29.4.13

La poesia del lunedì. Sandro Penna (1906 - 1977)

Ora la voce tua disparirà.
E domani cadrà anche il tuo fiore.
E nulla più verrà. Forse la vita
si spegne in un falò d'astri in amore.

da Stranezze in Poesie, Garzanti, 1989

Il sistema della violenza e la politica negata (di Edoarda Masi)

Edoarda Masi
Massacri di popoli al limite del genocidio sono stati perpetrati nell'ultimo cinquantennio e sono tuttora in corso. Trenta milioni di persone son fatte morire di fame ogni anno. Per mancanza di medicinali interi popoli muoiono di malattie peraltro curabili, in omaggio al principio di remunerazione delle grandi imprese farmaceutiche. L'Africa è crocifissa, per malattie e guerre intestine indotte, con milioni di morti. Per non parlare dell'America Latina, l'Asia è aggredita in molte sue regioni. E infine la guerra preventiva e permanente - condizione assoluta priva di motivazioni. Se la violenza omicida è alle origini delle nazioni e perfino della vicenda umana (tanto da ritrovarsi nel profondo di ciascuno di noi), quel che fa la differenza oggi è la scala: la quantità si trasforma in qualità. Minacciata è la sopravvivenza stessa della nostra specie. E non solo. La distruzione in corso, in Italia, della convivenza civile e dello stato di diritto, delle istituzioni giuridiche, sociali e culturali - dal sistema giudiziario a quello del welfare alla scuola -, dei principi universali della nostra civiltà e della nostra cultura, delle conquiste recenti dei cittadini-lavoratori, e perfino del patrimonio paesaggistico e artistico, è solo un aspetto provinciale della grande catastrofe in atto. Alla quale si va cercando riparo, negli Stati uniti, col mito della «sicurezza»; e con la difesa a oltranza del «tenore di vita». Mentre nel «piccolo angolo del mondo» che è l'Europa ci si crogiola nell'illusione del «benessere», a difesa del quale si vorrebbe erigere un muro contro la realtà che preme dall'esterno.
Se la mozione a distruggere è insita in noi, altrettanto profonda è la mozione opposta, a resistere, a salvare e promuovere la vita - con più determinazione nella parte femminile della specie. Della catastrofe incombente solo una minoranza ha una visione chiara, ma una nozione forte se pure confusa occupa molte coscienze, ed è alla base del disagio diffuso. Perciò il movimento contro la violenza distruttrice e contro la sua forma più evidente che è la guerra si è esteso al mondo intero, e in misura mai conosciuta nel passato. In questo movimento spontaneo ed eterogeneo c'è una consapevolezza comune: è cosa impraticabile l'uso di armi materiali per opporsi alle forze della distruzione. Queste dispongono di armi di distruzione di massa di tale potenza, che si sottraggono a ogni sfida: il risultato dello scontro sarebbe solo la conferma dell'azione distruttrice, senza contropartita possibile.
Nelle condizioni presenti la risposta alle armi con le armi è suicida. I combattenti palestinesi suicidi sembrano indicarci col loro sacrificio questa porta chiusa. Davide può vincere Golia perché, nonostante la disparità della forza materiale, combattono entrambi con lo stesso tipo di armi, a misura d'uomo. A questo proposito esistono alcuni malintesi a proposito della guerra in Vietnam, combattuta quando gli Stati uniti disponevano già di armi tali, da poter distruggere totalmente l'avversario. Non le hanno usate fino in fondo perché l'opinione pubblica interna era ancora in grado di influenzare le dirigenze; delle quali infine lo scopo non era di distruggere il Vietnam ma di colonizzarlo. Dunque i vietnamiti ottennero allora una vittoria combattendo con i fucili e con i coltelli non grazie a queste armi ma grazie alla forza morale con cui mostrarono di saper resistere.
A questo punto, ogni discussione di principio sull'uso o meno della violenza mi sembra ozioso. Quanto ai vari orientamenti e comportamenti del passato, devono essere contestualizzati, qualunque giudizio univoco sarebbe dogmatico e moralistico. Della violenza del nostro tempo le cause sono come sempre molteplici, ma la forma specifica è quella di un cancro che ha cominciato a svilupparsi ai primi dell'Ottocento procedendo con ritmo sempre più accelerato, fino all'attuale crescita mostruosa e incontrollabile. Crescita inseparabile da quella del modo di produzione capitalistico e dal progressivo controllo della società da parte del capitale, in aree del mondo sempre più estese. La sola forza in grado di opporsi è stato il movimento socialista, che prospettava un ordine mondiale fondato sul controllo della produzione da parte dei produttori associati anziché sulla loro soggezione e sullo sfruttamento, sull'internazionalismo e quindi sulla pace anziché sul conflitto fra le nazioni, sulla fraternità e la solidarietà anziché sulla competizione. Milioni di donne e uomini hanno lottato oltre un secolo per questi fini, con risultati in parte e solo in parte vittoriosi. Contro quel cancro non è concepibile una vittoria parziale. Esso è penetrato all'interno dei meccanismi economici e di potere del socialismo e li ha inquinati. Gli esiti attuali sono il seguito, non il rovescio dell'inquinamento.
Per un ventennio in Cina sono stati messi in atto ripetutamente tentativi disperati per opporsi al cancro, con l'effetto tragico di aggravarne e accelerarne lo sviluppo. Un sentimento di impotenza occupa oggi per gran parte le coscienze di quanti vorrebbero opporsi alla catastrofe. Se il nemico alla base è il capitale, e se è vera più che mai l'alternativa sottolineata da Rosa Luxemburg «socialismo o barbarie», come trovare una nuova strada che ci sottragga alla barbarie? E come combattere efficacemente la guerra e la distruzione con le armi della pace, in un contesto dove la democrazia è vuota di contenuto e maschera della sopraffazione, dove opinione pubblica e «società civile» sono pie illusioni? Non è nella politica nei termini tradizionali che in questo momento va cercata, a mio giudizio, la risposta. La politica come arte del possibile e della mediazione è oggi sopraffatta dalla pura rappresentazione di interessi brutali, o ridotta a vana commedia. È invece possibile, da chi sia in grado di darlo, un contributo forte di pensiero, che parta dall'uscita dai luoghi comuni del pensiero unico. A questi appartengono le ideologie della «legalità» internazionale, dei diritti umani in territorio altrui (di cui il massimo portavoce è la Cia), della democrazia. Lo stesso mito della democrazia ateniese, enfatizzato dalla fine dell'Ottocento fino ai primi del Novecento (da Hölderlin a Simone Weil) era stato demistificato già dai grandi ateniesi come Tucidide; altrettanto deformante è, al rovescio, il mito del dispotismo come quintessenza del «male» opposto al «bene» democratico; giacché in realtà ogni sistema di governo si regge nella pratica e nella teoria sul consenso, che naturalmente si esprime in forme diverse. Oggi la democrazia è una parola vuota, tale percepita correttamente da tanta gente che, magari a torto, diserta le urne. La politica come mediazione fra potere e esigenze popolari potrà rinascere solo dopo che siano definiti i soggetti della contesa e degli eventuali compromessi, non può essere un punto di partenza né una gestione di professionisti.

