31.1.18

I genovesi e la “Carmen”. Una lettera a Peter Gast (Friedrich Nietzsche)

La "Carmen" al Teatro Carlo Felice di Genova - Edizione 2017
Caro amico,
ieri sera sono stato di nuovo alla Carmen - forse per la ventesima volta di quest’anno. Teatro esaurito come sempre: per questo pubblico essa è l’opera sovrana. Dovrebbe sentire che silenzio di tomba quando a questi genovesi viene ammannito il loro pezzo prediletto — il preludio del quarto atto — e l'urlo del bis alla fine. Anche la tarantella (così nel testo in tedesco) piace loro immensamente. Ebbene, amico mio, anch’io mi sentii di nuovo felicissimo; quella musica scuote in me le corde più profonde, e quando la odo mi propongo di metter fuori la mia cattiveria estrema — piuttosto che morire rodendomi in silenzio. Mentre l’ascolto compongo continuamente canti dionisiaci, dove mi abbandono alla libertà di dire terribilmente le cose più terribili, per ora in modo da far ridere: ecco l’ultima forma della mia demenza.
Se potessi inoculare un po’ di questa musica al signor Bungert per temperare il suo idealismo equilibristico tra Schumann e Brahms, che alla fin fine mi riesce insopportabile: manca di ossatura...
Friedrich Nietsche


Epistolario 1865-1900, a cura di Barbara Allason, Einaudi 1962

In questa notte, in questo mondo. Una poesia di Alejandra Pizarnik (1936-1972)

A Martha Isabel Moia
In questa notte in questo mondo
Le parole del sogno dell'infanzia della morta
Non è mai questo ciò che uno vuole dire
La lingua natale castra
La lingua è un organo di conoscenza
Del fallimento di ogni poema
Castrato dalla sua stessa lingua
Che è l'organo della ri-creazione
Del ri-conoscimento
Ma non quello della ri-surrezione
Di qualcosa in maniera di negazione
Del mio orizzonte di sofferenza con il suo cane
E niente è promessa
Tra il dicibile
Che equivale a mentire
(tutto quello che si può dire è bugia)
il resto è silenzio
solo che il silenzio non esiste
no
le parole
non fanno l'amore
fanno l'assenza
se dico acqua, berrò?
Se dico pane, mangerò?
In questa notte in questo mondo
Straordinario silenzio quello di questa notte
Quello che succede nell'anima non si vede
Quello che succede nella mente non si vede
Quello che succede nello spirito non si vede
Da dove viene questa cospirazione dell'invisibilità?
Nessuna parola è visibile.


da Testi in ombra e ultimi poemi [1971-1972]. Traduzione di Samanta Catastini) – nel sito “Il canto delle sirene”

La resurrezione ("Amici di micropolis")

Non è una bufala anche se è dura da digerire.
Da rottamatore Matteo diventa riciclatore e non butta via niente: Pierferdinando Casini candidato del Pd a Bologna nel collegio uninominale dell'area metropolitana bolognese.
Basiti parlamentari uscenti e dirigenti locali, increduli i Bolognesi, soddisfatto Romano Prodi che ha dichiarato di votare Pd quindi Casini.
Le tipografie dove sono stati ordinati i manifesti pensano di essere su scherzi a parte e non accettano ordini dove accanto al nome di Casini compare quello del Pd.

Il restauratore Matteo continua nella sua opera di resurrezione della Dc. Fa bene. Sono ancora molti quelli che ci credono in tutta Italia.

dalla pagina fb "Amici di micropolis", postato da Paolo Lupi

Le poesie di Alejandra Pizarnik. “Quel che facciamo della nostra sfortuna” (Francesca Lazzarato)

Poche riedizioni, pochi recuperi, tra i molti cui l'editoria attuale ci ha abituato, appaiono altrettanto opportuni di quello che consente oggi un ritorno in libreria di La figlia dell'insonnia (Crocetti ), ampia scelta dei versi di Alejandra Pizarnik a cura di Claudio Cinti, con un testo del poeta surrealista argentino Enrique Molina e il breve prologo che Octavio Paz scrisse per una delle raccolte più importanti dell'autrice, Albero di Diana. Già pubblicata nel 2004, l'antologia era ormai introvabile, e il suo ritorno è in sintonia con l'interesse crescente nei confronti di una figura quasi leggendaria, attorno alla quale si è addensata un'enorme mole di indagini critiche, interpretazioni e studi, ma che viene spesso affrontata in modo superficiale e stereotipato, al punto che solo oggi, a quarantrè anni dalla morte, la foresta di luoghi comuni cresciutale intorno è stata in parte disboscata, grazie anche alla pubblicazione dell'epistolario (alla prima edizione del 1998 se ne sono aggiunte altre due via via più ricche) e dei monumentali Diari in edizione definitiva (1100 le pagine del volume uscito nel 2013 per mano di Ana Becciu, che dell'opera di Alejandra è la curatrice), finalmente liberi dalle prudenti censure che nel 2001 avevano espunto moltissime annotazioni considerate eccessivamente intime.
È accaduto troppo spesso che l'affascinante personaggio di Alejandra Pizarnik si sia sovrapposto, fino a nasconderle, alle nove raccolte di poesia e alle straordinarie prose (scoperte davvero solo nel 2002, quando Ana Becciu le ha riunite in volume) prodotte tra il 1955 e il 1971, anno in cui la sua parabola creativa si chiuse con La contessa sanguinaria (Playground 2005), una stupefacente nouvelle gotica, e con l'ultima antologia, L'inferno musicale, più che mai connotata dalla fusione tra prosa e poesia, spezzata in brevi frammenti. A segnare il principio di questo «divoramento» dell'opera da parte del dato biografico è stata ovviamente la fine di Alejandra Pizarnik, che, dopo diversi ricoveri in cliniche psichiatriche, grazie a una breve «licenza» concessa dai medici, tornò nella sua casa di Buenos Aires, piena di bambole e fantocci smembrati, di animaletti in legno e metallo, di mobili insolitamente piccoli e di carte, carte dappertutto: ritratti di scrittori defunti, labirintici disegnini, quaderni, fogli, libri. «Un cosmo magnetico di oggetti» - così lo definì il suo amico Antonio Requeni - all'interno del quale Alejandra venne trovata morta il 22 settembre del 1972: cinquanta pastiglie di seconal avevano definitivamente cancellato l'insonnia che la tormentava sin dall'adolescenza, contribuendo a farne una creatura notturna, sempre più estranea alla luce del giorno (per lei le quattro del mattino, scrisse qualcuno, «erano l'ora della merenda»).
Anche se c'è chi vuole credere a un'overdose involontaria, non sono in molti a dubitare che Pizarnik abbia portato a termine un suicidio a lungo evocato, suggellando così il proprio mito futuro e dando l'ultima pennellata a quell'immagine «maledetta» che lei stessa aveva contribuito a disegnare: lo ricorda Sylvia Molloy, che la conosceva bene e che la racconta impegnata in una «autoraffigurazione permanentemente bisognosa di testimoni», ma che allo stesso tempo ci ricorda come tale autoraffigurazione avesse tra le sue componenti anche una indubbia e maliziosa buffoneria, una sorprendente vocazione per il dandysmo, un'inclinazione a trasformare ogni gesto in performance, che implicava una sorta di riscrittura del corpo (quel corpo odiato quando era una adolescen-ta bruttina, balbuziente e asmatica, e poi «lavorato» fino a farlo diventare quello di una pallida, stravagante bohémienne), sempre proiettato verso lo sguardo altrui. Elementi, questi, che divergono notevolmente dall'immagine consueta di una Alejandra tragica, attratta dalla morte, assorta nel rimpianto di una infanzia perduta, fragile, convinta di non poter essere amata: una figura che corre il rischio di diventare - dice César Aira, suo singolare biografo - «una specie di ninnolo decorativo sullo scaffale della letteratura».
Ma che Alejandra Pizarnik sia ben altro che un «ninnolo» e resti in buona parte un labirinto pieno di sorprese ce lo dimostra la lettura incrociata della sua opera da sempre visibile (la poesia, resa almeno in parte accessibile grazie alla bella scelta di Cinti e alla sua raffinata traduzione, e la prosa, immeritatamente sconosciuta ai lettori italiani, che con la sua coloritura oscena, comica e a tratti violenta sembra anticipare il neobarocco rioplatense di Perlongher, Lamborghini e Copi) e di quella per molto tempo invisibile, ossia i diari e la corrispondenza la cui natura letteraria è indiscutibile, non solo perché buona parte della scrittura è dedicata all'accumulo e all'analisi di citazioni tratte dalle infinite letture dell'autrice, quasi a creare un enorme deposito di materiali cui attingere, ma anche perché si tratta di testi destinati, forse in modo non inconsapevole, allo sguardo altrui. Uno sguardo che prima o poi si sarebbe posato su quella calligrafia minuta per raccogliere una ulteriore testimonianza della estraneità di Alejandra, già proclamata dalla sua poesia: estranea al paese dove era nata ma dove non aveva radici (i suoi genitori, ebrei russi, vi arrivarono poco prima della sua nascita), nella cui tradizione letteraria non si riconosceva - preferiva la filiazione ideale dal surrealismo francese, che l'avrebbe influenzata profondamente, oppure da Kafka e dai racconti chassidici -, e nelle cui vicende politiche e sociali non si sentì coinvolta, restando estranea alle correnti che negli anni '60 attraversarono la letteratura latinoamericana, e proprio per questo rompendo - come Silvina Ocampo, come Sara Gallardo – i condizionamenti di uno sguardo maschile che chiudeva le donne letterate nel recinto dell'emotività, del sentimento, delle vicende domestiche.
Straniera si sentiva, addirittura, in seno a quel linguaggio che era la sua ossessione e dentro il quale cercava rifugio e nascondiglio, cercando di governare e comporre le parole nel modo più semplice, pulito e perfetto, in versi sempre più brevi che, come in Estrazione della pietra della follia, si travestono a volte da prosa, formando piccoli blocchi compatti. Straniera a sé stessa, infine, tanto che i suoi versi sono in continuo dialogo con un «tu» che è in realtà un «io» interpellato o ammonito, mai raggiunto, mai ricomposto, frantumato in una originaria e simbolica pluralità di nomi: perché Alejandra si chiamava in realtà Flora, detta Buma, detta Blimele, e neppure il cognome era davvero il suo (all'arrivo della famiglia in Argentina, infatti, era stato modificato da un errore di trascrizione).
Alla poesia, i Diari e le lettere fanno da controcanto, svelando dolori, difficoltà, passioni quasi ossessive (come quella, ultima, per l'anziana Silvina Ocampo), e confermando il desiderio per il corpo femminile, il rapporto difficile con la famiglia e con la madre, gli eccessi, le lunghissime insonnie, le amicizie fedeli (Cortazar, Olga Orozco, la Molloy, lo psicanalista Léon Ostrov), le molte maschere, prima fra tutte quella di bambina orfana della propria infanzia, che Pizarnik consapevolmente indossava.
Ma in primo luogo ci mostrano un retrobottega letterario complesso e quanto mai interessante, cui farebbe da perfetta epigrafe la risposta data da Alejandra durante una intervista del 1972: «Anche se essere donna non mi impedisce di scrivere, credo che valga la pena di partire da una lucidità esasperata. Per cui affermo che essere nata donna è una sfortuna, come lo è essere ebreo, essere negro, essere poeta, essere argentino, ecc. È chiaro che la cosa importante è quel che facciamo delle nostre sfortune».


