31.1.12

Marx, Lenin e Sandokan. Intervista a Paco Taibo (di Riccardo Barenghi)

In occasione del centenario di Salgari, all’incirca un anno fa, Riccardo Barenghi intervistò per “La Stampa” Paco Ignacio Taibo II, scrittore messicano nato in Spagna, dalla forte tempra antimperialista. Di Taibo l’editore Tropea aveva appena pubblicato Ritornano le tigri della Malesia (piu' antimperialiste che mai), un libro di avventure con forte accentuazione politica, collocato nel tardo Ottocento e che pone a contrasto l’Impero del Male, del colonialismo, del razzismo, della rapina finanziaria, e i Pirati, un po’ invecchiati, ma combattivi come sempre, guidati da Sandokan e Yanez de Gomera. Taibo è autori di molti romanzi, di cui uno scritto in collaborazione col subcomandante Marcos, e di una biografia del Che. Della bella intervista di Barenghi trascrivo un ampio stralcio. (S.L.L.)  

Perché proprio Salgari, cosa c'entra uno scrittore di avventure con un autore come lei?
«Perchè Salgari è il mio autore. Quando leggi dei libri con tanta passione, entusiasmo, identificazione, lo scrittore diventa tuo. Così come è diventato mio Sandokan, io mi sento antimperialista sandokaniano piu' che leninista. Lenin arriva dopo».
Sandokan era un principe spodestato dagli inglesi, non certo un rivoluzionario...
«Ma racchiude in sé valori fondamentali: l'onore, la parola data (senza bisogno di firme su pezzi di carta), la coerenza tra quello che si dice e quello che si fa, il coraggio, la fraternità'. Le pare poco?» . E nel mondo di oggi, lei vede qualche Sandokan in giro?
«Vedo Sandokan».
Ma lui non esiste, non è mai esistito.
«I personaggi letterari vivono a prescindere dalla realtà materiale, fanno parte dell'immaginario collettivo. Pensi a quanta ideologia, percezione della realtà, quanto stile di vita produce Hollywood. Ecco, per fortuna esiste anche una produzione extra hollywoodiana di stile e Sandokan ne fa parte a pieno titolo, è l'eterno vendicatore di offese e di torti. Mi piacerebbe vedere un graffito su un muro: ''Sandokan, torna, mamma ha bisogno di te''. Il mito e' il mito, basta leggere la frase di Yanez che conclude il libro».
Quindi neanche il Che o Marcos sono i Sandokan della modernità?
«Il Che era il Che e Marcos è Marcos. Da quando ho scritto la biografia di Guevara, 15 anni fa, lo sogno spesso e lui mi dice che ama i sigari e non le sigarette. E poi mi rimprovera sempre della mia lentezza e incapacità a costruire la scuola che stiamo facendo insieme, mi sgrida perché metto male i mattoni».
Una metafora?
«No, un sogno».
[…]
Salgari faceva combattere le sue Tigri contro l'impero inglese, oggi le Tigri di Taibo contro chi dovrebbero combattere?
«Allora avevamo la guerra dell'oppio in India, oggi abbiamo gli elicotteri Cobra, le videocassette e i McDonald's in Afghanistan».
Quindi il nemico è sempre l'America?
«Beh, la forma più virulenta dell'impero oggi sono gli Stati Uniti».
[…]
Visto che si trova qui, la sua impressione sull'Italia?
«Ogni volta che vengo, mi appare sempre più come una caricatura di se stessa. Il livello di degrado è disperante. Mi piacerebbe poter leggere un libro di Leonardo Sciascia sull'Italia di oggi».

Dagli antichi dèi a Montalbano. Agrigento (di Laura Anello)

Su Agrigento e l’agrigentino un articolo di promozione turistica da “La Stampa”, vecchio di un anno, scritto da Laura Anello, in combutta con lo Slow Food, con tutti gli artifizi e i piccoli inganni che contengono gli articoli del genere; e tuttavia godibilissimo e infarcito di amene curiosità, qualcuna sorprendente perfino per chi da quelle parti è nato e cresciuto. Nel mio piccolo plaudo all’autrice del pezzo, lo riprendo e lo consiglio. (S.L.L.)
P.S. Nell’articolo mancano sollecitazioni alla visita per il mio borgo natìo, Campobello di Licata, benché il controverso e da poco defunto Calogero Gueli, a lungo sindaco, si dichiarasse convinto che la “città d’arte” di cui s’era fatto promotore con la disseminazione nel paese di murales, sculture e mosaici del suo amico Silvio Benedetto, un poliedrico artista argentino, avrebbe attratto in massa turisti dalle Americhe. Quando i due progettavano il grande e ora semiabbandonato parco della Divina Commedia, disseminato di blocchi di marmo colorati con scene dal poema dantesco, provai a dire a Gueli che sarebbe stata più consona ai luoghi l’illustrazione di un’opera mediterranea, delle Mille e una notte per esempio. Mi rispose che gli statunitensi sanno ben poco di noi e che per loro Firenze o Campobello sono più o meno la stessa cosa: è tutta Italia.
In verità fino ad oggi di turisti nordamericani se ne sono visti ben pochi. Prima della crisi arrivava qualche gruppo di tedeschi, ora neanche quello. E tuttavia in quella pagina de “La Stampa” un riferimento, del tutto meritato, al mio paese c’è: si parla della capra girgentana, della sua difficile salvaguardia, degli splendidi caprini a crudo che, raccogliendone il latte, produce il mio amico Giacomo Gatì nella contrada Montalbo. E’ un tema su cui, un giorno o l’altro tornerò. (S.L.L.)
Agrigento. Il giardino di Kolymbetra nella Valle dei Templi 
E' la Sicilia del mito, la Sicilia dei templi e dei mandorli, delle memorie letterarie di Tomasi di Lampedusa, di Pirandello, di Sciascia, i giganti che hanno respirato e raccontato quest'aria. La Sicilia dove si muove il commissario Montalbano, che la fiction ha trasportato più a Est, nel barocco telegenico di Ragusa, ma che qui è stato concepito, e vive tra questi paesi di splendori e cemento. Agrigento, la Akragas dei greci che vi realizzarono quello che è oggi il parco archeologico più grande del mondo con i suoi dieci templi dorici, le necropoli, i santuari, visitati da 600 mila visitatori ogni anno. La Gergent degli Arabi, Girgenti fino al 1929 quando il fascismo le diede il nome dell'età imperiale romana. La terra che fronteggia l'Africa, dove la primavera sboccia due mesi in anticipo rispetto al calendario.
Nel cuore dell'inverno, il 4 febbraio, si apre la sagra del Mandorlo in fiore, da sessantasei anni la kermesse siciliana del folclore internazionale, un appuntamento fisso nell'agenda dei tanti emigrati dispersi in mezzo mondo e per i turisti che arrivano a respirare l'aria di una tradizione fatta di carretti e tarantelle, ma anche di musica di qualità. Incoraggiati dal clima mite che quasi mai tradisce le attese, gli alberi si vestono di petali bianchi e profumati, un colpo d'occhio che avvolge gli antichi colossi dedicati agli dei.
«Mai visto in tutta la mia vita uno splendore di primavera come stamattina al levar del sole», scriveva Goethe nel 1786 decantando il colpo d'occhio di verde, mare e templi in un colpo solo. Splendore insidiato nell'ultimo secolo dalla speculazione, dall'abusivismo, dall'incuria ma con un così grande capitale di partenza da resistere a tutto. D'altronde, i picchi e gli abissi sono nel Dna di questa città, fondata dai greci nel 581 avanti Cristo e diventata secondo Pindaro «la più bella città dei mortali», poi distrutta dai Cartaginesi nel 406, e ancora ricostruita e ripopolata. Di quella stagione resta una Valle dei Templi che è patrimonio mondiale dell'umanità e che custodisce una piccola gemma: il giardino della Kolymbetra, da dieci anni affidato al Fai, cinque ettari di meraviglie paesaggistiche e botaniche irrigate secondo le tecniche arabe, un posto che - diceva l'abate di Sant Non - «somiglia alla valle dell'Eden o a un angolo della terra promessa».
Città, Agrigento, transitata dalla crudeltà di tiranni come Falaride (passato alla storia per usare come strumento di tortura un toro di bronzo cavo e rovente) al regime democratico del filosofo Empedocle, che rifiutà il potere offertogli dal popolo e diede il via alla stagione d'oro, il tempo in cui - diceva lui stesso - «gli akragantini costruiscono case e templi come se non dovessero morire mai e mangiano come se dovessero morire l'indomani».
A lui è dedicata Porto Empedocle, il paese dove è nato Camilleri, la Vigàta del commissario Montalbano che qui si delizia con triglie allo scoglio dell'osteria San Calogero, che esiste davvero in via Roma. Il vecchio sindaco aveva fatto pure un referendum per aggiungere il nome letterario a quello vero e aveva fatto piazzare i nuovi cartelli agli ingressi del paese. Il successore li ha tolti in nome della verità, ma progetta di realizzare in piazza una statua a Montalbano che somiglierà a Luca Zingaretti. Ma è tutto il mondo di Camilleri che ruota qui, nella Sicilia del Sud: dalla Merfi che in realtà è Menfi, con i suoi vigneti che declinano su un litorale amato da intellettuali che fuggono la folla, a Fiacca che è Sciacca, con l'isola Ferdinandea emersa nel 1834 per pochi giorni e poi di nuovo scomparsa sott'acqua. E ancora Fela, la Gela deturpata dal petrolchimico e dal cemento; Raccadali, che in realtà si chiama Raffadali; Montelusa, che è il nome preso a prestito dalle novelle di Pirandello con cui Camilleri chiama Agrigento.
Già, Pirandello, l'interprete della «corda pazza» siciliana che qui si esprime più che altrove, come se la realtà si trasfigurasse sotto questo sole che è un anticipo d'Africa. Qui c'è la casa-museo dove lo scrittore è nato, qui le sue ceneri, anche se il pino secolare che le vegliava è stato spazzato via anni fa da una tromba d'aria. Leonardo Sciascia teneva la sua fotografia sulla scrivania, nella vicina Racalmuto. E anche lì vale la pena fare un giro, alla Fondazione che ospita le sue lettere, tra i luoghi dove cercò rifugio dalle persecuzioni del Sant'Uffizio il frate libertario Diego La Matina, protagonista del suo Morte dell'Inquisitore. E poi c'è anche Palma di Montechiaro, la città degli avi di Tomasi di Lampedusa, con il palazzo del Gattopardo. E ancora Naro, dove la sagra del Mandorlo in fiore nacque nel 1934 come festa contadina, prima di migrare ad Agrigento e diventare kermesse internazionale ispirata alla pace tra i popoli. Ambizione conclamata dalla tradizionale accensione del Tripode dell'amicizia come a un'Olimpiade. Davanti al tempio della Concordia, vicino agli dèi.