“il manifesto”, 28 febbraio 2004

Marchio a stella: le parole mortali del razzismo (di Edoarda Masi)

Divide et impera. Al pari di quelle fortezze erette entro le mura della città, che Machiavelli sconsigliava al principe, il precetto indirizzato in antico contro i nemici viene comunemente adottato da chi detiene qualche potere nei confronti del proprio stesso popolo, assunto come nemico. Gli argomenti escogitati per dividere sono molteplici; più efficaci quando richiamano pregiudizi o tradizioni inveterate, credenze religiose, presunti interessi particolari. Barriere immaginarie vengono erette entro le popolazioni da chi controlla la società, affinché non riconoscano dove corrono le divisioni e le opposizioni vere; quali siano i nemici effettivi e come possano operare dietro chi le governa. Come tutte le ideologie, le divisioni indotte si trasformano in una forza materiale, che in questo caso opera per la distruzione e l'autodistruzione. Abbiamo un'esperienza ormai ricchissima di quali e quanti metodi, strutturali e psicologici, vengano oggi adottati per impedire o frantumare fra i lavoratori quell'unità che è il presupposto dell'organizzazione e della forza comune. Accentuazione delle gerarchie, mitizzazione della presunta imprenditorialità individuale, invisibilità dei grandi padroni celati dietro il frazionamento delle imprese, promozione della concorrenza fra uguali, delle opposizioni fra grandi settori («dipendenti» e «autonomi»), classi d'età, regioni, origini nazionali.
I razzismi hanno caratteri e fonti molteplici, variano nelle diverse epoche. Come tali sono oggetto di studio degli antropologi e degli storici. Ma l'uso politico dei razzismi nel periodo storico dominato dal capitale mira costantemente alla divisione, là dove si teme la possibile unione dei soggetti. Ne erano consapevoli le generazioni che hanno lottato per la pace e per il socialismo, a partire almeno dalla fine della prima guerra mondiale. (Basta ricordare i film, le opere letterarie e di ogni arte che hanno toccato questo tema.) Anche durante la durissima occupazione nazista facevamo attenzione a distinguere fra nazisti e tedeschi; né cessavamo di fruire, come di cosa nostra, della grande cultura tedesca (a cominciare dalla musica). Il razzismo - che è una nozione falsa - non si combatte con un razzismo opposto e speculare.
Ai razzismi si aggiungono oggi le guerre di religione, non più fra diverse confessioni cristiane (una delle vergogne della storia d'Europa, che pure celavano altri conflitti) ma come strumento per dividere popoli che vivevano in pace (vedi ex Jugoslavia) e - sul piano planetario - come «scontro di civiltà». Escogitato dai teorici su basi inesistenti, funge da buona premessa ideologica per la guerra permanente, l'attacco all'«asse del male» e al «terrorismo», la crociata antiislamica. Troppo simile, quest'ultima, alle crociate naziste contro gli ebrei, gli zingari, gli slavi (si ricordino, accanto al genocidio degli ebrei, i milioni di civili russi massacrati, la terra bruciata in Bielorussia - «operazione finale» messa in atto sul campo). Sono fin troppo noti i meccanismi economici e di potere che mossero in quella direzione i nazisti e muovono oggi in direzione simile le dirigenze degli Usa, nella fase degenerativa di quella che fu la civiltà borghese.
Alla crociata antiislamica - e in particolare antiaraba - partecipa purtroppo anche il governo di Israele, in una pretesa tutela della nazione che, in quella forma, appartiene anch'essa alla degenerazione della società borghese. Associato a quello degli Stati Uniti, il governo di Israele tradisce la grande tradizione degli ebrei della Diaspora e causa sofferenze intollerabili e lutti anche al proprio popolo. Se incomparabile è stato il contributo ebraico alla nostra comune civiltà in ogni suo aspetto e in particolare, negli ultimi due secoli, alla formazione del pensiero laico e socialista oltre che alla prassi rivoluzionaria, la creazione dello stato di Israele e i suoi esiti sono parte della radicale trasformazione che la nostra esistenza ha subito nella seconda parte del XX secolo. Il mondo distrutto in questi ultimi vent'anni è così vasto e profondo, che il caso della politica di Israele ne è solo una potente metafora. Scriveva Franco Fortini nella Lettera agli ebrei italiani (il manifesto, 24 maggio 1989; ora nell'ultima edizione, 2002, de I cani del Sinai): «Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell'immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura dell'Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. ... La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c'è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l'accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani. E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un'altra ne toglie anche a quelli dei palestinesi. Parlino, dunque.»
Non ad altri se non agli ebrei sarebbe forse possibile rivolgere un simile invito, che implica il riferimento a una eccezionale condizione di guida intellettuale e morale al di sopra delle false divisioni non solo di razza ma anche di nazione. Si vorrebbe che non solo singole personalità ma la maggioranza degli ebrei italiani emulassero quanti in Israele, eredi di una grande tradizione, si oppongono alla politica dei propri governanti in termini anche estremi e con un coraggio civile sconosciuti presso altri popoli.

"il manifesto", 29 gennaio 2004

28.4.13

Giacomo Matteotti, un disubbidiente (di Giampasquale Santomassimo)

