29.12.17

Lavoro. «Riempiamo il vuoto con ludopatia e social». Intervista a Stefano Massini (Giuliana De Vivo)


Stefano Massini
È la risposta dell’homo erectus all’imperativo naturale, ancestrale, di procacciarsi il cibo. Ma è anche uno strumento di definizione e realizzazione di sé. Il concetto di lavoro ha due facce, fin dall’etimologia della parola, alla quale Stefano Massini, romanziere e drammaturgo, autore di Lehman trilogy – l’ultima regia firmata dal maestro Luca Ronconi – e da sempre sensibile al tema (suo è anche lo spettacolo Sette Minuti, divenuto anche un film per la regia di Michele Placido), ha dedicato il libro Lavoro (Il Mulino, 2016).
Siccome «le emozioni collegate a una parola ne compromettono il senso stesso», ecco che il termine “lavoro” si è degradato via via che gli cresceva attorno la disillusione. Esaminando la prima delle due facce, il labor, cioè la fatica che implica sofferenza e risponde «alla voce che ordina di procurarci materia prima da convertire in energia», Massini si domanda: fino a quando a una bestia che, nonostante una corsa agile, veda sempre fallire il suo agguato si può chiedere di perseguire nei propri inutili slanci? Per gli uomini la materia prima oggi è il denaro, spiega il drammaturgo a pagina99, e quella «bestia mortificata» è una metafora incarnata da chi il lavoro non lo trova e dai tanti neet, giovani che non hanno un impiego, non lo cercano né investono nelle proprie competenze. «In loro il trauma è particolarmente forte per via del confronto. Veniamo da una fase storica che era esattamente il contrario: i brillanti anni ’80-’90 ci hanno consegnato il ritratto di una società fin troppo fissata con l’obiettivo continuo del fare, del produrre a tutti i costi. Rispetto a quel modello oggi tutto è rimesso in discussione».
In un Paese costituzionalmente fondato sul lavoro, ma in cui questo elemento programmatico basilare ha perso ogni concretezza, che risposta diamo a quell’imperativo di sopravvivenza? Secondo Massini l’abbiamo affidata alla sorte, alla Fortuna: «C’è uno sviluppo esponenziale di slot machine e gratta&vinci. Molti fanno notare che esistevano anche prima. Ma c’è una bella differenza tra giocare al Totocalcio una volta a settimana e stare tre ore al giorno attaccati alla slot machine. L’immagine di gente accalcata a grattare è un’esperienza che chiunque di noi ha avuto, in Italia come all’estero. Ha mai provato a guardare le pattumiere appena fuori dai tabaccai? Il tentativo della fortuna si è sostituito alla “vivanda”, a ciò che mi dà da vivere: non a caso qualche anno fa è stato introdotto il Gratta&vinci con la formula della vittoria sotto forma di stipendio, quantificata in un tot al mese invece della classica grossa vincita una tantum».
Ma è forse nell’altra faccia della parola “lavoro” che si percepisce di più la portata del mutamento culturale. La radice sanscrita da cui deriva il labor latino, spiega Massini, vuol dire “conseguire ciò che si desidera”, in un senso che arriva a disegnare una “morfologia sociale”, cioè a definire la posizione di ciascuno nel mondo. Prima che la crisi deflagrasse, alla domanda “Che lavoro fai?” si rispondeva usando il verbo essere (“Sono un medico”, per esempio), «il verbo sommo deputato dell’identità, sinonimo di “esistere”, strumento di affermazione suprema e quindi sintesi politica dell’individuo». Nel momento in cui il lavoro non è più percepito come una “colonna portante dell’edificio esistenziale di ciascuno”, la definizione delle identità di ognuno arriva da un altrove, dal modo in cui riempiamo il nostro tempo libero, spesso specchiandolo nel virtuale.

