilità urbana ha poco senso, cercherò quindi di costruire una cornice dentro la quale collocare le diverse questioni.
Bisogna partire da lontano. Perugia ha sempre sofferto di un certo isolamento, sia ferroviario che autostradale, al contrario di altre città dell'Umbria, come Foligno, o Orvieto. Poi con la costruzione dei due raccordi autostradali, le cose sono migliorate per il traffico privato, a parte le buche ed i continui lavori al Verghereto. Quello che invece non ha subito grandi migliorie è il traffico ferroviario, anzi nel caso della Ferrovia centrale umbra, invece di andare avanti si è andati indietro, sia per non averne colto le grandi potenzialità, sia per investimenti completamente sballati. Poteva essere la nostra metropolitana di superficie, doveva mettere in collegamento gran parte delle nostre città con il capoluogo, avendo esso un terminal ferroviario proprio nel cuore del centro storico, (cosa che succede di rado nelle città ubicate in collina). Con uno svincolo per l'aereoporto e Collestrada, il gioco era fatto. Ma sono mancate sia le competenze sia la volontà politica e questo grande disegno non si è portato avanti. So che ora si sta lavorando ad una ristrutturazione della Fcu, spero con buoni risultati, staremo a vedere.
Una cosa è certa: l'area metropolitana di Perugia non può più sopportare questi volumi di traffico privato. Siamo la seconda città in Italia per auto in circolazione.
D'altronde è comprensibile che il cittadino ricorra al mezzo privato se per andare con i trasporti pubblici da Monteluce al Silvestrini ci vuole un'ora e un quarto. Se pensate che è praticamente andato in porto il devastante progetto Ikea a Collestrada, la presenza di un mezzo ferroviario moderno, con passaggi brevi nel tempo, diventa indispensabile, pena il blocco del traffico in tutta l'area che va da Olmo a Ponte San Giovanni, Collestrada. Ricordo che parliamo di un insediamento colossale per la nostra regione, di cui francamente non si sentiva nessun bisogno (Ikea Ancona sta a un'ora e un quarto da Perugia): 5.500 posti auto, 45 mila metri quadrati di superfici commerciali, con tre grandi magazzini e 250 negozi. La già debolissima attrazione commerciale del nostro centro storico scenderà vicino allo zero, sopravviveranno alcuni bar, ristoranti, pizzerie e negozi per turisti.
Ci si doveva opporre a questa ulteriore mazzata al nostro territorio e alla rete della piccola distribuzione, ma si sa, la proverbiale lungimiranza dei nostri commercianti, si ferma alla rotonda di piazza Italia. A questo bisogna aggiungere un mostruoso aumento del traffico automobilistico. Le colonnine dell'Arpa che misurano le polveri sottili sforeranno i limiti ogni giorno, con buona pace della salute nostra e dei nostri figli.
Ma veniamo ai parcheggi. Negli anni ottanta Perugia si è dotata di una rete di parcheggi a ridosso del centro storico, con relative scale mobili per raggiungere l'acropoli, come poche altre città italiane erano state in grado di progettare. Suscitò particolare interesse in tutto il mondo la costruzione di una scala mobile all'interno della Rocca Paolina. I parcheggi sono sei, con una capienza collettiva di circa 2.100 posti, tutti a pagamento. C'è poi quello più recente di Porta nova (Pian di Massiano) di servizio al minimetrò: 2.800 posti gratuiti e senza disco orario. A tutti questi vanno aggiunti circa altrettanti stalli con striscia blu.
Poi sul finire degli anni Novanta si decide di costruire il minimetrò e iniziano i problemi seri per l'Amministrazione, in primo luogo per i costi del tutto spropositati per una città come la nostra (10 milioni di euro per anno a carico delle casse comunali, una volta finiti i lavori). A ciò si aggiunge una previsione del tutto sbagliata sui passeggeri trasportati: prima si parla di 19 mila al giorno, poi si scende a 15 mila, quelli trasportati realmente, a tutt'oggi, sono circa 5 mila. Anche grazie ai continui tagli operati dai governi centrali, in poco tempo nelle casse comunali vengono a mancare ingenti risorse. Nasce in gran parte qui il famoso buco di bilancio. Per far fronte a questa situazione si e costretti a vendere le quote possedute dal Comune delle partecipate: Gesenu, Umbria acque e infine Sipa (Società immobiliare parcheggi auto). Un poco alla volta il Comune si vende tutte le azioni. Nel frattempo cambiano anche i padroni: da Sipa si passa a Saba, con la quale nel 2007 si firma una convenzione che le dà in concessione tutti i parcheggi e le strisce blu esistenti, fino al 2047. Una vita! Saba è una multinazionale del settore, con sede in Spagna, è presente in cinque paesi d'Europa e di America Latina, possiede o ha in gestione 370 parcheggi con circa 200.000 posti auto, un vero colosso. I prezzi per ora di sosta a Perugia variano da 1,5 a 2,5 euro, tra i più cari d'Italia.
Da quasi cinque anni c'è stato un cambio alla guida politica del Comune. Siamo governati da una giunta di destra, con a capo il sindaco Andrea Romizi. Inutile dire che la nuova amministrazione si è trovata a gestire una situazione difficile, frutto di scelte strategiche troppo ardite delle passate amministrazioni, ossia si è continuato ad espandere la spesa e a lavorare su un progetto di città molto più grande di quella che realmente è Perugia. Questo in un periodo in cui tutti i dati economici ci dicevano che la crescita era finita, purtroppo non un fenomeno congiunturale ma strutturale, come hanno poi dimostrato gli anni seguenti.
La nuova giunta ha iniziato a tagliare la spesa un po' in tutti i settori e i risultati si vedono. Non passa giorno che i quotidiani locali non riportino lamentele dei cittadini per lo stato di degrado in cui versano aree verdi, strade e altro ancora. Poi per fare cassa si è dato il via a nuove colate di cemento che hanno interessato tutto il territorio comunale. Non abbiamo qui il tempo di fare una lista completa, ma si tratta di un vero assalto; da ultimo il progetto Ikea, con buona pace di chi predicava stop al consumo di territorio, come il nostro vicesindaco Urbano Barelli.
Per quanto riguarda il costo dei parcheggi, si mette in piedi una trattativa con Saba per un abbassamento dei costi, ma come dice Michele Guaitini, leader dei radicali, invece di andare a questi incontri armati di tutto punto ci si è andati con il cappello in mano. Tanto che Saba esce dalla trattativa, addirittura con una situazione migliore della precedente ovvero si porta a casa altre 217 strisce blu, per un totale di 2.700, molte di queste come a piazza Italia a 2,20 euro ora, più il pagamento nella fascia 1316 in alcune zone, come Elce, dove quella finestra era gratuita. Il Comune ottiene uno sconto del 18,5%, da 2,70 a 2,20 per la tariffa oraria e uno sconto tra il 20 e il 30% nel costo degli abbonamenti. Insomma, eravamo partiti per dargliele e invece le abbiamo prese. Sono stati inoltre tolti posti auto ai residenti, trattati come pezze da piedi e a tutte quelle persone che vengono ogni giorno a lavorare in centro e non hanno più un buco libero dove mettere la propria auto.
Si poteva seguire un'altra strada?
Certamente. Intanto cominciando a lavorare in proprio con le nuove strisce blu, mettendole a 0,50 euro l'ora e facendo concorrenza a Saba sul suo terreno. Poi reperendo nuovi posti auto sia in centro che in periferia: penso ad accordi con il Collegio della mercanzia per le ex officine Piccini in via del Fagiano, con l'Università per il parcheggio di Agraria e quello dell'Adisu, penso ai grandi spazi della immediata periferia come San Marco, Ponte Rio, Sant'Erminio, collegati con navette frequenti al centro storico. Nulla di tutto ciò si è fatto. Anzi da veri irresponsabili si seguita a promuovere il mezzo privato, restringendo la Ztl a piazza Italia (una barzelletta) e trasformando il centro storico in un parcheggio abusivo a tutte le ore del giorno e della notte, con il risultato che chi il centro lo abita non trova mai posto per la sua auto, tanto che molti residenti, quei pochi rimasti, stanno preparando le valigie. Un gran risultato, non c'è che dire.
Vorrei ricordare a tal proposito che nella città di Siena, ad ogni residente è garantito un posto auto all'interno delle mura e che il centro storico è chiuso a tutti, meno gli autorizzati, 24 ore su 24. Le città vicine simili a noi, come Arezzo, Macerata, Ascoli Piceno, sono tutte chiuse al traffico, ma qui comandano quattro commercianti e la loro ottusa mentalità e la giunta non sa fare altro che seguirne le istruzioni. Non siamo messi tanto bene.
Senza un nuovo protagonismo dei cittadini non si va da nessuna parte. Ruolo dei partiti? Non pervenuto!