Alias domenica – il manifesto, 12 luglio 2015

Mesoamerica: religione e civiltà. Documenti sugli Aztechi (Giulia Poggi)

La straordinaria esperienza che, una volta entrati in contatto con una cultura tanto diversa dalla loro, vissero cronisti, soldati e religiosi, a partire dall'arrivo in Messico di Hernàn Cortés, nel 1519, fino alla sua definitiva conquista e colonizzazione, ha lasciato una serie cospicua di testimonianze non ancora del tutto note al pubblico italiano. Si tratta di fonti a volte discordanti, e comunque non sempre attendibili, anche perché raccolte dai racconti orali resi dagli indigeni in una lingua, il nahuatl, poco comprensibile per gli spagnoli, oppure trascritte da codici pittografici, molti dei quali, purtroppo, andati perduti e distrutti. E tuttavia l'eterogeneità e problematicità di questi documenti non ha impedito a Luisa Pranzetti, esperta di letteratura ispanoamericana e all'antropologo Alessandro Lupo di tracciare, in un Meridiano sulla Civiltà e religione degli Aztechi (Mondadori 2015) una sintesi efficace di una delle civiltà più raffinate della Mesoamerica.
Diviso in tre sezioni, relative ai miti di fondazione degli aztechi la prima, ai riti propiziatori e di passaggio che regolavano la loro società la seconda, al loro drammatico incontro con la cultura spagnola la terza, il volume si articola in una serie di brani provenienti da opere finora mai o solo parzialmente tradotte in italiano. Brani in spagnolo (tradotti, oltre che dai due curatori, da Amanda Salvioni e Claudia Troilo) e in nahuatl (tradotti da Alessandro Lupo, cui si deve anche la compilazione di un prezioso glossario).
La prima impressione che si trae dalla lettura di questo vasto materiale sapientemente ordinato è quella di una civiltà abitata da contrasti e misteri. Una civiltà fondata su una cosmogonia di tipo duale, che vede agire in contemporanea l'elemento femminile e quello maschile, il cielo e la terra, il sole e la luna, nati, secondo l'Historia de los mexicanos por sus pinturas, dall'azione congiunta di Quetzalcoatl (letteralmente «serpente piumato») e Tlalocateuctli:«Quetzalcoatl prese suo figlio e lo gettò in un grande fuoco: da lì uscì, fatto sole, per illuminare la terra; poi, spento che fu il fuoco, venne Tlalocateuctli e gettò suo figlio nella cenere, e ne uscì fatto luna, che per questo appare cinerea e oscura». Tutto, insomma, si distrugge e si ricrea, tutto collabora al ciclico ritorno di stagioni che governa il calendario azteco; tutto contribuisce a spiegare (se mai l'orrore può essere spiegato) la necessità di quei sacrifici umani con tanta crudezza descritti, a più riprese, nella parte centrale del volume.
Sacrifici che indussero i primi evangelizzatori della Mesoamerica a parlare di diavolo, ma che non distolsero i suoi conquistatori dal compiere azioni altrettanto efferate come il massacro dei nobili aztechi perpetrato a tradimento durante la celebrazione di una delle loro tante feste, o la cattura del temuto Montezuma, ignominiosamente imprigionato e privato perfino dell'onore della sepoltura.
Non si dovette aspettare molto perché, distrutta la grandiosa città di Messico che tanto lo aveva impressionato, fatto impiccare l'ultimo, giovanissimo sovrano azteco, Cortés offrisse a Carlo V quel territorio che da allora in poi si sarebbe chiamato Nuova Spagna, e per la cui colonizzazione invocava l'arrivo di uomini che convertissero in chiese e immagini sacre i templi e gli idoli di una civiltà ormai scomparsa.

alias domenica - il manifesto, 12 luglio 2015

30.1.18

Ecco cos'è... Una poesia di Wallace Stevens

Ecco cos’è. L’amante scrive, il credente ascolta,
Il poeta mormora e il pittore vede,
A ognuno la sua destinata eccentricità,
Ognuno parte, ma parte, ma tenace particella,
dello scheletro dell’etere, il totale
Delle lettere, profezie, percezioni, zolle
Di colore, il gigante del nulla, ognuno
E il gigante sempre cangiante, che vive del cambiare.