"La Stampa", 27 gennaio 2011 

30.1.12

La poesia del lunedì (Sou Che 1036 - 1101 d.C.)

Per la nascita del suo bambino

Ogni famiglia, quando nasce un bimbo
lo vuole intelligente;
io con l’intelligenza
ho rovinato tutta la mia vita;
spero solo che il bimbo si dimostri
stupido ed ignorante;
coronerà così una vita placida
diventando Ministro.

In Liriche cinesi, Gli Struzzi, Einaudi, 1987

Il mito di Fedra: Ippolito, l'eroe verginale, oltraggiato da un empio amore.


Siracusa, Teatro greco, maggio 2010.
Una scena dalla "Fedra "
o "Ippolito che porta la corona"
Il testo che segue da “La talpa libri”, inserto de “il manifesto” del 1° giugno 1990, è opera di Alfonso Maria di Nola ed è parte della recensione a un libro sulla Fedra euripidea di Nadia Fusini (La luminosa. Genealogia di Fedra). Nel brano scelto, l’antropologo Di Nola sintetizza la propria lettura del dramma euripideo e interpreta in una luce storica l’antifemminismo dell’antico tragediografo, come prodotto dell’antitesi radicale tra due concezioni della sessualità entrambi presenti nella Grecia classica e identificate in Afrodite e Artemide. (S.L.L.)
Siracusa, Teatro greco, maggio 2010.
Una scena dalla "Fedra " 
o "Ippolito portatore di corona"
Il significato primario del nome di Fedra, dipendente da una costellazione linguistica legata alla luce, allo splendore, al manifestarsi e forse alla parola (una serie di significati che quasi certamente erano assenti nella percezione che del nome avevano i Greci di età euripidea) origina un sottile, intelligente esercizio su quella genealogia delle «figlie del sole» di kerényiana memoria, cui l'economia interna di questo lavoro è dedicata.
Il dramma dell'uccisione dell'eroe da parte del toro (altra figura carica di significati segreti) si trasforma in una metafora culturale e universale dell'esplodere distruttivo della sessualità, quella di Ippolito, repressa e negata. Questo impianto interpretativo molto ricco e partecipato, con una attenzione, mai declinante, anche alla corrispondenza fra ritmi del verso e situazioni, non esclude un altro tipo di lettura, quello proprio dello storico che rifiuta, in una sua diversa legittimità, il compiacimento per la ricostruzione irrazionalistica.
In effetti questo scontroso personaggio che fu Euripide, processato duramente per empietà e legato ad una consuetudine omosessuale con un efebo, ha riflesso nell'"Ippolito incoronato" l'arcaica conflittualità fra sesso fecondo e riproduttore e sesso negato che si proietta nelle figure divine, quella di Afrodite, signora della forza universale di eros, e quello di Artemide, la sigillata divinità dei cacciatori che respinge ogni segno carnale, nella sua castità integra.
Artemide, che ebbe un suo celebre tempio nel luogo stesso del dramma di Ippolito, a Trezene nell'Argolide, dichiara esplicitamente Afrodite la dea più odiata da quanti hanno cara la vita verginale. In una sintesi di matrice antropologica, necessariamente rapida, il conflitto si rinnova nel concreto della trama tragica fra Fedra e Ippolito. Ippolito si presenta come membro di gruppi che, dediti alla caccia e alla prova atletica, sono distanti da ogni esperienza sessuale, anche da quella efebica, gli stessi gruppi retti dalla norma di castità, che appaiono in molti ambiti delle culture indoeuropei. E' iniziato all'orfismo; «ha in orrore l'idea di un letto e quanto può rifiuta e le donne e le nozze». «Io sono puro e il mio corpo è intatto» grida nel difendersi contro «la sete incestuosa di Fedra», «la mia anima è pura come quella di una vergine, non toccato ed ignaro», in un suo odio contro la notturna libidine proiettata in Afrodite («io non amo la dea che si mostra la notte»).
Di qui il discusso antifemminismo di Euripide, che viene trasferito negli atteggiamenti di Ippolito contro il sesso temuto. La celebre invettiva misoginica giunge ad esprimere la nostalgia di uno stato mitico non ancora bisessuato: «O Zeus, come mai ha insediato nella luce del sole le donne, questa ambigua dannazione per l'uomo? Se volevi, sai, propagare la stirpe mortale, non eri costretto a ricorrere alle donne per questo, ma bisognava che gli uomini depositassero nei tuoi templi o dell'oro o del ferro o una certa quantità di bronzo, e in cambio potessero comprarsi una semenza di figli...e abitare così in case finalmente libere senza femmine».
L'acme narrativo ingloba qui, come episodio scatenante del conflitto sessuale, la passione incestuosa di Fedra, nella quale la femminilità già radicalmente respinta da Ippolito, assume tutti i caratteri di un catastrofico oltraggio contro la norma, è la «proposta obbrobriosa», la «passione disonesta», «l'empio amore» del testo euripideo, già qualificato da Platone come vergogna massima, consentita peraltro, soltanto agli dei.