29.10.18

Sciascia e la pretesa della verità. L’“affaire Moro” nella ricostruzione dello scrittore siciliano (Vittorio Spinazzola)


Vittorio Spinazzola, che oggi viaggia verso i 90 anni e da ultimo ha saputo uscire dal campo minato delle recensioni e degli interventi giornalistici con qualche buon saggio, fu – nel secolo scorso - un valido critico militante, entrato piuttosto tardi nell'insegnamento universitario... Scrisse a lungo di letteratura italiana per la stampa del Pci e sui temi “politicamente sensibili” quasi mai si allontanò dalle impostazioni prevalenti nel suo partito. Quando nel 1978 uscì per Sellerio l'Affaire Moro di Leonardo Sciascia, che aveva iniziato una dura polemica con il Pci di Berlinguer proprio in occasione del rapimento dell'uomo politico democristiano, Spinazzola ne tentò la stroncatura. Secondo me, l'articolo, che qui posto come esemplare di un costume diffuso tra gli intellettuali più “organici”, è molto brutto. Fa sorridere, poi, il confronto tra il libro di Sciascia, uno dei più importanti del suo magistero civile, e un pamphlet di Arbasino uscito nello stesso torno di tempo, decisamente minore.

La prima edizione del volume "L'affaire Moro (1978).
La seconda (1983) uscì nella collaba blu "La memoria"
e comprende la relazione che LeonardoSciascia presentò
alla Commissione Parlamentare sul rapimento Moro
nella sua qualità di deputato per il Partito Radicale

Divagazioni psicologiche e crociata antistatalista di un pamphlet scritto in bella prosa - Più consapevole e criticamente efficace l’approccio di Arbasino.

È indubbiamente significativo che ad affrontare per primi il «caso Moro», ancora a caldo, e in forma saggistica, siano stati due scrittori di ascendenza illuminista: il settentrionale Alberto Arbasino e il siciliano Leonardo Sciascia. Diversi però sono stati i loro metodi di lavoro; l’uno si è orientato sul terreno della rilevazione sociologica, l’altro ha adottato gli strumenti dello psicologismo. E divergenti appaiono anche i risultati, che peraltro rappresentano una duplice conferma della evoluzione da tempo in atto in entrambe queste personalità letterarie. Il «frivolo» Arbasino accentua la sua volontà di intervento ironico e paradossale sull’opinione pubblica per sollecitarla ad assumere atteggiamenti di modernità laica, basati sui culto dell’empiria fattiva; l‘«impegnato» Sciascia inclina sempre più a prendere le distanze dalle forme organizzate di realtà collettiva e a richiamare con aulico cipiglio i lettori alla meditazione sulla sorte morale se non metafisica dell’individuo.
L’affaire Moro (Sellerio, pp. 146, L. 3.500) tenta infatti di interpretare le lettere scritte dalla vittima delle Brigate Rosse durante la prigionia come una straziata presa di coscienza della vanità del potere, cioè delle cose mondane, in nome dei valori perenni dell’eticità. Ma per seguire il ragionamento di Sciascia, bisogna accettarne la premessa, o meglio l’ipotesi di partenza. Secondo lo scrittore, le lettere esprimono il pensiero liberamente formulato da un uomo che, seppur prigioniero, non pativa alcuna vessazione o condizionamento. Come mai? Ma perché le BR hanno accusato il sistema carcerario vigente di tender ad alienare e annientare la personalità del recluso; la loro etica carceraria non può dunque non essere del tutto opposta: è facile dedurne che Moro godeva, da parte dei suoi sequestratori e prossimi carnefici, del trattamento più umano, corretto, leale.

Aereo sillogismo
La convalida di questo aereo sillogismo sirebbe data dal fatto che i brigatisti hanno rischiato la vita per recapitare una serie di messaggi dei quali, a loro come loro, non importava un bel niente: a tal punto erano rispettosi dei desideri del loro, diciamolo pure, illustre ospite. Veramente, qui cadiamo in una tipica petizione di principio, dando per dimostrato quel che appunto occorreva dimostrare, ossia l’estraneità della BR alla strategia epistolare impostata da Moro. Ma Sciascia non se ne cura, procedendo oltre con le sue deduzioni. E a questo punto, ovviamente, il gioco è fatto.
Il caso Moro viene configurato come l’ultima conferma di un archetipo culturale celeberrimo: il grande della terra che, percosso dalla sfortuna, ridotto in mano dei suoi nemici più fieri, prossimo al supplizio, comprende l’enormità degli errori commessi nell’esercizio del dominio: si ravvede quindi pubblicamente ed affronta la morte con spirito contrito, grato ai suoi carnefici stessi per l’occasione di salvezza dell'anima che gli hanno offerto. Se ne edificano i buoni, e gliene proviene il plauso commosso dei letterati che dianzi lo esecravano. In fondo, Il Cinque Maggio del Manzoni è fondato su uno schema di questo genere.
Si può obiettare che, anche prendendo per giusta questa interpretazione coscienziale, il problema politico restava pur sempre un altro: cioè se lo Stato italiano dovesse accettare il ricatto della proposta di scambio dei prigionieri, quale che ne fosse l’ispiratore. Ma questo, a Sciascia, è il problema che interessa meno. L’importante è che Moro fosse giunto a illuminarsi d’una certezza di cui lui, lo scrittore, s’era persuaso da tempo: per lo Stato italiano, per qualsiasi Stato, non vale la pena di sacrificare un’unghia, figuriamoci la vita. Semmai, a scandalizzarlo è che i politici non abbiano capito o abbiano fatto finta di non capire, anche loro, una verità cosi evidente, approfittando della circostanza per un atto di contrizione collettiva. Ma tant’è, si sa che i politici pensano solo al godimento del potere: o che lo gestiscano effettualmente, come i democristiani, o che aspirino a intromettervisi, come i comunisti.
A spiegare una presa di posizione che confonde cosi curiosamente stati d’animo soggettivi e realtà oggettiva, moralismi e ingenuità e pose letterarie, possono essere addotti due motivi. Il primo è la mancanza di una base di conoscenza scientifica del fenomeno terrorista; poiché Sciascia conosce invece davvicino il fenomeno mafioso, attribuisce senz’altro a quello alcuni connotati di questo, anzitutto un codice dell’onore da far davvero invidia alla «onorata società». Il secondo è che Sciascia appare ormai pervaso da un sacro furore statofobico, che lo induce a esasperare oltranzisticamente i toni e modi della crociata contro l’empietà della statolatria. Certo, L’affaire Moro si richiama alla polemica antistatalista oggi così in voga; ma con un sovrappiù di passionalità viscerale, che induce a una accentuata trascuranza per le connessioni logiche del discorso.
Il significato più autentico del libro sta nella somma di osservazioni e divagazioni etico-psicologiche concepite da un letterato esperto, convinto che la letteratura assicuri il possesso della sapienza suprema, in quanto fornisce gli strumenti infallibili per scrutare il cuore e la mente degli uomini, divinando il segreto degli eventi più oscuri. Animato da tale persuasione, Sciascia accumula le supposizioni, sottolineandone il carattere immaginoso proprio per esaltare il valore della sua sensibilità intuitiva: « E c’è da credere», « Ed è pure da credere», « E a me pare di potere affermare», «E viene il sospetto che» _ «E si può anche, da questo sospetto, far rampollarne un altro», «Si può anche avere l’impressione... ma soprattutto si ha l’impressione... E c’è da immaginare (ancora da immaginare)», «Non c’è ripeto, nessun segno certo di un tale dissenso: eppure lo si intuisce, lo si sente, lo si intravede », « E può darsi che si stia, qui, facendo un romanzo: ma non è improbabile che » e così via.
Di un romanzo in effetti si tratta, scritto in bella prosa retoricamente ornatissima, secondo i canoni più accreditati dell’eloquenza suasoria. È il prestigio della letteratura come sede di verità, quello che a Sciascia preme di ribadire: della letteratura, cioè degli « uomini d» lettere », espressione da lui preferita a «intellettuali», che gli suona «termine di generica e imprecisata massificazione». Non per nulla L’affaire Moro non rimanda quasi affatto ad avvenimenti né a testi di tipo storico-politico, ma si appoggia alla auctoritas d’una serie assai lunga di buoni autori, da Cervantes a Borges, da Unamuno a Tolstoj, da Shakespeare a Calderon, a Manzoni, Poe, Trilussa, Pasolini, sino alla Novella del grasso legnaiolo e alla commedia I mafiosi della Vicaria.
Non serve obiettare che Sciascia, lavorando solo sui testi delle comunicazioni e missive resi noti dagli assassini prima del delitto finale, doveva inevitabilmente ricorrere alla fantasia, con tutti i rischi del caso. Il punto è che, per lui, la sua prospettiva di interpretazione letteraria dei fatti, in chiave di moralismo statofobico, non poteva non essere pregiudizialmente vera. In effetti, quando i nuovi materiali rinvenuti nei covi terroristici hanno revocato così pesantemente in dubbio la tesi di fondo su cui il libro è stato costruito, lo scrittore non se ne è dato per inteso: e ha continuato a proporsi, con sconcertante arroganza intellettuale, come l’unico depositario dei criteri di verità atti a chiarire una vicenda ancora per troppi aspetti così misteriosa. Qui però dal caso Moro passiamo, come è stato detto, a un caso Sciascia: certo significativo per comprendere i corsi e ricorsi ideologici d’una parte dell’intellettualità umanistica italiana, ma un po' meno storicamente rilevante dell'altro, a dispetto del clamore pubblicitario che lo accompagna.
Di fronte alla iattanza di Sciascia acquista miglior risalto l’abile cautela con cui Arbasino ha accostato l’argomento. Il sequestro del presidente democristiano viene da lui assunto come occasione per una sorta di inchiesta asistematica sullo stato dell’opinione pubblica: cosa diceva la gente, come si comportava, che genere di reazioni aveva o non aveva durante i cinquantacinque giorni della prigionia. Ai suoi occhi, questo episodio anzi ritorno di barbarie ha dato evidenza al permanere, nella mentalità e nel costume più diffusi, di un indifferentismo morale, una mancanza di fiducia nei valori collettivi, una tendenza a rifugiarsi e smarrirsi nelle angustie degli affetti e degli affari privati, tipici di una società ancora alle prese con un retaggio di disgregazione secolare, che l’ha tenuta al margini dei maggiori dinamismi di progresso, così in campo economico come culturale.
In questo stato (Garzanti, pp. 189, L. 4.500) denuncia insomma con acrimonia il fallimento della cosiddetta rivoluzione neocapitalista, nel suo tentativo di dare un assetto di modernità al paese. Secondo Arbasino, molta parte della popolazione non ha vissuto partecipativamente sino in fondo la tragedia Moro perché ciò l’avrebbe indotta, costretta a fare i conti, in senso critico e autocritico, con la gravità complessiva della crisi attuale. In compenso, si t assistito a uno scatenamento della retorica, come è rituale accada in una “società dello spettacolo”, dove tutto diviene motivo di esibizionismi cinici, fatui, spocchiosi.