Da Aurore d’autunno (The Auroras of autumn, 1948), cura, prefazione e traduzione di Nadia Fusini, Milano, Garzanti, 1992

A San Vittore. Lelio Basso racconta l'incontro con Antonio Gramsci

Nella notte fra il 12 e il 13 aprile del 1928 meno di ventiquattr'ore dopo che era stato compiuto a Milano, m piazzale Giulio Cesare, un fallito attentato al re, io fui arrestato sotto l’accusa di esserne stato l'autore. La sera del 13 aprile ero già in carcere, a San Vittore, e la mattina del 14 andando al passeggio in assoluto isolamento - avevo un cortile tutto per me — mi sentii chiamare dal cortile vicino da un compagno che avendomi visto isolato aveva capito che ero un politico. Questo compagno era Umberto Terracini.
Terracini era in carcere — credo — dal 1925; mi chiese subito informazioni sulle cause del mio arresto e mi diede dei saggi consigli sulla vita carceraria. Con Terracini, pur senza vederci, mantenni rapporti quotidiani; infatti avevamo il passeggio in cortili confinanti e, pur separati da un muro, potevamo parlare alzando un po’ il tono della voce.
Da lui seppi che anche Gramsci era a San Vittore. Ma mentre Terracini ed io eravamo al quarto raggio, Gramsci si trovava al sesto e quindi non avevamo nessuna possibilità di incontrarci, salvo se fossimo andati contemporaneamente agli uffici centrali.
La fortuna volle che un giorno, proprio andando a conferire col direttore del carcere, il dottor Ardisson, trovai Gramsci che era prima di me in attesa di essere ricevuto. Anche se non l’avevo mai visto lo riconobbi subito per il fisico caratteristico; lui naturalmente non sapeva chi fossi e non sapeva neppure chi fosse Lelio Basso, ma ricordava perfettamente lo pseudonimo Prometeo Filodemo con cui avevo scritto sulla stampa antifascista dal 1923 al 1926. In modo particolare ricordava la mia collaborazione a "Quarto stato," il settimanale diretto da Carlo Rosselli perché Gramsci aveva scritto un attacco piuttosto duro contro i giovani di "Quarto stato.” E quindi anche contro di me, per le valutazioni politiche diverse che facevamo.
In quell’occasione fu invece cordialissimo. Avemmo uno scambio di parole non molto lungo perché dopo pochi minuti lui fu introdotto dal direttore; poi usci ed entrai io. Però avevamo avuto il tempo di metterci d’accordo pei chiedere udienza al direttore la settimana successiva.
Le udienze dal direttore erano a giorno fisso della settimana e quindi chiedendola subito l’avremmo avuta nello stesso giorno. In generale, non era tanto facile ottenere queste udienze, ma il direttore Ardisson veniva dalla vecchia amministrazione, non era un fascista, personalmente io ero stato compagno di scuola di suo figlio e quindi lo conoscevo benissimo anche per aver frequentato la sua casa prima dell’arresto. A me perciò usava un trattamento di favore, amichevole, e anche verso Gramsci aveva un atteggiamento di rispetto. Quindi la settimana dopo potemmo parlare un po’ più a lungo. Dico a lungo e furono pochi minuti, ma dato che l'incontro era già programmato parlammo rapidamente di politica e soprattutto delle valutazioni sul fascismo. Per quanto io posso naturalmente ricordare, perché in quel momento certo non pensavo di dover registrare quasi quarant’anni dopo questa conversazione. Mi pare però che su un punto ci trovassimo d’accordo: che il fascismo sarebbe durato molto più a lungo di quanto l’opposizione credeva quando parlava di "breve parentesi,” ecc.
Non potrei adesso dire più di questo sugli argomenti della nostra conversazione. Ricordo però che Gramsci mi fece una grandissima impressione: per la sua intelligenza, per la sua concretezza, il suo senso della storia. Non era una conversazione che si sarebbe avuta abitualmente, ma quasi in ogni sua parola, dietro ogni giudizio che pronunciava, c’era tutta una visione della storia e una concezione molto profonda dei problemi e dei processi di cui parlavamo.
Questa impressione mi è rimasta, e non solo perché la personalità di Gramsci era tale che non si sarebbe potuta dimenticare neanche dopo un incontro fuggevole. Non ebbi più occasione di riincontrarlo perché nella settimana successiva era già partito per il “processone”. Ma questo ricordo di lui mi risultò più chiaro quando, essendo stato hi non processato ma mandato al confino all’isola di Ponza vi incontrai Bordiga.
Con Bordiga rimasi nella stessa isola di confino per circa un anno. Se ricordo bene, Bordiga fu liberato nell’ottobre-novembre del 1929, e io ero giunto a Ponza nel settembre del 1928. Avevamo tutti i giorni occasione di scambiare delle idee, in modo particolare durante la stagione balneare si stava sulla spiaggia e si chiacchierava. Io ero giovane, avevo poco più di ventiquattro anni, ero un "apprendista” e cercavo contatti con le personalità che mi sembravano le più eminenti e Bordiga lo era certamente in quanto era stato il capo del Partito comunista. Devo dire però che Bordiga mi deluse per il tipo della sua intelligenza. Può essere che io abbia sbagliato e sbagli nella mia valutazione. Comunque la sua mi parve una intelligenza acuta, ma matematica, astratta, non aderente mai alla realtà concreta. Mentre in Gramsci mi era parso di capire che bastavano poche parole perché riuscisse ad afferrare la realtà nella sua complessità, nel suo divenire storico, nel suo dinamismo, nelle sue componenti eterogenee, nelle sue contraddizioni, Bordiga pareva che procedesse solo per schemi astratti, per formule da applicare, come se dimostrasse un teorema matematico. Il mio primo maestro di marxismo era stato uno storico, Ugo Mondolfo, professore al liceo Berchet, e mi ero formato soprattutto sui suoi scritti su Marx. Quindi avevo appreso da Marx la concretezza e non delle concezioni astratte. Perciò fui colpito sfavorevolmente da questa forma di ragionamento di Bordiga e questo valse ancora di più ad accentuare la valutazione molto positiva che avevo dell’intelligenza di Gramsci.
Erano due intelligenze contrapposte; quella di Bordiga fatta per non incontrare mai la realtà, e invece quella di Gramsci più specifica, fatta per afferrare la realtà nel profondo.

La strega Lindgren. Parla l'autrice di Pippi Calzelunghe, bambina senza padroni (Francesca Lazzarato)