Se l’occupazione (da ob capere) è ciò che riempie il nostro tempo, sottraendolo ad altro, quando questa manca o è precaria il tempo sottratto è poco e quello (cosiddetto) “libero” si dilata: così «aspetti un tempo considerati marginali come un hobby, l’essere tifoso di una squadra di calcio o il seguire appassionatamente una certa serie tv diventano qualificanti. È molto più facile che un architetto cerchi dei propri simili in rete passando dal filtro di uno di questi interessi, percepiti come essenziali, che dal fatto di fare l’architetto», riflette Massini. Un esempio calzante? «Artisti come Jannacci o Vecchioni, che si sono connotati anche per la professione che svolgevano al di là e prima della musica, se fossero emergenti oggi nasconderebbero la professione di cardiologo o insegnante, perché – al contrario di quanto è accaduto nelle loro carriere – non lo considererebbero qualificante né determinante. Ed è chiaro che questo è un effetto del precariato: se faccio un lavoro ma non so se lo avrò ancora tra un mese, faccio fatica a definirmi attraverso esso». Il problema vero, secondo Massini, è stata la rapidità dei cambiamenti: «Era chiaro che l’arrivo delle auto a motore avrebbe determinato la fine del mestiere di cocchiere, ma ciò è avvenuto in modo lento e graduale, quindi non particolarmente traumatico; oggi i mutamenti del lavoro sono velocissimi rispetto alla nostra capacità di capirli e adeguarci: è diventato tutto così baumaniamente liquido che, nella fretta, abbiamo tolto la diga e ci è venuto tutto addosso».

Pagina 99, 8 settembre 2017

Un calcio malato di troppa retorica (Giorgio Simonelli)

L’autore dell'articolo che segue è professore associato e direttore di Master al Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. La sua lettura delle trasformazioni in atto nello sport più popolare mi pare molto convincente. (S.L.L.)
In una recente, lunga e bella intervista, Bruno Pizzul, uno che ne capisce di calcio (e anche di televisione), ha rievocato con qualche nostalgia i bei tempi andati in cui per raccontare le partite «si utilizzavano due telecamere, i calciatori erano delle formichine, però lo spettatore aveva una visione d’insieme, poteva capire la tattica, i movimenti senza palla».
Tutto vero, tutto giusto. Se si vuole trovare un esempio sublime di quello stile, basta cercare la telecronaca di una partita dei mondiali del ’66. Erano i mondiali d’Inghilterra e li ricordiamo sempre per due cose: l’umiliante sconfitta azzurra contro la Corea del Nord e il goal-non goal che decise la finale in favore dei padroni di casa. Ma ci fu molto di più; ci fu l’impegno della Bbc che realizzò delle meravigliose dirette. Due telecamere o poche di più, niente replay, rispetto assoluto dei tempi del gioco, compresi i tempi morti; eppure ancor oggi emanano un fascino incredibile quelle immagini in bianco e nero.

Un gioco da vendere
Tutto questo andava bene fino a quando il discorso televisivo si ispirò alla famosa idea della finestra aperta sul mondo, cioè, per usare la semiologia, fino a quando nel suo linguaggio prevalse un atteggiamento referenziale. Quello che contava era ciò che avveniva sul campo, alle telecamere toccava il compito di documentarlo fedelmente. Lo spettacolo lo facevano i calciatori e se era scadente dal vivo era giusto che lo fosse anche nella sua riproducibilità tecnica. Ma una logica di questo tipo poteva affermarsi in una televisione concepita come servizio, come una possibilità offerta un po’ paternalisticamente al cittadino di “televedere”, di “vedere da lontano” ciò che non avrebbe mai potuto vedere dal vivo.
Poi in qualche anno cambiò tutto: le partite di calcio non erano più avvenimenti da raccontare ma spettacoli da vendere. Prima ai pubblicitari, nell’epoca del trionfo delle reti commerciali, poi direttamente ai telespettatori con l’avvento delle pay tv. D’altronde Borges e Bioy Casares avevano già intuito qualcosa in un racconto fantastico del 1967 – Esse est percipi –, dove il protagonista, Bustos Domecq, colpito dalla scomparsa dello stadio del River, grazie a un’inchiesta, viene a scoprire che «non esiste punteggio, né formazione, né partita; gli stadi cadono tutti a pezzi; l’ultima partita si è giocata il 24 giugno del 1937: da quella data il calcio è un genere drammatico orchestrato da un uomo solo in studio o interpretato da attori in divisa da gioco davanti a un cameraman».

