31.12.15

Riforma costituzionale. Le ragioni del No (Mauro Volpi)

A fine ottobre si è costituito a Roma il Comitato per il No in vista del referendum costituzionale sulla legge in corso di approvazione che modifica una cinquantina di articoli della Costituzione. Il Comitato è presieduto da un consiglio direttivo del quale fanno parte una quarantina di costituzionalisti, giuristi, uomini di cultura. Il referendum, in base all’art. 138 della Costituzione, può essere chiesto da un quinto dei membri di una Camera, cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali qualora la legge sia approvata con la maggioranza assoluta ma inferiore ai tre quinti dei componenti sia alla Camera che al Senato. Si tratta quindi di un atto di controllo che assume valore oppositivo al testo approvato dalla maggioranza e non richiede alcun quorum di partecipazione per la sua validità (come il 50%+1 degli elettori previsto per il referendum abrogativo). Il referendum è praticamente sicuro in quanto al Senato è escluso che possa esservi la maggioranza dei due terzi. Naturalmente Renzi ha cercato di metterci il cappello, dichiarando la sua intenzione di sottoporre la legge al referendum, come se questa fosse una sua “graziosa” concessione e non un diritto riconosciuto alle opposizioni e quindi cercando di trasformare il voto popolare in un plebiscito a favore del Governo.
Ma a che punto è l’iter della cosiddetta “riforma” costituzionale? Dopo il primo voto favorevole del Senato (8 agosto 2014) e della Camera (10 marzo 2015), il Senato il 13 ottobre ha approvato con alcune scarne modifiche un testo che, in quanto ritenuto intoccabile da Governo e maggioranza, sarà sicuramente approvato da entrambe le Camere nei primi mesi del nuovo anno. Quindi il referendum, dati i tempi necessari per richiesta, controllo e indizione, si svolgerà nell’autunno del 2016.
Gli emendamenti approvati dal Senato che hanno indotto la minoranza del Pd a dare il proprio voto favorevole (pur con qualche lodevole eccezione) sono stati indicati dal senatore Chiti in una lettera pubblicata da “la Repubblica” il 21 ottobre. La modificazione più rilevante riguarderebbe l’elezione del Senato, che spetterebbe ormai ai cittadini con una successiva ratifica dei Consigli regionali. Dal punto di vista formale l’emendamento che fa riferimento alle “scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo” degli organi “dai quali sono stati eletti” è stata inserito non nella sua sede naturale, il comma 2 del nuovo art. 57 che continua a stabilire l’elezione dei senatori da parte dei Consigli regionali, ma nel comma 5 che riguarda la durata in carica dei senatori. A tal proposito Bersani ha parlato di “bizantinismi costituzionali”. Ma si tratta in realtà di una mortificazione del testo della Costituzione, che i nostri padri costituenti vollero il più chiaro e accurato possibile, anche facendo ricorso a competenze linguistiche e letterarie (come quelle di Pietro Pancrazi e di Concetto Marchesi). Questo modo di procedere, oltre a creare problemi di comprensione del testo, finisce per degradare la Costituzione ad un regolamento di condominio, nel quale quella che conta è la volontà dei condomini comunque espressa.
Nella sostanza la modificazione in questione è profondamente ambigua: il termine impiegato “scegliere” non è come “eleggere”, ma implica solo che gli elettori saranno chiamati a dare un’indicazione non necessariamente vincolante per i Consigli regionali. Le modalità di elezione saranno stabilite da una futura legge bicamerale e dalle normative elettorali di attuazione delle Regioni. E qui si annidano problemi che rendono altamente improbabile l’elezione popolare dei senatori. Infatti come conciliare la previsione del comma 5 con quella che al comma 2 stabilisce che l’elezione dei consiglieri-senatori avvenga “con metodo proporzionale” e ancora di più con la previsione di cui al comma 6 che i seggi siano attribuiti “in ragione dei voti espressi e della composizione di ciascun Consiglio”? Evidentemente il Ddl quando parla di proporzionalità fa riferimento alla consistenza dei gruppi consiliari e aggiunge poi una condizione, quella dei “voti espressi” già di per sé difficilmente conciliabile con quel criterio, visto che tutte le leggi elettorali regionali attribuiscono un premio di maggioranza consistente che altera notevolmente la proporzionalità nella trasformazione dei voti in seggi. Si aggiunga poi la difficoltà derivante dal fatto che in otto Regioni (tra le quali l’Umbria) e nelle due Province autonome saranno eletti solo due senatori (di cui uno sindaco e quindi non derivante dalle “scelte” degli elettori del Consiglio regionale). Per dare attuazione ad una improbabile elezione popolare si è parlato di reintroduzione di listini regionali collegati ai candidati-presidenti, con ciò riesumando un pessimo istituto che consentiva l’elezione a consigliere di personalità collegate al candidato vincente non soggette ad alcun voto popolare. Si è ventilato allora il ricorso al voto di preferenza, ma in tale ipotesi può accadere che il candidato che ha avuto un maggior numero di preferenze popolari sia escluso a vantaggio di quello meno “preferito”, ma appartenente ad una lista più forte, magari perché collegata al candidato-presidente vincente, e quindi legittimata ad esprimere il senatore in applicazione del “metodo proporzionale”.
In questo grande pasticcio una sola cosa è certa: il nuovo Senato, a meno di ipotizzare un improponibile scioglimento simultaneo di tutti i Consigli regionali, sarà costituito a tappe. Quindi, se la legislatura giungesse al suo termine naturale, anche ipotizzando che la legge bicamerale sulle modalità di elezione dei senatori sia approvata entro sei mesi dalla entrata in vigore della legge costituzionale e le conseguenti normative elettorali regionali entro i novanta giorni successivi, i consiglieri-senatori potrebbero essere “scelti” dal corpo elettorale solo nelle cinque Regioni il cui Consiglio scade entro la primavera del 2018 (Lombardia, Lazio, Molise, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia), mentre in tutte le altre i consiglieri sarebbero eletti come senatori dai rispettivi Consigli senza alcuna “scelta” da parte del corpo elettorale. In termini numerici ciò significa che sui 74 senatori-consiglieri ben 51 sarebbero eletti dai Consigli in sede di prima applicazione della legge. A questi sono da aggiungere i 21 sindaci la cui elezione spetta ai soli Consigli regionali. Insomma nel primo Senato costituito dopo l’entrata in vigore della legge costituzionale su 95 senatori elettivi 72 sarebbero eletti dai Consigli senza alcuna indicazione da parte degli elettori. Rimane inoltre intatta la scelta di fondo che i senatori elettivi siano consiglieri regionali o sindaci e non i cittadini, come avviene in quasi tutti gli ordinamenti che prevedono una seconda camera eletta indirettamente. Il cumulo delle cariche sarebbe assolutamente negativo per il buon esercizio delle funzioni e l’autorevolezza dei futuri senatori sarebbe notevolmente ridotta rispetto a quella che all’interno del sistema delle Conferenze (Stato-Regioni e Stato-Città-Autonomie locali) possono giocare i presidenti delle Regioni e i sindaci delle grandi città. Quanto alle funzioni della seconda Camera, nelle modificazioni apportate dal Senato le novità sono esigue. Per quelle legislative rimane la contraddizione tra funzioni bicamerali, che comprendono le leggi costituzionali, e un Senato non eletto direttamente dal popolo, ma formato da consiglieri regionali, titolari di competenze legislative ridimensionate, e da sindaci, che di competenze legislative non ne hanno alcuna. Anche la restituzione al Senato del potere di eleggere due dei cinque giudici costituzionali di nomina parlamentare non si giustifica affatto alla luce della composizione debole e indiretta della seconda Camera e più in generale solleva perplessità la possibile configurazione dei due giudici come “avvocati delle Regioni”. Quanto alle proposte del Senato sulle leggi di competenza della Camera, potranno essere agevolmente messe nel nulla dalla maggioranza dei deputati, saldamente nelle mani di un solo partito in base alla nuova legge elettorale. In definitiva il principale risultato da attendersi è che i numerosi procedimenti legislativi previsti dal Ddl, a seconda delle diverse modalità di intervento del Senato, verranno a costituire una enorme complicazione (altro che semplificazione!) e potranno essere fonte di una improduttiva conflittualità. Quanto alle novità per cui il Senato non “concorre alla valutazione”, ma “valuta le politiche pubbliche e l’attività delle pubbliche amministrazioni e verifica l’impatto delle politiche dell’Unione europea sui territori”, si tratta di formule generiche che potranno essere riempite o svuotate dalle future leggi approvate dalla maggioranza della Camera che dovranno darvi attuazione.
Rimane poi del tutto aperta la questione della elezione degli organi di garanzia. Infatti la riduzione drastica del numero dei senatori, mentre viene mantenuto l’attuale numero dei deputati (alla faccia del tanto decantato risparmio!), riduce la valenza dei quorum stabiliti per l’elezione dei titolari di organi di garanzia. Per il presidente della Repubblica già la Camera aveva elevato il quorum ai tre quinti dei componenti del Parlamento in seduta comune, ma dopo il settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
Diventa quindi possibile “il rischio di un capo dello Stato «scelto» da chi vince le elezioni” (come ha spiegato D’Alimonte, sostenitore della riforma, su “Il Sole 24 Ore” del 29 settembre 2015). E evidente che in un contesto di tipo maggioritario, nel quale una maggioranza più che assoluta della Camera è fabbricata artificialmente dall’attribuzione di un premio abnorme, le maggioranze qualificate per poter effettivamente garantire devono essere calcolate sul numero non dei votanti (che può essere ridotto da compiacenti non partecipazioni al voto) ma dei componenti.
Infine le uniche novità relative alle Regioni riguardano il cosiddetto “regionalismo differenziato”. Fra le materie che possono essere attribuite alle Regioni in condizioni di equilibrio tra entrate e spese con legge approvata dalle Camere sulla base di intesa tra lo Stato e la Regione interessata, vengono inserite le “disposizioni generali e comuni per le politiche sociali” e il “commercio con l’estero”. Il rischio è che in questo modo si dia vita ad un puzzle indigeribile e difficilmente accettabile da parte dei cittadini, che non sono certo responsabili delle scelte finanziarie operate dalla Regione nella quale risiedono. L’unica cosa certa è che viene operata una ri-centralizzazione dei poteri che comprime il ruolo delle Regioni e ne riduce l’autonomia finanziaria (già compromessa dalla legge costituzionale n. 1 del 2012 sul cosiddetto “pareggio di bilancio”).
In conclusione restano intatte le ragioni di fondo che giustificano una dura opposizione. Dalla combinazione tra legge elettorale “italica” e “riforma” costituzionale deriverebbe un cambiamento surrettizio della forma di governo da parlamentare a iperpresidenziale (non “presidenziale”, in quanto priva dei contrappesi che caratterizzano il sistema di governo degli Stati Uniti) o a “Premierato assoluto”, per richiamare l’espressione con la quale Leopoldo Elia bollò nel 2005 la riforma della seconda parte della Costituzione approvata dall’allora maggioranza di centrodestra e poi bocciata sonoramente nel referendum popolare del 25/26 giugno 2006. Lo stesso impegno occorre oggi spendere per respingere con il voto la controriforma ideata da Renzi e Berlusconi e portata avanti anche con il sostegno degli ascari di Verdini, che mette in discussione gli equilibri costituzionali e quindi la tenuta del sistema democratico.