Astrid Lindgren
Invitata dalla Rai (che da settembre manderà in onda, su Rete 1, quindici film tratti dalle sue opere) e dall’Assessorato alla cultura della Provincia di Roma, in occasione di una mostra dedicata alle protagoniste bambine nei libri per l’infanzia, la scrittrice svedese è un po’ perplessa. «Interviste? D’accordo, ma io ho così poco da dire. Quello che penso e quello che mi piace è già tutto nei miei libri».
E anche sul suo viso, viene da aggiungere a chi la guarda: un viso ,scavato, rugoso e vivacissimo, con occhi a punta di spillo e una bocca sottile e sarcastica. Un viso vecchio, da strega buona e dispettosa, che ha molti segreti ma è disposta a rivelarli in un solo modo: raccontando storie, e chi vuole intendere intenda. Nei suoi ottantanni di vita (è nata nel 1907, in un paesino della Svezia meridionale) Astrid Lindgren non ha mai smesso di raccontare. Da piccola la chiamavano la Selma Lagerlof di Villerby per le sue capacità di narratrice, ereditata forse da un padre contadino, capace di tirar fuori una storia da tutto ciò che toccava, come il protagonista di una fiaba di Andersen. E da grande la sua meravigliosa capacità di «parlare in fiaba» si è trasformata in libri per bambini (tren-tasei, per la precisione) oggi famosissimi, a cominciare da quel Pippi Calzelunghe che le ha fruttato una popolarità intemazionale ed un premio Andersen (che è poi il Nobel degli scrittori per ragazzi).
In Svezia, paese attentissimo all’infanzia e ai suoi bisogni, la considerano quasi un monumento nazionale (per il suo ottantesimo compleanno è stata perfino emessa una serie di speciali francobolli) e certe espressioni, certi personaggi dei suoi libri sono entrati nel linguaggio comune, mentre l’ultimo romanzo che ha scritto, pubblicato nel 1985, è amatissimo dai giovani «verdi», che si sono riconosciuti nel personaggio di Ronja Rovardotter, figlia di briganti in perfetta comunione con l'immensa foresta in cui vive.
Ma che la Lindgren non si sente affatto un monumento lo si capisce subito dall’ironia e dallo spirito di contraddizione che la animano, e dal modo sospettoso in cui il suo naso a punta sembra fiutare il pur minimo odore di retorica e di ufficialità. Perché questa piccola signora pallida, oramai bisnonna, è una donna decisa ed anticonformista che è riuscita a suo tempo ad irrompere nel mondo un po’ chiuso dei libri per l’infanzia, proponendo (si era nel 1945) un personaggio come Pippi Calzelunghe.
La bambina dalle calze scompagnate aveva tutti i numeri per scandalizzare genitori e maestri, abituati a testi ben più prudenti. Perchè Pippi viveva da, sola, in una grande casa tutta sua e con un’intera cassa di monete d’oro a disposizione, e poi era così forte da sollevare un cavallo, da compiere incredibili acrobazie, da mangiarsi due torte in una sola volta, da rubare una mongolfiera. Ma soprattutto sapeva mettere alla berlina tutte le convenzioni del mondo piccolo-borghese che la circondava, e resistere ad ogni tentativo di normalizzazione da parte degli adulti, di cui non è disposta a riconoscere l’autorità ed il potere, se non per farsene beffe.
Ed è appunto il problema del potere che la Lindgren affronta in tutti i suoi libri: un potere che l’adulto tenta costantemente di esercitare sul bambino (la cui identità e sopravvivenza dipendono dal fatto di appartenere a qualcuno, si tratti di una famiglia o di una istituzione). Ma anche un potere cui il bambino tenta comunque di sfuggire, o con rivolte ilari e fantasiose come quelle di Pippi e di Emil (altro famoso personaggio della Lindgren) o con più drammatiche ribellioni, come quella di Ronja che si oppone duramente al padre e sceglie la vita della foresta, a quella di Briciola, protagonista dei Fratelli cuor di leone (la Lindgren lo scrisse nel ’76), che muore gettandosi da un’altissima rupe (ed è questo, uno dei pochissimi libri per l’infanzia - se non l'unico - in cui si affronti il tema del suicidio di un bambino). Se solo si tenta di interrogarla sui suoi libri, però, Astrid Lindgren prende l’aria annoiata di chi non ne può più di essere messa sotto la lente di ingrandimento.
«Non mi piace teorizzare, e non riesco a capire come facciano i critici a scoprire tanti significati nei miei libri, che in fondo sono molto semplici». Questa è la risposta con cui usa gelare l’interlocutore troppo curioso. Ma poi, come tutte le streghe buone, alla fine si lascia convincere: se non a dire tutto, almeno ad indicare la strada. Così, seduta compostamente con le mani in grembo, finalmente risponde con una meravigliosa voce giovanile, e sommessa, in un misterioso svedese che fa somigliare ogni sua frase ad una formula magica. «Come ho cominciato a scrivere? Per caso, naturalmente: succede sempre così. Il primo libro l’ho scritto nel '44 per partecipare ad un concorso bandito da una casa editrice che cercava teisti nuovi per le lettrici adolescenti. Era intitolato Britt Maj, e credo si possa definirlo un romanzo rosa, o quasi. In seguito ne ho scritti altri due dello stesso genere, Rati in Italia e Rati a Parigi, che hanno avuto un discreto successo. Comunque si tratta di storie sentimentali solo fino a un certo punto. Si parla d’amore, è vero, ma le mie protagoniste ci arrivano dopo aver provato anche a vivere per conto proprio, in perfetta autonomia. E quando si sposano la loro è una scelta, non un destino inevitabile. Oggi, in Svezia, i romanzi di questo tipo sono molto diffusi, e mi dicono che è così in tutto il mondo. Trovo che alle bambine non faccia per niente male leggerli, purché non leggano solo quelli. Sarebbe come rimpinzare un bambino di dolci, senza mai fargli assaggiare il pane o la verdura».
E Pippi? «Pippi l’ha inventata mia figlia. Era ammalata e voleva che le raccontassi una storia di un personaggio al quale aveva trovato un nome buffo, per l’appunto Pippi Calzelunghe. Così, a poco a poco, ho cominciato a costruirle intorno una casa, un paese, e a popolarli di altri personaggi. Poi ho scritto la storia e per diversi anni non mi è riuscito di pubblicarla. Dicevano che era un libro troppo audace. Forse ai bambini piace proprio per questo. Ormai l’hanno tradotto in tutto il mondo, ne hanno ricavato fumetti e film, ma non credo che Pippi si sia montata la testa».
Pippi però non è la sola bambina forte e intraprendente che Astrid Landgren ha creato: ci sono anche Ronja, Martina, Britta, Ida, Lotta... Come mai questa prevalenza di personaggi femminili diversi, nati per di più quando di femminismo non si sentiva ancora parlare?
«Me lo hanno fatto notare in parecchi. È vero: le mie bambine sono sempre forti, energiche, coraggiose. Il fatto è che mi vengono così, non le potrei immaginare in altro modo. Sono stata una bambina di campagna che si arrampicava sugli alberi, saltavo giù dal tetto della legnaia, correvo insieme ai maschi. E le donne adulte che mi circondavano erano così: forti ed energiche, non avevano paura di nulla, non si sottomettevano agli uomini ma tenevano loro testa. Qualcuno ha scritto, del resto, che se nelle mie storie c’è qualcuno da compatire sono i maschi, le mie bambine sono incapaci di commiserarsi e di farsi commiserare».
Nei suoi libri, molto spesso i bambini vivono da soli, in completa indipendenza dal mondo degli adulti ai quali giocano dei tiri mancini. Cosa vuol dire: che i più piccoli possono fare a meno dei grandi? «Certo che no. Credo che ogni bambino abbia bisogno di un robusto appoggio familiare o comunque di adulti che provvedano a loro e che garantiscano una sicurezza materiale e psicologica. Solo che ai bambini, a tutti i bambini, piace sognare così: liberi, capaci di far da sé. E poi è inutile far finta di niente: educare un bambino significa sempre esercitare un potere preciso su un altro individuo, e nel rapporto bisogna mantenere un equilibrio, delicatissimo, tra autorità e rispetto. Ma anche quando ci si riesce bisogna fare i conti con rivolte sotterranee, con risentimenti, con fantasie di fuga. Pippi le esprime gioiosamente, in positivo».
Pippi Calzelunghe risultò, secondo un’inchiesta degli anni ’70, il libro che tutte le studentesse dei colleges americani più impegnate politicamente avevano prediletto da piccole. «La cosa mi è nuova e francamente mi diverte. Vuol davvero dire che ognuno trova nei libri quel che gli serve, nel momento in cui gli serve». Astrid Lindgren si arruffa lentamente la frangetta di capelli bianchi che le incornicia il viso. E' pentita di aver parlato troppo? Con un cenno della mano avverte che l’intervista è finita, e si alza piano piano.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1987

Amendola. La festa di San Giorgione (Luigi Pintor)