Copertura totale
Forse non è andata proprio così, ma è certo che quella che da qualche anno ci raccontano le telecronache delle partite è tutta un’altra storia. Diversa dal passato, diversa da quella che si può vivere dal vivo. Per semplicità diciamo che le forme di questa radicale trasformazione si manifestano su tre piani diversi. Il primo è quello del valore, dell’importanza della storia raccontata. Nel passato la diretta di una partita era una scelta eccezionale che riguardava solo le competizioni più prestigiose, le occasioni davvero importanti. C’era un’implicita coincidenza tra il rilievo dell’avvenimento e la presenza delle telecamere. Solo di fronte a una proposta di sicuro valore la tv sceglieva di darle spazio nel palinsesto e la presenza della tv dava valore e significato a quell’avvenimento. Oggi, come è facile osservare, la copertura del calcio è totale: campionati, coppe nazionali e internazionali, europei e mondiali, tornei amichevoli e gare di preparazione. Ma la netta, evidente differenza tra questi avvenimenti non sembra manifestarsi nella riproduzione televisiva. In tv le partite sono sempre tutte importanti, decisive, emozionanti. La storia che si racconta è sempre una storia che vale il prezzo del biglietto. Questo è ciò che dicono i telecronisti, questo ciò che le immagini, le scelte di regia costruiscono. Ed è proprio su questo piano del racconto per immagini che si sono manifestate le trasformazioni più profonde.

Il tempo dilatato
Una coinvolge il tempo della storia. «Partiti» esclamava Nicolò Carosio quando era il telecronista del calcio monopolizzato dalla Rai per celebrare il calcio d’inizio di ogni partita. E quella formula magica segnava l’apertura di un tempo speciale, i 90 minuti in cui tutto accadeva e tutto era concentrato. Era un tempo unico, compatto, lineare che non consentiva iterazioni né sconfinamenti. Oggi quel tempo è disarticolato, dilatato, diffuso. La linearità è continuamente scardinata dalla serie dei replay, che mostrano cinque, sei volte la stessa azione da punti di vista diversi. Questo consente – dicono i telecronisti – sia di ricostruire con esattezza le dinamiche e le eventuali irregolarità (la VAR non è altro che l’istituzionalizzazione di questa funzione), sia di apprezzare meglio la bellezza del gesto atletico e tecnico. Ma si tace di quella componente narcisistica della tv che nel momento in cui ripropone un po’ pleonasticamente la stessa azione celebra soprattutto sé stessa, la propria capacità di offrire punti di vista inusitati. E poi c’è la dilatazione temporale. La partita inizia assai prima del calcio d’inizio, con l’arrivo del pullman dei calciatori, con la presenza delle telecamere negli spogliatoi e prosegue ben oltre il novantesimo con le interviste dei calciatori e il rito delle dichiarazioni dell’allenatore.

Lo spazio ricostruito
A questa destrutturazione del tempo corrisponde un’altrettanto marcata scomposizione dello spazio. La ricostruzione dello spazio del gioco – il famoso rettangolo – e dei suoi fondamentali contorni, le panchine, le tribune, gli spalti, avviene non tanto con inquadrature totali , ma sempre più attraverso un montaggio di campi e piani ridotti. Campi sempre più ravvicinati, dettagli e particolari, primi piani degli atleti, dei tecnici e ultimamente degli spettatori, specie se bambini o belle ragazze, sguardi in macchina dei calciatori più attenti alla loro immagine sono gli elementi che caratterizzano lo stile del racconto della partita di calcio. Ovviamente la parcellizzazione dello spazio coinvolge anche i telecronisti: oltre al cronista-narratore non c’è solo la seconda voce che chiosa la cronaca con i suoi commenti tecnico-tattici, ci sono anche il “bordocampista” che segue i movimenti delle panchine e un addetto alle interviste pronto a carpire al volo le parole dei giocatori al fischio finale. Così quello che è stato per molto tempo un racconto molto personale, alla Martellini, alla Pizzul, alla Piccinini, si trasforma in un racconto corale.