Dov'è la "porcheria" (di Pier Paolo Pasolini)

Per alcuni anni, dal 1960 al 1965, Pier Paolo Pasolini curò una rubrica, arricchita dalla corrispondenza con i lettori, dal titolo Dialoghi su “Vie Nuove” (il settimanale era il tentativo, non del tutto riuscito, di un rotocalco popolare vicino al Pci, ma in anni successivi espresse una tendenza filosovietica, anche in dissenso e larvata polemica con il partito italiano). 
Una scelta delle lettere a Pasolini con le sue risposte venne raccolta nel volume Le belle bandiere dagli Editori riuniti (la casa editrice del Pci) nel 1977, quasi due anni dopo la sua morte tragica, e pubblicata con una introduzione di Giancarlo Ferretti.
Ho ripreso da lì questo botta e risposta sul tema dei rapporti tra la Chiesa cattolica e la ricerca scientifica e letteraria. Mi pare che possa essere tuttora uno stimolo alla riflessione. (S.L.L.)

Egregio signor Pasolini,
sono una studentessa di seconda liceo classico. Il mio professore di religione sostiene che la Chiesa non è oscurantista, che religione e scienza vanno perfettamente d’accordo. Difende l'Indice dei libri proibiti con l'argomento che sulla maggioranza delle persone certi libri possono produrre effetti nocivi. Vorrei il suo parere in proposito. Inoltre vorrei chiederle, giacché la letteratura e il cinema moderni sono accusati di immoralità, di mettere in mostra delle «porcherie», se il suo Una vita violenta aveva bisogno degli episodi di Tommasino e Irene sui prati e della domenica pomeriggio per riuscire efficace. La stessa domanda si può fare, secondo me, per la scena dello stupro in Rocco e i suoi fratelli.
Maria Pizzardi - Bologna

I)    Il suo insegnante di religione mente.
La religione e la scienza non vanno affatto d'accordo. Il suo insegnante di religione ha seguito un vecchio processo, tipico dell'ipocrisia controriformistica. Cioè ha dato alla parola «religione» il significato e la portata che essa ha (naturalmente per un cattolico) ma ha tolto alla parola «scienza» il suo reale significato e la sua reale portata. È di questi mesi una ridicola, spregevole presa di posizione del clero contro la psicanalisi. Che cos'è la psicanalisi se non una ricerca scientifica? E delle più importanti del nostro tempo? È chiaro: il suo prete le obietterà che la psicanalisi non è scienza. Benissimo, allora, il suo prete, abbia la bontà di concludere che la religione va d'accordo con la scienza che gli pare.

II)  Quello di proteggere gli intellettualmente deboli è uno dei classici atti di spregio della Chiesa verso l'uomo.
Essa non ha nessun diritto di dare degli irresponsabili ai cittadini di uno Stato libero e indipendente con le sue istituzioni democratiche (almeno sulla carta). Il suo intervento paternalistico è una scusa che non può che rivoltare. Una lettura non è mai pericolosa. Le uniche letture pericolose sono quelle che la Chiesa permette: una generica pornografia e l'evasione fumettistica (oltre che le opere edificanti prodotte dalla Chiesa stessa, che servono a rendere completamente irreali). In realtà la Chiesa teme le libere letture (ha tenuto fino a un secolo fa Dante all'indice): e il suo vero grande ideale sarebbe regnare sopra un popolo di analfabeti.

III) In un'opera d'arte — o almeno in un'opera ad alto livello letterario — tutto rientra in un disegno, in una struttura.
Il tutto vive di particolari concreti. Il sesso ha la importanza nella vita di ognuno di noi, ricco o povero, semplice o colto. Nel descrivere una figura umana — un personaggio — non si può lasciare all'oscuro la sua vita sessuale, specie se si tratta di una figura umana ignara, vitale, solo confusamente conscia di sé: perché in essa tutto diventa concreto, tutto è perché calato negli atti particolari, nei fatti. Un personaggio semplice, popolare, se non fa non è. Inoltre, egli non ha, della propria vita sessuale, la concezione moralistica che hanno i borghesi: il tacerne sarebbe parlare di lui — di ciò che fa — al di fuori di lui, da un punto di vista che tende a ignorare non solo ciò che fa nel campo sessuale, ma in qualsiasi campo della vita. Insomma, cara amica, non bisogna mai in nessun momento essere degli ipocriti. I rapporti sessuali solo in un caso sono volgari: nel caso della persona ipocrita. Altrimenti essi non hanno nulla di volgare. E lei fa malissimo a chiamarli sia pure tra virgolette «porcherie». L'unica porcheria vera è il reprimerli, il nasconderli, il censurarli, pretestualmente, insinceramente.

"Vie Nuove" n. 49 a. XVI, 14 dicembre 1961

Strage all'oleificio di Campello. La condanna di Del Papa (Fabrizio Ricci)


“Scaricare su un povero cristo come me tutta questa vicenda non è umano”. Giorgio del Papa, il padrone della Umbria Olii di Campello sul Clitunno, lo ha ripetuto fino all'ultimo momento, anche davanti alle telecamere del Tg1. Lui non si è mai sentito responsabile per le 4 vite degli operai che sono saltati in aria il 25 novembre 2006, su uno dei suoi silos pieni di olio e di un gas, l'esano, altamente esplosivo, della cui presenza – hanno detto i periti del tribunale – i lavoratori non erano stati minimamente messi in allarme. Ecco perché l'imprenditore “povero cristo” è stato condannato a 7 anni e mezzo di galera, per l'omicidio colposo di Maurizio Manili, Tullio Mottini, Vladimir Todhe e Giuseppe Coletti e per altri reati come il disastro ambientale e l'omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. Del Papa dovrà anche risarcire, in via provvisionale, 2,5 milioni di euro alle varie parti offese.
Certo, ci saranno l'appello e la Cassazione. La strada verso la fine di questa assurda e triste vicenda è ancora lunga. Ma intanto, lo scorso 13 dicembre nel tribunale di Spoleto il giudice Avenoso ha chiarito finalmente da che parte stanno le responsabilità. Del Papa è colpevole di quelle 4 morti. La sua assurda richiesta di risarcimento da 35 milioni di euro ai familiari delle vittime e all'unico superstite è carta straccia.
E la lettura di quella sentenza è stata una liberazione per le famiglie degli operai morti, soprattutto per le vedove. Donne come Anila Todhe, moglie di Vladimir, che si è ritrovata all'improvviso sola con due figlie piccole da crescere e un marito morto da difendere, anziché da piangere. Donne forti, che hanno saputo reggere il durissimo colpo e reagire, come forse gli uomini, a parti invertite, non avrebbero saputo fare.
Poco conta allora l'entità della condanna. Eccessiva? Insufficiente? Giusta? Un esercizio logico che non ha senso per chi, fino a pochi minuti prima, temeva di poter essere chiamato a pagare i danni del disastro. Chiarire dove stanno le responsabilità: questo era il punto e questo è stato fatto.
Certo, la mente degli osservatori esterni è corsa però inevitabilmente a Torino. A quella sentenza, anche lì di primo grado, che è destinata a cambiare la giurisprudenza in materia di incidenti sul lavoro: 16 anni e mezzo per Herald Espenhahn, amministratore delegato della Thyssen Krupp, condannato per l'omicidio volontario di sei operai della fabbrica torinese. Di fronte a quel tipo di verdetto, i 7 anni e mezzo di Del Papa, condannato invece per omicidio colposo e senza colpa cosciente (che il giudice non ha riconosciuto, nonostante fosse tra i capi di imputazione), si ridimensionano fortemente. Al tempo stesso, però, è vero che, se non ci fosse stata Torino, ora staremmo certamente parlando di una sentenza molto severa rispetto agli standard precedenti. Basta ricordare, ad esempio, come è andata a finire un'altra vicenda processuale, per una tragedia sul lavoro avvenuta appena un anno prima di quella di Campello. La morte di tre operai edili in via dei Filosofi a Perugia, precipitati da 15 metri di altezza per un difetto nel montaggio della piattaforma sulla quale stavano lavorando. In quel caso il titolare della ditta, Paolo Millucci, è stato condannato a soli 2 anni e 8 mesi.
Dunque, la sentenza di Spoleto è un passaggio importante, la conferma che, nonostante le resistenze della Confindustria, della destra politica (vi ricordate Tremonti? “La 626 è un lusso che non possiamo più permetterci”) e lo scarso interesse dei media, in Italia sta forse lentamente cambiando l'approccio culturale e non solo giuridico, alla piaga delle morti sul lavoro, che non sono mai “tragiche fatalità”, ma omicidi e come tali vanno trattate.