Giorgio Amendola con Palmiro Togliatti
Giorgio Amendola morì nel 1980. Fece a tempo per dissentire da Berlinguer sull'intervento sovietico in Afghanistan, difendendone il carattere progressivo, ma non a farsi classificare come kabulista, essendo morto subito dopo. Un paio di anni dopo la pubblicazione di ben due raccolte di suoi scritti politici favorì un forte ritorno di attenzione e alcuni convegni, in cui compagni e avversari con diversi accenti ne esaltavano la personalità. Luigi Pintor pubblicò sul “l'Espresso” l'intervento che segue, acuto e ottimamente scritto seppure non privo di qualche acidità. (S.L.L.)
Giorgio Amendola con Giancarlo Pajetta nel 1946, davanti a Montecitorio
Giorgio Amendola verrà santificato? Se non fosse stato un laico assoluto, correrebbe questo rischio. Tra tutti i dirigenti comunisti del passato, Togliatti compreso, è quello che viene ricordato con più ammirazione e simpatia, l’una e l'altra quasi incondizionate. I suoi libri di memorie, con quel fitto intreccio di esperienza personale e vicenda politica, lo hanno avvicinato alla sensibilità comune. Alla raccolta di scritti e discorsi, anche occasionali, si accompagnano prefazioni che farebbero arrossire il destinatario, sebbene non peccasse di modestia. I suoi richiami alla responsabilità nazionale hanno assunto un valore testamentario, immettendolo a pieno titolo nel novero dei padri della Repubblica, anche se nella Repubblica il suo partito non è legittimato a governare. Se fosse vissuto qualche anno di più, e un presidente audace avesse prima o poi osato incaricarlo di formare un governo, sarebbe stata una scelta molto imbarazzante.
È vero che, quando si è scomparsi, si ricevono elogi che in vita non ci si sogna neppure (sebbene ai più potenti capiti anche il contrario, di essere prima idolatrati e poi dissacrati). È anche vero che la figura e le posizioni di Amendola sono evocate volentieri a sproposito, per polemiche di comodo. Ma, nel suo caso, non si tratta di riconoscimenti postumi, la sua individualità essendo sempre apparsa in una luce favorevole, e avendo sempre esercitato un'attrazione. Né sarebbe serio spiegare la cosa con la battuta maliziosa che Mao mi pare riservasse una volta al suo primo ministro (questo Ciù piace un po’ troppo ai capitalisti...), perché se Amendola è lodato dagli avversari non meno che dagli amici, a mostrarsi sensibile al suo fascino è però l’insieme del mondo democratico, compresi molti di quei giovani impazienti verso i quali non si può dire ch’egli fosse indulgente.
È un fenomeno comprensibile. Giorgio Amendola aveva infatti una personalità forte, tanto quanto era imponente la sua figura fisica: molto più di una "testa dura", come con civetteria si definiva, anche se forte non vuol sempre dire ricca. Questa forza sconfinava volentieri nella prepotenza, che però nell’arena politica è considerata una virtù, un dovere e comunque una necessità, quando si accompagna a salde convinzioni. Il suo itinerario politico, la sua migrazione dal mondo familiare alla milizia rivoluzionaria, egli l’ha vissuto come esclusivo, simbolico di un trapasso storico, il proletariato erede della borghesia e classe dirigente nazionale: dalle sue pagine autobiografiche si coglie benissimo questo pieno sentimento di sé.
Sebbene uomo di parte da capo a piedi, aveva però un’attitudine diplomatica, una comunicativa, che lo hanno mantenuto in consuetudine con uomini di ogni formazione, rappresentativi di tutta la cultura politica nazionale: in parte per privilegio di nascita, ma anche per inclinazione e gusto suo. Negli "anni della repubblica", infine, tutti sanno come queste virtù e altre cose abbiano consentito ad Amendola di porre un suo "accento", come prudentemente diceva, sulla politica comunista, un accento così marcato da soverchiare gli altri: irruente e populista negli anni più lontani, moderato e severamente pedagogico in quelli più vicini, per lo meno all’orecchio di moltissima gente (e in politica, si sa, l’apparenza è verità). Con questo bagaglio, non può stupire che Amendola sia entrato nella memoria nazionale.
Confesso invece che mi stupii alcuni anni fa quando trovai tra gli appunti di Giaime Pintor, mio fratello, che con Amendola si era incontrato nei giorni precedenti l’armistizio, un accenno all’impressione di «eccezionali capacità, unite a un carattere in fondo assai piacevole», che il leader comunista gli aveva lasciato. Capii il giudizio sulle capacità, molto meno quello sul carattere. Ora, tendo a credere che la diversa impressione sia dipesa dal fatto che quegli incontri del 1943 non avvennero alle Botteghe Oscure, voglio dire non avvennero all’interno di un rapporto di partito e del suo ordine gerarchico. Una regola, un meccanismo, che col carattere delle persone ha poco a che vedere, se non in quanto può oscurare facilmente i dati migliori ed esaltarne i meno buoni.
Di lavorare con Amendola non mi è capitato, tra i dirigenti del partito non era di quelli che avessero contatti diretti con “l'Unità” e più tardi nel comitato centrale credo mi considerasse più che altro un rompiscatole. Quando però nacque la questione del “Manifesto” ricordo il suo fastidio, una sorta di severo sprezzo (come racconta di suo padre con lui, quando da scolaro tralignava). Non se ne occupò affatto in termini politici, senza nascondere però di aver decretato il nostro allontanamento dal primo momento, molto prima di Berlinguer. E tolse il saluto.
Perché no, è quasi impossibile essere uomo d’azione e di comando, un combattente e fors’anche solo un politico di successo, senza adottare un certo stile. Mi pare dì poter dire che nel vecchio gruppo dirigente del partito, sotto questo aspetto, facessero eccezione solo Togliatti, che aveva troppo profondo il senso della propria superiorità per essere altezzoso o intimidatorio, e Grieco, di cui ricordo una sensibilità diversa, un’altra indole, causa forse non ultima della sua sfortuna politica. Eppure Amendola amava molto esortare al coraggio e alla franchezza delle opinioni e deplorare la sconvenienza del conformismo. Col sottinteso, tuttavia, che franchezza e pluralità aprano solo contraddizioni secondarie, entro un ordine convenuto, le contraddizioni primarie essendo per principio infeconde e insane in un organismo politico (e perfino nella società, quando non ci sia uno spirito giacobino pronto a governarle). Nonché alle modeste discordie intestine degli anni '50 e '60, questo è il criterio di valutazione che Amendola applica immancabilmente alle più insensate vicende e la cerazioni degli anni '30, quando le sfiora, nella sua storia del partito, per riportarle sempre a una regola rispettabile e riscattarle tutte in una logica superiore. Che è, poi, la faccia negativa della "diversità”.
Mi pare nel 1977, quando lo rividi per un confronto sugli ultimi sussulti del movimento giovanile, sul malessere della società e della Repubblica, anche a me apparve invece benevolo. Disse «ho piacere di rivederti qui», accennò fuggevolmente alla pesantezza con cui capita a volte di agire nella lotta politica, disse divertito che aveva perso tempo cercando di spiegare a qualcuno «che strano animale è questo nostro partito, né leninista né socialdemocratico» (o forse strano perché leninista e socialdemocratico insieme, ma non osai tanto). Era ancora in forma ma, credo, già malato, e l’incontro mi è tornato alla mente quando nelle pagine di Una scelta di vita la figura del padre appare al figlio appunto meno lontana, mutata nell’aspetto ma anche nell’atteggiamento per l'avvicinarsi della fine. Di rado la gentilezza si accompagna all’esuberanza e al potere, più spesso al distacco.
Meno veemente, non era però meno invulnerabile e impermeabile al dubbio. Impossibile farlo convenire su quel che a me pareva e pare evidente, che i mali del mondo non sono diminuiti ma cresciuti, fosse anche solo perché si vedono molto di più, che le nuove generazioni non hanno maggiori ma minori speranze, e che se troppi conti non tornano dovremmo pur rifarli, per capire che cosa non funziona. Ogni argomento si rovesciava nel suo contrario, basta saper misurare il cammino compiuto non dimenticando il punto di partenza, e valutando prezzi ed errori come un pedaggio che non può inficiare la direzione di marcia. Nemico famoso delle "ricette” politiche, non se n’era lasciata dietro le spalle nessuna delle sue che l’hanno reso famoso, sulla produzione, il lavoro, lo studio, con le categorie connesse della tenacia, della volontà, della disciplina. Anche quella conversazione avrebbe potuto concludersi come un tempo, con un’ombra appena di ironia, si concludevano i suoi discorsi — e ora compagni al lavoro e alla lotta (che poi vuol dire basta con le chiacchiere).
Credo tutto sommato che questo ottimismo storico, questa linearità di giudizio, questo apparato concettuale o atteggiamento che escludono ogni problematica non riconducibile alle proprie certezze e finalità, sia il nocciolo duro di tanta cultura comunista. Parrebbe paradossale, nel suo caso, chiamare questo nocciolo dogmatismo e schematismo, perché in lui si combinava a elasticità politica, e semmai era accusato di empiria. Come parrebbe paradossale ridurre a settarismo, o peggio a faziosità, il suo spirito di parte. È una cosa più complessa, una concezione provvidenziale della storia e del partito, che chiamerei giustificazionismo se non fosse una brutta parola. In questa ottica, anche il socialismo possibile e sfumato del futuro e il socialismo reale e plumbeo del passato si possono concepire come paralleli, o complementari, o in armonica successione, oggi si direbbe senza strappi, come fu per Amendola fino all'ultimo. Felice Fortunato (come lui si nominò in clandestinità) è chi sia capace di questa filosofia, di questa equazione di realtà e razionalità: ammirevole non so, invidiabile certamente.
Forse, in passato, avrei politicamente definito Amendola un «bolscevico di destra». Ma le definizioni sono sempre arbitrarie, di rado pertinenti e spesso deformanti. Di sicuro Amendola ha avuto una buona vita, e ha lasciato di sé un’immagine forte. Eviterei di iscriverlo in una leggenda, che non è rendere un buon servizio a nessuno, come forse anche tra i padri della Repubblica, non perché non lo meriti o perché i padri della Repubblica non siano tutti variamente degni, ma perché gravemente sospeso è il giudizio sulla loro creatura. Questa Repubblica non è una gran donna. Sarebbe meglio che soprattutto di lei ci si preoccupasse, senza attribuire ai genitori scomparsi né più virtù né più peccati di quel che loro spetta, senza inventarci favolosi lasciti o comodi alibi.