Particolari equivoci
Nel 1990, in occasione dei mondiali di calcio disputati nel nostro Paese, la Rai fece alcuni esperimenti di alta definizione e li propose agli addetti ai lavori invitati nella sede di Torino per la trasmissione in HD dell’incontro Argentina-Russia. Quello che ci colpì era la possibilità di avere uno sguardo dall’alto che abbracciava tutto il campo da una porta all’altra, consentendo agli spettatori di avere quello sguardo d’insieme auspicato da Pizzul ma con la novità resa possibile dalla nuova tecnologia: i calciatori non erano più formichine sullo schermo televisivo. Insomma l’avvento dell’alta definizione sembrava spingere in questa direzione, dell’inquadratura ampia, del piano sequenza, per usare un termine cinematografico, di una continuità della ripresa. Invece si è andati nella direzione opposta, verso la frammentazione dello spazio e del tempo e un montaggio sempre più serrato. L’alta definizione non è stata utilizzata per vedere un tutto, ma per cogliere in maniera più precisa ogni particolare, dando vita a un racconto emozionale, un po’ sopra le righe sia a livello verbale che visivo, un racconto neobarocco, per usare una felice categoria di Omar Calabrese .
Anche l’ultimo esito di questo processo, la tecnologia televisiva in campo, la VAR, risente dell’equivoco di questa visione scomposta. Non per caso le prime polemiche sono nate da un rigore assegnato in seguito a un contrasto falloso evidenziato dall’immagine televisiva che non teneva conto che tutta l’azione si svolgeva in fuori gioco. Lo sguardo che coglie e mostra tutti i particolari rischia di perdere di vista il senso complessivo della storia.


Pagina 99, 8 settembre 2017

28.12.17

La gnocca di Berlusconi in un fottìo di deboli oscenità (Gian Luigi Beccaria)

Nel corso di un seminario organizzato dalla scuola politica di Roberto Formigoni, Berlusconi avrebbe detto di Margaret Thatcher che era «una bella gnocca».
C'è chi riferisce che l'ex-premier abbia detto: «Se fosse stata una bella gnocca me la ricorderei ancora...». Comunque sia, The Independent ha dedicato alla vicenda un bell'articolo, stupito, ironico, e didattico.
Or non è molto, don Bossi, dissequestrato e rientrato in Italia, ha scandalizzato molti per aver detto in chiesa: «Ho combinato un bel casino!». «Miiii... che figo» dicono le ragazzine quando vedono passare per via un gran bel fusto. «Ma che c. dici?» le risponde l'amica. Un fuoco d'artificio di parole, che a rigore oscene non sono più, per aver perduto col lungo uso la valenza forte, a poco a poco neutralizzata II gergo giovanile è oggi molto (troppo?) colorito. In realtà lo è sempre stato. Non è un fenomeno moderno. Anche se, ora, le «parolacce» hanno corso più disinvolto, almeno dagli Anni Settanta, anni di esplosione delle parole interdette.

Le parole che prima venivano represse, o porte con un prudente giro eufemistico, oggi affiorano ad ogni piè sospinto, come rumore, vuoto, zeppa. Il verbo incazzare lo usano anche i bambini. È entrato pure nel titolo di un libro di oltre vent’anni fa, Anche le formiche nel loro piccolo s'incazzano. Distinte signore lo usano in eleganti salotti. Del resto, ripeto, le «brutte parole» a forza di usarle perdono la loro connota ione oscena di partenza. È successo a casino, che (come bordello), da «casa di tolleranza» è passato a significare (i dizionari dicono dal 1979) baccano, disordine e simili. E da un po' funziona anche da quantificatore («mi piace un casino»), secondo un procedimento comune della lingua quando si serve nel registro informale di termini sessuali per indicare grande quantità (un frego, un fottìo di gente, di quattrini, ecc.). Identico passaggio, da casa chiusa e baccano, è capitato per esempio a chiasso, che significava bordello, vicolo con casa dì appuntamenti rumorosa. È successo a fascino, lat. fascinum, amuleto, ma anche, in origine, membro virile. Ed è successo a fesso, a fregarsene. Il tempo attenua, neutralizza, cancella. Non facciamo troppi pettegolezzi (ma anche questa parola, ahimè, viene da peto!). A meno che (penso alla gaffe berlusconiana) il disfemismo lo si usi in contesto ufficiale, in situazione formale. Allora la cosa è disgustosamente grave.