Distrazione perpetua
È soprattutto sul comportamento dei ceti colti, la bolsaggine del linguaggio giornalistico, la distrazione perpetua dei narratori, sempre assenti dove capiti qualcosa di grosso, che lo scrittore appunta la sua attenzione, volta a cogliere ironicamente il divario tra l’orgia delle parole e lo scarso senso e gusto per la concretezza delle cose.
Dall’abbondanza e anche dalla ridondanza dei materiali (non tutte le pagine raccolte nel volume appaiono indispensabili) emerge in positivo l’auspicio di uno Stato democraticamente neoborghese, forte del consenso attivo dei cittadini, inserito a pieno titolo fra le nazioni europee più ordinatamente progredite, sugli sperimentati modelli inglese o magari svizzero. Questa visione da «ultimo dei liberali » stenta a calarsi nella concreta complessità del caso italiano: in effetti Arbasino si limita ad enunziarla, in termini di buon senso empirico, ma senza articolazioni ideologiche adeguate. E non per nulla offre così poco spazio ai dati propriamente politici, dove l’originalità della questione italiana si manifesta meglio, coi suoi aspetti di ritardo storico ma anche di anticipazione innovativa.
Resta il fatto che la posizione assunta dallo scrittore, pur nella sua opinabilità, gli consente un impatto critico, efficace sugli orientamenti della nostra società civile, e soprattutto dei ceti intermedi, nelle loro inquietudini e pigrizie e velleitarismi. In questo senso, la strage di via Fani e il lento assassinio di Moro si rivelano davvero un’utile cartina di tornasole. Arbasino non nasconde la sua scarsa simpatia per l’uomo politico assassinato, cui imputa gravi corresponsabilità nell’aver ridotto l’Italia «in questo stato», cioè in una situazione per cui non appare evidente a tutti la necessità primaria di difendere le istituzioni dello Stato, con la esse maiuscola: e possono emergere quelle tendenze al cedimento, alla trattativa, contro cui lo scrittore si pronunzia beffardamente. Ma appunto da questo atteggiamento di distacco deriva la disposizione a sottolineare con spregiudicatezza i sintomi di uno scollamento fra le tendenze serpeggianti nell’opinione pubblica e le prospettive indicate ai più alti livelli istituzionali.

l'Unità 28 ottobre 1978

La poesia del lunedì. Umberto Saba




Ulisse

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

Da quella finestra si vede il Settecento. 1978, un convegno veneziano dedicato al Piranesi (Franco Miracco)

Il Campidoglio e la scala dell'Ara Coeli in una veduta di Giovan Battista Piranesi

In occasione della mostra veneziana per il secondo centenario delia morte di G. B. Piranesi (nato a Mojano di Mestre nel 1720), la Fondazione Cini ha voluto anche un convegno intemazionale di studio. Si è trattato, una volta tanto, di un convegno utile a registrare a che punto siano oggi pervenute le riflessioni su uno tra i più grardi produttori di immagini fino ad ora esistiti. Il convegno ha rivelato che i «profeti» del Piranesi, sparuta setta qualche anno addietro, non solo sono stati capaci nel tempo di coinvolgere numerosi altri storici dell’arte ma anche di produrre effettive novità filologiche e interpretative. Qui è accaduto nel caso, ad esempio, della relazione organizzata da Adriano Cavicchi e Silla Zamboni: Inediti di G. B. Piranesi. Il contributo dei due studiosi ha determinato l'incorporamento nella densissima galassia piranesiana di due inediti taccuini, finalmente usciti dalla Biblioteca di Modena, per sottoporci nuovi, interessantissimi elementi relativi alla produzione di Giambattista e a quanto realizzarono i suoi figli-allievi. fino alle collaborazioni di uno di loro, Francesco, fuggito da Roma a Parigi nel 1799 per giacobinismo.
Alcune relazioni, come quella di Andrew Robinson, hanno allontanato vecchie incertezze a proposito della datazione delle «Vedute di Roma» staccatesi dalla mano del maestro in tempi, per scopi e in forme diversi. Augusta Monferini, nel ricomporre il paesaggio della «cultura antiquariale di Piranesi», ha arrecato nuove certezze alle combinazioni culturali, ideologiche, di colui che. di fronte alla «smisurata mole de’ marmi» consacrata dalla storia, senti come impossibile l’esperienza «dell’Architettura medesima caduta da quella beata perfezione a cui fu portata ne’ tempi della maggiore grandezza della romana repubblica». È nell’investigare le ragioni della crisi che la «parola piranesiana — per citare Tafuri — rinuncia alla verità, diviene una parola senza verità». Se frantumazione dei valori e orientamenti illuministi possono aiutare a ristabilire le linee del mondo piranesiano. la Monferini ha attentamente montato, allora, i rapporti tra Piranesi e l’abate Ridol-fino Venuti, soprintendente alle antichità di Roma regnando Benedetto XIV. amico di Montesquieu.
Una immagine dalle "carceri" di G. B. Piranesi
Il riferimento al pensiero illuminista è tornato con forza, allorquando Maurizio Calvesi ha portato il suo contributo d’analisi e di riflessione su «i temi delle carceri». Calvesi ha osservato come le ipotesi storico-politiche di Piranesi riflettessero «l’intensità del dibattito sul diritto romano così acceso negli anni in cui si pubblicarono ”le carceri”». Nella dimensione ideologica dell’artista si è, infine, ancora spinto Renato Barilli con una serie di riferimenti agli scritti di Edmund Burke che a metà del Settecento aveva elaborato le differenze fra «bello» e «sublime».