L’ESPRESSO - 10 OTTOBRE 1982  

“L'Ora”, un cane da guardia contro la mafia (Jolanda Bufalini)

Sarebbe l'ora, verrebbe da parafrasare dopo la lettura di Era L'Ora (a cura di Michele Figurelli e Franco Nicastro, XL, 2012) che, attraverso le testimonianze di chi vi lavorò (o anche di chi, come Roberto Lagalla, partecipava al «rito» pomeridiano in edicola: «è uscito l'Ora?») racconta la storia del quotidiano che ha inseminato con i suoi cronisti (diventati inviati e direttori) le maggiori testate italiane. Il volume, uscito di recente, segue una mostra e un convegno organizzati a Palermo dall'Istituto Gramsci nel 2010. Ne viene fuori il ritratto del leggendario direttore Vittorio Nisticò, e però anche un trentennio, sino all'epilogo traumatico della chiusura nel 1992, in cui la vicenda de “l'Ora” si intreccia con la storia di Sicilia e d'Italia e dunque, alla fine, si traggono dal libro spunti che vanno ben al di là della storia del giornalismo.
Direttore tosto, incazzoso, «sono caduta nelle grinfie di un nevrotico abbarbicato al suo tavolino 16 ore di fila», scriveva Giuliana Saladino. Emerge dai ricordi, ancora oggi, il terrore davanti alla porta chiusa del direttore, la gioia intima e fortissima per un apprezzamento. E l'orgoglio per essere cresciuti a quella scuola, laboratorio che sfornava al pomeriggio non più di 12-16 pagine. “L'Ora” «divenne in breve la fonte più accreditata sui fatti di mafia, il mito della controinformazione si identificava in sostanza con una informazione completa e corretta», scrive Vincenzo Vasile. Roberto Ciuni: «Il giornalismo palermitano non si scomodava per assistere alla guerriglia dietro casa: pigro, codino, metteva un ruffiano S.E. davanti ai nomi dei ministri, prefetti, sottosegretari, magistrati, generali, ambasciatori». C'è il tributo di sangue dei giornalisti uccisi, Cosimo Cristina (maggio 1960), Mauro De Mauro (settembre 1970), Giovanni Spampinato (delitto fascista, ottobre 1972) ma la prima avvisaglia della guerra fu una bomba al tritolo che squassò la sede del quotidiano nel 1958, quando era in corso la prima inchiesta fra mafia e politica. Il titolo dell'edizione straordinaria fu: «La mafia ci minaccia l'inchiesta continua». Allora come ora le inchieste vere disturbavano il manovratore. Nisticò non era un eretico, era stato nominato da Amerigo Terenzi, editore dei giornali del Pci, con l'accordo dei vertici del partito. Eppure (annota nelle memorie) dopo la bomba, ebbe «una sensazione spiacevole di isolamento rispetto alle forze siciliane dello schieramento amico».

Un'avventura di libertà giornalistica
A cosa si deve l'alchimia che produsse quei vent' anni (1954-1975) di una straordinaria avventura di libertà giornalistica? Marcello Sorgi: «La sua impazienza cominciava dal primo mattino, quando ancora non erano disponibili a Palermo i giornali nazionali, e si informava al telefono delle aperture, dei commenti e delle articolazioni delle prime pagine. Non si è mai accontentato dell'orizzonte locale». C'è il rapporto forte con il Pci e con il progetto di cambiamento che in Sicilia significava, alla Togliatti, prima di tutto autonomia. Ma Nisticò sa che da giornalista deve rispondere prima di tutto ai lettori («dovevamo essere i cani da guardia dei cittadini, specialmente di quelli che non hanno voce», Francesco La Licata. «Garantisti verso tutti non verso i potenti», Vincenzo Vasile). Il 1958 non è solo l'anno della bomba, è anche l'anno della rivolta milazziana che esclude la Dc dal governo regionale. Per il giornale è un passaggio delicatissimo, nella maggioranza trasversale ci sono anche contiguità mafiose. Ma, sul piano politico, racconta Nisticò (Accadeva in Sicilia, Sellerio 2001): «L'Ora aveva precorso a modo suo, cioè facendo giornalismo, perché le idee politiche non fanno da sole un giornale e d'altro canto io stesso, per quanto affascinato dalla politica, non riuscivo a viverla, se non in una dimensione giornalistica».
La dimensione giornalistica gli consente di sfamare una curiosità onnivora: l'aristocrazia palermitana, la mondanità; le vacanze all'estero dei redattori servono per raccontare, in un giornale povero, il mondo. Cerca la collaborazione di intellettuali dai caratteri e dalle idee anche opposte: Sciascia e Danilo Dolci, Nino Sorgi e Francesco Renda, Giuliana Saladino, Marcello Cimino, Gioacchino Lanza Tomasi, Italo Calvino. Le foto d'archivio mostrano Claudia Cardinale in redazione, al tempo in cui Visconti girava a Palermo il Gattopardo. Sguinzaglia i fotoreporter (Scafidi, Petyx, Letizia Battaglia, Lo Bianco) perché senza la foto il pezzo di nera si può anche buttare. Colleziona querele, come ricorda nel libro Etrio Fidora. Attento spasmodicamente alla concorrenza, Sergio Sergi mi ha raccontato di quando un giornale concorrente titolò: «Ho visto la madonna piangere». «E tu? - ringhiò il direttore al cronista - dov’eri?».