Tuttolibri La Stampa, 25 agosto 2007

Come delle torri d’acciaio. Una poesia di Dino Campana

Come delle torri d’acciaio
Nel cuore bruno della sera
Il mio spirito ricrea
Per un bacio taciturno
Tra i pioppi
Al margine degli occhi
Bruni della sera.
Se c’è una pastorella non si sa
Che pare far vane le torri
Al taglio di un pioppo che brilla
Italia.

da Taccuini, abbozzi e carte varie, in Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, 1973


27.12.17

Burri in Sicilia. Ritorno al Grande Cretto tra le crepe della memoria (Andrea Cortellessa)

Alberto Burri a Gibellina
C'è una piccola imprecisione nel testo che segue. Ludovico Corrao, in verità, benché più volte eletto al Parlamento nel Pci e una volta perfino candidato (non eletto) per Rifondazione Comunista, comunista non è mai stato ed ha una storia politica tormentata. L'articolo per il resto è bellissimo, proprio da leggere. (S.L.L.)
Gibellina vecchia. Un'immagine dal Grande Cretto.
È l’estate del ‘79. A undici anni dal terremoto che il 15 gennaio 1968 ha distrutto Gibellina, il padre-sindaco comunista della città, Ludovico Corrao, che ha avuto l’idea visionaria di chiamare i grandi artisti del presente per far risplendere la città nuova – un’astronave modernista inopinatamente atterrata nel paesaggio ancestrale della Valle del Belice –, riesce a farci venire il più grande di tutti. Muto come sempre, Alberto Burri percorre i viali metafisici di quella Brasilia ancora incompiuta (e che tale resterà sino ad oggi), di quel museo a cielo aperto – la Stella di Pietro Consagra alle porte della città, la chiesa sferica di Ludovico Quaroni, le mura di ceramica colorata di Carla Accardi. I silenzi di Burri sono famigerati, ma questo pesa come un macigno. Poi a qualcuno viene in mente di portarlo a Gibellina Vecchia, a 18 chilometri di distanza. Le macerie del terremoto sono restate lì, lutto che non si può elaborare. A quel punto qualcosa, dentro di lui, finalmente si muove. Torna a Città di Castello e, due anni dopo, deposita a Palazzo Albizzini il suo progetto. Un’opera di proporzioni gigantesche. Quasi 90 mila metri quadrati di cemento bianco da far colare sopra le macerie di Gibellina Vecchia, per uno spessore di circa un metro e sessanta. Un enorme rettangolo irregolare, 270 metri per 310, percorso da scanalature larghe un metro, che seguono il tracciato delle strade sepolte. Vista dal basso, sarà una città fantasma. Visto dall’alto, con lo sguardo dal di fuori degli alieni o degli dèi (del quale in quel 1981, proprio, scriveva Alberto Boatto), sarà – semplicemente – il Grande Cretto.
Corrao trattiene il fiato. Come realizzare una simile impresa? Con la sua proverbiale ostinazione, dal 1985 al 1989, un po’ alla volta procura i fondi che, tessera dopo tessera, consentono di realizzare parte dell’immenso mosaico. A un certo punto, a dare una mano, arrivano le ruspe dell’Esercito; segue i lavori l’architetto Alberto Zanmatti. Nel maggio del 1987 Burri torna a Gibellina. In una foto di Vittorugo Contino lo si vede scendere dall’auto di Corrao; per la prima volta vede il Cretto, riflesso sui suoi occhiali. La sua espressione è indecifrabile come sempre, ma un sorriso gli sfiora le labbra. È chiaro, però, che l’opera non verrà mai completata. Almeno non la vedranno compiuta né Burri (che muore nel ‘95) né Corrao. Che nell’estate del 2011 fa una fine tragica, sgozzato dal suo badante bengalese. A caldo un altro suo complice, Emilio Isgrò, scrive un poemetto che si conclude con queste parole: «Non t’ha ucciso Sayfùl, non t’ha ammazzato l’aria. / T’ha ucciso la Sicilia per conto dell’Italia».