"micropolis", dicembre 2015

Botti e illegalità. I fulmini di Zeus (micropolis dicembre 2015)

Il negozio “Zeus Party” di Ellera di Corciano, specializzato in fuochi d’artificio, era già più volte assurto agli onori della cronaca in relazione a presunti commerci di botti illegali. Stavolta il titolare, Marco Baldoni, è finito agli arresti domiciliari per una vicenda di tipo diverso. A denunciarlo è stato un suo dipendente, un ragazzo di 22 anni, il quale, avendo protestato per il mancato pagamento degi straordinari e per essersi vistosi negare i dovuti giorni di riposo, ha ricevuto dal datore di lavoro un immediato avviso di licenziamento. Oltre a cacciarlo su due piedi, Baldoni gli avrebbe intimato di rinunciare ad un quarto del Tfr, altrimenti glielo avrebbe negato del tutto denunciandolo. In banca, dove il dipendente avrebbe dovuto incassare i 4.000 euro di liquidazione e subito dopo versarne mille a Baldoni, li aspettavano poliziotti e carabinieri, che, su denuncia del dipendente, avevano assistito a tutta la scena.
Così Baldoni si è ritrovato con le manette ai polsi.
Non ci vuole un grande intuito per capire che questa vicenda è esemplare circa il funzionamento odierno delle relazioni di lavoro: per uno che viene denunciato e scoperto ce ne saranno molti che la fanno franca e considerano questo atteggiamento normale.
Dati i tempi e le opinioni correnti, del resto, si può anche ipotizzare che Baldoni si difenderà dalle accuse invocando il principio della modernità e dell’innovazione, appellandosi - oltre che allo spirito del jobs act - all’autorevole parere del Ministro del Lavoro.
Non ha infatti Poletti, pochi giorni or sono, dichiarato che l’orario di lavoro è un concetto superato (lo dicevano già i Faraoni al tempo della costruzione delle piramidi)? Figuriamoci se non è superato il Tfr, questa barbara usanza di ritenere proprietà del lavoratore le quote di salario amorevolmente conservate mese dopo mese per lui dal datore di lavoro.
Per non parlare del nucleo dei carabinieri dell’ispettorato del lavoro, retaggio di un’Italia illiberale e pessimista.
E sì, nonostante le mirabolante imprese finora realizzate, sulla strada della modernizzazione del paese il governo Renzi ha ancora molto cammino da compiere.


dalla rubrica “Il fatto”

Regione Umbria e banche. Silenzio colpevole (micropolis dicembre 2015)

Prima la Banca popolare di Spoleto. Era controllata dalla Credito e servizi di cui era patron Giovanni Antonini. Commissariata dalla Banca d’Italia, aperto un procedimento nei confronti di Antonini, l’istituto centrale impone la cessione all’altrettanto chiacchierata Banca popolare di Desio. Gli azionisti penalizzati (ma in realtà Antonini) ricorrono alla Procura della Repubblica che apre un procedimento a carico dei vertici della Banca d’Italia. Conclusione: due processi in corso di cui si attende la conclusione che non sarà rapida. Ora le quattro popolari in causa di cui due, Banca Etruria e Banca delle Marche, con una corposa presenza in Umbria soprattutto nelle aree di confine, ma non solo. Non si riesce naturalmente a sapere quanti risparmiatori siano stati truffati - molti, vedendo i partecipanti alle assemblee convocate dalle associazioni dei consumatori - né si conosce l’entità delle perdite. La congiura del silenzio messa in atto da amministratori e mezzi di comunicazione è stata interrotta solo quando il clamore del caso ha conquistato le prime pagine dei giornali nazionali. Fatto sta che le aree che hanno subito le perdite maggiori sono quelle della fascia appenninica (Sigillo, Nocera, Gualdo), già provate dalla crisi e dove il risparmio rappresentava, spesso, la valvola di sfogo alle difficoltà delle economie locali. In alcuni casi agricoltori e piccoli artigiani avevano bloccato in banca piccoli capitali in attesa di usarli come cofinanziamento per i prossimi piani rurali e delle aree interne. Insomma sono stati colpiti non solo i risparmi, ma anche potenziali mezzi d’investimento.
Di fronte a ciò la Regione tace con cura. La presidente Marini in visita a Gualdo Tadino si è ben guardata da fare accenno all’affaire, il Consiglio regionale se l’è cavata votando all’unanimità un ordine del giorno che raccomanda di trovare qualche sollievo o “ristoro” per i risparmiatori. Niente di più: non ha competenze. I sindaci non vanno alle assemblee e quando ci vanno sono naturalmente silenti. Tranne le associazioni dei consumatori nessuno organizza e mobilita i truffati. Intanto lo scandalo monta, il governo balbetta, le istituzioni di garanzia (Banca Italia e Consob) sono sotto accusa. Insomma siamo di fronte a bombe a grappolo che esplodono una dopo l’altra, tra le gambe di chi decide, anche degli amministratori umbri a cui non passa neppure per l’anticamera del cervello di mettere in moto azioni di contrasto nei confronti dei poteri bancari e delle scelte governative, a garanzia di risparmiatori e piccole imprese. La paura non confessata è dare qualche dispiacere al governo e allo statista di Rignano. Meglio tacere, sperando che passi la tempesta. Tanto “non abbiamo poteri d’intervento e responsabilità”.