Il capitolo della sfortuna di Matteotti è tutto da scrivere, e si possono solo suggerire alcuni spunti. Non si sta parlando della notorietà esteriore: è forse tra i personaggi laici del Novecento italiano il più ricordato nella toponomastica delle città, dei paesi e dei borghi. Ma è, appunto, l'omaggio a un «martire» di cui tutto si ignora tranne il sacrificio stesso. Se a volte si riaccende l'attenzione della grande stampa è solo per presunte nuove e fantasiose «piste» attorno alla vicenda dell'assassinio, di per sé chiarissima nella dinamica, nelle motivazioni e nello svolgimento. La sfortuna editoriale è presto riassunta nella circostanza di Opere pubblicate da un piccolo e coraggioso editore pisano, Nistri Lischi, dopo il rifiuto di tutte le principali case editrici nazionali, comprese quelle più vicine alla memoria e, anche, al vero e proprio culto della tradizione antifascista. Di una tradizione che, però, sembra incontrare qualche problema nel valorizzare un personaggio come Matteotti, al di là della dimensione sacrificale. Non è un caso che l'unico intellettuale della sinistra che si sia cimentato più volte con il personaggio di Matteotti sia stato Sebastiano Timpanaro, a sua volta ignorato e negletto dai grandi editori. Per affinità e vicinanza, si può forse ipotizzare nel caso di Timpanaro, con quel mondo del socialismo umanitario e classista di cui Matteotti fu parte integrante e per diffidenza nei confronti dei «superatori» prossimi al liberalsocialismo o all'attivismo rivoluzionario.
Di certo il personaggio Matteotti non è facile da classificare in base agli schemi ereditati e lungamente acquisiti. Un riformista-rivoluzionario che crede nella costruzione graduale di un socialismo dal basso, fondato sull'autonomia dei lavoratori, e che perciò diffida della imposizione autoritaria dall'alto di un socialismo elargito da una élite ristretta di rivoluzionari.
Su questo si innestano le dispute nominalistiche che accompagnano la sua «fortuna» nel secondo dopoguerra e che contribuiscono a circoscriverne la dimensione a quella esclusiva del martirio. «Socialdemocratico», e perciò avvertito distante dalla tradizione comunista, a sua volta conteso a lungo dalle anime contrapposte del socialismo italiano che ne rivendicano l'eredità, ma entrambe ne forzano e attualizzano la figura senza offrire gli elementi di una effettiva riscoperta del suo spessore politico.
Che è quello dell'unico dirigente del movimento operaio italiano che comprese fin dall'inizio novità e pericolosità del fascismo, senza indulgere nell'abbaglio ricorrente, in quasi tutti i socialisti e comunisti dopo la marcia su Roma, per cui «un governo borghese vale l'altro», e senza lasciarsi scappare sciocchezze su Mussolini che è comunque preferibile a Giolitti, come fanno all'epoca alcuni dei più illustri protagonisti del futuro socialismo liberale.
Ma oggi comprendiamo chiaramente che c'è un altro - e fondamentale - motivo, che lo rese così ostico e distante. La sua opposizione alla guerra, nelle forme del pacifismo più militante e intransigente tra i suoi contemporanei, che lo portava a proporre atti insurrezionali contro la guerra (bloccare i treni che portavano armi al fronte), a contrastare lo stesso «non aderire né sabotare» del suo partito, che gli pareva compromissorio e troppo corrivo nei confronti dello «straccetto patriottico» che veniva agitato dai «militaristi» («Noi non neghiamo l'esistenza della patria, ma essa non è la nostra idealità; un'altra e più alta assai è la nostra aspirazione»). Che lo faceva sentire vicino a Karl Liebknecht, «solo, contro tutto un parlamento che vaneggia nel patriottismo barbarico e sanguinario».
Questa dimensione di Matteotti lo rende un «sovversivo» e «disfattista» inviso a tutto il mondo dei «benpensanti» italiani, ma lo rende anche distante e quasi incomprensibile per il filone maggioritario della cultura antifascista italiana, che si mosse in rapporto di filiazione diretta o mediata con la tradizione dell'interventismo democratico, dei suoi miti, delle sue buone intenzioni e dei suoi nobili propositi, purtroppo naufragati in esiti catastrofici. Una attitudine ricorrente da cui pare non ci si riesca a vaccinare.
E' questa la «colpa» fondamentale di Matteotti, che spiega la sua sfortuna, ed è anche per questo che oggi lo sentiamo molto più vicino.

"il manifesto", 9 giugno 2004

Nanjie, una Comune nella Cina del ventunesimo secolo (Angela Pascucci)

Questo magnifico reportage dal “manifesto” è del 2008 e ci racconta una Cina minore, forse marginale, e tuttavia emblema di una contraddizione, quella di un sistema economico che sistematicamente aumenta le disuguaglianze e nega l’egualitarismo del padre fondatore della nuova Cina, il presidente Mao, la cui immagine – seppure in forma più discreta che quarant’anni fa – è tuttavia presente in molti dei luoghi in cui i cinesi vivono e lavorano. Io non so se e come la Comune di cui si racconta abbia superato i problemi che l’articolista espone. Non so neanche se esiste ancora e tuttavia mi piace proporre una lettura che sembra confermare le tesi di Mao sull’unità (e lotta) degli opposti. La sviluppò nel celebre libretto Sulla contraddizione, in cui tentò – mi pare con successo – di coniugare la dialettica marxiana e marxista con il pensiero tradizionale cinese, nel suo caso più taoista che confuciano. (S.L.L.)
 

«Solo i folli salveranno la Cina» è scritto sui muri di Nanjie Cun. I detrattori più astiosi la definiscono «l'ultima fattoria degli animali» e una volta l'anno ne predicono il collasso sotto una montagna di debiti. Ma l'unica vera comune maoista risuscitata dell'era Deng prospera e vive ancora, a modo suo, nel cuore dell'Henan. Una lucida e razionale follia, a ben vedere.
Sulla grande piazza d'ingresso un Mao di pietra bianca alto più di 10 metri indica con la mano sinistra tesa il mondo esterno. Gesto da icona che qui ha il sapore di un atto d'accusa, accentuato dai grandi ritratti di Stalin, Lenin, Engels e Marx schierati intorno come una giuria. Il Timoniere impietrito, e guardato a vista giorno e notte da un picchetto d'onore, domina su 2 chilometri quadrati di vasti viali silenziosi e immacolati, aiuole perfette curate da pensionati alacri, schiere di palazzine bianche e basse, una moschea per 300 anime islamiche, allevamenti di anatre, galline, maiali e 26 fabbriche da cui esce di tutto: birra, spaghetti, medicinali, imballaggi, dolci.
Grande è l'ordine sotto il cielo. Non si vede un'automobile, perché il possesso e l'uso privato non ne sono consentiti. Solo fruscianti biciclette e qualche motoretta. I mototaxi del villaggio vicino ogni tanto squarciano il silenzio mentre passano strombazzando, profani e irridenti. A ore prestabilite irrompono gli altoparlanti del villaggio: «L'Oriente è rosso» al mattino, «Solcando i mari con la guida del Timoniere» al tramonto, notiziari durante la giornata . Li trasmette la radio del villaggio, che ha anche una televisione, un giornale e un sito web.
Così è scandita la vita dei 3.500 residenti e dei 10mila migranti che lavorano nelle fabbriche. Per questi ultimi Nanjie è solo un luogo come un altro. Meno barbaro, più rispettoso dei loro diritti se paragonato alla giungla che divora l'esterno, ma anch'esso interessato solo alle loro braccia. Prendono salari stabiliti dai contratti, ricevono vitto e alloggio in dormitori, lavorano sette giorni su sette e hanno due giorni di riposo al mese. Così è per il giovane operaio che controlla le rotative della stamperia dove si producono le carte da imballaggio. No, lui non è stato attirato dagli aspetti ideologici. Lì ci lavora e basta, per un salario di 1000 yuan. Altro non gli interessa, dice.
Tutto come fuori, eppure diverso. Perché la vita dei residenti del villaggio scorre su altri binari, avendo loro scelto di suddividere equamente i profitti, retribuendosi con poco danaro e un generoso welfare. Lo stipendio si abbassa tanto più alta è la posizione gererchica e il contenuto intellettuale del lavoro (chi sta al vertice prende 250 yuan, 25 euro) ma il pacchetto dei beni necessari e garantiti è uguale per tutti: casa, istruzione, assistenza sanitaria, alimentari distribuiti sulla base di razioni trascritte su un libretto. La comunità si fa carico di tutto, della vita e della morte: dal matrimonio (collettivo, celebrato una volta l'anno con relativo viaggio di nozze a Pechino) al funerale (compresa l'urna per le ceneri). La comunità fornisce tutto: dall'arredamento agli elettrodomestici, dalle pentole alle stoviglie. Lo standard dei consumi è stabilito da una trimurti costituita da Partito, governo del villaggio e management della struttura produttiva, che tutto governa.