da "Micropolis" gennaio 2012 

29.1.12

ll Trio Lescano. Lo swing dell'Italietta (di Elena Loewenthal)

Il Trio Lescano
La vita è come un film, a volte.
Prima scena: tre giovani donne consumano pasticcini e sorbiscono spumante insieme a un uomo che si chiama Umberto, è il Principe di Piemonte, adora ballare e lo fa con tutte e tre a turno, suggellando ogni volta il momento con un baciamano.
Seconda scena: tre giovanissime acrobate si esibiscono nel loro numero. Sono esili, non belle e per nulla esuberanti: nulla a che vedere con l'ideale di donna sancito dal settimanale «Signorine grandi firme».
Terza scena: buio. Nulla, se non un silenzio pesante.
Dove sono sparite le tre sorelle? Alexandra, Judith e Kitty Leschan nascono in Olanda fra il 1910 e il 1919. Non si sa esattamente dove, visto che vengono al mondo in un nomade circo. Il padre Alexander è un contorsionista ungherese costretto a riconvertirsi in clown da un incidente di percorso. E' anche acrobata e saltatore: soprattutto nei letti, a giudicare dalle figlie che dissemina in giro. Poi un giorno sposa la diciottenne Eva De Leeuwe, circense cantante d'operetta: olandese ed ebrea, viene da una dinastia di umoristi, maghi, musicisti. Le loro tre figlie, avviate quasi in fasce a una carriera sotto il tendone, prenderanno la strada di artiste indipendenti. La madre è l'«eterno carabiniere» che le seguirà quasi ovunque e morirà a novantaquattro anni, mentre del padre si perdono le tracce.
Le tre Lescano con la madre
E' nel 1935 che le prime due sorelle Lescano sbarcano in Italia come «Sunday Sister», una coppia di acrobate che ha già girato tutta l'Europa. Poco dopo, fiutando una luminosa carriera che arriverà senza neanche dar loro il tempo di rendersene conto, mamma Eva richiama dall'Olanda anche la piccola Caterina, chiusa in collegio. L'Italia fascista ha bisogno di musica. La radio sta entrando nelle case degli italiani. L'autarchia arresta ai confini del paese tutto quel che è straniero, compreso il jazz e tanti altri generi. «Non si può importare, ma si può imitare», spiega Gabriele Eschenazi autore del libro Le regine dello swing. Il trio Lescano: una storia fra cronaca e costume in uscita per Einaudi (nonchè sceneggiatore della fiction televisiva dedicata al Trio di imminente programmazione). Il collettivismo spinto del regime, che esige massa d'urto e ha diffidenza d'ogni protagonismo che non sia quello del duce, non vuole voci soliste. Così, il trio Lescano - che abita in una bella casa di via Artisti, a Torino, e si può persino permettere un automobile con tanto di autista - conquista il Paese: con quelle facce un poco stordite, gli occhi acquosi e i rotoli di capelli sulla fronte come dettava la moda (anzi, come dettavano loro tre). Le voci limpide, il ritmo swing che entra in testa e non esce più, le rime baciate infuse, forse, di una garbatissima ironia. Maramao perché sei morto, Ciribiribin, Pippo non lo sa (che non piacque al regime, perché quel «quando passa ride tutta la città» sembrava scritto apposta per il gerarca Achille Starace), Tulipan (omaggio alla loro terra natìa) hanno varcato gli anni, la guerra, le generazioni. Ce le abbiamo ancora nelle orecchie, insomma. La parabola di Alessandra, Giuditta e Caterina Lescano - così italianizzano i loro nomi, in nome dell'autarchia - è vertiginosa. Ma ben presto arrivano le leggi razziali. Le sorelle sono straniere, di padre non ebreo e troppo famose per essere stroncate brutalmente dalle obbrobriose disposizioni: ottengono uno status speciale che consente loro di continuare a cantare. Ma non senza preoccupazioni, soprattutto per mamma Eva (in Olanda la sua famiglia sarà sterminata). Nel novembre del 1943, dopo un'esibizione al Teatro Grattacielo di Genova, le sorelle Lescano vengono arrestate. Difficile dire quanto rimasero a Marassi e come ne uscirono per raggiungere fortunosamente la madre, in clandestinità a Valperga Caluso nel Canavese. Finita la guerra nulla sarà più come prima: Caterinetta, la piccola, scalpita. Vuole metter su famiglia, condurre una vita «normale». Il trio si spacca. Quel che ne resta parte per il Sudamerica insieme a un surrogato della sorella mancante, una giovanissima Maria Bria che nei quattro anni di tournées sotto l'equatore sarà costretta a fingere di essere una Lescano. In quelle terre remote esce di scena anche Giuditta. Sandra tornerà invece in Italia al seguito di un marito, per non cantare mai più. E' una storia bellissima, avvincente e anche crudele, quella del trio Lescano. Una storia paradigmatica eppure ambigua. Rappresenta il nostro il paese e i suoi travagli, ma è misteriosa come gli sguardi persi delle sorelle, le loro peregrinazioni, la loro noncuranza delle radici. Le partenze che si susseguono senza ritorno, le bisticciate epocali. Gli impresari che le sfruttano, i mariti che le conquistano. Nessuna di loro ha avuto figli, e alla fine si sono perse anche fra loro, come i mulini a vento che tanti anni prima avevano «lasciati per questo cielo blu».

 Da “La Stampa”, 16 ottobre 2010


Ritorno ad Assisi. La palude (S.L.L. - da "micropolis" gennaio 2012)