L'articolo è un redazionale non firmato, ma è attribuibile a Renato Covino.

Portami il girasole. Una poesia di Eugenio Montale

Portami il girasole ch'io lo trapianti
nel mio terreno bruciato dal salino,
e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti
del cielo l'ansietà del suo volto giallino.

Tendono alla chiarità le cose oscure,
si esauriscono i corpi in un fluire
di tinte: queste in musiche. Svanire
è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce
dove sorgono bionde trasparenze
e vapora la vita quale essenza;
portami il girasole impazzito di luce.


Da Ossi di seppia,1925

30.12.15

Umbria. Scherza con i fanti e lascia stare i santi (micropolis dicembre 2015)

Norcia. Il monumento a San Benedetto
Claudio Ricci, capo del centrodestra, propone la menzione di San Francesco e San Benedetto nello Statuto regionale. Voto bipartisan: 14 favorevoli e 4 astenuti. Smacchi (Pd) propone che si decida il quando e il come in commissione consiliare competente. E le donne? Santa Rita e Santa Chiara? Pare che il comitato pari opportunità sia già sul piede di guerra.


dalla rubrica "Il piccasorci"

Assisi. Gli invitati alla mensa del Signore (micropolis dicembre 2015)

Beati gli invitati alla mensa del Signore! Nel giubileo della misericordia qualcuno ha pensato ad una istallazione ragguardevole: un vero barcone di migranti ai piedi dell’albero di Natale, nella piazza della basilica inferiore di S. Francesco, con tanto di bottiglie di plastica vuote e giubbotti salvagente. Idealmente i profughi erano tutti lì, nel caldo abbraccio fraterno (appunto) dei frati. 
Solo idealmente però, all’agape che ha seguito il concerto di Natale, nell’affollatissimo, di Vip e prelati, refettorio, nessuno di loro ha trovato posto.

dalla rubrica "Il piccasorci"

Umbria. Un'amministrazione regionale inutile (micropolis dicembre 2015)

Riprendo da “micropolis”, il mensile umbro che esce con “il manifesto”, un editoriale molto amaro sull'amministrazione del “cuore verde d'Italia!”, non firmato, ma attribuibile allo storico Renato Covino. Ho il sospetto che anche altrove le Regioni e i Comuni funzionino allo stesso modo. (S.L.L.)
Un'immagine di Terni
Ci mancavano solo le polveri sottili, nei confronti delle quali le amministrazioni comunali di Terni e Foligno, come del resto quelle di altre aree d’Italia, non riescono a trovare soluzioni efficaci sia pur provvisorie, per aggiungere precarietà ad una situazione già precaria. Esse sono la dimostrazione palese di come l’Umbria e le sue città siano ormai entrate a far parte della storia del paese, perdendo ogni aureola di diversità. Le polveri sono il frutto di problemi lasciati a lungo marcire, rispetto ai quali nessuno ha saputo o voluto prendere per tempo misure efficaci. Il gioco è sempre quello. Minimizzare, occultare, scaricare le responsabilità del presente e del passato. Così è su tutto.
La Gesenu e i suoi vertici vengono posti sotto inchiesta con il sospetto di essere collusi con circuiti criminali? “Noi non c’entriamo niente, è colpa di altri, semmai siciliani e sardi”; per fare una commissione d’inchiesta c’è voluto del bello e del buono: “Non vorremmo intralciare il lavoro della magistratura”. La statale della Val di Chienti si rivela un verminaio di furti e corruzione e viene messa sotto inchiesta dalla magistratura? “Noi non abbiamo colpe, chiedete all’Anas”, la governatrice si limita a tagliare nastri. Scoppia lo scandalo della truffa delle banche? Ci si limita a votare tutti insieme un ordine del giorno, per il resto muti come pesci: “Non abbiamo competenze”, anzi si alimenta la congiura del silenzio. Scoppia nell’orvietano la questione della geotermia ed arriva in Regione? Si blocca ogni decisione e parere in attesa che decida il governo per poter dire ancora una volta: “Non possiamo far nulla”, come si sa ubi maior minor cessat. Se scioperano i lavoratori della sanità è cosa che non riguarda la Regione, come poco la riguardano le situazioni di crisi. Gli esempi potrebbero continuare con il Piano trasporti, l’assenza di discariche, la questione degli inceneritori e via dicendo. Nessuna reazione, nessuna vicinanza con i cittadini, con i lavoratori, con le vittime delle banche.
Di cosa si occupi la Regione se non della macroregione e di battibecchi con le minoranze, in primis con i pentastellati, è cosa arcana, oscura. Ma forse questa nonchalance dipende dalla convinzione che le cose stanno migliorando. Del resto non stanno aumentando i consumi degli umbri? Il turismo non è cresciuto? Le produzioni tipiche non stanno sfondando sui mercati internazionali? Persino i cinesi sono innamorati dell’Umbria. Basta migliorare l’efficienza e l’efficacia della macchina pubblica, accorpare, centralizzare, razionalizzare e tutto si rimetterà a posto; poi arriveranno i soldi dell’Europa che aiuteranno la ripresa. Già, la ripresa, l’impresa creativa, le start up. Solo che gli ultimi dati Istat attestano una crescita del Pil regionale pari ad un +0,4% dopo anni neri di recessione, quando le previsioni nazionali erano stimate al +0,9%; i salari annui medi lordi sono poco al di sopra dei 25 mila euro, al penultimo posto in Italia; disoccupati e cassaintegrati non accennano a diminuire. Insomma gli indicatori economici non dovrebbero suscitare molto ottimismo. Allora perché non se ne prende atto, non si prova a dare una risposta, non si tenta almeno di fare quel poco che si può per alleviare una situazione critica? Perché non si dice la verità? I motivi sono vari e diversi.
Il primo è la convinzione di essere sostanzialmente impotenti di fronte alla crisi e ai vincoli dell’Unione Europea. Al massimo si può limitare il danno. Il secondo è una sorta di cupidigia di servilismo - come affermò Vittorio Emanuele Orlando a proposito dell’atteggiamento di un governo centrista presieduto da De Gasperi nei confronti degli Usa - nei confronti del governo e dei poteri centrali. Il terzo è il fatto che oggi la politica locale non viene più concepita come arte del possibile, ma come amministrazione dell’esistente.
Infine maggioranza e governo regionali sono completamente interni alla narrazione renziana, compresa la versione che nega un ruolo di qualche rilevanza alle autonomie locali, riducendole a passa ordini o meglio a passa carte, luoghi di corruttela da risanare.
Se è così appare evidente che questa amministrazione regionale, come del resto gran parte delle altre, sia da una parte un orpello dall’altra testimoni la sua evidente inutilità. È destinata a fare poco e nulla, aiutata in questo dallo stato desolante delle finanze pubbliche, dal discredito che gode tra i cittadini, da una disaffezione crescente che attraversa la società nei confronti delle istituzioni. Gli umbri sanno ormai di non poter più contare sui loro rappresentanti e in sempre meno si recano a votare, pensano - in parte sbagliando - che la politica non sia più in grado di aiutarli a uscire dalle difficoltà del presente, si rifugiano nelle famiglie e nelle comunità dove operano vincoli solidaristici spesso primitivi.

Comuni e Regioni sono percepiti come luoghi ostili, a cui pagare tasse e balzelli sempre più alti, che erogano sempre meno servizi, dove imperano burocrazia e procedure a volte assurde. Si dirà che non è vero, che non sono tutti uguali, che esistono differenze sostanziali tra destra e sinistra, tra populismo e capacità di governo. Se è così si provi a spiegarlo ai governati, ai cittadini. Sarebbe perlomeno un utile esercizio di umiltà.