I santi di Pechino
L'ultimo aggiornamento del livello risale al 1993 e tutto è come allora. Nessun interno è diverso dall'altro e chi di solito apre la porta di casa ai visitatori curiosi è il signor Huang Zunxian, pensionato di 71 anni, che vive con figli e nipoti in una grande casa di tre camere, soggiorno e cucina. Le poltrone e i mobili di legno chiaro, la stoffa dei cuscini, i lampadari, i quadri, le tendine, il grande orologio digitale con l'immagine di Mao giovane che si illumina di colori psichedelici alla musica di L'Oriente è rosso, tutto è come già visto nell'unico albergo del villaggio, nell'unico ristorante, nella sala riunioni. Nella Cina di oggi che celebra il culto della ricchezza personale, qui nulla appartiene al singolo. Né soldi né beni. Il motto è «promuovere il pubblico, eliminare il privato».
Passare da migrante a residente è possibile, anche se difficile. Dopo sei anni di lavoro condotto in modo irreprensibile si può fare domanda e se per tutti sei un lavoratore modello la domanda è accolta. In dieci anni solo 200 famiglie sono state accolte. Ma non è chiaro se ci sia la fila per entrare mentre il turn over degli operai è alto.
Il deus ex machina della situazione è Wang Hongbin, 58 anni, volto da adolescente invecchiato, dal 1977 alla guida della comune. E' lui che nel 1984 ha deciso di invertire il corso della storia, ricollettivizzando terre e industrie frammentate le une dal sistema di responsabilità familiare e le altre dalle privatizzazioni introdotte dalle riforme di Deng. I risultati del nuovo corso erano stati pessimi per la comunità, ma gli ci vollero cinque anni per ottenere il consenso di tutti. Alla fine, nel 1989, c'è riuscito anche grazie agli aiuti venuti da Pechino. Voglia di sperimentare più strade, fede, effetto Tian 'Anmen? Fatto sta che qualcuno che poteva ha dato un decisivo sostegno politico che si è tradotto in pressioni sulle banche affinché finanziassero generosamente l'audace esperimento, in sgravi fiscali e facilitazioni.
Ne è venuto fuori un intreccio assai ardito, fra una struttura economica e produttiva pienamente inserita nella nuova Cina delle riforme, e che di questa non potrebbe fare a meno, e un'organizzazione sociale che nei suoi principi la ripudia. Più che una comune agricola, una corporation dall'anima rossa difficilmente riproducibile su vasta scala. Ma, come dice Wang Hongbin «solo molti soldi possono rendere il comunismo migliore» e c'è chi pensa che sia questo il vero «socialismo dalle caratteristiche cinesi» inseguito dal Pcc.
Chissà che direbbe Mao a vedere il proprio pensiero cucinato in questa salsa così denghista. Shen Ganyu, responsabile della comunicazione, sorride all'osservazione ma non risponde direttamente. Lo incontriamo in una grande sala riunioni dove campeggia un gigantesco «Servire il popolo» scritto nell'inconfondibile corsivo di Mao. Per spiegare come tutto ciò funzioni espone la teoria del «cerchio all'esterno, quadrato all'interno». L'immagine richiama la cosmogonia cinese, con la sfera del cielo che circonda la terra quadrata in una suprema armonia, ma quel che viene in mente è il più occidentale «quadrare il cerchio». La circonferenza, spiega il funzionario, è il rapporto con il resto della Cina, di cui Nanjie fa parte, dove domina l'economia di mercato che consente di sfruttare lo sviluppo economico del paese per produrre con profitto. A vantaggio del quadrato interno, la collettività, gestita secondo principi comunisti e governata in modo ferreo.
Chi comanda a Nanjie Cun è una cupola ristretta costituita da 18 uomini: sette rappresentano il Partito (che li designa), quattro il governo del villaggio (nominati dal sindaco), sette la holding industriale (e sono scelti dai manager delle fabbriche). E' questo organismo che decide tutto: strategie di impresa, investimenti, campagne politiche, standard dei consumi. Wang Hongbin è sia segretario del partito che capo supremo del conglomerato industriale. Ha uno stipendio di 250 yuan al mese e gode di grande autorevolezza e stima. Per molti è la grande forza che sostiene la Comune, e forse tutto potrebbe finire con lui.
Il sistema ha funzionato, finora. Nanjie è uno dei villaggi più prosperi dell'Henan. Era, dicono i detrattori. L'esperimento avrebbe ormai i giorni contati perché le sue industrie sono in declino e le banche, in particolare l'Agricoltural Bank of China, non potranno intervenire come in passato per ripianare i debiti: norme di bilancio più severe in vista delle privatizzazioni impediscono di chiudere un occhio, anche se lo chiede qualche potente di Pechino. Il cerchio si sta incrinando e il quadrato rischia di essere spazzato via, se i profitti non affluiranno per pagare i beni che cementano la comunità.
Shen Ganyu respinge critiche e illazioni. Non nega i consistenti debiti con le banche, ma asserisce che la comune è in grado di farvi fronte. Non esalta i risultati economici delle 24 imprese, cinque delle quali sono joint ventures con società giapponesi, ma afferma che alla fine di ogni anno, al netto delle tasse, i profitti assommano a 40 milioni di yuan (circa 4 milioni di euro).

L'età degli abbandoni
Ma quanto attrae un simile modello nella Cina di oggi? Ed è in grado di riprodursi? Secondo alcuni studi Nanjie ha difficoltà ad attirare e trattenere quadri qualificati. Quanto al futuro, affidato alle nuove generazioni, l'istruzione scolastica garantita dal villaggio arriva fino alle superiori ed è nelle scuole che i ragazzi ricevono un'educazione politica mirata, che inizia con le canzoncine alla scuola materna e finisce con il marxismo leninismo e il Mao pensiero al liceo. L'università è la prova del fuoco. Secondo Shen Ganyu, mediamente il 20% delle ragazze non torna mentre solo il 10% dei maschi decide di allontanarsi dalla fin troppo tranquilla esistenza della Comune. Che ignora crimine e disoccupazione ma non ammette bar, né pub, né karaoke, né discoteche. I soli negozi sono quelli che vendono i prodotti locali ai turisti. Quando cala il buio l'unica luce visibile anche da lontano viene dalla statua bianca di Mao illuminata a giorno, nelle strade non gira un'anima e per incontrare un po' di gente bisogna andare al Centro sociale, dove ci si sfinisce in accaniti scambi di ping pong o in interminabili partite a scacchi. Certo ci si può sempre spingere fino alla vicina e tentacolare Linying ma una frequentazione troppo assidua di profani divertimenti non deporrebbe in favore dell'impegno ideologico. E il controllo della comunità è assai stretto.
Nella Cina lacerata dalle ineguaglianze sociali non meraviglia che Nanjie sia oggetto di studio e persino meta di turismo. L'anno scorso sono arrivati 400mila visitatori e i vertici stanno investendo nel settore. Ne viene fuori un curioso mix tra agrituristico e politico. C'è lo sterminato giardino botanico dalle enormi serre corredate da dinosauri di gesso (spaventosi solo per kitch) che si ergono fra palme nane e banani, cascate e ponticelli. Ma anche la ricostruzione della casa natale di Mao a Shaoshan, con tanto di mobili originali, foto di famiglia e albero genealogico. Sullo sfondo, colonna sonora che esce senza soluzione di continuità dalle casse acustiche sparse tra la vegetazione, inni epici, cori baldanzosi, canzoni popolari e melodie struggenti ispirati al Presidente, che presto sarà celebrato anche da un grande museo in costruzione.