Assisi. Foto di Marco Francalancia
Ad Assisi sono tornato dopo alcuni anni, in un sabato d’inverno senza turisti. Ho guardato, ascoltato e letto. La città è una palude e la stagnazione lascia scorgere poco di quanto dentro accade. Il centro continua ad affascinare, molto al di là dell’immagine convenzionale, francescana e misticheggiante, ma è proprio da lì che sembra effondersi verso la piana, il monte e le colline circostanti un senso di torbido torpore.
Per tutto il Novecento, già dal tempo di Mussolini, che ammirava in Francesco “il più italiano dei santi”, passando per gli anni del “regime democristiano”, fino alle ripetute visitazioni del papa polacco, lo svuotamento del capoluogo ha accompagnato, a ondate, la crescita dell’“industria del santino” gestita direttamente da frati e suore e del notevole indotto laico. Si giunge così alle poche centinaia d’adesso, con un numero altissimo di esercizi commerciali, ricettivi, e tra questi molti religiosi alberghi dello spirito, beneficiari di esoneri fiscali. Qualcuno in Comune ipotizza un’inversione di tendenza, un progressivo ripopolamento grazie ai mini-appartamenti ricavati dalle ristrutturazioni dopo-terremoto, ma il mercato immobiliare è del tutto bloccato e non c’è nulla che incoraggi le giovani coppie ad abitare nel capoluogo.
C’è una netta differenza, infatti, – a sentire i residenti -  tra la percezione dall’esterno e quella dall’interno. Al visitatore occasionale Assisi rimanda un’immagine di città medievale ricca di monumenti, salubre, città delle pace e del francescanesimo con tutte le sue suggestioni, con lembi di paesaggio incontaminato e incantevole. Gli abitanti al contrario provano un senso di solitudine e una sindrome da assedio, specie quelli che non vivono di turismo e non beneficiano di nessuna compensazione per le distorsioni economiche ed etiche che derivano dall’essere abitanti di un centro preso d’assalto per decine di giorni l’anno, fino all’imbrunire, con tutte le conseguenze che ne derivano, in termine di costi, servizi, serenità. Un’amministrazione attenta al bilancio ha fatto sì che i cittadini non soffrissero troppo dei balzelli che hanno colpito altri centri, ma il prezzo è stato l’abbassamento generale delle attività sociali: i centri di aggregazione carenti, gli incentivi all’impresa innovativa giovanile acqua fresca, la sensibilità verso le donne lavoratrici zero. E’ difficile il ripopolamento di una città così strutturata.
La stagnazione si avverte anche fuori dal capoluogo, da Santa Maria degli Angeli, che condivide col capoluogo il business turistico-religioso e con la contigua Bastia le attività commerciali e industriali, alle altre frazioni del monte e del piano. Agli Angeli molto è cambiato in apparenza, la configurazione del traffico, i sottopassaggi, le rotatorie, i nuovi supermercati; e sono in attività i cantieri del discusso Puc, che prevede ampie e alte cementificazioni. Ma, a quel che sento e avverto, anche qui la sostanza (quel che sta sotto le apparenze) è stagnazione. Qualcuno del luogo – non senza saggezza – interpreta addirittura come regressione le modificate destinazioni d’uso di spazi che un tempo erano sede di attività produttive e oggi di supermercati. Riusciranno questi nuovi centri commerciali – in tempi di crisi - a vendere le loro mercanzie con intorno così tanta concorrenza? Il dubbio riguarda anche gli appartamenti del Puc. Si vocifera che siano in buona parte già venduti. A chi? Chi dispone oggi di tanti capitali e rischia di tenerli inutilizzati per un buon lasso di tempo?
Forse più che altrove agli Angeli si avverte l’orma di Bartolini, sindaco del terremoto e del Giubileo e potente vicesindaco nel primo quinquennio di Ricci, ora oppositore da destra; ma il suo attivismo, fatto com’era di appalti, cemento, affari e clientele, era in realtà conservatorismo, cioè fiancheggiamento e sostegno dei poteri più forti: i vasti e corposi interessi clericali, immobiliari e turistici, o i comitati d’affari più o meno riservati.
Ricci ha cambiato stile, ma non politica: è più diplomatico, ha fatto pace con la Regione, con Perugia, con la Marcia Perugia-Assisi, ha scelto la pratica gesuitica e dorotea del mota sedare et quieta non movere, ma resta rappresentante degli stessi interessi. E pare che pensi soprattutto alla propria carriera: è in prima fila alla manifestazione con Alfano, ma non lesina aperture a Casini. Insomma, come tanti nella cosiddetta “casta” dei politicanti, Ricci è in attesa.
Intanto la crisi arriva anche nella città del Poverello. Si dice (tuttora mancano dati scomposti) che il turismo, dopo il primo crollo, regga e che anzi qualcosa recuperi in termini di presenze, se non di introiti. Forse è vero. Si dice che la crisi qui morda meno che altrove, perché c’è ancora qualche lavoro in corso nell’edilizia, perché la diversificazione tra attività legate al turismo, industrie e commerci d’altra natura aiuta, perché da queste parti non mancavano riserve di risparmio e di ricchezza. Può darsi. E tuttavia, se non siamo alle smobilitazioni della vicina Bastia, alla Bolletta Mobili, ove il sindacato è tradizionalmente collaborativo, si è scioperato per salari non corrisposti. E’ un segnale allarmante. Dentro la crisi inoltre si scorgono movimenti non del tutto decifrabili, ma di sicuro gravidi di conseguenze: i più grandi alberghi, sia laici che cattolici, cambiano proprietà o quanto meno gestione. Ha un nuovo padrone (e un nuovo nome) il Grand’Hotel, ha un nuovo padrone l’Hotel Subasio, i frati affidano a L’Ora di Padova la gestione del raddoppiato Cenacolo francescano. Nel settore dell’ospitalità cresce l’insofferenza per le strutture dei religiosi e delle religiose, che godono di facilitazioni fiscali tali da configurare una concorrenza sleale.
L’opposizione di centro-sinistra e di sinistra, con poche lodevoli eccezioni, non riesce ad esprimere né lotte, né critiche, né proposte e dentro di essa il Pd sembra involversi in una crisi senza fine. Dei due consiglieri comunali pd, una, la Travicelli, di provenienza democristiana, si è proclamata indipendente dal gruppo consiliare e dal Pd assisano, anche se a Perugia continua a fare la “democratica”. Il recente congresso, che doveva risolvere i problemi interni, ha sancito l’elezione a segretario di Masciolini, ma i suoi due competitori non hanno accettato la sconfitta, hanno fatto ricorso agli organi superiori, denunciando brogli e tessere false. Insomma un Pd da una parte dimezzato, dall’altra “uno e trino”. Le promesse di una svolta della nuova segreteria sembrano destinate a rimanere nel limbo delle buone intenzioni.
A sinistra l’esperienza più interessante degli ultimi anni è rappresentata da “La Mongolfiera”, la lista di sinistra, che nelle elezioni comunali del 2006 aveva raccolto intorno a sé una parte significativa dell’intellettualità laico-socialista e  comunista, con un programma avanzato e intelligente e circa il 10% dei voti. Nel 2011 da quell’esperienza è nato il movimento “Buongiorno Assisi” che è riuscito a imporre a tutto il centrosinistra il candidato a sindaco, Carlo Cianetti. La sconfitta di costui, particolarmente dura anche per l’esplicito sabotaggio o disimpegno di alcuni esponenti Pd, ha determinato anche in quest’area un ripiegamento. Ridotti a poca cosa sono, peraltro, anche i piccoli partiti dell’estrema. E’ tempo, forse, di uscire dalla palude. Questo dossier vuole rappresentare, anche, un contributo alla riapertura del dibattito e a una ripresa dell’iniziativa.
Alla comunità assisana rimane intanto sostanzialmente estraneo e si limita a intervenirvi quanto basta per difendere i propri interessi mobiliari e immobiliari il complesso di ordini, congregazioni e fraternità cattoliche che vive negli eremi e nei conventi della “Città serafica”. Un tempo si distinguevano per l’impegno pacifista e terzomondista i frati della Basilica e del Sacro Convento (non senza qualche contrapposizione con i “fratelli” della Porziuncola, più tradizionalisti e conservatori). Nel 2006 una deliberazione papale ridusse la loro autonomia, riportandoli sotto la giurisdizione del Vescovo. La normalizzazione ha avuto successo, anche perché il ritorno all’ordine corrispondeva all’aspirazione di molti frati, assai lontani in spirito dall’avanzato francescanesimo di alcuni stati del Sud America. Di fatto il Sacro Convento si è allineato con le amministrazioni della destra e ne è stato uno dei più forti sostenitori al tempo di una controversa delibera contro i mendicanti e i mangiatori di panini. Paradossalmente, nel mondo cattolico, sui temi della pace e della cooperazione, ma anche su temi sociali (disoccupazione, nuove povertà, acqua pubblica), uno stimolo è venuto proprio dal vescovo Sorrentino e dalla diocesi, con vere e proprie iniziative di dibattito intitolate alla “Tenda del Risorto”. Un altro punto di luce è di sicuro la “Pro civitate christiana” che riesce ad essere tuttora, non di rado, luogo di incontro e di dialogo tra credenti nelle religioni e credenti nella autonoma umana ragione, ma con la palude assisana ha scarsissimi contatti.

dal dossier "speciale assissi", in "micropolis" gennaio 2012 

"La situasiun a l'è cula ca l'è" (di Lucio Magri - 2000)