28.12.15

La poesia del lunedì. Trilussa (1871-1950)


FELICITÀ
C'è un'Ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va...
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

da Acqua e vino, Mondadori, 1951

26.12.15

Il peggiore di tutti. La svolta a destra di Hollande (Rino Genovese)

È piuttosto grave quello che sta accadendo in Francia dopo il 13 novembre. Un presidente debole, inconsistente, a questo punto forse il peggiore di una Quinta repubblica che pure ne ha visti di pessimi, ossessionato dalla probabile esclusione al secondo turno delle presidenziali nel 2017 – in cui l’unica speranza di rielezione starebbe nel ritrovarsi allo spareggio finale contro Marine Le Pen, riuscendo a convogliare su di sé i voti “repubblicani” –, il mediocre politicante che aveva promesso di lasciare il posto a un altro candidato se avesse fallito nella lotta alla disoccupazione (e la disoccupazione non è per nulla diminuita), sta cercando di cavalcare gli attentati e la paura dei francesi per rilanciarsi come competitore a destra. Non mi riferisco alla proposta di inserire nella costituzione la norma sullo stato di emergenza – una versione francese del Diktaturparagraph, l’articolo 48 della Costituzione di Weimar che permise a Hitler di instaurare il proprio potere per via legale –, o non soltanto a questa (deprecabile ma che sarebbe addirittura il meno, una volta che ci si senta sicuri del fatto che la solidità della democrazia ha espulso da sé il pericolo della dittatura), quanto piuttosto alla volontà d’introdurre nell’ordinamento la “decadenza dalla nazionalità” ai danni di quei francesi condannati per terrorismo che abbiano una doppia cittadinanza. Ora, chi sono questi cittadini che, pur nati in Francia, hanno una doppia nazionalità? Al novanta per cento sono i figli dell’immigrazione post-coloniale. In questo modo, nella République dotata della civiltà dello ius soli, per cui chi nasce sul territorio francese è per ciò stesso francese, si verrebbe a creare un cittadino di serie B, che può decadere, rispetto a uno di serie A che non lo può. Non c’è che dire, una bella declinazione del principio di eguaglianza davanti alla legge.
Molto giustamente Le Monde scrive che questo vuol dire rendere banale la xenofobia dell’estrema destra. La proposta della “decadenza dalla nazionalità” viene infatti da Marine Le Pen, poi ripresa da Sarkozy, mentre la sinistra vi si è sempre opposta. A pensarci bene, non è neppure una misura puramente simbolica – dopotutto, dice qualcuno, che cosa volete che gliene importi a un terrorista votato al martirio della nazionalità francese? –, è una scelta politica che suonerà alle orecchie di quella fetta di popolazione che vive nelle banlieues, e si sente esclusa, come una conferma dell’esclusione: vedete come vi trattano – potranno dire i predicatori del jihad –, che aspettate a convertirvi? La scelta è politica perché significa che, all’inconsistente presidente di cui sopra, sta bene perfino rischiare l’incremento del reclutamento jihadista pur d’inseguire la destra e tentare, così, di porsi come il competitore di Marine Le Pen nel 2017. Il calcolo è meschino, magari anche sbagliato, in quanto induce una parte dell’elettorato di sinistra e un’intera comunità – quella musulmana – all’astensione: sicché si può finire col perdere da una parte quello che si guadagna dall’altra, ma poco importa: fare la faccia feroce dopo un attentato è ciò che prescrive il manuale del buon politicante.
C’era invece, nel programma del candidato socialista alle elezioni presidenziali del 2012, la proposta del diritto di voto agli stranieri. Naturalmente è rimasta lettera morta – ma sarebbe stata questa una risposta d’inclusione, un segnale contro il malessere che regna nelle periferie della metropoli post-coloniale. Un presidente minimamente serio l’avrebbe ripresa proprio all’indomani degli attentati del 13 novembre, al fine di spingere quella parte della popolazione francese che si sente abbandonata dalla République a non sentirsi più tale. Includere per prevenire – ecco lo slogan che si sarebbe dovuto lanciare. Si è fatto tutto il contrario, rinunciando ai propri valori. Bisognerà vedere se ciò servirà al Partito socialista a comprendere che è venuto il momento di ribellarsi cambiando il candidato alle prossime elezioni presidenziali.

dal sito de "Il Ponte", 25 dicembre 2015

25.12.15

Il libertinaggio (Pier Paolo Pasolini)

"...il libertinaggio non esclude affatto la vocazione pedagogica. Socrate era libertino: da Liside a Fedro i suoi amori per i ragazzi sono stati innumerevoli. Anzi, chi ama i ragazzi, non può che amare tutti i ragazzi (ed è, appunto, questa la ragione della sua vocazione pedagogica)".

Dalla recensione a L'omosessualità (Daniel- Baudry, Vallecchi, 1974) in "Tempo illustrato", 26 aprile 1974, poi in Scritti corsari (Garzanti, 1975).

22.12.15

La poesia di lunedì 21 dicembre 2015. Nazim Hikmet

Nazim Hikmet in un francobollo commemorativo delle poste sovietiche
Angina pectoris
1948
Se qui c’è la metà del mio cuore, dottore,
l’altra metà sta in Cina
nella lunga marcia verso il Fiume Giallo.
E poi ogni mattina, dottore,
ogni mattina all’alba
il mio cuore lo fucilano in Grecia.
E poi, quando i prigionieri cadono nel sonno
quando gli ultimi passi si allontanano
   dall’infermeria
il mio cuore se ne va, dottore,
va in una vecchia casa di legno, a Istanbul.
E poi sono dieci anni, dottore,
che non ho niente in mano da offrire al mio popolo
niente altro che una mela
   una mela rossa, il mio cuore.

È per tutto questo, dottore,
e non per l’arteriosclerosi, per la nicotina, per la prigione,
che ho quest’angina pectoris.
Guardo la notte attraverso le sbarre
e malgrado tutti questi muri
che mi pesano sul petto
il mio cuore batte con la stella più lontana.

Postilla
Poesia scritta nel carcere che in Turchia ospitò il poeta dal 1938 al 1950 per la sua opposizione di comunista, postata alle ore 0,34 di martedì 22 dicembre, in lieve ritardo, per inconvenienti tecnici.

19.12.15

Il Pci all'inizio degli anni sessanta (Lucio Magri)

Il Pci arrivava agli inizi degli anni sessanta in condizioni promettenti. Rappresentava ormai un quarto degli elettori e conservava quasi due milioni di iscritti, per lo più attivi; era parte di un movimento internazionale che governava un terzo del mondo, ma nel quale aveva finalmente acquisito una propria autonomia; raccoglieva simpatia, o almeno attenzione, nei paesi e nei movimenti che si stavano liberando dal colonialismo; manteneva un’influenza rilevante nel sindacato senza più considerarlo una «cinghia di trasmissione»; era incoraggiato, e a sua volta incoraggiava, una classe operaia più estesa e che dava nuovi segnali di combattività; incontrava una generazione politicizzata e un’intellettualità nella quale finalmente penetrava un marxismo non più dogmatico e canonico; avviava un dialogo con minoranze cattoliche gradualmente affrancate dall’anticomunismo «assoluto» di papa Pacelli; governava con buoni risultati, oltre la corretta amministrazione corrente, importanti regioni del paese. Soprattutto era ormai unito e convinto su una strategia univocamente definita, almeno nei suoi princìpi, dall’VIII congresso: la «via italiana». Era ancora inchiodato all’opposizione dai vincoli imposti all’Italia dalle alleanze già contratte, ma il nuovo rapporto di forza mondiale lo garantiva da un intervento americano armato, se e quando avesse conquistato un ruolo di governo in modo pacifico e legale. Tutto questo lo obbligava e gli permetteva di verificare con i fatti, almeno nel medio periodo, se la «via democratica al socialismo» era praticabile in Occidente, portava là dove voleva andare, senza perdersi per strada.
Si apriva quindi per il Pci, per quel Pci, una partita nuova, nella quale erano in gioco l’identità faticosamente costruita e la sua futura esistenza. Anzi, a ben vedere, la posta era ancora più alta. Perché proprio in quel momento, se non interveniva in Occidente qualche mutamento, se lo scontro fra i blocchi restava solo una «guerra condotta con armi nuove», in altre parti del mondo (in Urss o nei paesi non allineati) potevano presto prevalere, e già si intravedevano, tendenze di ripiegamento o di divisione. Forse solo in Italia sembravano esistere alcune condizioni - forze e volontà - per avviare un tale mutamento.