Il buon esempio
E tuttavia dire che Nanjie ferve di passione politica sarebbe troppo, al di là delle adunate mattutine coi cori di prammatica, prima di iniziare il lavoro. Difficile anche dire con quali sentimenti chi ci abita viva un'esperienza così unica. La comune, ma sarebbe meglio definirla comunità, somiglia piuttosto a un laboratorio in cui si cerca di far convivere il diavolo del libero mercato e l'acqua santa dell'uguaglianza. Intanto due villaggi vicini hanno deciso di ispirarsi a Nanjie e stanno prendendo lezioni mentre nella Cina infiammata dalle rivolte contadine si contano almeno 1700 casi di ricollettivizzazione parziale delle terre e 8000 «comunità industriali» che agiscono sul principio della proprietà collettiva e della ripartizione egualitaria dei profitti. Nessuna però applica i principi comunisti di Nanjie alla propria organizzazione sociale. Ma «l'intenzione da sola non basta» afferma Shen Ganyu. «Bisogna capire tutte le variabili di un simile processo e per poterlo intraprendere devono esserci veri motivi di comunione, un obiettivo condiviso».
Lei Xiujuan è la nostra guida. Con una navetta elettrica ci conduce tra fabbriche e serre. E' nata in un villaggio dell'Henan, povero, sporco e arretrato, secondo la sua descrizione. Qui è arrivata 10 anni fa, con una laurea in Scienze delle comunicazioni, attirata dalle condizioni di vita. Ha un marito e una figlia, come lei residenti a tutti gli effetti. Prende l'equivalente di 45 euro al mese. Più che sufficienti, sostiene. Quel che la comunità assegna le sembra del tutto adeguato alle necessità e non desidera altro. Parla dello spirito collettivistico del comunismo, così raro oggi in Cina, e ammette che non è facile vivere in un luogo come Nanjie. «La gente che viene da fuori pensa che siamo strani». Eppure, osserva, non siamo diversi dagli altri: abbiamo un modello di governo verticistico basato sul Partito e pensiamo che al primo posto debba esserci il benessere economico, che le riforme hanno reso possibile, da ripartire in modo egualitario. Ci ispiriamo a Mao, dice, ma certo non possiamo definirci maoisti. Quelli erano altri tempi e bisognerà studiare ancora per capire come quel pensiero possa essere adattato ad un'epoca tanto diversa.
Per ora, come si legge, rosso e grande, sui muri di Nanjie Cun, «Seguiamo la nostra strada, e lasciamo che gli altri ne parlino".

“il manifesto”, 26 luglio 2008

Flatulenze su Marte

In un libro americano del  2009, 13 Things That Don't Make Sense di Michael Brooks (Vintage Books), si spiegano e raccontano 13 misteri scientifici, in primo luogo esperimenti ripetuti che sembrano contraddire verità acquisite e creano perciò dubbi e inquietudini tra i ricercatori del settore. Li sintetizzava Luigi Grassia su “La Stampa” del 30 settembre di quell’anno. Ne ho già postato uno, su quello che ho battezzato “effetto antiplacebo”.
Qui ne riprendo uno più affascinante, planetario, che mi riporta all’adolescenza: Marte, il pianeta misterioso era il titolo un libro di fantascienza che mi regalò lo zio Cesare e lessi con ingordigia da piccolissimo.
Nel 1976 su Marte la sonda Viking somministrò delle sostanze nutrienti marcate con carbonio 14 a una porzione di terriccio e rilevò un'emissione di metano (una flatulenza?) marcata col carbonio 14, come se qualcosa avesse digerito quelle sostanze. Esperimenti paralleli non hanno, però, confermato la presenza di microrganismi. Ora, uno studio in California ha messo in rilievo un ritmo circadiano (legato ai tempi del sole) in quell'attività biochimica. E i ritmi circadiani sono un ulteriore indizio di vita.

Non mi pento di niente. Una poesia di Gioconda Belli

Dalla donna che sono,
mi succede, a volte,
di osservare, nelle altre, la donna che potevo essere;
donne garbate, laboriose, buone mogli,
esempio di virtù,
come mia madre
avrebbe voluto.
Non so perché
tutta la vita
ho trascorso a
ribellarmi a loro.
Odio le loro minacce
sul mio corpo
la colpa che le loro vite
impeccabili,
per strano maleficio
mi ispirano;
mi ribello contro le loro buone azioni,
contro i pianti di nascosto
del marito,
del pudore della sua nudità
sotto la stirata e inamidata biancheria intima.
Queste donne,
tuttavia, mi guardano
dal fondo dei loro specchi;
alzano un dito accusatore
e, a volte, cedo al loro sguardo di biasimo
e vorrei guadagnarmi il consenso universale,
essere "la brava bambina", essere la "donna decente",
la Gioconda irreprensibile,
prendere dieci in condotta
dal partito, dallo Stato,
dagli amici,
dalla famiglia, dai figli
e da tutti gli esseri
che popolano abbondantemente
questo mondo.
In questa contraddizione inevitabile tra quel che doveva essere
e quel che è,
ho combattuto numerose
battaglie mortali,
battaglie a morsi, loro contro di me
- loro contro di me che sono me stessa -
con la psiche
dolorante,
scarmigliata,
trasgredendo progetti ancestrali, lacero le donne che vivono in me
che, fin dall'infanzia, mi guardano torvo
perché non riesco nello stampo perfetto dei loro sogni,
perché oso essere quella folle, inattendibile, tenera e vulnerabile
che si innamora come una triste puttana
di cause giuste,
di uomini belli
e di parole giocose,
perché, adulta, ho osato vivere l'infanzia proibita
e ho fatto l'amore sulle scrivanie nelle ore d'ufficio,
ho rotto vincoli inviolabili
e ho osato godere
del corpo sano e sinuoso
di cui i geni di tutti i miei avi mi hanno dotata.
Non incolpo nessuno. Anzi li ringrazio dei doni.
Non mi pento di niente, come disse Edith Piaf:
ma nei pozzi scuri in cui sprofondo al mattino,
appena apro gli occhi,
sento le lacrime che premono,
nonostante la felicità che ho finalmente conquistato,
rompendo cappe e strati di roccia terziaria e quaternaria,
vedo le altre donne che sono in me,
sedute nel vestibolo
che mi guardano con occhi dolenti 
e mi sento in colpa per la mia felicità.
Assurde brave bambine mi circondano 
e danzano musiche infantili
contro di me;
contro questa donna fatta, piena,
la donna dal seno sodo
e i fianchi larghi,
che, per mia madre e contro di lei, mi piace essere.