L'Unità, 28 ottobre 1978

27.10.18

Il doppio sguardo. Una poesia di Franco Marcoaldi



Quante volte si è detto
il mondo deperisce.
Quante volte si è detto
il mondo fa naufragio.
Dovremmo misurare meglio
le parole: ché il mondo
deperisce eppure ingrassa;
e mentre naufraga galleggia.
È questa la fatica
a cui siamo vocati: sostenere
un doppio sguardo, capace
di fissare in faccia la rovina
e assieme la lamina di sole
che accende ogni mattina.

da Il tempo ormai breve, Einaudi 2008



25.10.18

Personaggi di romanzo. Il mister Fogg di Jules Verne (Corrado Sannucci)

David Niven nel ruolo di Phileas Fogg

“Nell’anno 1872, la casa al numero 7 di Saville Row, Burlington Gardens, abitava...” quello che è diventato un prototipo dei viaggiatori moderni, il gentleman Phileas Fogg, che da lì a poco, avrebbe iniziato per scommessa il suo Giro del Mondo in Ottanta Giorni. Di Fogg Jules Verne ci dice che assomigliava a Byron ma che poi, tutto sommato, non aveva particolari doti se non quella di essere socio di un animato Reform Club. Oggi, ai nostri occhi, Fogg sembra più vicino a un concorrente del Camel Trophy che non ai desideri di esperienza dei saccopelisti o ai viaggi al sud delle romantiche donne inglesi. Fogg attraversa il mondo come una sega il legno, il suo stesso aiutante Passepartout lo definisce “una macchina”. Non che Fogg, nella sua corsa, non si renda conto della varietà del mondo. Nel VII capitolo “si testimonia dell’inutilità dei passaporti” solo che poi, nel XIV, “scende giù per tutta la valle del Gange senza neanche sognarsi di guardarla.” L’ideale per Fogg sono poche barriere doganali, treni e aerei puntuali, e poco tempo da perdere per commuoversi alla vista di una violetta sul ciglio della strada.

“Leggere” n.7 dicembre 1988 – gennaio 1989

22.10.18

Sicilia 1954. Danilo Dolci a Trappeto (Luciano Della Mea)

Trappeto 1954. Pescatori. Foto di Enzo Sellerio
Cercando altro ho trovato su un numero dell'“Avanti!” di tanti anni fa un reportage di Luciano Della Mea sull'esperienza di Danilo Dolci a Trappeto e – per tante ragioni – mi sono commosso.
Mi sono commosso per il ricordo di Luciano Della Mea che, dopo una lunga militanza di sinistra socialista, fu nostro compagno nel lungo Sessantotto, tra l'altro guidando la battaglia per la verità sulla morte di Franco Serantini e partecipando alle esperienze che portarono alla liberazione dei “matti” e alla chiusura dei manicomi.
Mi sono commosso per la lunga e costruttiva presenza contro corrente di Danilo Dolci in Sicilia, di cui qui sono rievocati gli inizi e che comportò denunce e incarcerazioni quando incoraggiò con la sua civile disobbedienza la ribellione non violenta contro il dominio mafioso. Non a caso Aldo Capitini parlò di Trappeto come un modello esemplare della “rivoluzione aperta” che egli proponeva.
Mi sono commosso per le storie che Della Mea, guidato da Dolci fra i poveri di Trappeto, racconta, per una umanità offesa che cerca vita e dignità.
La lettura è vivamente consigliata (S.L.L.)

Stavo riposando beatamente, quando Danilo Dolci da un piccolo paese della Sicilia si è annunciato gettando una specie di mattone contro la mia finestra: tutti i vetri si sono fracassati. Ho raccolto stupito il proiettile e allora mi sono accorto che la forza dell’urto non era dovuta al volume o al peso, bensì alla sostanza della cosa gettata da Dolci, di per se stessa fragile, ma chiusa e vibrante nel messaggio, secco come una imposizione: «Fare presto (e bene) perché si muore».
La prima reazione, dettata certamente dalla pigrizia e da un certo sospetto verso la rappresentazione fortemente drammatica delle cose, è stata: «Si muore tutti, prima o poi, che cosa di nuovo può mai raccontarci il giovane Dolci sulla morte?». Poi mi è capitata sotto gli occhi questa frase: «Non è vero che tutti si campi. Venite a vedere. Io, coi miei occhi, ho visto morire un bambino di fame. Ho visto coi miei occhi, e li vedo tutti i giorni, tanti tanti bambini deformi per la fame e per la mancanza di cure. Per dir solo dei piccoli ».
Allora ho avuto fiducia in Danilo Dolci. Egli ha cuore cristiano, fa professione di apostolato, non si cura granché di offendere i «valori morali e religiosi» del popolo italiano, quando questi valori consistono semplicemente nel far vedere e nel far
Danilo Dolci in manette
conoscere che in Italia tutto va magnificamente, nel migliore dei modi, e che se qualche pecca c’è, è meglio non darla in pasto al pubblico, è meglio lasciare che venga risciacquata in famiglia, cioè lasciata tale e quale. Ho avuto fiducia in Danilo Dolci, anche se ho potuto sorridere di certa sua ingenua indignazione e di certe sue ingenue invocazioni, che sorgono spontanee dal suo animo sincero. Mi sono lasciato accompagnare tranquillamente da lui nella visita di Trappeto, che è il luogo « dove si muore » e dove occorre «fare presto (e bene) » per evitarlo.
Trappeto è un paese di circa 2800 abitanti, situato sul Golfo di Castellammare, a circa 50 km. da Palermo e a 10 da Montelepre.
Aveva il timbro dell’innocenza offesa e dell’indignazione rattenuta Danilo Dolci quando mi ha detto: «Da oltre dieci giorni qui, il pescatore che ha guadagnato di più per la vendita del pesce pescato complessivamente ha portato alla famiglia 250 lire. E il paese vive in grandissima parte sulla pesca. È bastato che noi ripetessimo di queste controllabilissime notizie, perchè qualcuno ci definisse «eretici», «idealisti », «comunisti» (oh, la divina virtù del silenzio ipocrita!). «Basta che ci si muova da fratelli, da padri tra i più miseri, perchè chi potrebbe e dovrebbe aiutare per lo più ci sbatta fuori della porta. Ci hanno sputato addosso. Proprio sputo vero, oltre le calunnie».
Allora ho guardato Dolci Intendendo la sua forza morale e l’esilità della sua fiducia, e non ho potuto fare a meno di pensare: «È assai che non ti abbiano fatto ancora ammazzare. Sei troppo indifeso ».
Luciano Della Mea
Ma Dolci non ha di questi pensieri, si preoccupa più di carità e di grazia che di storia e di politica. E parla, e la sua voce è insieme un’imprecazione e un lamento: «Moltissime case sono in tali condizioni che un veterinario ne sconsiglierebbe l’uso per delle vacche. E intanto i motopescherecci fuori-legge continuano apertamente indisturbati lo sfacelo delle possibilità della pesca. L’inverno scorso ho visto con i miei occhi un neonato morire anche perché affamato, tra centinaia e centinaia di casi dolorosissimi: bambini che non potevano essere guariti perché non c’erano nelle case i danari per le medicine, padri e madri pallidi dal digiuno e dalla preoccupazione per la fame dei figli, malfermi vecchi di oltre settantanni costretti a passare ancora tutta la notte in mare per rischiare di trovare almeno qualcosa, vedove con numerosi figli a cui provvedere senza alcun aiuto, malati in ospedale con la moglie e i figli nelle spoglie case a digiuno, padri arrestati perchè costretti dalla fame dei figli a prendere dal terreno altrui. C’è da muoversi subito. Voglio fare penitenza perché tutti si diventi più buoni. Prima che muoia un altro bambino di fame, intanto, voglio morire io... ». Povero Danilo Dolci, così buon cristiano, così buon uomo, così seme solitario di una carità che è come la lancia di Don Chisciotte! Bisogna volergli bene, e il miglior modo di dimostrarglielo è di credergli, di credere alla sua fede, e di unirci con la nostra alla sua per aiutarlo, Trappeto in una con le miserie, le vigliaccherie, la sporcizia del nostro Paese, la cui bellezza, a volerla intendere, è ancora da costruire. Per ottenere un contributo per i bisogni più urgenti, Dolci annunciò che avrebbe smesso di mangiare, e infatti per otto giorni rimase digiuno.
Dolci ha voluto condurmi a visitare un quartiere di Trappeto, chiamato il Vallone. Vi è scavata in mezzo una affossatura che raccoglie tutti i rifiuti del paese. Sul margine e nel liquido putrido giocano bambini e animali. Su questa melma fetida si aprono «case». Una per una Danilo Dolci me le ha fatte visitare, ed è disposto a farle visitare a ogni italiano.
«Famiglia di 7 persone: Gioacchino R. di anni 41, nato a Trappeto, si è sposato a 25 anni con C. Angela, ora di anni 37, nata a Trappeto. Figli 5: di 15 anni, 12, 6, 4, 15 mesi. Casa di proprietà. Piove dal tetto di tegole e canne (ci vurrisse venti mila lire per aggiustarlo: l’altra nuttata di ventu sdirrubbau la ciminiera. Mi caricai li picciriddi e niscii di dintra pinsannu ca si sdirrubbava la casa). Pavimento di cemento. Un’alcova ove dormono insieme marito e moglie e due bambini, e una stalla dove ora c’è un lettino su cui dormono i tre: la giovinetta di quindici anni con la sorellina e un fratellino (e la sera le zuffe, ca nun ci caponu, massima quannu c’è cauro; chidda non vole essere tuccata. E ora ci entra na gabbia per dodici animali). Letti di tavole di legno; lenzuola un paio per letto (sfaldate, mancu una manta). Un tavolo senza un piede, una credenza con un solo vetro, 7 seggiole, 6 piatti, 5 forchette, 6 cucchiai... Vestiti: i 3 bambini sono praticamente nudi, la bimba di 12 anni è senza scarpe... Ieri che cosa mangiaste ? Ieri mangiammo alle rue (quattordici) pane e sarde salate, alle sei pasta e fave. 
Questa è una famiglia del Vallone. Si entra e si esce dalle case, e press’a poco sono le stesse risposte alle stesse domande. La festa? «Quannu avemu da manciare è festa, quannu nun c'è sordi nun c’è festa. Quannu capito travaglio, vado a travagliu, per campare la famiglia». T’interessi della vita d’Italia ? «Noi come potemo interessarci di questo? Avemo da capitare lu pane. Nuatri semu animali ca parlamu, levandoci il battesimo».
In questa casa, in un locale con due alcove, vivono due famiglie per complessive 12 persone. «Qualcuno si curca in terra ». Avevano un poco di terra che è stata loro espropriata per pubblica utilità, ma dopo 4 anni non è stata ancora pagata. Niente gabinetto, niente acqua. La porta tutta sfasciata. Serve chiedere: «Ti interessi del mondo?». La risposta giunge ovvia: «Cosa devo interessarmi se la notte desidero la roba e il giorno il pane? Un anno e mezzo stare disoccupato, come fazzu a comprare lu giornale? ».
Ecco cosa racconta C. Giuseppa di anni 28: «Tre giorni fa avevamo mangiato un poco di pasta, però il giorno decedente ero stata digiuna. Mio marito mi aveva lasciato cento lire e mi erano avanzate cinque lire. Ad un tratto mi venne una fame come non avevo mai provata. Una fame che meglio la morte, e allora dissi: mangio ora, non importa anche se domani dovessi restare digiuna. Son uscita come una pazza percorrere a comprare 5 lire di zucchero ma per la strada sono caduta in terra».
«Che cos’è la religione?», chiede Dolci ad Antonina C. d 19 anni. «Tutte cose mi scordai. Sono due anni che non vado più in Chiesa », e la risposta.
Insomma nel Vallone i più sono analfabeti o hanno dovuto interrompere alla seconda - alla terza elementare per faticare. Vivono in di 5-10 persone in una o due stanze. Il gabinetto o non c'è o è «nu pertusu» nel pavimento della stanza stessa dove mangiano e dove dormono. Se hanno cucchiai, non hanno forchette o bicchieri o pentole. Dalle pareti o dal tetto entra acqua. Chi più, chi meno, sono malati, tubercolosi, reumatismi, meningite, rachitismo. Nessuna o poche medicine, e in questo caso debiti. Proprietà? « Camposanto, quando moremo». Cosa mangiate? «Quando c'è lu pane senza companaggio. Alla sera pasta anche squarata (scondita)». Oltre il lavoro cosa fanno? «Niente». Religione? «Sono disfiziato (sono stanco di campare)». Desideri? Una «casuzza», « travagliare », «pane per li picci-riddi». I piccoli sono nudi o vestiti di qualche straccio. Tutti, per lo più, sono scalzi, e non possono andare a scuola né in chiesa, sia perché si vergognano, sia perché vengono mandati via. «Ca, ca a vulere? Vurrissi un lettu completo ». .
«Leggi giornali e libri?», tncalza Dolci. « Moneta, ne ho per comprarli?», risponde Francesca S. «Ma mi potessi interessare e me ne struro (struggo) di non potere ». E suo marito, Vincenzo C.: «Anche se diciamo una parola giusta è sempre sbagliata perché non abbiamo denaro. Quelli che ci hanno denaro anche che dicono una mala parola impostata è sempre ben voluta da tutti, perché ci stanno sottoposti. Anche se la mia parola è giusta non ha nessun valore». «Cosa vorresti? », chiede Dolci alla donna. « Ca me maritu lavorasse giornalmente, e si avesse ciò che occorre in casa. No che avemu da mangiare pane e acqua per vivere. Accussì si campa? ».