Praga e la Grecia dei colonnelli
Kris Mancuso ricorda come approdò agli esteri. 1968, era di nuovo inviata al festival di Sanremo, dove aveva realizzato l’ultima intervista a Luigi Tenco, appena prima del colpo di pistola. Ma c’era stato il terremoto del Belice, chiamò:«Il cronista si rifiuta di riferire di questo mondo luccicante e chiuso mentre fuori accade...». «Sei diventata pazza?». Il primo reportage fu da Praga: «Tre mesi dopo, era l’agosto 1968, guardavo sul teleschermo le sequenze della repressione della Primavera, e piangevo». Poi fu la Grecia dei colonnelli, Panagoulis, gli esuli e l’oscura persecuzione dei servizi segreti italiani per i suoi contatti con gli studenti greci a Palermo.
Ho conosciuto Nisticò come lo racconta AlbertoSpampinato, dopo, a Roma: «È diventato l’opposto del terribile direttore che scagliava il portacenere contro il malcapitato cronista. Vittorio si è addolcito, è diventato premuroso». Però era sempre direttore, riuniva a cena le persone più diverse, e domandava, interrogava. Poi, facendo volare quelle sue mani magre come di fronte a un pianoforte, sintetizzava fatti e punti di vista.
Sulla fine de “L'Ora” Nisticò se la prende con i colonnelli di Berlinguer. Poi ci sono stati i sergenti e i caporali. Alberto Stabile: «Avremmo dovuto capire per tempo che politica e editoria sono incompatibili». Vincenzo Vasile, che è stato l’ultimo direttore: «L'Ora non poteva sopravvivere in una stagione segnata dallo svilimento». Vale però la pena di riprendere un editoriale di Nisticò, citato da Michele Figurelli, in polemica con il “Giornale di Sicilia”: «Degasperiano finché De Gasperi non cadde, pelliano per la pelle fino a che Scelba non silurò Pella, nessuno potrà sorprendersi se dovesse svegliarsi filocomunista, se le sinistre tornassero al governo. Nessuna sorpresa neppure se in futuro dovessimo fare i conti con qualche piccolo Beria di casa nostra. Sarà il Giornale di Sicilia ad accusarci per la semplice ragione che, pure allora, lui sarà per Beria e noi, se Dio ci darà vita,per i diritti del popolo e per le libertà».

“l'Unità”, 11 luglio 2012

29.1.18

Teatro. Paolo Poli si racconta (Cecilia Ermini)

Vispa Teresa infaticabile del teatro italiano, Paolo Poli svolazza dietro le quinte dell'Elfo Puccini di Milano con bambinesca noncuranza dei suoi 84 anni, mostrando bauli colmi di parrucche impomatate, sottane da gran dama, copricapi piumati «opera della straordinaria costumista Santuzza Calì» mentre, poco più in là, volteggiano le intercambiabili scenografie «compendio pittorico novecentesco» del compianto Emanuele Luzzati, scomparso nel 2007 ma ancora presente come compagno di scena (indispensabile il recente libro di Marina Romiti Paolo Poli e Lele Luzzati. Il Novecento è il secolo nostro edito da Maschietto Editore che ripercorre, nello splendido dialogo fra l'autrice e Poli, un sodalizio artistico durate oltre cinquant'anni).
Il piccolo mondo antico pascoliano è racchiuso qui, pronto per partire alla volta di Roma dove, al teatro Eliseo, Poli sta presentando il suo ultimo spettacolo: Aquiloni, pastiche di piroette, canzoncine fasciste e poesie di Giovanni Pascoli rivedute e un filo scorrette. Aboliti i colori patetici della produzione poetica «La cavallina storna? Che orrore! Per carità...Con Laura Betti si faceva la parodia alla radio, che nitriti!», Poli e i suoi quattro irresistibili, bravissimi boys (Fabrizio Casagrande, Daniele Corsetti, Alberto Gamberini, Giovanni Siniscalco) sgambettano leziosi per circa due ore, mescolando variopinti siparietti canori della Belle Époque, travestimenti ornitologici degni di Papageno e le note di Guantanamera, come novelli Josè Carioca, a poetici recitativi in giacca e papillon capaci di restituire un Pascoli rimatore (finalmente) lontano dagli stereotipi scolastici delle sudate rime imparate a memoria.
Nell'ingannevole sobrietà spartana del suo camerino milanese, il fanciullino di Firenze è un impetuoso fiume in piena di aneddoti e di madeleine, a cominciare dalle memorie intrise di ricordi tosco-emiliani fino alle rimembranze cinematografiche davanti alla macchina da presa, colpevole, ma non a suo dire, di averlo sfruttato poco e male.

Che cosa l'affascina maggiormente della poetica pascoliana?
È il primo poeta che ho conosciuto da bambino, quando a scuola ci facevano leggere e imparare a memoria i noiosi Poemi Conviviali perché sai, all'epoca sembravano più culturali - il povero Pasolini fece addirittura la tesi di laurea. Con la vecchiaia ho riscoperto il Pascoli delle sperimentazioni, della poesia cosmica, delle onomatopee, il poeta capace di dar voce agli animali - il chiu dell'assiuolo - il suo plurilinguismo: era nato a San Mauro di Romagna ma molto presto s'impadronì del dialetto della Lucchesia, scrivendo «i diti» invece delle dita. Senza dimenticare il Pascoli proto futurista, straordinario inventore di onomatopee, molto prima dell'elogio dei bombardamenti di Tommaso Marinetti con il suo Zang Tumb Tumb e del cloffete, cloppete,
clocchete, la fontana malata del mio amato Palazzeschi. Interessante anche il suo personalissimo culto agreste, anticipatore delle esaltazione mussoliniane. Così nel mio spettacolo ho preso un po' di Myricae, qualche cosa dei Canti di Castelvecchio e un po' dei Poemetti ma non ho preso in considerazione la sua storia personale anche perché la disgrazia del Pascoli è stata che gli è sopravvissuta la sorella Mariù, una sciocchina sentimentale che scrisse una biografia del fratello piena di malcelata gelosia e morbosi aneddoti, dormivano in stanze diverse ma avevano le testate dei lettini appoggiate al muro che li divideva, copiando le atmosfere di Marcel Proust che è un narratore senza dubbio più dotato della Mariù Pascoli.

A proposito di ricordi, quali furono le sue prime infatuazioni artistiche?
Il cinematografo senza dubbio: del cinema ho vissuto un'epoca così bella, così ricca e irripetibile che adesso è difficile trovare qualcosa che incontri il mio gusto anche perché quando io ero giovane, nella seconda metà del secolo passato, c'erano i film di Rossellini, Visconti, Emmer. Erano tutti bravi perché venivano dal documentario, non a caso il primo film di Roberto La nave bianca racconta le gesta degli uomini della Marina Militare, e anche in Viaggio in Italia, con la meravigliosa Ingrid, c'èun lunghissimo e meraviglioso pezzo sulla mattanza dei tonni.

Che film guardava durante la sua infanzia?
Da bambino vedevo i film di Alessandro Blasetti con cui ho poi lavorato, molti anni dopo, nel 1979 per I racconti di fantascienza televisivi. Era una persona meravigliosa, un convinto fascista ma girava i film in russo, splendide fiabe come La corona di ferro. Non c'interessava la significanza, quello che volevamo era vedere il cattivone mongolo con le falci, Massimo Girotti mezzo nudo sugli alberi come Tarzan, Elisa Cegani, «amica» storica di Blasetti, che faceva la principessa malata nel letto ricoperta di mille veli. Blasetti poteva fare tutto, anche girare una scena all'Arena di Verona, che in realtà doveva sembrare il Colosseo, con le vergini cristiane a seno nudo perché Mussolini gli lasciava fare tutto quello che voleva e poi si vedevano che risultati!

E i primi incontri artistici?
Clara Calamai, prima ancora che diventasse famosa, perché era la figlia del capostazione di Prato. Mia madre era una maestra montessoriana e da Firenze tutti i giorni prendeva il treno per andare a Prato, portandomi a volte con sé. Ricordo questa stazioncina con l'aiuola di fiori che cambiava la data ogni giorno, opera del padre di Clara che abitava con la famiglia al piano di sopra. Una mattina alzai gli occhi, avevo sei o sette anni, e la vidi, quindicenne e bellissima e dopo una delusione d'amore andò a Roma, dove sul tram incontrò Gino Sensani, grandissimo costumista che la portò a Cinecittà.