Ma era realmente una partita aperta? Cinquant’anni dopo, sappiamo come si è conclusa. Il Pci, come forza organizzata e come pensiero compiuto, è morto. E pressoché nessuno ne rivendica l’eredità. Non è morto per un improvviso colpo apoplettico, cioè trascinato nel crollo dell’Unione Sovietica, dalla quale aveva da tempo preso le distanze. Né per estenuazione, perché ha mantenuto fino alla scomparsa una forza elettorale notevole (il 28%), e un peso nella società e nel sistema politico. E morto per libera scelta, con l’ambizione di un «nuovo inizio». Quel nuovo inizio non c’è stato, e ormai è chiaro a tutti che, se anche avesse avuto maggiore successo, sarebbe stato l’inizio di una cosa del tutto diversa. Questo è un fatto: così evidente e ormai così duraturo che non si può rimuovere, ma che va spiegato. Perché una forza che negli anni sessanta raggiungeva la propria maturità, era ancora in piena ascesa e si impegnava in un tentativo originale e ambizioso, dopo anni di ulteriori successi cominciò a declinare, fino a dissolversi?

da Il sarto di Ulm, Il Saggiatore, 2009

Washington 1848. Il presidente Polk lancia la corsa all'oro di California

James Knok Polk, Presidente USA 1845-1849
Le relazioni parlano di una tale abbondanza del metallo in quella regione, da sembrare al di là del credibile se non fossero suffragate da testimonianze dirette!

Dal discorso al Congresso, 5 dicembre 1848

La responsabilità della guerra (Gaetano Salvemini)

Inutile andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e non dall’Italia. Certo il popolo italiano non volle la guerra, se si intende tutto il popolo.
Ma i generali, gli ammiragli, i grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i professori d’università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto quel lerciume accettò la guerra, e parecchi altri la vollero finché credettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra. Bisogna, dunque, smetterla con questa balla che l’Italia non è responsabile.


Lettera a Ernesto Rossi e Leo Valiani, 10 agosto 1946

17.12.15

Scuola di Rozzano, tra ignoranza e manipolazione (Alba Sasso)

Maria Stella Gelmini canta "Tu scendi dalle stelle"
La cosa più surreale a cui ci è capitato di assistere a seguito della vicenda di Rozzano è Maria Stella Gelmini, ex ministro dell’istruzione della Repubblica italiana, che canta «Tu scendi dalle stelle» davanti alla scuola.
In quella scuola dove nessuno ha rimosso crocifissi, o cancellato eventi programmati, come pacatamente ha spiegato il dirigente. Solo un rifiuto legittimo alla richiesta di alcune mamme che chiedevano di entrare a scuola nell’intervallo del pranzo per insegnare le canzoncine religiose ai bambini.
E dunque la canea davanti alla scuola con madri che agitano una statua del bambinello, o chiedono l’intervento di Salvini (come rappresentante della cristianità?), o accusano i musulmani di essere tutti terroristi la dice lunga sullo stato di confusione, che mescola paura e ignoranza, di una parte non piccola del nostro paese. Rinfocolata dallo stupido cinismo di alcuni esponenti politici, e dall’abitudine a rimestare nel torbido dei sentimenti popolari più rozzi di una parte importante dell’informazione, soprattutto televisiva, assolutamente indegna di svolgere questo ruolo.
Qualche settimana fa abbiamo pensato di vivere in un’altra Italia, in un altro mondo. Quando tutti hanno rispettato e applaudito la scelta dei genitori di Valeria Solesin di volere una cerimonia civile (non laica) per rendere l’ultimo saluto alla loro figlia. Un’occasione straordinaria di incontro e di condivisione tra storie, culture, religioni. Una speranza di futuro.
È una questione di cultura. Nella nostra scuola gli alunni con cittadinanza non italiana sono una forte presenza, anche se non uniformemente distribuita. Concentrata in alcune zone del Paese, soprattutto nel centro nord. Le statistiche ci dicono che di quel 9% complessivo di bambini e ragazzi, presenti in ogni ordine di scuola, ma soprattutto nella scuola dell’infanzia e nella primaria, il 47% è nato in Italia. Ci dicono anche che il loro apprendimento scolastico continua a migliorare, che parlano bene la lingua italiana, ma non rinunciano alle loro tradizioni, insomma alla loro identità.
Ma la gestione dell’integrazione (un obbligo di civiltà, diceva Ernesto Balducci) è affidata alle trincee. E guai a sbagliare. Ministri e giornalisti illuminati hanno sostenuto il valore potente dell’educazione per realizzare l’integrazione tra culture, ma soprattutto il legame con i propri simboli a cominciare dal presepe. Occorrerebbe però andare più avanti. Come più avanti è la scuola reale, perché ogni giorno deve affrontare questi problemi. Giusta o sbagliata che sia la scelta del preside Palma, Rozzano è solo la punta di un iceberg. Perché la scuola italiana , che è ancora nella sua struttura profonda scuola a una dimensione culturale e religiosa, ogni volta che si presenta un problema di “diversità” deve affrontare le paure e le insicurezze proprie, ma soprattutto delle famiglie. Basti pensare a cosa è successo sul tema “gender”.
Ma da quanto tempo si chiede di introdurre nelle scuole lo studio delle religioni che significherebbe offrire strumenti di conoscenza, di riflessione, di confronto? Sarebbe tempo di farlo, perché ormai nelle nostre scuole bambine e bambini, ragazze e ragazzi, soprattutto in territori di forte immigrazione, incontrano altre realtà, altre vite, altre religioni. E il non detto, il non nominato torna in termini di diffidenza e di incomprensione.
Abbiamo bisogno di costruire una cultura del rispetto che vada anche di la’ della tolleranza –che comunque è la supremazia di un punto di vista-, che diventi cultura diffusa e sentimento popolare. Di integrazione non come carità e misericordia ma come riconoscimento dell’altro da sé, come necessità di un confronto continuo, della reciprocità per garantire a ognuna e ognuno il diritto all’identità religiosa, filosofica e culturale.
Confronto e comprensione: gli strumenti più efficaci per la lotta all’estremismo, al fanatismo religioso e al fondamentalismo. «Tra uccidere e morire, c’è una terza strada: vivere».


“il manifesto”, 2 dicembre 2015

L’Italicum abbattuto dai sondaggi (Antonio Floridia)

I sondaggi elettorali confermano che, in un probabile ballottaggio, sulla base dell’attuale versione dell’Italicum, Pd e M5S si trovano sostanzialmente alla pari. Tutto ciò contribuisce ad alimentare voci e ipotesi su un possibile, ulteriore ripensamento dell’impianto di questo sistema elettorale. Al centro, l’alternativa tra il premio alla lista, previsto nell’attuale versione della legge, e il ritorno ad un premio assegnato alla coalizione vincente.
Sull’onda dell’euforia per il 40% delle Europee, il premio alla lista è divenuto la pietra angolare di una visione fondata sull’idea di un partito «pigliatutti»; non ci voleva molto a capire la natura estremamente volatile del voto europeo e la fragilità del disegno strategico che veniva incardinato nel nuovo sistema elettorale. Da molti mesi, oramai, con qualche oscillazione, i sondaggi danno stabile il Pd intorno al 31–33% (una percentuale alta, ma fragile, in assenza di un qualche bacino potenziale di voti a cui fare ricorso in caso di ballottaggio); il M5S è solidamente ben oltre il 25%, mentre, a destra, (come aveva mostrato il voto regionale in Liguria o in Umbria), le possibilità di un rapido ricompattamento sono tutt’altro che remote. Una geografia statica, peraltro, quella fotografata oggi dai sondaggi, che non può considerare ancora gli effetti che potrebbero derivare dalla presenza sul mercato elettorale di una nuova formazione di sinistra potenzialmente a doppia cifra.
In questo quadro, lo spettro di un ballottaggio a rischio agita i sogni del Pd renziano, e riemerge così l’ipotesi di una modifica che reintroduca il premio alla coalizione: certo, non mancano coloro che esortano Renzi a «tenere la barra dritta». La tesi che dovrebbe indurre a conservare il premio alla lista si fonda su un argomento: in sede di elezioni politiche, l’elettorato moderato del centro-destra non voterà mai per il M5S o, viceversa, l’elettorato grillino non potrebbe mai votare per un fronte Salvini-Berlusconi. Questa lettura è illusoria, perché ignora il fatto che l’attuale elettorato della destra è tutt’altro che moderato: le quote di elettorato centrista, che avevano scelto Monti nel 2013, sono già transitate nel Pd; altri spezzoni si stanno riciclando, e così hanno fatto e stanno facendo vari notabilati locali. E perché ignora anche altri dati: quelli che mostrano (ad esempio, in Veneto) un’elevata contiguità e mobilità tra il voto alla Lega e quello al M5S. E perché, infine, sembra non considerare quello che si sta rivelando il capolavoro politico di Grillo: riuscire a conservare un posizionamento del suo partito che lo mette in grado tuttora di catalizzare tutti gli umori anti-sistema (con una provenienza equamente distribuita da destra e da sinistra, e dal non-voto, come mostrano le indagini sull’«auto-collocazione» degli elettori del M5S). Nell’uno o nell’altro caso di un possibile ballottaggio, segmenti consistenti di elettorato potranno confluire e sovrapporsi. A ciò si aggiunga che, nelle condizioni attuali, appare probabile un alto tasso di astensione: il che rende ancora più aleatorio ogni calcolo razionale.