Alla gola dell’utopia, quella coltellata è durata vent’anni. Nel ‘94 Corrao non viene rieletto sindaco ma già da un pezzo quelle risorse, che una volta riusciva ad attirare, si sono volatilizzate (Gibellina Nuova, per scelta misteriosa del governo nazionale, è stata costruita su terreni dei cugini Salvo. E sono questi gli anni in cui, sulla Sicilia, il potere mafioso si stringe più che mai). Non solo non si completano le architetture previste dal piano urbanistico (che nel frattempo si coprono di ruggine) o almeno il Grande Cretto (che s’ingrigisce, s’ingobbisce, si squarcia), mancano i soldi per la manutenzione di quelle che ci sono, o per tenere aperto il Museo d’Arte Contemporanea dove risplendono – o meglio risplenderebbero, visto che è chiuso da più d’un anno – Schifano e Boetti, Scialoja e Melotti. Le Orestiadi sono un’altra grande idea di Corrao: che dal 1981 chiama i più grandi teatranti del mondo, d’estate, a esibirsi proprio sul Cretto.
Qui vanno in scena L’Orestea di Gibellina di Isgrò, colle scene di Arnaldo Pomodoro, Le troiane di Euripide per la regia di Thierry Salmon. Ma, lamenta da anni l’arabista Francesca Corrao (la figlia di Ludovico che ne presiede il comitato scientifico), come il Museo e la Fondazione Orestiadi, abbandonati dalle istituzioni, sempre più rischia di diventare una scatola vuota.
Proprio il Vuoto è il demone che insidia Gibellina. Il suo sogno, la sua utopia, le sue aporie. Diceva Burri (lo riporta Giuliano Serafini): «Se non si è capaci di dipingere grande, non si è pittori. Klee e Licini, per esempio, bravi e poetici, non c’è che dire, ma “leggerini”». E ancora: «La misura di una forma è la misura di quella determinata forma». Il Cretto deve essere Grande. Se lo vedi, dal basso come dall’alto, la vastità della concezione – la sua portata simbolica (dove del sostantivo si recuperi la lettera) – è qualcosa che ti lascia semplicemente senza fiato.
Ora, se sei il visitatore di un giorno, senza fiato ci resti (forse) volentieri. Ma se invece lì ci vivi? Il rapporto dei gibellinesi colla città nuova, e con lo stesso Cretto – scenari troppo vasti e metafisici, troppo alieni – è quantomeno ambivalente. Se da Gibellina Nuova chiedi la strada per il Grande Cretto, può darsi che ti dicano che non la sanno (e, se non ti ci accompagnano, arrivarci è una piccola impresa). La musica cambia se dici che vuoi andare a Gibellina Vecchia. Una volta ho ascoltato Franco Purini (al cui progetto si deve il Sistema delle piazze) dire più o meno: può darsi che ai gibellinesi che hanno vissuto nella città vecchia la nuova appaia estranea. Ma come doveva sembrare l’architettura barocca, ai Siciliani d’Oriente, dopo il terremoto della Val di Noto del 1693? Eppure per noi, oggi, le volute di quel marmo bianco rosato dal sole sono la Sicilia più Sicilia che c’è…
Chi l’ha spiegato meglio di tutti è stato un geografo che capiva l’arte e la poesia, Eugenio Turri. Il paesaggio non è natura allo stato puro, wilderness. È invece natura umanizzata: nella quale l’uomo vive e opera. Il paesaggio è un testo: per la precisione, dice Turri, un testo teatrale. Che vive solo nelle sue interpretazioni: restando sempre se stesso ma anche modificandosi, di volta in volta, nella sensibilità di chi lo abita. Come un testo teatrale, non ha senso lasciarlo ad ammuffire nel cauteloso rispetto dei conservatori; così come interpretazioni troppo disinvolte – che non serbino cioè memoria del suo senso originario, delle interpretazioni che si sono succedute nel tempo e che nel tempo lo hanno arricchito – rischiano di obliterarlo. Cioè di distruggerlo.
Non è un caso dunque: né che sul Cretto si sia per anni tenuto uno dei maggiori festival teatrali, né che il Cretto lo abbia concepito chi da qualche tempo aveva preso a lavorare per il teatro. L’idea dei Cretti (composti di materiali che essiccandosi fessurano la superficie), ha raccontato Burri, gli era venuta mentre viaggiava nel deserto americano; per la precisione, nella Valle della Morte (già). Ma il primo fu, nel ’72 all’Opera di Roma, per il balletto November Steps, musica di Toru Takemitsu e coreografia di Minsa Craig (che Burri aveva sposato nel ‘55). L’anno dopo il Teatro Continuo a Parco Sempione, a Milano, si chiamerà così perché, dismesso come spazio scenico, sopravviverà come forma autonoma.