Il tatcherismo (di Geoff Andrews)


L'annuncio della morte di Thatcher ha provocato molte reazioni. C'è una certa nostalgia nei ricordi di questi giorni, sia quando evocavano le sue avventure imperiali nel sud dell'Atlantico che la sua stoica opposizione ai burocrati europei. E inevitabilmente questioni complesse sono state ridotte a semplici messaggi.
La memoria storica è tuttavia un'arena politica soggetta a contestazioni; e questo è reso evidente dal «caso Thatcher». Ci sono stati i tributi dei politici Tory e New Labour, ma anche festeggiamenti per la sua morte nelle strade di Glasgow, Liverpool e Brixton. La figura di Margaret Thatcher - e, più specificatamente, il thatcherismo - ha avuto un influenza profonda nella politica contemporanea. Tutti i partiti hanno dimostrato rispetto per l'ex primo ministro descrivendola come un politico «sicuro di sé». Quella che segue è una riflessione sui limiti dei politici moderni, sempre più influenzati dal rumore di fondo della discussione pubblica e dai suggerimenti di spin-doctor che operano in un'era ideologica meno polarizzata che in passato.
Thatcher - e in particolare il thatcherismo - hanno avuto un forte impatto nella società inglese. Che sia stato coniato un «ismo» implica che si sono consolidate idee specifiche e una visione di come le cose dovrebbero essere. Per esempio, pochi parlano di «blairismo»; e se lo fanno si riferiscono a questioni di stile. La natura ideologica del thatcherismo ci aiuta invece a capire i cambiamenti in ambito politico, economico, culturale che hanno caratterizzato la Gran Bretagna negli ultimi decenni.
Molte tra le riflessioni pioneristiche sul thatcherismo si possono trovare nei lavori di Stuart Hall. Il suo primo articolo, scritto prima che Thatcher arrivasse al potere e mentre Hall era ancora al Centro studi culturali contemporanei, è una previsione dello «spostamento a destra» che stava avendo luogo nella società inglese.
Hall sottolineava il modo in cui Thatcher e la destra radicale avessero sviluppato una critica del modello social-democratico post-bellico e avessero tentato di costruire un consenso alle loro posizioni facendo leva sul «senso comune» e sulle paure della gente, insistendo sull'idea-guida della centralità del libero mercato e dello stato forte. Hall chiamava questa tendenza «populismo autoritario». L'analisi di Hall era permeata dalle idee di Antonio Gramsci attorno ai periodi di «crisi organica», in cui l'ideologia dominante, le consuetudini, gli accordi politici e logiche economiche non convincono più e sono messe in discussione.
Secondo Gramsci, le crisi organiche, che «possono durare decenni», sono momenti della politica in cui «il vecchio sta morendo ma il nuovo ancora deve nascere». Secondo Hall, la Gran Bretagna dalla metà degli anni Settanta in poi ha attraversato questo tipo di crisi. Thatcher lo aveva capito, cogliendo la perdita di consenso del modello socialdemocratico e keynesiano. Per avvantaggiarsi di questa situazione il Partito conservatore ha fatto sue l'ideologia del libero mercato, proponendo politiche sociali autoritarie.
In altri articoli, apparsi su “Marxism Today” e altrove, Hall, che ha iniziato a insegnare all'Open University come professore di Sociologia lo stesso anno in cui Thatcher diventava primo ministro, elaborava in merito un altro concetto gramsciano: l'«egemonia». Il thatcherismo, sosteneva Hall, è un progetto «egemonico». In quegli scritti Hall aggiungeva anche che la sinistra aveva fallito; non ha infatti capito la natura della crisi e non ha presentato un'alternativa. All'opposto, l'ideologia thatcheriana aveva estratto elementi dal lavoro di Milton Friedman applicandoli alla specifica situazione della Gran Bretagna. Questo tipo di individualismo, ora definito «radicalmente di destra», ha rappresentato un cambiamento «qualitativo» nell'agenda politica del partito conservatore.
In questo modo Thatcher, sostenuta da think tank della nuova destra, incluso l'Istituto di Affari economici, il Centro di Studi politici e l'Istituto Adam Smith, ha potuto affermare che il welfare state voluto dal Labour party e la sua agenda sociale stavano negando la libertà degli individui, incoraggiando la dipendenza dallo stato. Lo Stato sociale e il potere dei sindacati erano, per i conservatori, i responsabili della rovina economica britannica. Margaret Tatcher aveva gioco facile nel sostenere che il keynesianesimo, che aveva in parte permeato i governi conservatori e laburisti del passato, aveva fallito e aveva bisogno di essere sostituito con il pensiero monetaristico. Le privatizzazioni su larga scala di quello che i conservatori classici hanno considerato l'«argento di famiglia», sarebbero venute dopo.
Quando si ricorda il thatcherismo è anche importante considerare il vasto impatto culturale che ha avuto. Ha stimolato una risposta significativa in teatro, letteratura e musica e alcune delle più innovative critiche sono venute dagli artisti. Il thatcherismo ha, quasi da solo, incoraggiato un nuovo genere artistico: la drammaturgia di Alan Bleasdale, i film di Mike Leigh o la musica di Billy Bragg.
L'eredità del thatcherismo ha preso strade di diverso tipo. I politici New Labour gli hanno apertamente riconosciuto il loro debito ad esso per presentare le riforme economiche e sindacali una volta tornati al governo. Molti commentatori hanno inoltre sottolineato un parallelo stringente tra il linguaggio su welfare e povertà degli anni Novanta e le attuali agende governative.
Il thatcherismo ha lasciato il suo segno «ideologico» anche sull'educazione scolastica. Nei primi anni Ottanta, il ministro dell'Educazione Keith Joseph, insieme ad alcuni dirigenti del Dipartimento, erano stati visti ai corsi dell'Open University in cerca di orientamenti marxisti. Si spera che abbiano trovato qualcosa che abbia stimolato il loro interesse, ma leggendo l'agenda dell'Educazione, con la sua attuale attenzione alla «spendibilità» e ai «consumatori», è però settore dove il thatcherismo ha, per il momento, vinto.

trad. it. Giuseppe Acconcia
il manifesto 18 aprile 2013

Memorie degli «ultimi» partigiani (di Silvio Messinetti)