Nel 2000, su “la rivista del manifesto” Luigi Pintor avanzò la proposta, volutamente sbrigativa e quasi provocatoria, di dare vita, in tempi stretti, ad una nuova formazione politica, che raccogliesse l'arcipelago di forze, più, meno o niente affatto organizzate, già vicine tra loro in una comune critica alla cultura e al potere allora (e oggi) dominanti. La proposta ebbe la via sbarrata abbastanza presto dal perentorio niet di Bertinotti, guida mediatica della maggiore tra le forze organizzate cui la proposta era rivolta.  
Fra gli altri vi intervenne, in ottobre, il direttore della rivista Lucio Magri, che produsse per la circostanza un’analisi della fase che allora mi sembrò convincente e adesso per molti aspetti mi pare ancora attuale. Riprendo la parte finale del saggio e il suo titolo dialettale La situasiun a l'è cula ca l'è (“La situazione è quella che è”), benché la situazione sia oggi, e di molto, peggiorata. (S.L.L.)
Se anche rinunciamo a un concetto totalizzante e centralistico di partito, una nuova forza politica vera non può nascere se non risponde a un'esigenza storica reale, riconosciuta, oltre che da un'utilità politica contingente; né senza una visione relativamente comune del passato, del presente e del futuro per cui ci si batte. Un "processo costituente", ovviamente, non presuppone tutto ciò, deve costruirlo; ma non comincia e non avanza senza alcune ipotesi generali su cui discutere, da verificare, ma che subito lo caratterizzino.
Qui sta la vera difficoltà della proposta che io stesso ho appena avanzato. La difficoltà di un punto di partenza non tanto definito da escludere il coinvolgimento più largo di forze e culture essenziali, ma neppure tanto generico da produrre un assemblaggio confuso e inerte.
Il fatto è che la crisi della sinistra, di tutta la sinistra, non nasce solo da errori recenti, ma da processi storici oggettivi e di lunga durata. Da un lato il crollo - oltreché la sconfitta - di quel "socialismo reale" che per molti decenni aveva costituito il punto di riferimento ideale per gran parte della sinistra, anche non comunista, e una base materiale di un equilibrio di forze mondiale. Dall'altro lato una ristrutturazione capitalistica che non è solo una restaurazione ma anche una grande trasformazione del modo di produrre, vivere e pensare e che fa leva su una delle maggiori rivoluzioni tecnologiche della storia.
Dalla loro combinazione è nato un nuovo assetto generale, della società e del mondo: quello che nominiamo come neoliberale e neoimperiale e cerchiamo di analizzare con i concetti di globalizzazione, postaylorismo, società dell'informazione, unipolarismo ecc.
La base forte da cui può nascere una "forza di sinistra alternativa" sta nel fatto che questo nuovo assetto capitalistico, già oggi, produce contraddizioni drammatiche e impone prezzi pesanti non solo per delle minoranze, né solo sul terreno dei bisogni più elementari, ma anche per vaste aree sociali, e rispetto anche ai nuovi bisogni che la storia stessa ha fatto emergere e potrebbe realmente soddisfare. Diseguaglianze maggiori tra classi e continenti, e povertà assolute, in un mondo nel quale invece esistono ormai le risorse necessarie per garantire a tutti una decente sopravvivenza; la nuova disoccupazione e la precarizzazione, il sacrificio di diritti e di tutele elementari in un mondo che invece potrebbe ridurre e redistribuire per tutti il tempo e la fatica del lavoro umano e avrebbe bisogno di una maggiore qualità e partecipazione nella sua erogazione; la volontà ossessiva di accelerare produzione e consumo di beni materiali superflui e dissipazione di risorse naturali in un mondo che è già minacciato dal degrado ambientale e avrebbe anzitutto bisogno di un arricchimento intellettuale e umano; individualismo egoistico e competitivo in un mondo nel quale antiche istituzioni di solidarietà e educazione stanno scomparendo e dovrebbero quindi essere sostituite da più ricche e libere forme di socialità; la riproposizione, in versione imbarbarita, di fondamentalismi etnici o religiosi in un mondo che pure pretende di unificarsi e potrebbe permettersi un cosmopolitismo dialogante e cooperativo; la concentrazione dei poteri dominanti nell'economia e nella politica, esterni alla sovranità popolare e da essa incontrollabili, in un mondo in cui, invece, i livelli di istruzione e i mezzi di comunicazione permetterebbero partecipazione diffusa; l'affidamento assoluto agli automatismi del mercato in un mondo in cui il mercato di fatto è orientato da pochi, il consumatore è manipolato e manipolabile, gli obiettivi essenziali hanno bisogno essenziale di scelte consapevoli e di lunga prospettiva, e in cui esistono gli strumenti per pianificarle senza centralizzazione e dispotismo ma orientando decisioni decentrate e iniziative largamente autonome.
Perché allora tutto ciò non produce ancora un'opposizione e una critica diffusa, l'aspirazione ad una trasformazione profonda, una grande politica che l'esprima e l'organizzi? Anzi ne produce ancor meno, e in forme più disperse e subalterne, di quanto le disuguaglianze avevano almeno un fondamento nella scarsità generale, il puro progresso materiale appariva a tutti una esigenza assoluta, le classi dominate erano abituate a una secolare rassegnazione, i continenti dominati erano piegati da un diretto regime coloniale, gli umili erano privi di istruzione e di esperienze di organizzazione? La risposta è abbastanza evidente: sta nella forza impressionante e nella pervasività del potere dominante. È questo meccanismo apparentemente impersonale e senza dimora che impone alla sinistra di governo di accettare l'esistente, perché un riformismo debole è privo del potere e della forza per sfuggire a quell'insieme di compatibilità. Ma si riflette anche - ecco il punto - nel senso comune di massa e nelle forze che lo rifiutano o lo combattono.
Una forma di tale subalternità, la più seria e generosa, penetra anche in quella sinistra sulla quale il nostro discorso ora si concentra e ne spiega la difficoltà. Parlo dell'ideologia del cosiddetto "esodo dalla politica", molto più diffusa e multiforme di quanto non si creda: radicale o moderata, sindacalista o culturalista, classista o solidarista, cattolica o libertaria. Comune è la convinzione che - in questa fase storica o anche oltre - di fronte a questo "potere compatto", a questo "pensiero unico", che svuotano le istituzioni, che omologano il ceto politico, occorre fare di necessità virtù: cioè accettare e usare l'estrema pluralità dei movimenti, far leva su lotte di resistenza magari a volte nell'immediato perdenti ma che accumulano consapevolezza, costruire dal basso, in forma molecolare, là dove l'esclusione è più pesante, esperienze di solidarietà legate al vissuto e al locale; comunque rinunciare all'illusione di un progetto alternativo unificante e complessivamente praticabile, ad un'organizzazione politica permanente, tanto più a porsi problemi di governo, di alleanze, di riforme.