Neppure il Grande Cretto è una forma univoca. Come ogni grande opera è viceversa uno schermo: sul quale ciascuno di noi proietta se stesso. Non un dato, bensì un processo: appunto un teatro. Per questo forse Burri accettò che lo si mettesse in cantiere senza garanzie che venisse completato. E per questo disse a Corrao che l’ideale sarebbe stato che fossero gli stessi gibellinesi a realizzarlo. Il restauro più giusto, a trent’anni da quella prima colata di cemento, sarebbe allora quello partecipato: in cui la cittadinanza si riunisca una volta all’anno per commemorare i propri morti dando una mano di calce su questo che altro non è – e loro lo sanno benissimo – che un immenso e crudele e spaventoso e disumano, e umanissimo, monumento funebre. Così dice oggi un intellettuale gibellinese, Nicolò Stabile, che da qualche anno – dopo aver girato il mondo producendo spettacoli teatrali per le maggiori compagnie d’Europa – è tornato a casa con in testa un’idea precisa, che persegue colla stessa ostinazione maniaca di Corrao: riportare in vita il Cretto, farlo finalmente riconciliare colla comunità alla quale appartiene. Nel 2010 Stabile lancia un appello, firmato da un centinaio di personalità dell’arte e della cultura e consegnato alla Regione e al ministero dei Beni Culturali. Per il restauro il ministero stanzia un milione e 100 mila euro, e la scorsa primavera viene inaugurata la prima tranche: il completamento della parte incompiuta. Solo che ora il Cretto è bicolore. Per un quarto è bianco, liscio e uniforme, come l’aveva pensato Burri; per tre quarti grigio e rugoso, bitorzoluto, abbandonato nello stato dell’ultimo ventennio. Dagli spacchi cresce una vegetazione spontanea, dal piglio tenace e sottilmente ironico. Stabile lavora a un documentario, sul Cretto; ho visto in anteprima le interviste agli amici di Burri, Zanmatti, Lorenzo Fonda… tutti d’accordo su quanto lo offendano le pale eoliche che ora cingono d’assedio il sito. Ma cosa avrebbe detto, Burri, di un Cretto bicolore!
Il suo bianco è squillante, volutamente brutale. Funebre, certo, ma anche così “siciliano”... Ma il grigio… l’anima di ferro che emerge dagli spigoli nel cemento, coperta di ruggine; gli squarci nella superficie, voragini. Ti arrampichi sopra, se ce la fai, e da quegli squarci scorgi il palinsesto di Gibellina vecchia. Sostiene Marilena Renda (che alla sua città ha dedicato un poema dal titolo eloquente, Ruggine) che in uno di questi buchi, una volta, le è apparsa una Madonnina: decorazione di qualche tabernacolo ancestrale. Mi dice Stabile che sinora il progetto di restauro – in omaggio alle concezioni di quello che è stato anche uno dei massimi interpreti di Burri, Cesare Brandi – è stato di natura conservativa. Il minimo indispensabile, cioè, col massimo rispetto per la famigerata patina del tempo. Ma quello che vale (forse) per Michelangelo non può valere per Burri. Diversa la concezione, diversa la funzione, diversa (dovrebbe essere) la dottrina.
Il Cretto è un Teatro, si diceva. Ma è anche un Monumento: il più grande monumento funebre del mondo. Che come proprio primo ufficio, per etimo, ha quello di ricordare. Ora, questa sua doppia anima appunto incarna la dialettica della memoria. Non si può ricordare tutto. L’oblio è la selezione che la mente, individuale e collettiva deve operare perché una qualche memoria possa essere condivisa. Si conserva quello che conta davvero, quello che resta. La memoria poi, insegnano Freud e Ricoeur, funziona a strati: una struttura sedimentaria in cui uno strato si sovrappone all’altro, ma certe eminenze del primo – certe sue pieghe, con l’immagine di Gilles Deleuze – continuano a rilevarsi anche nel secondo. La memoria è come la terra, insomma: una struttura geologica. Ed è proprio letteralizzando questa metafora che opera il Cretto. La crudeltà colla quale Burri ha spianato le macerie di Gibellina Vecchia è l’unica condizione perché da quelle ceneri una Gibellina Nuova possa, prima o poi, davvero riprendere vita. Ora che, per ironia della sorte, il Cretto è a sua volta una mezza maceria, è ai nuovi gibellinesi che tocca prendersene cura. Solo così, finalmente, potranno nascere.