Quali donne della mitologia hollywoodiana l'hanno più influenzata?
Greta Garbo fu la prima: era un'attrice capace di assorbire completamente i personaggi, come la mia amata Marlene Dietrich, sia che facesse la puttana come ne La signora delle camelie o una principessa ma anche quando interpretava Anna Karenina, un'altra porcellona. Era una donna sempre attenta a quello che faceva, basti ricordare che fu lei a portare Pirandello al cinema, una scoperta che ho fatto leggendo la corrispondenza fra Luigi Pirandello e Marta Abba, una grande attrice che nessuno ricorda più ma che ho avuto la fortuna di ammirare a teatro proprio in Come tu mi vuoi. Nel film la Garbo era semplicemente magnifica, con dei vestiti meravigliosi fatti da Adrian, quelli con una manica sì e una no, un orecchino sì e un no.

A proposito di abiti di scena, lei è accreditato come attore e costumista nell'esordio alla regia di Franco Zeffirelli «Camping».
Sì, facevo i costumi perché non c'erano soldi e anche una piccola comparsata nella scena dove Marisa Allasio entra in Chiesa. La mia parte era quella del prete e feci un piccolo tondo di cerotti da mettermi in testa per darmi un'aria di santità, anche se dovevo pronunciare solo una piccola battuta. Giravamo in un paesino di nome Poli, vicino a Roma e mi alzavo alle quattro del mattino in una tenda rimediata oppure nella saletta dietro l'osteria per preparare i vestiti di Marisa e delle comparse. Tutto il film era girato in esterni, in condizioni difficili però tutti lavoravamo, anche se malamente e a volte senza prendere la paga, figuriamoci i contributi. Ci davano dei foglietti con scritto «versamento in corso», «corso Garibaldi!» dicevo io sicché io e Laura Betti avevamo delle pensioni bruttissime, per questo sono costretto a lavorare ancora. Ma i film erano piccole cose, ho fatto un film mediocre come Le due orfanelle ma l'operatore era Anchise Brizzi, quello che l'anno prima aveva fatto Otello con Orson Welles e le tre Desdemone. Su suo consiglio andai in Marocco a visitare la fortezza spagnola dove avevano girato alcune scene e la cisterna dove Orson ambientò i sotterranei del castello e la scena del bagno turco. La povera Maria de Matteis, eccellente costumista, era disperata durante le riprese perché non c'erano i soldi per sdoganare gli abiti e così girarono tutti in mutande. Che bellezza!

Un'altra nota curiosa della sua filmografia è la partecipazione a uno dei primissimi film di Roberto Faenza, H2S, girato nel 1969 ma subito sequestrato per poi ricomparire due anni dopo.
Era un film bizzarro, una sorta di imitazione dei film inglesi sulle scuole pubbliche dove i bambini a letto sognano la professoressa nuda, e io interpretavo una malefica centenaria. Faenza l'ho rivisto di recente perché quel diavolo di mio nipote Andrea, figlio di Lucia, ha composto delle colonne sonore per i suoi ultimi film.

Nel suo ultimo film invece, «Le braghe del padrone» di Flavio Mogherini, il suo ruolo era inizialmente destinato a Fred Astaire...
Era il 1978, mi ero strappato le corde vocali e non potevo fare le mie tournée teatrali. Così la mia amica Milena Vukotic mi chiamò all'ultimo momento perché Fred Astaire era da poco finito sulla sedia a rotelle. Insomma mi presero per ripiego anche perché costavo molto meno. Poi non ho più fatto film ma frequentavo comunque, insieme a Laura Betti, tutto il mondo del cinema romano, all'epoca ci si mescolava tutti e si lavorava anche in radio e in tv.

Tornando al teatro, fu difficile emergere nell'intricatissima scena teatrale italiana degli anni 50-60?
Non particolarmente, mi sono sempre difeso con la scelta del repertorio e non facevo concorrenza agli altri che mi lasciavano sopravvivere perché il mio interesse artistico era o per una cosina curiosa del '700 francese o per la «sotto-letteratura» come Carolina Invernizio. Nessuno poi faceva bene le canzonette come le facevo io: le mie prime apparizioni televisive furono infatti nell'operetta e negli sketch. Ne ricordo con piacere uno con Sandra Mondaini, già pronta a sposare Vìanello e infatti nel finale del nostro sketch diceva «Cattivo bambino, non voglio più giocare con te! Raimondinoooo». Che brava che era, carina, le ho voluto tanto bene però non potevo frequentarla dopo il matrimonio, lui aveva una famiglia molto signorile, borghesuccia ed in più lo trovavo insopportabile, invidioso, viveva nella perenne gelosia di Ugo Tognazzi.

Perché il cinema è stata una semplice meteora nella sua carriera?Non ha nessun rimpianto a proposito?
Il mio lavoro è dal vivo, in mezzo alle persone, non esiste gioia più grande per me. Osservo la gente all'inizio dei miei spettacoli e a volte noto qualche volto stanco o incupito per una faticosa giornata lavorativa ma a poco a poco nasce il sorriso e la gioia grazie a una mia battuta o a una mia canzone e non c'è denaro che mi ripaghi di una cosa così. Da giovane facevo il cinema come si facevano le marchette, per soldi, e ho fatto anche tantissimi fotoromanzi: una volta ero a casa di Zeffirelli e Franco non c'era, impegnato in America per delle regie di opera lirica, così presi tutte le sue giacche e i suoi completi perché mi facevano fare sempre il figlio dei ricchi insieme Laura Tavanti, la moglie di Paolo Ferrari. Rimpianti? Nessuno, il cinema è bello farlo se sei un regista poiché l'attore non conta: in Torna a casa Lassie era più bravo il cane di Liz Taylor, persino il cavallo di Gran premio era più espressivo della Taylor e di Mickey Rooney. Ho rifiutato un ruolo in 8 e mezzo del mio amico Federico Fellini e pure nel Pinocchio di Carmelo Bene: mi offrì la parte di Lucignolo ma avevo i miei impegni teatrali. Anni dopo ho fatto con Marco Messeri un Pinocchio per la Rai ma io ero la Fata Turchina e Benigni, se era più intelligente, pigliava me come Fata!


“alias – il manifesto”, 19 gennaio 2013

La poesia del lunedì. Francesco Nappo (Napoli, 1949)

Bagnoli, l'Italsider (foto di Grabriele Rivoli)
Italsider
Cattedrale d’acciaio,
cattedrale operaia,
tu predicavi a noi,
glauco sentendo il mare,
con parola d’eclisse
il mistero intriso
della nostra giornata
orante nel perduto,
solo di sé seguace,
nominata nell’ombra,
poca come la luce,
della casa cantoniera,
unica rosa d’ambra
demente e pensierosa,
infranta voce d’estasi,
volto che non guardai,
divina effigie.
Da te provenne cara
solitudine ai nostri
giochi fervidi, aurora
a noi perpetua
la costa devastata
dai tuoi veleni chimici,
dalla speranza atroce
d’un’altra umanità.

Dalla rivista "Gli Asini", n.46-47

La scritta invincibile. Una poesia di Bertolt Brecht

Questo testo fu scritto intorno al 1934, quando tutto sembrava perduto, ma c'era l'Unione Sovietica. Ora non c'è neanche quella. Ma neppure adesso tutto è perduto. (S.L.L.)

Al tempo della guerra mondiale
in una cella del carcere italiano di San Carlo
pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri,
un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo:
viva Lenin !
Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma 
scritto in maiuscole enormi.
Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio
 di calce
e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa.
Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri
ora c’è scritto nella cella, in bianco:
viva Lenin!
Soltanto un secondo imbianchino copri il tutto con più largo pennello
sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino,
quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta:
viva Lenin!
Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato 
di coltello.
E quello raschiò una lettera dopo l’altra, per un’ora buona.
E quand’ebbe finito, c’era nella cella, ormai senza colore
ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile:
viva Lenin!
E ora levate il muro! disse il soldato.


Da Poesie e canzoni, Versione di Ruth Leiser e Franco Fortini, 1961

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