Ultimo appello alle minoranze
D’altra parte, per il Pd, il dilemma è serio: tornare al premio di coalizione significa rinnegare tutte le scelte compiute fin qui, ripensare la strategia della terra bruciata alla propria sinistra, tornare a pensarsi solo come una parte di un più largo schieramento di centro-sinistra, accettando l’idea di avere altri interlocutori in quest’area. Certo, con la disinvoltura tattica di Renzi, non si può escludere nulla; ma le scelte sull’Italicum si riveleranno decisive e irreversibili. Restare ancorati al premio alla lista implica una logica per molti versi avventurista: una logica da «rischiatutto» puntando su un ricatto (non si sa quanto credibile) nei confronti di un elettorato di sinistra costretto a scegliere tra Renzi e Grillo (o Salvini).
Non sappiamo se si possono creare condizioni tali da riaprire veramente la partita. Certo è che le scelte sull’Italicum saranno decisive anche per coloro che ritengono ancora possibile una battaglia interna al Pd, per ridefinirne la collocazione. Una sorta di ultimo appello per le minoranze del Pd: rassegnarsi al premio alla lista significherebbe infatti sanzionare definitivamente il ruolo neocentrista e neotrasformista del Pd. Chi spera ancora che il Pd possa restare uno spazio, se non ospitale, quanto meno abitabile, per una qualche posizione di sinistra, potrebbe individuare qui un terreno su cui cercare di far pesare le sue forze residue: non puntando su questioni marginali e assai dubbie, come quella del voto di preferenza, ma riproponendo con forza la questione del premio alla coalizione e mettendo al centro la grave questione democratica che viene posta dal nesso tra la riforma costituzionale che è stata approvata e il sistema elettorale..

Lo spettro dell’Unione
Non mancano gli argomenti: anche coloro che, con ottime ragioni, contestano l’intero impianto di un sistema elettorale fondato sulla logica del premio, possono convenire che un premio alla coalizione vincente, specie dopo un ballottaggio, costituisce comunque un male minore. E soprattutto, si può rispondere con nettezza anche all’unico argomento che può avere una qualche presa, anche nell’elettorato democratico: ossia, che «non si può tornare ai tempi dell’Unione», cioè alle coalizioni ampie e rissose. Per evitare questo pericolo, si può proporre un semplice accorgimento: prevedere che, nel conteggio dei voti validi di una coalizione, siano esclusi i voti delle liste che rimangono sotto-soglia (che può essere fissata anche al 3 o al 4%). Questa clausola può avere effetti significativi: scoraggia la frammentazione «in entrata», mentre i partiti maggiori non avrebbero alcun incentivo ad aggregare una sfilza di micro-liste, ma solo quello di creare un’alleanza politica solida con soggetti di una qualche consistenza.
E vi sono anche considerazioni tattiche, di cui tener conto. Si potrebbero anche creare condizioni tali per cui il famoso coltello dalla parte del manico potrebbe ritrovarsi nella mani di coloro che si oppongono all’Italicum: in caso di una crisi o di una rottura, la minaccia di elezioni anticipate potrebbe anche rivelarsi un’arma spuntata. Si dovrebbe votare, infatti, con il sistema proporzionale residuale, emerso dalla sentenza della Corte costituzionale: e chissà che, da questo maledetto imbroglio, non possa nascere stavolta anche un effetto imprevisto positivo, ovvero il famigerato ritorno al proporzionale. Ma qui si dovrebbe aprire una vera discussione politica, e un confronto serio anche tra gli esperti, che finalmente metta a nudo uno dei tanti falsi idoli che hanno avvelenato l’indefinita transizione italiana, ovvero che la «governabilità» possa essere assicurata solo da un sistema elettorale maggioritario. Ritengo che non sia così e che anzi, nelle condizioni in cui ci troviamo, una sorta di nuovo anno zero per la ricostruzione della democrazia italiana, il ritorno ad un serio sistema proporzionale costituisca un passaggio ineludibile e necessario.


“il manifesto”, 1 dicembre 2015

16.12.15

La bellezza di Lucio Magri (Gianni Quilici)

Nella rubrica di lettere del “manifesto” un lettore di Lucca, Gianni Quilici, rievocava con parole lucide e appassionate la bellezza (politica, intellettuale, umana) di Lucio Magri, parole in cui mi riconosco e che volentieri “posto” in questo blog a futura memoria. (S.L.L.)

Giustamente si è ricordato, rappresentato, discusso Pasolini, a 40 anni dalla sua morte, perché ancora ci «parla», ci «tocca», ci è «utile». Pochissimo si scriverà invece di Lucio Magri, a quattro anni (soltanto) dalla sua morte (per scelta). Forse neppure “il manifesto, che pure gli deve molto.
E Magri possiamo certo leggerlo (e non è poco), ma, a differenza di Pasolini, non possiamo vederlo, né sentirlo nel flusso della sua esistenza. Quanti saranno stati i comizi, gli interventi, le interviste televisive fatte da Magri! Di tutto questo in rete si trova soltanto la presentazione de Il sarto di Ulm a Bologna, che certamente non rende l’idea del Magri degli anni ’70, ’80, ’90, gli anni in cui abbiamo potuto vederlo e ascoltarlo pubblicamente. Perché è sia nei suoi libri, articoli, saggi, sia nei suoi interventi orali che trovo due aspetti, che mi hanno sempre colpito e affascinato di Lucio Magri: la complessità e insieme un’idea estetica, portata al perfezionismo, come osservava Valentino Parlato, sia nello scrivere e nel parlare che nel presentarsi e nell’esistere.
La complessità in Magri viveva nella ricerca ossessiva della causa ultima delle cose, che era spesso la molteplicità delle cause, con tutte le conseguenze che ne derivavano. Un ragionamento che scavava per successivi approfondimenti, che ti prendeva per mano e ti faceva toccare con limpidezza lo «stato delle cose». Il senso dell’estetica, invece, era nella chiarezza e nella limpidezza, nel ritmo dei periodi fluenti e nella ricerca del vocabolario giusto che cogliendo la profondità coglieva anche ciò che ci tocca della profondità: il «cuore delle cose». Un suo comizio o la conclusione di un convegno erano quasi sempre "illuminanti", ma anche "commoventi", facevano fermentare energie dinamicizzandoti. "Illuminanti" perché vedevi grandi spazi, il tempo della storia, i conflitti delle classi, possibili idee forza da trasmettere. "Commoventi" perché toccavano le viscere dell’umano: la profondità del dolore, l’utopia possibile.
L’estetica era anche nell’arte del discorso, nella voce sottile e musicale, che sapeva essere sferzante e appassionata, distaccata e divertita. L’estetica era inoltre anche nel volto da "attore americano", ma di quell’attore che trascende la bellezza dei lineamenti e diventa "artista", creatore di un’immagine forte di sé, una commistione, cioè, di energia intellettuale, di eleganza e di mistero.
Per questo il migliore modo di "commemorare" Lucio Magri è "scoprirlo", o “ripensarlo” cioè leggerlo e utilizzarlo, per ciò che ci ha lasciato per il nostro futuro, perché sono d’accordo con Alberto Burgio che sul manifesto scrisse: «Questo gli ha permesso di portare a termine, nonostante un dolore inemendabile, uno dei libri più belli e importanti su di noi - sui comunisti italiani e sul comunismo novecentesco - che siano mai stati scritti». E con Perry Anderson che osserva: «Lucio Magri era una figura unica nella sinistra europea».


“il manifesto”, 1 dicembre 2015

All'assalto. Lettera dall'Albania di Cesare Tosi al fratello Mario (gennaio 1941)

1941 - Soldati italiani sul fronte greco-albanese
Caro Mario,
con ogni probabilità domani mattina all'alba si va all'assalto; se la va bene sarà una magnifica esperienza di vita, se la va male farò la morte più bella che un italiano di venti anni possa fare.