Cosi si muore. Ed è prima di tutto una morte civile. E i responsabili (proprietari, padroni, autorità) la fanno da becchini. E non c’è religione.
C’è superstizione. «Per riuscire a sbancare il banco (un tesoro favoloso nascosto chissà dove) occorre il sangue degli innocenti, bisognerebbe cioè sgozzare dei bambini e portare là il loro sangue. Anche ultimamente è stato trovato vicino Palermo, sgozzato, un fanciullo. Quando una donna non si può sposare perché non c’è nessuno che la vuole, spesso prende un po’ di sangue delle proprie mestruazioni e lo mette nella pasta, nel vino o nella sigaretta dell'interessato «così quello ci mette più affetto». «La mugghiere quanno more lu maritu sta un anno senza nascere di dintra e letto non se ne conza (la moglie quando muore il marito sta un anno senza uscire di casa e non rifà il letto) anche per 6 mesi e più. Non si battono i materassi, non si lavano le lenzuola se no significa che fa pulizia per maritarsi arré e se si scopa si tiene la porta chiusa in modo che nessuno veda se no la gente dice che ha fretta. Se una tiene la casa pulita o si fa vedere a lavarsi nei mesi successivi alla morte del marito la sparlano. Quando però nel letto ci fossero i pidocchi si può ammazzarli, ma a porte chiu-i se se no la gente sparla »,


Occorre anzitutto che la fenditura del Vallone sia chiusa per sempre. Gli uomini e le donne hanno bisogno di lavoro e di un guadagno sicuro. Questa è la strada per metterli in condizione di mangiare tutti i giorni e di curarsi. Occorrono case nuove e pulite, asili per i bambini, refezioni scolastiche e libri, medicine gratuite. Questa è la strada per avviare la gente di Trappeto a una vita civile.
Con il pane sicuro, le cure e l’istruzione si vincono la superstizione, le epidemie, la paura, l'apatia. Non v'è altro mezzo. C’è nelle risposte delle famiglie del Vallone, nella loro stessa spaventosa realtà, un vigore, una forza concreti che, alimentati, forniti di mezzi risulterebbero costruttivi. Occorre della politica, e la migliore politica, in questo caso, è di dare a questi uomini, queste donne, questi ragazzi, fiducia nella vita: e allora lavoro, vestiti, case, assistenza, ecc. Ma l’Italia ufficiale rifugge da questi documenti, non vuole testimonianze, fotografie, doeumentari. Vuole canti di gente in costume, canti dalla bella Italia, «paese du sole».
Dice Danilo Dolci, a chiusura del discorso: «Ieri e oggi ci ha raccontato una donna che suo marito è guarito dalla malaria bevendo un bicchiere d’orina. Intanto, a quattro chilometri da qui, è stato trovato in un agrumeto un altro uomo ucciso a fucilate. Gran parte del gangsterismo americano è di origine siciliana. La recente inchiesta parlamentare sulla miseria ha constatata che in queste province muoiono circa dieci bambini su cento ai poveri, e un bambino su cento ai ricchi. Sono state accolte nella scuola due bambine. Abitavano in un porcile di tre metri per due e ottanta con due altre sorelline (e un’altra creatura stava per nascere), padre, madre e il porco, titolare dell’ambiente, oltre ad alcune galline. La più piccola aveva intorno, addosso, una tela stretta stretta, così stretta che non si è potuta levare che strappandola: da tanto tempo la portava. La piccola non sa evacuare che sul pavimento o in letto. Se portata al gabinetto si terrorizza. Giovannino D. A., di cinque anni, lasciato solo a pascolare un gregge, quando l’arsura io prendeva alla gola, beveva la sua orina...

Trappeto non è molto distante, è comunque In Italia. Chi non crede a queste cose può andare a vedere: sarebbe, fra l’altro, un ottimo impiego del tempo di ferie. Chi a queste cose crede, può visitare Trappeto anche standosene a casa: ce lo accompagna Danilo Dolci, con il suo libro Fare presto (e bene) perché si muore », edito da De Silva e in vendita presso «La Nuova Italia» di Firenze.