È un'ideologia che ha percorso l'intera storia anche del vecchio movimento operaio, e con cui fare seriamente i conti. Perché contiene importanti e oggi più evidenti elementi di verità. Anzitutto la critica ad una visione tradizionale delle contraddizioni capitalistiche seccamente ridotta al conflitto diretto lavoro-capitale (spesso a sua volta ridotto al terreno sindacale vertenziale e redistributivo), che oggi risulta tanto più legittima in quanto quella visione sottovaluta o subordina il ruolo e la qualità di nuovi soggetti (esterni al mondo del lavoro o espressione di nuove forme di lavoro). In sostanza: critica dell'economicismo. In secondo luogo la critica della politica, della sua concentrazione sul problema della conquista e dell'esercizio del potere, cui si contrappone il bisogno di ridarle tensione ideale e di ricollegarla a una esperienza sociale diretta e vissuta (tanto più quando la conquista del potere degrada a conquista del governo, e i "rivoluzionari di professione" rapidamente si integrano nel ceto politico). In sostanza, critica dello statalismo.
Tuttavia su questa strada non si va lontano.
Tralascio qui un dibattito teorico che sarebbe necessario e ha importanti precedenti. Mi limito a constatazioni fattuali.
L'inquietante novità del capitalismo attuale sta soprattutto nella grande capacità che esso ha acquisito, facendo leva su straordinarie innovazioni tecnologiche, di scomporre le classi, i paesi, i soggetti che più pesantemente opprime, e allo stesso tempo di manipolare le coscienze, i valori, gli stili di vita dell'intero corpo sociale.
Per questo i movimenti che gli si oppongono non solo restano minoritari, ma hanno un andamento sussultorio - esplodono e poi rifluiscono lasciando deboli sedimenti, si alternano e si moltiplicano ma senza convergere se non per brevi momenti e solo contro un comune nemico, spesso entrano in conflitto tra loro, e talvolta contribuiscono a una "rivoluzione passiva" (nuova socialità che si risolve in individualismo, libertà individuale che diventa massificazione). Ogni volta ne cogliamo giustamente la novità e l'importanza, ma raramente ne facciamo un bilancio complessivo e di lungo periodo. Eppure è ormai una storia che dura da trent'anni, alla quale molti di noi hanno direttamente e senza risparmio partecipato, almeno a partire dal '68: la contestazione studentesca e intellettuale, i movimenti per i diritti civili in America e quelli operai in Italia, quelli legati al Vietnam o alla rivoluzione in America Latina, la lotta contro l'energia nucleare, il pacifismo per il disarmo multilaterale, il femminismo e l'ambientalismo come fenomeni insieme radicali e di massa, le occupazioni di case, i consigli di fabbrica, le 150 ore e via via la "Pantera", la scala mobile, le pensioni, lo zapatismo come messaggio simbolico.
Non ricordo tutto ciò per limitare l'importanza di questi movimenti, la ricchezza della loro pluralità, la loro carica innovativa nei contenuti e nelle forme di organizzazione. Voglio solo sottolineare il fatto che per stimolarne la crescita, sviluppandone l'intera potenzialità, occorre, oggi più che nel passato, sostenerli con un progetto, affiancarli con una organizzazione politica che renda più esplicito il collegamento con la struttura di fondo della società, estenda il loro influsso su coloro che non ne sono direttamente coinvolti, e soprattutto incida realmente, con un insieme coerente di riforme, sulle grandi scelte e sui grandi assetti del potere (ricerca, scuola, investimenti, forme istituzionali, assetti proprietari, politiche monetarie). Senza di questo non solo il conflitto resta latente, ma non cresce una soggettività matura, non si forma una classe dirigente, insomma non avanza un'alternativa.
Questa del resto a me pare la vera lezione da trarre dalla esperienza storica, grande e terribile, del Novecento.
In negativo, perché essa ha dimostrato come grandi, e autentiche, rotture rivoluzionarie non sono bastate a produrre quella società radicalmente nuova cui aspiravano, e che quando l'hanno tentato oltre il limite storicamente dato, e senza sapere organizzare rapporti di produzione effettivamente nuovi né inventare nuove istituzioni democratiche, si sono bloccate, hanno degenerato, alla fine uscendone sconfitte.
Ma anche in positivo, nel senso che quelle stesse rivoluzioni, a un certo punto confluendo con movimenti meno radicali ma seriamente riformatori, e con lotte di liberazione nazionale del Terzo mondo, sono riuscite a produrre straordinari avanzamenti non solo produttivi ma culturali e sociali, hanno sbarrato la strada a soluzioni barbariche di una crisi di sistema, e poi si sono cristallizzate in un assetto generale in cui il capitalismo sopravviveva ma in competizione con altre forze, e seriamente condizionato. Diritti e tutele del lavoro, democrazia organizzata, stato sociale, alfabetizzazione di massa, liberazione politica del Terzo mondo: tutto ciò non è stato il naturale sbocco del capitalismo fordista, ma anche il frutto di un rapporto di forze, di una lotta drammatica e anche di parziali compromessi.
Questa storia ci ha insegnato dunque - se vogliamo darle un senso (oltre l'abiura e senza la rimozione) - che il passaggio dal capitalismo ad un nuovo sistema sociale è un processo di lunga durata, con uno sviluppo non lineare, che può imboccare direzioni diverse e anche regredire. Un processo per tappe, in ciascuna delle quali si realizzano o si possono realizzare non solo obiettivi parziali ma anche successivi equilibri generali, diverse egemonie, convivenza di diverse forme di produzione variamente gerarchizzate.
Oggi si è restaurato un dominio capitalistico più pieno, e più coerente con la sua logica di fondo, ma creando nuove contraddizioni e nuove potenzialità alternative. Ma non è possibile agirvi solo riproponendo contenuti e forme dell'equilibrio precedente, anche se è necessario resistere al suo smantellamento. Si tratta di definire le idee forza di una nuova tappa possibile: sviluppo sostenibile; welfare society; governo multipolare del mondo - di cui un'Europa democraticamente legittimata e autonoma nel proprio modello sociale e nel suo ruolo internazionale è condizione necessaria; democrazia economica decentrata unita a un piano complessivo e ad un potere che lo governa, e così via. Novità dirimenti: un nuovo modo di produrre e di consumare e non solo di redistribuire il reddito. Commisurando tutto ciò comunque ai rapporti di forza, individuando soggetti, conflitti e alleanze necessarie: perché questo è lo specifico della politica.
Quando parlo di una "forza politica alternativa" è a ciò che mi riferisco. Non considero cioè - forse a differenza di Pintor o di altri - questa espressione come puro sinonimo di "sinistra critica" (anche se deve ormai escludere ogni dogmatismo) né di "sinistra antagonista" (anche se deve essere animata da una contestazione dei principi fondativi del sistema). Una "sinistra alternativa" si definisce, per me, anzitutto e in positivo, come un progetto e una pratica che si contrappongono ad un assetto capitalistico storicamente determinato - neoliberista e neoimperiale - e ritiene necessario e possibile modificarne l'assetto per aprire la strada a trasformazioni più avanzate. Per questo deve e può essere "politica, in senso forte" rilanciare la lotta di classe ma "elevandola a un livello etico-politico" (Gramsci).
Non è obiettivo di qualche mese né di qualche anno, tanto meno di un governo o di una legislatura. Ma proprio poiché agiscono invece rapidamente processi dissolutivi occorre politicamente e teoricamente proporselo subito e con sufficiente ambizione.
Nessuna conclusione quindi al dibattito avviato da Pintor: solo un contributo, certo meno brillante e stringato ma nelle intenzioni non meno provocatorio, per riprenderlo e portarlo avanti.
Come diceva, negli anni Trenta, l'operaio biellese Willi Schiapparelli al suo compagno di cella, ogni mattina alzandosi: "la situasiun a l'è cula ca l'è". Alcuni anni dopo ottenne qualche soddisfazione.