Senza memoria nessun futuro. E chi meglio degli ultimi sopravvissuti della straordinaria epica partigiana può tramandare ai posteri quel racconto corale di libertà e democrazia che è stata la lotta di resistenza all'oppressione nazifascista. Io sono l'ultimo (Einaudi), a cura di Stefano Faure, Andrea Liparoto e Giacomo Papi, è una straordinaria ricostruzione dell'epopea partigiana. Oltre cento lettere, raccolte con la collaborazione dell'Anpi, in cui gli ultimi testimoni viventi della Resistenza raccontano le torture, i rastrellamenti. Ma anche le scarpe chiodate messe in saccoccia prima di salire sui monti e darsi alla macchia, gli amori e i rancori, la fame sofferta, il piacere di ridere in classe scherzando sul Duce e tanto altro. Un'autobiografia collettiva di donne e di uomini che all'epoca dei fatti erano giovani operai, studenti, contadini, che hanno assistito alla tragica deriva del regime nel quale erano nati e cresciuti. A un certo punto decidono però che «il nostro tempo è adesso» e si ribellano. Si sale per i monti per amore del padre bastonato e umiliato. Per la madre contadina vessata dai padroni. Per stare accanto al fratello già capo di brigata. E si entra in clandestinità per amore dell'amico deportato, del vicino vessato, del compagno mortificato.
Un libro da adottare nelle scuole, per favorire la crescita delle nuove intelligenze che si aprono alla vita. E sono infatti gli studenti i veri interlocutori del libro. A loro i partigiani raccontano, a loro intendono affidare il «testimone». Un testamento civile alla futura umanità, per costruire un paese di donne e uomini uguali nei diritti. L'Italia della Costituzione repubblicana, eredità immensa ed imprescindibile della Resistenza. «Ci piace, perciò, pensare a questo libro come a una "piazza delle radici" dove dare appuntamento ai giovani. Per intrattenerli ed incoraggiarli», scrive Andrea Liparoto dell'Anpi. E ancora ai ragazzi nelle scuole si rivolge il partigiano fiorentino Marcello Masini, nome di battaglia «Catullo»: «Ai ragazzi nelle scuole dico, guardate sono rimasto io. Allora diventano più interessati ancora. Perché io sono l'ultimo». La narrazione della lotta di Liberazione alle nuove generazioni, dunque. In modo difforme dalla didattica «ufficiale». Come scrive Natalino Paone, partigiano di Isernia: «Io sono stato professore e posso dire che la Storia, così come viene insegnata a scuola, non funziona. Prima di parlare di quei quattro o cinque nomi importanti, che conoscono tutti, bisognerebbe partire da qui: portare i ragazzi fuori dalle aule e mostrare le nostre montagne, come sono belle, e spiegar loro come grondavano di sangue».
La gran parte delle testimonianze raccolte è del tutto inedita. Si tratta di resoconti di persone ancora in vita al momento della partenza dell'iniziativa (estate 2010). Alcuni dei testimoni sono deceduti in corso d'opera. Difficile stabilire quanti partigiani siano ancora in vita. Uno dei pochi dati attendibili stima 9800 partigiane e partigiani iscritti all'Anpi ancora in vita. È un dato relativo ed incompleto, utile però per poter fare una stima di quanti possano essere «quelli che ancora resistono». Come raccontano Franco Sgrena, Paolo Bologna e Luigi Fovanna: «Eravamo proprio giovani, settant'anni fa, giovanissimi, meno che ragazzini. Ma se c'era da fare, si faceva. E per usare parole un po' forti, il nostro dovere lo abbiamo fatto».

“il manifesto”, 19 aprile 2013

27.4.13

Quattro proverbi (di Alfonso Gatto)

1.
I cittadini son sempre contenti
d'essere scelti come confidenti.

2.
Una giornata storica
in fondo è malinconica.

3.
Come metter le manette
alle favole sospette?

4.
La polizia ha sempre buon naso,
sbaglia per legge, indovina per caso.

In Veleno (a cura di Tommaso Si Francesco), Savelli, 1980

Ramadan (di Alfonso M. Di Nola)

Il digiuno islamico, detto Ramadan dal nome del mese in cui originariamente cadeva in piena estate (e infatti il termine stesso significa in arabo «calore»), è una forma di digiuno particolarmente rigida per le osservanze imposte al fedele durante le ore diurne di un intero mese. Nasce e diviene il quarto dei cinque pilastri o fondamenti dell'Islam nel clima particolarmente polemico del periodo medinese, quando nella vita del Profeta e nel comportamento della primitiva comunità si verificò la definitiva rottura con le tribù (banu ) ebraiche inizialmente legate al nuovo messaggio religioso. All'origine i fedeli avevano assunto dagli Ebrei un digiuno espiatorio, detto «Ashura», che cadeva il decimo giorno del primo mese in corrispondenza del Kippur ebraico. L'Ashura anche dopo l'introduzione del Ramadan è tuttora celebrato come uso facoltativo e supererogatorio. D'altra parte il Ramadan assunse caratteri che lo differenziano radicalmente dall'espiazione ebraica, tutta tesa ad ottenere alla fine dell'anno la cancellazione delle proprie colpe. Il Ramadan si caratterizza, invece, per gli aspetti essenzialmente mortificatori sui quali prevale tuttavia un senso gioioso della vita beduina che si distacca dagli affari quotidiani, raggiunge una tregua dei conflitti e delle lotte tribali e tutta diretta nell'avvertire il segno centrale della storia islamica della salvezza che è la Rivelazione del Corano. Tale Rivelazione, secondo lo stesso testo coranico, avviene in una «Notte Santa» che è la Notte del Destino, «più bella di mille mesi», nella quale «scendono gli angeli con il permesso di Dio, a fissare ogni cosa», «notte di pace fino allo spuntare dell'aurora», «notte benedetta», cadente nel mese di Ramadan. Siamo ben distanti dai dieci giorni «tremendi» che accompagnano il Kippur e infatti anche in Italia i fedeli osservanti vivono in una gioia intensa il digiuno e le astensioni che caratterizzano l'irruzione della Parola di Dio nel mondo e l'inizio della predicazione del Profeta.

Divenire timorati di Dio
Il passo coranico che, abolita l'Ashura, istituisce le regole fondamentali dei trenta giorni del Ramadan, recita: «O voi che credete, v'è prescritto il digiuno, come fu prescritto a coloro che furono prima di voi (gli Ebrei), nella speranza che voi possiate divenire timorati di Dio, per un numero determinato di giorni... il digiuno è un'opera buona per voi... E il mese di Ramadan, il mese in cui fu rivelato il Corano come guida per gli uomini e prova chiara di retta direzione e salvazione, non appena ne vedete la nuova luna, digiunate per tutto quel mese». La dottrina delle varie scuole islamiche arricchisce con minute prescrizioni il comando coranico del Ramadan, che resta essenzialmente la fase periodica della intensificazione del rapporto fra l'uomo e il suo Signore in un clima di tesa presenza nel quale la mortificazione, pur essendo elemento basilare, viene superata dalla costante e prolungata esperienza della presenza di un dio non visibile. In questo senso mi sembra interessante ricordare il comportamento singolare degli studenti islamici nelle Università italiane quando riescono, in un ambiente incline alla distrazione e al rumore, a sigillarsi nel segreto dei significati centrali del loro mese festivo. L'elaborazione delle scuole, pur nella minuta casistica diversificata da tradizione a tradizione, libera da ogni estremismo punitivo il digiuno, anche se esso, negli ambiente rigoristi ed estremisti, può occasionalmente divenire un momento di tensione contro i non credenti e un momento di affermazione di una islamicità integralista, simile a tutti gli altri integralismi compreso quello cristiano. Già nel Corano particolari dispense sono concesse agli ammalati e ai viaggiatori, a condizione che essi provvedano ad una successiva sanatoria della sospensione dell'obbligo. Inoltre il digiuno con altri adempimenti integrativi (elemosine, offerte, sacrifici), può validamente sostituire l'obbligo del pellegrinaggio alla Mecca; ha numerose altre efficacie quando, prolungato oltre il termine mensile, agisce come sanatoria di colpe e delitti anche di sangue purché involontari.
Secondo la interpretazione della scuola più diffusa, quella sciafiita, il digiuno deve essere osservato dai fedeli in pieno possesso delle loro facoltà e, se donne, da quelle libere da mestruazioni e da perdite puerperali. E valido quando il fedele abbia raggiunto il pieno sviluppo fisico, ma è pure considerato valido quello del ragazzo che abbia, però, raggiunta la capacità di intendere. Si esige che all'alba di ciascun giorno si formuli l'intenzione (niya), ma secondo l'opinione di altre scuole è sufficiente formulare l'intenzione al principio del mese una volta per tutte.