“Avanti!”, 20 maggio 1954

La poesia del lunedì. Alida Airaghi (Verona, 1953)


Prova a pesare un pugno di sabbia,
e poi mezzo pugno, così leggero.
Tieni tra le dita solo qualche granello,
e il resto lascialo scorrere, mia mano clessidra.
Non lo fermi, il tempo, e quello che è successo
non puoi fare che non sia accaduto;
ma misura l’istante, la sua sfida
all’eterno. Il solo granello rimasto
fermo tra pelle e unghia:
l’adesso che dura e non si è perduto.

da Consacrazione dell'istante - postato il 2 ottobre 2018 nei siti "Nazione indiana" e "Alida Airaghi"

Paradigmi. La guerra del Peloponneso e il conflitto Cina - USA. Lo scontro militare è inevitabile? (Sergio Romano)

Ci sarà nel nostro futuro una guerra fra la Cina e gli Stati Uniti per il dominio del mondo? Non saremmo sorpresi se i loro stati maggiori e i leader militari di altri Paesi fossero già al lavoro per immaginare le circostanze in cui il conflitto potrebbe scoppiare e quali sarebbero le mosse strategiche iniziali di quello fra i due che sparerà il primo colpo. Esiste comunque almeno uno studioso americano che sta affrontando il problema con una sorta di storico fatalismo. Si chiama Graham Allison, ha insegnato per molti anni alla Università di Harvard e le sue riflessioni sono in buona parte dettate dallo studio di un’altra guerra, che ha avuto una grande influenza sulla nostra cultura politica e militare.
Dopo una lunga familiarità con La guerra del Peloponneso di Tucidide, Allison è giunto alla conclusione che lo storico greco raccontò eventi destinati a ripetersi, con qualche inevitabile variante, da un secolo all’altro. Insieme a un gruppo di lavoro formato nella sua università, è andato alla ricerca di guerre che presentano le stesse caratteristiche. In ciascuno dei casi studiati vi è una potenza che governa o controlla una grande regione e i mari da cui è bagnata. L’autorità di cui gode le consente di imporre le proprie regole, reclutare milizie, incassare tributi, favorire i propri sudditi o concittadini a danno di altri meno protetti e fortunati. Nella Grecia del V secolo questa città è Sparta, modello di compattezza civile e di virtù militari. Ma dopo le guerre persiane, in cui si è particolarmente distinta, è un’altra città, Atene, che comincia a imporre la sua presenza e a conquistare terreno. La guerra scoppia quando Sparta giunge alla conclusione che soltanto con le armi potrà conservare la sua posizione dominante. Durerà 27 anni, dal 431 al 404 avanti Cristo, e si concluderà con la sconfitta degli Ateniesi.
Una larga parte del libro di Allison è dedicata a una descrizione delle numerose guerre in cui uno Stato (spesso la potenza dominante) cerca di fermare con le armi l’ascesa di un concorrente e cade così in quella che l’autore definisce la «trappola di Tucidide»: sinonimo di uno scontro che potrà essere vinto o perduto, ma lascerà spesso un forte segno sui contendenti e sull’intero continente europeo. Accadde alla fine del XV secolo quando la Spagna sfidò il Portogallo; nel XVI secolo, quando la Francia tentò di prevalere sugli Asburgo, ma non vi riuscì; nel XVII secolo, quando gli Asburgo fermarono l’espansione dell’Impero ottomano nei Balcani; sempre nel XVII secolo, quando l’Inghilterra conquistò contro gli olandesi il controllo dei mari; nel XVIII e nella prima metà del XIX, quando Francia e Inghilterra si contesero il potere sugli oceani e sul continente europeo; verso la metà del XIX, quando Francia, Inghilterra e persino l’Impero ottomano si coalizzarono per frenare l’espansione della Russia verso il Mediterraneo. La fine del XIX secolo e la prima metà del XX non saranno meno bellicosi: Francia e Regno Unito contro la Germania nel 1914 e nel 1939; Germania contro Russia nel 1914 e nel 1941; Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica contro la Germania nel 1941.
Vicende non troppo diverse, nel frattempo, accadevano in Asia, dove ci furono nella seconda metà del XIX secolo almeno tre gare: quella fra Gran Bretagna e Russia per il controllo delle regioni sud-occidentali; quella fra Cina e Giappone per il dominio sulla parte orientale del continente asiatico; quella fra Stati Uniti e Giappone per lo stesso obiettivo. In queste vicende, sino alla fine della Seconda guerra mondiale, la Cina è presente, ma quasi sempre con un ruolo minore e risultati spesso umilianti. È erede di un grande impero, ma gli Stati europei, durante il XIX secolo, l’hanno privata del diritto di gestire i suoi porti e i suoi mercati, mentre il Giappone non nasconde la sua intenzione di prenderne il posto sulla carta geopolitica del mondo.
Allison cita due volte un memorabile motto di Napoleone: «Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà». Il risveglio c’è stato ed è dovuto ad almeno tre fattori: la sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale, la conquista comunista del potere a Pechino nel 1949 e la grande riforma di Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta. Più recentemente, con l’arrivo al potere di un nuovo leader (Xi Jinping), il Paese sembra essersi risvegliato una seconda volta con maggiore energia e maggiori ambizioni. Xi ha dichiarato guerra alla corruzione (molto diffusa anche nelle alte sfere del partito). Ha conservato le strutture dello Stato comunista, ma l’ideologia del Paese è il patriottismo, un sentimento che garantisce la coesione nazionale e protegge la Repubblica popolare, almeno per ora, dalle tentazioni democratiche. Se gli attuali ritmi di crescita e sviluppo saranno mantenuti, la Cina avrà raddoppiato il suo Pil nei prossimi tre anni e la sua economia nazionale, quando celebrerà il centenario della Repubblica popolare (2049), sarà il triplo di quella degli Stati Uniti. In questa ricorrenza il Paese occuperà posizioni di prima fila nel campo delle scienze, avrà fatto passi da gigante nelle nuove tecnologie, potrà contare su una nuova Via della Seta (l’operazione One belt, one road) che attraverserà l’Asia per collegare la sua economia a quella dell’Occidente.
Quali saranno i desideri e le ambizioni di questa grande potenza? Allison crede che la Cina voglia soprattutto riconquistare interamente il prestigio e l’autorità dell’epoca imperiale. Questa tesi sollecita una seconda domanda. È possibile che gli Stati Uniti accettino senza reagire un tale stravolgimento dei vecchi equilibri internazionali? Assisteremo a una nuova guerra del Peloponneso? Tutto ciò che Allison ha scritto sin qui rende la domanda inevitabile e inquietante. E una buona parte del suo libro, infatti, è dedicata alla elencazione delle molte circostanze in cui questi due Paesi (entrambi afflitti da un colossale senso di superiorità) potrebbero cadere nella trappola di Tucidide. Ci sono già stati incidenti, fra cui uno particolarmente grave il 1° aprile 2001, quando un aereo spia americano si scontrò in volo con un velivolo cinese e fu costretto ad atterrare in un’isola della Repubblica popolare. I possibili focolai sono numerosi: Hong Kong; la Corea; le isole contestate dei mari della Cina; i mercati finanziari, se Pechino cominciasse a vendere le cartelle del debito pubblico americano depositate nei suoi forzieri; il commercio, se il surplus cinese continuasse ad aumentare vertiginosamente.
Ma l’autore ci ricorda che la storia registra anche numerose circostanze in cui due potenze, dopo essersi avversate e detestate, si fermano sull’orlo dell’abisso e riescono a evitare la trappola di Tucidide. La Spagna e il Portogallo scelsero il negoziato e si divisero l’America del Sud nel 1494 con il Trattato di Tordesillas, grazie a un lodo papale. Le maggiori potenze dell’Europa continentale, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, hanno perseguito per molto tempo la politica della convivenza e dell’integrazione. Durante la crisi cubana dell’ottobre 1962 due uomini di Stato (John F. Kennedy, presidente degli Stati Uniti, e Nikita Krusciov, segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica) seppero evitare, con reciproche concessioni, lo scoppio di una guerra nucleare.