28.1.12

"Casablanca" (di Ingrid Bergman)

Michael Curtiz mi piaceva. Era un buon regista; ma, nonostante questo, l’inizio di Casablanca fu disastroso, anche se non per colpa sua. Sin dalle prime riprese il produttore, Hall Wallis, si mise a litigare con gli sceneggiatori, i fratelli Epstein e, come se non bastasse, anche Mike Curtiz prese a trascorrere l'intervallo del pranzo discutendo con Hall Wallis. La sceneggiatura doveva essere modificata; i dialoghi ci venivano passati giorno per giorno e toccava a noi sbrigarcela perché quello che facevamo avesse un minimo di senso. Nessuno sapeva dove saremmo andati a finire o quale sarebbe stata la conclusione del film, il che non ci aiutava certo a entrare nei rispettivi ruoli. Ogni mattina chiedevamo: «Chi siamo e che cosa stiamo facendo?». E Michael Curtiz ci rispondeva: « Ancora non è deciso. Per oggi giriamo questa scena e domani ve lo saprò dire ». Era una situazione ridicola, anzi peggio, estremamente sgradevole. Anche Michael Curtiz non sapeva quello che stava facendo perché nemmeno lui aveva un'idea precisa della trama. Tutte queste incertezze irritavano profondamente Humphrey Bogart, che si ritirava nella sua roulotte il più spesso posibile. La cosa che mi metteva più a disagio era il non sapere di chi dovevo essere innamorata, se di Paul Henreid o di Humphrey Bogart.
« Non lo sappiamo ancora... tu cerca di recitar bene... barcamenandoti. »
Non osavo guardare Humphrey Bogart con occhi innamorati perché poi non avrei saputo come guardare Paul Henreid.
Avevano intenzione di girare due finali perché non riuscivano a decidere se avrei dovuto partire con mio marito o restare con Bogart. Il primo fu quello dell'addio. Se vi ricordate, Claude Rains e Bogie si allontanano nella pioggia pronunciando la famosa frase: « Louis, credo che questo sia l'inizio di una bella amicizia ». Il parere unanime fu quello di conservare questo finale, senza nemmeno girare l'altro. La frase conclusiva sembrava perfetta.
Ma nessuno sapeva che quella sarebbe stata la frase conclusiva finché non venne risentita, così come nessuno si immaginava che il film avrebbe vinto un Oscar e sarebbe diventato un classico.
Gli attori che l'avevano interpretato formavano un cast straordinario, ma i problemi connessi con la sceneggiatura avevano creato molte tensioni, tanto che posso dire di non aver quasi conosciuto Humphrey Bogart. Certo, l'ho baciato, ma senza conoscerlo.

Da Ingrid Bergman, La mia storia,Mondadori 1981

Pro e contro l’omeopatia (con un’intervista di Elena Lisa a Valter Masci)

A Liverpool nel gennaio 2010 trecento persone (membri di una “Società degli Scettici”) ingurgitarono 84 pilloline di una preparazione omeopatica, l’Arsenicum album”, usata contro l’insonnia e le intossicazioni alimentari. Era una protesta contro la medicina omeopatica diretta soprattutto contro la catena britannica di farmacie “Boots”, accusata di vendere acqua fresca o zuccherini per farmaci, approfittando della credulità della gente, stimolata da medici superficiali o imbroglioni. I trecento, non so quanto giovani e forti, non ebbero conseguenze giacché il farmaco ingurgitato non conteneva più molecole di arsenico. E non già per un inganno, ma per il combinato disposto dei principi della medicina omeopatica e della chimico-fisica. La medicina dichiara di guarire i malanni con le sostanze che nei sani ne provocano i sintomi (“principio della similitudine”), ma estremamente diluite con acqua e, ad ogni diluizione centesimale, “dinamizzate” con un lungo e robusto scuotimento. La diluizione è tale che alla fine – giusta la costante di Avogadro – non c’è nel liquido ottenuto  alcuna traccia della sostanza che vi è stata disciolta. So che la medicina è tuttora divisa sull’omeopatia e che prestigiose organizzazioni scientifiche hanno condotto indagini con risultati diversamente interpretabili. Sembrerebbe certo che i farmaci omeopatici siano un po’ più efficaci dei placebo (i finti farmaci la cui valenza terapeutica è tutta psicologica), ma che siano molto meno efficaci dei farmaci “ufficiali” (dei quali tuttavia non hanno gli effetti collaterali spesso sgradevoli).
A proposito della protesta di Liverpool, su “La Stampa” del 31 gennaio 2011, Elena Lisa intervistò un medico di fama internazionale che con giudizio accoppia medicina omeopatica e ufficiale chirurgia, Valter Masci. Ripropongo il testo di quel “pezzo”. (S.L.L.)
Valter Masci, membro di numerose commissioni ministeriali sulle medicine alternative, vicepresidente dell'associazione internazionale «Homeopathia Universalis» di Parigi, ha il piede in due scarpe: è tra i massimi esperti di «nuove» terapie, ma è pure chirurgo della medicina ufficiale. «Perciò - dice - chi meglio di me può giudicare l'azione di 300 attivisti della ''Società degli Scettici''»?
Quindi, il suo verdetto è?
«Sono 300 sciocchi. Oppure 300 intelligentoni in malafede. Se di omeopatia ne capissero un minimo, saprebbero che 84 pillole di ''arsenicum album'' non daranno alcuna reazione».
Ma la sua è un'ammissione d'inefficacia in piena regola: se 84 pastiglie non fanno niente, una sola quanto può curare?
«La concentrazione di principio attivo contenuto in una pillola è infinitesimale. Se volessero vedere gli effetti di una ''overdose'' dovrebbero prenderne un camion».
Nel caso, che succederebbe?
«Fitte alla pancia, dolori acuti. Una colite terribile».
Scusi, ma allora quante bisogna prenderne per avere qualche beneficio?
«Il punto nevralgico della questione è tutto qui. La scienza mette in dubbio i risultati perché ritiene che le dosi di vegetali e minerali, in sciroppi, pomate e pastiglie omeopatiche, sia così basso da non potere curare nessuno. E invece.. .».
Invece?
«Mi sono laureato nel 1978 in Medicina e Chirurgia, e non ho dubbi: non so spiegare come sia possibile, ma l'omeopatia cura anche con un dosaggio minimo. Certo non risolve patologie gravi, tumori, cardiopatie, ipertensioni. Chi sostiene il contrario è un cialtrone».
Tra di voi, però, c'è chi lo fa...
«Lo so. Non siamo una categoria unita: c'è chi millanta di poter salvare vite e chi con la scienza non scende a patti. Altri, e io sono tra questi, invece, cercano risposte nette: sono anni che chiedo di organizzare sperimentazioni definitive, negli ospedali e nelle università, per fare chiarezza».
Perché non si farebbero, secondo lei?
«Paura di cambiare. Per una resistenza culturale alle novità che, da sempre, appartiene alla medicina».

Idea per una sana e giusta regolarizzazione (di Saleh Zaghloul)

Trento. Immigrati in fila per la regolarizzazione davanti alle Poste centrali.
La settimana scorsa ACLI e CGIL hanno chiesto al governo la regolarizzazione degli immigrati irregolari. Richiesta giusta ed opportuna, ma come fare la regolarizzazione? Le regolarizzazioni che si sono fatte dal 1987 ad oggi hanno avuto uno svolgimento burocratico terribile. Sono state fatte concentrando la presentazione di centinaia di migliaia di domande in due o tre mesi.
Ingolfando gli uffici stranieri delle questure, delle prefetture, delle poste, del sindacato facendo “impazzire” i lavoratori di questi uffici. E’ come permettere agli automobilisti di fornirsi di carburante soltanto al lunedì di ogni settimana. Si scatena tra gli irregolari una disumana corsa contro il tempo, si usano tutti i mezzi per poter presentare domanda, si accetta ogni ricatto, si compra e si vende di tutto dal contratto di lavoro falso al proprio corpo. Si rivitalizzano le associazioni a delinquere di venditori e falsificatori di contratti di lavoro e se ne formano delle nuove. Il primo contatto degli immigrati con le istituzioni del nostro paese avviene aggirando regole e legalità.
L’emersione dal lavoro nero degli immigrati irregolari andrebbe invece fatta utilizzando gli stessi strumenti che si usano per i lavoratori italiani dove è possibile presentare domanda tutti i giorni del mese, tutti i mesi dell’anno, per anni. Così è stata l’emersione in base alla legge 383/2001 (Tremonti bis). I piani d’emersione territoriali e nazionali che oggi il sindacato sta proponendo al governo vanno adeguati in maniera da prevedere l’emersione del lavoratore immigrato irregolare e il rilascio in questo caso del permesso di soggiorno. Va prevista l’emersione su richiesta e vertenza del lavoratore stesso e il rilascio, previa verifica, del permesso di soggiorno. E andrebbero revocate le precedenti espulsioni amministrative. Questa è una proposta.

da "Italia razzismo.it" 27 gennaio 2012

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