Un pasto abbondante
Interrompono il digiuno e lo rendono invalido l'immissione cosciente ed evitabile nel corpo di ogni sostanza materiale, quali l'ingestione di cibo o di bevanda, il fumo del tabacco, l'inglutizione dello sputo che potrebbe essere espulso, l'immissione di liquidi negli orifizi del corpo a mezzo di spruzzamento o di gocce, la ritenzione di feci e di urina, il deliberato e intenzionale vomito, salvo nel caso in cui sia prescritto dal medico, il rapporto sessuale, la masturbazione con esclusione
della polluzione notturna involontaria, la mestruazione, le perdite ematiche del puerperio, la mente impura, l'ebbrezza alcolica e l’alcolismo. Il digiuno è interrotto al tramonto del sole e subito, in un primo pasto di interruzione detto fatur, bisognerebbe consumare preferibilmente datteri maturi o cibi dolci, mentre in pratica ho avuto occasione di osservare che, all'interruzione, ci si nutrisce con pasti abbondanti e succulenti, trascurando la severità delle norme. In ogni caso il pasto abbondante, detto sahur, deve essere differito il più possibile al di là della mezzanotte, e in linea teorica bisognerebbe astenersi, nel corso di esso, da discorsi indecenti, da maldicenze, da calunnie, da menzogne e da insulti. Dopo il giorno di digiuno il fedele deve recitare il Corano per sé e per gli altri e durante tutto il mese deve frequentare la moschea per l'osservanza dei riti prescritti. Il Ramadan, la cui casistica di minima non abbiamo potuto evitare, diviene così il nucleo della vita religiosa e civile dei Musulmani e per un mese intero dalla Cina agli Stati uniti d'America li porta ad un recupero della propria identità storica che nel corso dell'anno è stata assoggettata a obliterazioni e dimenticanze. Nella solennità dei suoi ritmi, è periodo nel quale alcune città, soprattutto nell'Africa settentrionale, restano completamente sigillate nelle loro osservanze e in un silenzio che è parte integrale delle devozioni del deserto.
Il trasferimento di folle di Musulmani in Europa ha comportato un adattamento dell'uso alle nuove realtà sociali e, pur essendo cresciuto il numero dei non osservanti, la massima parte degli immigrati continuano nel rispetto del Ramadan come in quello della salat o preghiera quotidiana.

“il manifesto”, 16 febbraio 1995

Un giorno o l'altro... Una poesia di Giovanni Raboni

Particolare da una foto di Dani Purcaru
Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno
dopo l’altro ti lascio, anima mia.
Per gelosia di vecchio, per paura
di perderti – o perché
avrò smesso di vivere, soltanto.
Però sto fermo, intanto,
come sta fermo un ramo
su cui sta fermo un passero, m’incanto…

Da Canzonette mortali, 1982 - 1983

Verini 1, 2, 3, 4

Verini 1. Il mimo
In una intervista ad Alessandra Farruggia pubblicata su “La Nazione - QN” il 22 aprile, Walter  Verini ha dichiarato: “Nel partito serve una moratoria delle parole. Adesso dobbiamo metterci la faccia”.

Verini 2. Il Chirurgo
Nella stessa intervista, il deputato, già segretario di Veltroni, dichiara: “la divisione correntizia è la metastasi da incidere”. L’intervista ha come titolo Verini il veltroniano.

Verini 3. Missione impossibile
Niente congresso per Verini, sarebbe “una guerra per bande”; meglio al governo con il programma dei “saggi”. Tra le sue dichiarazioni spicca il seguente impegno: “Dobbiamo far capire che non stiamo inciuciando, ma che stiamo partecipando al governo per risolvere i problemi del paese”.

Verini 4. La salvezza
Per la salvezza del Pd Verini propone: “Dobbiamo imparare da Bergoglio”. Perché non rivolgersi, direttamente, al Padre Eterno?

dalla rubrica Il piccasorci, "micropolis", 27 aprile 2013


26.4.13

Barcellona 1939. Parte Machado, cade la Spagna

«... Il giorno dopo doveva partire Antonio Machado. Gli parlai serenamente. Il nemico era ormai alle porte di Barcellona. Aveva passato il Llobregat. Era necessario ritirarsi. Il nemico era cento volte superiore a noi. Doveva prepararsi. Don Antonio ascoltava, con il capo reclinato, come si ascolta una condanna. Poi mi guardò diritto, fisso. Chiamò il fratello José e la cognata e comunicò loro la mia opinione. Ci lasciammo con un forte abbraccio come per consolarci. Imbruniva e gli ultimi raggi del sole si perdevano fra gli alberi. Vidi Don Antonio ritornato sereno, con lo sguardo tranquillo e luminoso fisso lontano dove moriva il giorno. Fu l'ultima volta».
Così Vittorio Vidali, il leggendario « Comandante Carlos » del 5° Regimiento, narra il suo mesto commiato da Antonio Machado, il quale, pochi mesi dopo, vecchio e infermo e con il cuore straziato, primo di tanti esiliati spagnoli, moriva in terra di Francia.

Si avverava la profezia del poeta Vallejo
                                                                                                                                   Si la madre
Espana cae — digo, es un decir —
salid, ninos del mundo, id a buscarla!
(Se la madre/ Spagna cade – dico per dire - / uscite, bambini del mondo, andate a cercarla)

Sì, la «Madre Spagna» era caduta. E, per molti anni, chi volle ritrovarla dovette andare lontano, nelle lontane terre dell'America Latina, percorrere le interminabili vie «dell'esodo e del pianto».
Intanto, una lunga, cupa, implacabile ombra si era distesa di nuovo — come più volte nel passato — sulla Spagna. Il mondo attraversava la grande bufera della seconda guerra mondiale e finalmente si liberava dall'incubo del fascismo. Tutto il mondo si liberava, meno la Spagna. Là, benedetta dai falsi difensori di Dio e salvata dalla contingenza della guerra fredda, sopravviveva ancora la Spagna nera…

da Dario Puccini, Romancero della Resistenza Spagnola, Laterza, 1970 

statistiche