C’è persino un esempio che concerne i due maggiori Paesi di lingua inglese. Alla fine del XIX secolo la Gran Bretagna, grazie alla sua presenza in Canada e alla sua influenza in molti Paesi dell’America Latina, si considerava ancora uno Stato americano e credette di potere sfidare la «dottrina di Monroe» con cui un presidente degli Stati Uniti, nel 1823, aveva acceso un’ipoteca sull’intero continente. Ma il governo di Washington reagì con fermezza, rivendicò i propri diritti (veri o presunti) su tutta la regione e dimostrò che avrebbe potuto costruire in breve tempo una flotta più numerosa e potente di quella della Gran Bretagna. Dopo qualche esitazione, i britannici decisero di lasciare le Americhe ai loro cugini d’oltreoceano. La storia avrebbe preso un’altra strada se mezzo secolo prima il Regno Unito fosse intervenuto nella guerra di Secessione americana a favore della Confederazione. Ma era ormai troppo tardi.
Resta da capire naturalmente se gli Stati Uniti, di fronte a una irresistibile ascesa della Cina, sarebbero capaci di dare prova di una stessa saggezza. Ma Allison sa che le previsioni in questa materia corrono sempre il rischio di essere smentite dalla realtà. Il suo obiettivo non è quello di svelarci il futuro, ma di ricordare agli Stati che ci sono ricorsi storici di cui è meglio non perdere la memoria. C’è una branca degli studi storici (la storia applicata), in cui si parte «da una scelta o da un dilemma attuali, e da lì si passa ad analizzare le fonti storiche per fornire prospettive, stimolare l’immaginazione, trovare indizi su ciò che potrebbe accadere, suggerire possibili interventi e valutare probabili conseguenze».
Insieme a uno storico britannico, Niall Ferguson, l’autore di questo libro ha proposto alla Casa Bianca l’istituzione di un Consiglio dei consulenti storici simile al Consiglio dei consulenti economici. La prima domanda a cui dovrà rispondere sarà: «Che cosa fare della Cina e con la Cina?». Non sappiamo se Trump sarà disposto ad ascoltare la risposta.

21.10.18

Walter Binni per Aldo Capitini. L'estremo commiato (21 ottobre 1968)

Quelle che seguono sono le parole pronunciate da Binni al funerale di Aldo Capitini, a Perugia, il 21 ottobre 1968, pubblicate con il titolo Per Aldo Capitini in «Il Ponte», a. XXIV, n. 11, novembre 1968, pp. 1325-1328; il testo è stato poi raccolto, con il titolo Estremo commiato in W. Binni, La tramontana a Porta Sole. Scritti perugini ed umbri (1984 e successive edizioni). Lo “posto” in occasione del cinquantenario della morte del pensatore e uomo politico perugino. (S.L.L.)
Walter Binni e Aldo Capitini

Queste inadeguate parole che io pronuncio a nome degli amici più antichi e più recenti che Aldo Capitini ebbe ed ha, per la sua eccezionale disposizione verso gli altri, vorrebbero più che essere un saluto estremo e un motivato omaggio alla sua presenza nella nostra storia privata e generale, costituire solo un appoggio, per quanto esile e sproporzionato, ad una tensione di concentrazione di tutti quanti lo conobbero e lo amarono: tutti qui materialmente o idealmente raccolti in un intimo silenzio profondo che queste parole vorrebbero non spezzare ma accentuare, portandoci tutti a unirci a lui, nella nostra stessa intera unione con lui e in lui, unione cui egli ci ha sollecitato e ci sollecita con la sua vita, con le sue opere, con le sue possenti e geniali intuizioni. Certo in questo «nobile e virile silenzio» suggerito, come egli diceva, dalla morte di ogni essere umano, come potremmo facilmente bruciare il momento struggente del dolore, della lacerazione profonda provocata in noi dalla sua scomparsa? In noi che appassionatamente sentiamo e soffriamo l’assenza di quella irripetibile vitale presenza, con i suoi connotati concreti per sempre sottratti al nostro sguardo affettuoso, al nostro abbraccio fraterno, al nostro incontro, fonte per noi e per lui di ineffabile gioia, di accrescimento continuo del nostro meglio e dei nostri affetti più alti. Quel volto scavato, energico, supremamente cordiale, quella fronte alta ed augusta, quelle mani pronte alla stretta leale e confortatrice, quegli occhi profondi, severi, capaci di sondare fulminei l’intimo dei nostri cuori ed intuire le nostre pene e le nostre inquietudini, quel sorriso fraterno e luminoso, quel gestire sobrio e composto, ma così carico di intima forza di persuasione quella voce dal timbro chiaro e denso, scandito e posseduto fino alle sue minime vibrazioni.
Tutto ciò che era suo, inconfondibilmente e sensibilmente suo, ora ci attrae e ci turba quanto più sappiamo che è per sempre scomparso con il suo corpo morto ed inanime, che non si offrirà mai più ai nostri incontri, al nostro affetto, nella sua casa, o in questi luoghi da lui e da noi tanto amati, su questi colli perugini, malinconici e sereni, in cui infinite volte lo incontrammo e che ora ci sembrano improvvisamente privati della loro bellezza intensa se da loro è cancellata per sempre la luce umana della sua figura e della sua parola.
E ognuno di noi, certo, in questo momento, è come sopraffatto dall’onda dei ricordi più minuti e perciò più struggenti quanto più remoti risorgono dalla nostra memoria commossa in quei particolari fuggevoli e minimi che proprio dalla poesia del caduco, del sensibile, dell’irripetibile, traggono la loro forza emotiva piu sconvolgente e ci spingerebbero a rievocare, a recuperare quel particolare luogo di incontro, quella stanzetta della torre campanaria in cui un giorno - quel giorno lontano - parlammo per la prima volta con lui, o quella piazzetta cittadina - quella piazzetta - in cui improvvisamente lo vedemmo illuminato dalla gioia dell’incontro inatteso, o quel colle coronato di pini in cui insieme ci recammo con altri amici.
E ognuno di noi ripensa certo ora alla propria vicenda e al segno profondo lasciatoci dall’incontro con Capitini, fino a dover riconoscere - il caso di quanti furono giovani in anni lontani - che essa sarebbe per noi incomprensibile e non ricostruibile come essa si è svolta, senza l’intervento di lui, senza la sua parola illuminante, senza i problemi che lui ci aiutò ad impostare e a chiarire, spesso contribuendo a decisive svolte nella nostra formazione e nella nostra vita intellettuale, morale, politica.
Ma appunto proprio da questo, dalla considerazione dell’immenso debito contratto con lui, dalla nostra gratitudine e riconoscenza per quanto, con generosità e disponibilità inesauribile, egli ci ha dato, veniamo riportati - al di là del nostro dolore che sappiamo inesauribile e pronto a risorgere ogni volte che ci colpirà un’immagine, un’eco, una labile traccia della sua per sempre scomparsa consistenza concreta - a quel momento ulteriore della nostra unione con lui che in occasione della sua morte, e soprattutto dalle sue parole e dalle sue opere abbiamo appreso a considerare come l’apertura del «muro del pianto», della buia barriera della morte.
Perché qualunque siano attualmente le nostre diverse prospettive ideologiche, esistenziali, religiose o non religiose (e cosí, coerentemente, pratiche e politiche), una cosa abbiamo tutti, credo, da lui imparata: la scontentezza profonda della realtà a tutti i suoi livelli, la certezza dei suoi limiti e dei suoi errori profondi, la volontà di trasformarla, di aprirla, di liberarla.
È qui che il ricordo e il dolore si tramutano in una tensione che ci unisce con Aldo nella sua piu vera presenza attuale, nella sua non caduca presenza in noi e nella storia, e ci riempie di un sentimento e di una volontà quale egli ci chiede e ci comanda con tutta la sua vita e la sua opera piu persuasa di combattere per una verità non immobile e ferma, ma profonda ed attiva, concretata in quella prassi conseguente di cui egli sosteneva proprio in questi ultimi giorni, parlando con me, l’assoluto primato.Il morto, il crocifisso nella realtà, come egli diceva, suggerisce infatti insieme il senso della nostra limitatezza individuale in una realtà di per sé ostile e crudele (quante volte abbiamo insieme ripetuto i versi di Montale con il loro circuito chiuso: «la vita è più vana che crudele, più crudele che vana!») e la nostra possibilità o almeno il nostro dovere di tentare di spezzare, di aprire quella limitatezza, di trasformare la realtà, dalla società ingiusta e feroce alla natura indifferente alla sorte dei singoli e al loro dolore. Li è il punto in cui convergono tutte le folte componenti del pensiero originalissimo di Capitini: il tu e il tu-tutti, il potere dal basso e di tutti, la nonviolenza, l’apertura e l’aggiunta religiosa. Lì convergono in una profonda spinta rinnovatrice le idee, le intuizioni (tese da una forza espressiva che tocca spesso la poesia), gli atteggiamenti pratici di Capitini.
Non accettare nessuna ingiustizia e sopraffazione politica e sociale, non accettare la legge egoistica del puro utile, non accettare la realtà naturale grezza e sorda, e opporre a tutto ciò una volontà persuasa del valore dell’uomo e delle sue forze solidali e arricchite dalla «compresenza» attiva dei vivi e dei morti, tutte immesse a forzare ed aprire i limiti della realtà verso una società e una realtà resa liberata e fraterna anzitutto dall’amore e dalla rinuncia alla soppressione fisica dell’avversario e del dissenziente, sempre persuasibile e recuperabile nel suo meglio, mai cancellabile con la violenza.
Di fronte a questo sforzo consapevole e ai modi stessi della sua attuazione e della sua configurazione precisa alcuni di noi possono essere anche dissenzienti o diversamente disposti e operanti, ma nessuno che abbia compreso l’enorme portata della lezione di Capitini può sfuggire a questo nodo centrale del suo pensiero, nessuno può esimersi di dare ad esso adesione o risposta, tanto esso è stringente, perentorio, come perentoria è insieme la lezione di intransigenza morale e intellettuale di Capitini, la sua netta distinzione di valore e disvalore, la severità del suo stesso amore, pur così illimitatamente aperto e persuaso del valore implicito in ogni essere umano.
Proprio per questo amore aperto e severo, questa nostra unione in lui e con lui - in presenza della sua morte - non può lasciarci cosi come siamo di fronte alle cose e di fronte a noi stessi, non può non tradursi in un impegno di suprema lealtà, sincerità, volontà di trasformazione.
Capitini fu un vero rivoluzionario nel senso piu profondo di questa grande parola: lo fu, sin dalla sua strenua opposizione al fascismo, di fronte ad ogni negazione della libertà e della democrazia (e ad ogni inganno esercitato nel nome formale ed astratto di queste parole), lo fu di fronte ad ogni violenza sopraffattrice, in sede politica e religiosa, così come di fronte ad ogni tipo di ordine e autorità dogmatica ed ingiusta (qualunque essa sia), lo fu persino, ripeto, di fronte alla stessa realtà e al suo ordine di violenza e di crudeltà. Questo non dobbiamo dimenticare, facendo di lui un sognatore ingenuo ed innocuo, e sfuggendo così alle nostre stesse responsabilità più intere e rifugiandosi nel nostro cerchio individualistico o nelle nostre abitudini e convenzioni non soggette ad una continua critica e volontà rinnovatrice.
Forse non a tutti noi si aprirà il regno luminoso della realtà liberata e fraterna nei modi precisi in cui Capitini la concepiva e la promuoveva, ma ad esso dobbiamo pur tendere con appassionata energia.
Solo così il nostro compianto per la tua scomparsa, carissimo, fraterno, indimenticabile amico, diviene concreto ringraziamento e risposta alla tua voce più profonda: solo così non ti lasceremo ombra fra le ombre o spoglia inerte e consunta negli oscuri silenzi della tomba e proseguiremo insieme, severamente rasserenati - come tu ci hai voluto - nel nostro colloquio con te, con il tuo tu-tutti, attuandolo nel nostro faticoso e fraterno impegno di uomini fra gli uomini, come tu ci hai chiesto e come tu ci hai indicato con il tuo altissimo esempio.