Postilla
L'autore della lettera, un lombardo di venti anni, morì qualche giorno dopo averla scritta, il 20 gennaio 1941 sul fronte greco albanese. (Fonte, Avagliano e Plamieri, Vincere e vinceremo! Gli italiani al fronte 1940-1943, Il Mulino, 2015)

Il lento declino del pub inglese (Leonardo Maisano)

MisterBrown trotta al fianco del suo accompagnatore, raggiunge il bancone, allunga il muso e la mano gentile di sempre gli offre una ciotola, «Where is your dog? » - «He is having his drink», domanda e risposta anticipano lo sghignazzo del coro. Il “solito” è acqua fresca per MisterBrown, Stafforshire bull terrier, che il padrone porta ogni giorno al Golden Lion di Royal College Street a Camden e a cui, ogni giorno, la stessa mano gentile offre una ciotola poco prima che una voce rivolga la stessa domanda, seguita dalla stessa battuta e dalla stessa risata del gruppo.
Vita da cani e vita da pub, quei posti che si sa che cosa “non sono”, ma si stenta a definire che cosa siano.«Un pub non è un bar, non è un ristorante, non è un club, non è un negozio, non è una panchina e non è la poltrona di un analista» come ha scritto Tom Lamont in un’appassionata epica sul Guardian. E non è nemmeno un canile. aggiungiamo guardando MisterBrown svuotare la ciotola. Un pub è un pub, ovvero un po' di tutto quanto Tom Lamont ha frettolosa mente elencato. Mutazione delle taverne romane, le alehouses esplosero con la peste bubbpnica trasformandosi in luoghi di ricovero e ristoro diffusi in una rete capillare, se è vero che nel 1570 ce n’era uno ogni 180 cittadini di Inghilterra e Galles. Oggi sono 52mila in tutto il Regno e chiudono al ritmo di 29 alla settimana secondo Camra, l’organizzazione che si batte per la tutela della birra Real Ale. «Un rallentamento del trend negativo - precisano alla British Beer and Pub Association - si sta però avvertendo: al picco della crisi, infatti, andavano in liquidazione 50 locali alla settimana».
La minaccia in realtà ha a poco a che vedere con il credit crunch del 2008, crisi che rese solo piti acuto un massacro destinato a continuare nonostante le organizzazioni di puristi della birra, puristi della bririshness, puristi dell’architettura guidino l'assalto per la salvezza dell’ultimo boccale. Sul pub pesa infatti, la coazione delle piccole birrerie che imbottigliano ales artigianali, lo sbocciare dei GastroPub che indugiano sul vino e sul cibo, la speculazione immobiliare, le tasse sulla pinta. I consumi della birra - secondo alcune statistiche - sono in contrazione del 30% negli ultimi otto anni, pesando enormemente sui bilanci dei pub. La scorciatoia per le grandi catene che possiedono la maggioranza della public houses è vendere. L’alternativa è mutare la pelle di un locale abbarbicato all’immagine della taverna d’altri tempi, aromatizzato com’è dall’odore del legno che sembra stagionato nel luppolo. Le ales cedono sempre più terreno al pinot, il roast beef agli esercizi culinari di chef scolpiti dalla frenesia gastronomica che affligge questa terra di ruvido palato, anzi ruvidissimo. Freccette e biliardo reggono, ma solo in provincia.
Se il puh sbanda, vittima dell’emancipazione del gusto d'importazione continentale, il pub marcia verso morte sicura quando si leggono le statistiche immobiliari. Pezzi storici di Londra si flettono alla speculazione di cosi ruttori che vedono in palazzine ottocentesche affondate in angoli pittoreschi, l’occasione per ritagliare mono e bilocali da vendere ai prezzi folli del metro quadrato nella capitale. L’uomo nero, almeno nel caso del Golden Lion, ha anche un nome: Anthony Stark, un developer che comprò il locale e tentò la trasformazione in appartamenti e negozi. Operazione fallita grazie anche all’azione di Dale Ingram, cinquantenne bionda come una lager, che della battaglia per salvare i pub storici ha fatto una professione.

Non sempre funziona così. Il Farrier Arms di Mersham in Kent, sfregiato dagli squatters dopo quattro secoli di servizio interrotto e afflitto da profitti troppo deboli s’è affidato a un Paese intero per sperare di salvarsi. Decine di avventori residenti a Mersham si sono tassati - da 5 a 50 mila sterline l’uno - raccogliendo abbastanza danari per rilevarne la proprietà e rilanciarlo. E il Farrier Arms è tornato a servire la comunità. Power to the people nell'Inghilterra dei conservatori? Cani inclusi obietterebbe MisterBrown.

"Il Sole 24 0re domenica, 15 novembre 2015

Incontri. Truman Capote tra i fiocchi di neve di Colette (Giuseppe Scaraffia)

Colette
Sotto i portici del Palais-Royal, Truman Capote andava su e giù, controllando nervosamente l'orologio. Aveva ventitre anni, ma, come diceva Jean Cocteau, che gli aveva procurato quell'incontro con la leggendaria Colette, "sembra un angelo di dieci anni, ma è senza età e ha un'anima maliziosa".
Quando finalmente era scoccata l'ora, era entrato nell'appartamento della scrittrice e ne era rimasto folgorato. Tutto era esattamente come se l'era immaginato: i folti capelli crespi di Colette, gli occhi da "gatto delle periferie", il viso mobilissimo, le guance arrossate dal trucco e le labbra sottili rese scarlatte da un rossetto da prostituta.
Intimidito, il giovanotto non osava alzare gli occhi su quella divinità allungata su una cascata di cuscini con un gatto grigio ai suoi piedi. Ma aveva fatto in tempo a vedere le tende di velluto che schermavano la luce di quel giugno del 1947 e a sentire il profumo, "un misto di rosa, arancio, tiglio e muschio, che fluttuava tra le pareti tappezzate di seta”.
Gli occhi del visitatore si soffermarono su "una visione magica", un'immensa collezione di antichi fermacarte di cristallo.
Quei "sulfures", gli spiegò la padrona di casa, erano il risultato di un collezione iniziata quarantanni prima. Imprigionati nelle sfere di cristallo lucertole, salamandre, fiori e farfalle erano schierati su due tavoli. I più rari di quelli che la scrittrice chiamava affettuosamente i suoi "fiocchi di neve" erano stati fabbricati tra il 1840 e il 1860".
Quel che Capote non poteva sapere era che in quegli anni Colette stava raccogliendo altri "fiocchi di neve" salvandoli dall'oblio nel cristallo della memoria. Era il pulviscolo di ricordi che si presentavano alla scrittrice immobilizzata dall'artrite, una messe tardiva e generosa raccolta in La stella del vespro, egregiamente curato e plasticamente tradotto da Angelo Molica Franco.
Colette covava quelle scintille del passato in una serena solitudine, interrotta dalle visite premurose del suo terzo ed ultimo marito, Maurice, di sedici anni più giovane di lei. Chi pensava che, inchiodata sul letto, si stesse annoiando si sbagliava di grosso. “Siamo plasmati dalla malattia, dobbiamo accettarlo, ma è ancora meglio plasmare la malattia a nostro uso e a nostro vantaggio”. Quel giaciglio era diventato un tappeto volante con cui esplorava il passato.
Non poteva fare a meno di sorridere ricordando la sua breve stagione teatrale. Interrogava le vecchie foto, in particolare quella in cui un attore dall'aria feroce stava per pugnalare il suo "bel seno" nudo che aveva tanto fatto scandalo. Non rimpiangeva troppo la sua agitata giovinezza. "Una delle grandi banalità dell’esistenza, l’amore, si ritira dalla mia vita. Quando ne siamo usciti, ci accorgiamo che tutto il resto è allegro, variegato e ricco. Ma non se ne esce quando né come si vuole".
Non le dava fastidio essere interrotta da chi veniva a trovarla. Accoglieva con la stessa curiosità le celebrità cerimoniose e il piccolo vicino di tre anni che, non riuscendo a suonare il campanello, si annunciava prendendo a calci la porta. Non temeva più la solitudine."C'è un gran silenzio intorno a me. Quando sono sola, la casa si riposa. Si stira e fa scrocchiare le vecchie giunture... Invita il vento da fuori, perché si prenda cura dei miei fogli che partono a volo d'uccello dall'altro capo della stanza."
Colette spiava dalla finestra lo scorrere delle stagioni nel giardino del Palais-Royal. La mattina presto osservava l'inserviente pulire le gabbie degli uccelli e rifornirli di becchime per poi sostare in un breve raccoglimento."Quando certi istanti di una giornata si fanno troppo belli, l'essere umano interrompe il lavoro o il gioco, venera ciò che intorno tace o canta."
A tratti si riaffacciava il ricordo dell'angoscioso periodo in cui Maurice, essendo ebreo, doveva spostarsi da un rifugio all'altro per sfuggire i nazisti. Ma poi la memoria la salvava, distraendola col ricordo del ricchissimo Daniel che, per non farsi notare, aveva fatto montare sul telaio di una Rolls-Royce nuova una logora carrozzeria.
Prima di congedarlo, l'anziana scrittrice offrì al giovane Truman un magnifico fermacarte sfaccettato con una rosa bianca. "Voglio che lei lo tenga per ricordo". Quando l'ospite perplesso le obiettò che non poteva accettare qualcosa cui lei teneva tanto, gli rispose: "Ragazzo mio, non ha senso offrire una cosa se non si è legati ad essa".