18.10.18

Un'indocile libertà di fronte al reale. Landolfi e i narratori russi (Fabio Pedone)

Tommaso Landolfi


Sarà pur vero che Tommaso Landolfi «si specchia» in questi due racconti di Cechov, come recita il retro di copertina del volumetto uscito nella «Minima» Adelphi (La lettura. Kaštanka, nota di Giovanni Maccari, pp. 72, euro 6). Ma è uno specchiarsi meno quieto di quel che sembri, anche astraendo dal fatto che (parole sue) «per me il tradurre o appena il rileggere un qualunque scrittore è rendermelo come dire avverso»; a pelle, si potrebbe aggiungere recependo il successivo paragone landolfiano con le gigantesse di Gulliver.
Dopo il Dostoevskij del sottosuolo, Tolstoj e Turgenev, già riapparsi da Adelphi, ecco ulteriori disjecta membra dall’antologia Narratori russi proposta a Landolfi da Elio Vittorini per l’editore Bompiani e uscita nel 1948. Landolfi traduttore veniva dai Racconti di Pietroburgo, che gli avevano fruttato anche una polemica con Vitaliano Brancati sulla curvatura antirealistica impressa a Gogol’, e da scrittore nutriva da sempre ammirazione per i russi: tanto modelli di stile comportamentale (nottivago, ozioso, dissipatore) quanto suscitatori in letteratura di un’indocile libertà di fronte al reale: visto non come un dato pacifico sancito in via univoca dal senso comune, ma quale estensione indefinita di possibilità da cui far scaturire l’eccezione che apre le porte dell’universale. Solo ricreando ogni volta se stessa e le proprie condizioni, la scrittura, come quella del prediletto Dostoevskij, potrà essere un’arte del possibile, convogliando nella propria energia l’abbandono al caso e a un errore necessario, ma anche una paradossale fiducia in un senso a venire.
A Cechov, «alquanto enigmatico per costituzione», Landolfi dedicherà negli anni ’50, sulle pagine del «Mondo», ben cinque articoli e recensioni (poi raccolti in Gogol’ a Roma) mettendone in luce l’indifferenza ai proclami e la renitenza alle prese di posizione immediatamente utilizzabili: «Cechov ci racconta e dice tante cose, e anzi in forma piana, suasiva, irresistibile, tuttavia non ci comunica né intende comunicarci nulla», poi per giunta «si guarda bene dal trarre conclusioni finali». E quel grande romanzo che soffrì di non aver scritto è in realtà la sua intera opera, in tutti i minuzzoli sparsi che gettano uno sguardo sul mondo composito come quello di un insetto (chissà che anche qui Landolfi non stesse pensando in parte a se stesso).
Malgrado il riserbo, malgrado il rifiuto di esaurirsi in una posizione dichiarativa, Cechov a parere di Landolfi «tutto quel che gli stava a cuore lo disse». E la sua vita va osservata come un mistero in piena luce, mediante la stessa via negati-va che si riserva a un altro grande nato «sotto altra stella», quel Poe in cui il raziocinio non ha fatto che aggiungere potenza alla visione.
Narratore «prestigioso» e imprendibile, traduttore d’eccezione, cosa ritrova, se qualcosa intende ritrovare, Landolfi in questo Cechov giovanile? Il primo testo, nello schizzare gli esiti calamitosi della lettura di romanzi fra un gruppo di impiegati, rovescia nel comico le tendenze edificanti che vedevano nella diffusione della lettura un segno di progresso, e si può dire che nel suo estro bozzettistico, condizionato negli spazi e nei toni dalle costrizioni giornalistiche, ci sia qualche sintonia con aspetti dell’opera del conte giocatore, clown admirable del nostro ’900: si pensi a certe scene con fumo di parodia della Pietra lunare o ad alcune pagine più feriali di Ombre.
Di qui parte per Landolfi una direttrice che sigla l’imperterrito stile di chi si sentì sempre lontano dal marciare alle parole d’ordine del presente. Mentre i temi inscenati da Cechov nella storia della cagna Kaštanka, che si perde per le vie del mondo scoprendo esperienze e personaggi con suprema freschezza di sguardo, riporta, come segnala l’ottimo Maccari, a quella Favola che chiude la raccolta Il Mar delle Blatte: ma con una virata metafisica, di allegoria inconclusa, laddove l’autore russo si attesta sull’aneddotico nel segno di una calda tenerezza. E non serve ricordare l’importanza assunta da un bestiario quantomai polimorfo (dai cani ai ragni, ad altri «animalini») in un’opera tra le più magnetiche della nostra letteratura. In una borgesiana coincidenza a ritroso, in cui lo scrittore italiano quasi crea il proprio predecessore, il curatore evidenzia tra una lettera di Cechov e un eccelso racconto landolfiano, La beccaccia, una situazio-ne esattamente parallela: dove lo sguardo non si sa se implorante o alieno dell’animale che non riesce a morire scatena una tensione lancinante.
Come la scrittura è affetta da «mal di vuoto», la traduzione vive di per sé di insufficienza: «che farci», scriverà altrove Landolfi, «se la poesia è cosa tanto universale da restare in larga misura avvinta alle particolarità di una lingua?». Non è il solo caso in cui l’impossibile si configuri come per ciò stesso necessario. Più che interrogarsi su agonismo o discepolato nel cimento traduttivo, non va trascurato (e Maccari lo sottolinea) che forse Cechov rappresentava per Landolfi una possibilità di vivere e di essere scrittore, per via dell’«estrema pulizia della sua posizione artistica», assorbita solo dalla verità poetica del proprio fare, intrinsecamente morale.
Quanto alla lezione che di quell’esperienza permane viva, sarebbe riduttivo identificarla nel torcere il collo al realismo. È stato Landolfi stesso, in quella straordinaria soglia indiretta che è la sua introduzione a Narratori russi, a dirci che quegli scrittori hanno avuto il coraggio di guardare i fantasmi ridicoli o minacciosi del reale nei loro volti senza volto. La letteratura, giova ricordarcene oggi, è meno in quanto si dà di risolto e comunicabile che nella tensione verso qualcos’altro che contesta ma è duramente infitto nel reale – sull’onda di una lingua congegnata come un’armatura, condensata e catafratta in parole-bestie, parole-fantasmi.

“il manifesto”, 11 agosto 2012

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