Il Sole 24ore Domenica, 29 marzo 2015

Er padre de li Santi. Un sonetto caudato di Giuseppe Gioachino Belli

Er cazzo se pò ddí rradica, uscello,
ciscio, nerbo, tortore, pennarolo,
pezzo-de-carne, manico, scetrolo,
asperge, cucuzzola e stennarello.

Cavicchio, canaletto e cchiavistello,
er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
attaccapanni, moccolo, bbruggnolo,
inguilla, torciorecchio, e mmanganello.

Zeppa e bbatocco, cavola e tturaccio,
e mmaritozzo, e ccannella, e ppipino,
e ssalame, e ssarciccia, e ssanguinaccio.

Poi scafa, canocchiale, arma, bbambino:
poi torzo, crescimmano, catenaccio, mànnola, e mmi’-fratello-piccinino.

E tte lascio perzino
ch’er mi’ dottore lo chiama cotale,
fallo, asta, verga, e mmembro naturale.

Cuer vecchio de spezziale
disce Priàpo; e la su’ mojje pene,
seggno per dio che nun je torna bbene. 1


Roma, 6 dicembre 1832  

Gli emirati si fanno il superdrone da noi (Gabriella Colarusso)

Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi
In novembre, su “pagina 99”, Gabriella Colarusso, oltre a raccontare in termini generali la scalata all'economia italiana dei paesi arabi del petrodollaro (Arabia Saudita, Qatar, Emirati arabi ecc.), esamina un caso specifico, la Piaggio Aerospace, che sta specializzandosi nella costruzione di “droni”, aerei senza pilota. Gli Emirati Arabi sono, secondo gli analisti, uno dei paesi che conservano rapporti sociali di tipo feudale e in cui la sottomissione della donna è feroce, oltre che tra i finanziatori dei jiadisti dell'Isis. Quanti pericoli contenga il controllo di un'azienda produttrice di Droni da parte dei “fondi sovrani” degli Emirati mi pare tema di riflessione e preoccupazione. (S.L.L.)
Superdroni della Piaggio Aerospace
Nel 2013 la Piaggio Aerospace rischiava il fallimento e gli azionisti di Mubadala, il fondo sovrano di Abu Dhabi che oggi controlla il 100% della società, furono accolti come i salvatori. Di fatto, hanno evitato la chiusura dell’azienda, investendo circa un miliardo di euro per rilanciarla. Ma ora dal sovrano è arrivata la richiesta di un maggior impegno italiano per mandare avanti i costosi e delicati programmi aeronautici in cui l’azienda è impegnata. Il bilancio 2015 della società dovrebbe essere chiuso con perdite tra i 38 e i 45 milioni di euro, stando a quanto comunicato ai sindacati a ottobre (rispetto ai 63 milioni del 2014), ma gli emiratini temono un rosso più profondo e la necessità di dover alla fine investire nuovo capitale.
A pesare su Abu Dhabi sono anche considerazioni politico-strategiche. Piaggio lavora a un ambizioso programma militare, lo sviluppo dei droni P.1HH e P.2HH e avere un partner industriale, magari italiano, a sostegno del progetto, significherebbe per gli emiratini la garanzia di portarlo a termine. Il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan – che ha anche frequentato l’accademia della Nunziatella a Napoli negli anni ’80 – ne ha parlato nei diversi incontri avuti con Matteo Renzi e con il ministro della Difesa, Roberta Pinotti.
Il governo, secondo quanto risulta a "pagina99", si è impegnato a valutare possibili soluzioni, si parla degli americani di General Electric o degli italiani di Finmeccanica, ma sono ancora solo indiscrezioni. Sul tavolo poi ci sono i finanziamenti pubblici della legge 808. Piaggio ne ha fatto richiesta al ministero dello Sviluppo economico un anno fa, «per un progetto di ricerca e sviluppo che riguarda le tecnologie abilitanti per la realizzazione di 2 velivoli a pilotaggio remoto», proprio il P.1HH e il P.2HH. Dal Mise non è arrivata ancora nessuna risposta.
L’azienda ligure è la prima e unica industria italiana controllata al 100% da un fondo sovrano estero. Produce aerei per il mercato civile e sta lavorando, con il supporto della Difesa, dell’Aeronautica e di Finmeccanica (Selex), al P.1HH, il primo drone di fattura italiana, che servirà per missioni di sorveglianza, intelligence e pattugliamento. Almeno nella prima fase, perché allo studio c’è già una versione più evoluta, il P.2HH, con capacità tecniche superiori e potenzialmente armabile. Un affare in cui si incrociano innovazione tecnologica, interessi strategici e relazioni internazionali. L’ingresso di Mubadala come azionista di maggioranza, infatti, è stato valutato attentamente dal governo e l’ok ai nuovi proprietari, in base al golden power, è arrivato ad alcune condizioni, prima tra tutte «la tutela delle capacità tecnologiche e industriali» dell’azienda. I software e l’intelligenza del drone, sviluppati da Selex, sono così rimasti sotto il controllo dell’Italia.
Il progetto ha un grosso potenziale, perché la sua riuscita darebbe a Roma un vantaggio competitivo nei confronti degli altri Stati europei in un’industria, quella degli Uav (i velivoli a pilotaggio remoto), che sarà centrale nel futuro mercato internazionale della Difesa. Il Male2020, infatti, il drone europeo che l’Italia dovrebbe realizzare insieme con Francia e Germania, è ancora ai nastri di partenza.
L’aeronautica ha fornito a Piaggio le proprie basi per i test di volo e sarà il primo cliente del drone. «Il P.1HH è un velivolo con caratteristiche diverse e più avanzate di quelle che hanno i sistemi già in nostro possesso, come i Predator americani», spiegano dall’Aeronautica militare.
La consegna del primo sistema dovrebbe avvenire all’inizio del 2016, poi bisognerà integrarlo con «i sistemi» già a disposizione delle nostre forze armate, mettere a punto le «procedure per la manutenzione e l’addestramento dei piloti». La scuola di formazione per i piloti, la nostra Holloman, potrebbe sorgere ad Amendola, dove opera il 32esimo stormo, che ha già in dotazione i sistemi Rpv.
Una volta certificati, il P.1HH e, in prospettiva, il P.2HH, saranno pronti per il mercato. Con delle differenze a seconda dei Paesi potenziali acquirenti. L’Italia infatti aderisce al Mtcr (Regime di controllo delle tecnologie missilistiche), l’accordo internazionale siglato nel 1987 per limitare l’esportazione di droni armati, e per vendere aerei senza pilota, armabili, ha bisogno delle licenze di esportazione. All’interno del Mtcr, gli Stati Uniti fanno la parte del leone, per evidenti ragioni tecnologiche, essendo leader di un’industria in cui non hanno interesse a vedere ridimensionata la propria supremazia, e politiche, trattandosi di un mercato che risponde ad alleanze internazionali e a interessi di sicurezza nazionale. Se Abu Dhabi, insomma, volesse acquistare i P.2HH, i nostri droni armabili, sarebbero necessari il lasciapassare Mtcr e l’ok americano. Ci sono già richieste in questo senso da parte dell’Emirato? Tra Difesa e azienda, sul tema, la riservatezza è massima.

Pagina 99we, 21 novembre 2016

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