Pagina 99, 21 novembre 2015

O siciliana proterva opulenta matrona. Una poesia di Dino Campana

Alessandra Bonaccorsi, direttore di "Sicilia & Donna"
O siciliana proterva opulenta matrona
A le finestre ventose del vico marinaro
Ne la città corsa di suoni di navi di carri
Classica mediterranea femina dei porti.

Pei grigi rosei de la città di ardesia
Sonavano i clamori vespertini
Seguivano i rumori quieti ne la notte serena:
Dietro delle finestre lucenti come stelle 
Passavano le ombre de le famiglie marine
Nel salido odore del vento
E la melodia di lontani canti sperduti
Correva le vene de la città mediterranea
Sempre più lenta e ambigua ne la notte fonda,
ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc. ecc.

da Taccuini, abbozzi e carte varie, in Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, Vallecchi, 1973

26.12.17

Lontana. Una poesia di Giovanni Pascoli

Cantare, il giorno, ti sentii: felice?
Cantavi; la tua voce era lontana:
lontana come di stornellatrice
per la campagna frondeggiante e piana.

Lontana sì, ma io sentia nel cuore
che quel lontano canto era d'amore:

ma sì lontana, che quel dolce canto,
dentro, nel cuore, mi moriva in pianto.

da Myricae, Rizzoli, 1981

Etrusco, la lingua contesa. A che punto era il “puzzle” nel 1985 (Marco Bascetta)

Per un intreccio di motivazioni turistico-culturali, con il concorso di importanti istituzioni sovranazionali, l'anno 1985 fu celebrato come anno degli Etruschi. L'articolo che segue dà conto dei risultati di un convegno fiorentino su un grande mistero relativo a quell'antico popolo, la lingua allora e, in gran parte, ancora non decifrata. (S.L.L.)

Sono ormai lontani i tempi in cui Alfredo Trombetti parlava, peraltro non senza grande acume, di «etrusco-asianico» e «preindoeuropeo».
I glottologi convenuti a Firenze tendono oggi a relegare quel 1928 nella preistoria degli studi sulla lingua etrusca. E da allora molte cose sono effettivamente cambiate, nell’estensione e precisione di una documentazione archeologica liberata da ossessioni storico-artistiche, della raccolta e classificazione delle testimonianze epigrafiche, nello strumentario teorico delle discipline linguistiche.
Le scritture che cinquanta anni fa non avevano una precisa età, ricorda Helmut Rix, sono oggi quasi tutte databili e permettono di indagare l’evoluzione storica della lingua. Ma qualcosa, al fondo, dal 1928 a oggi è rimasta simile: la lingua etrusca si capisce poco e si traduce ancor meno. Inoltre, molto di quanto si pretende di sapere resta altamente congetturale. Se questo non significa che le conoscenze sulla lingua non sono infinitamente superiori a quelle degli anni '20, certo è che gli specialisti generalmente rispondono alle domande del pubblico con formulazioni ambigue e tortuose. Senza mai confessare chiaramente, a chi dalla lettura dei testi si aspetta la trasmissione diretta di contenuti narrativi e ideologici e del prodotto codificato di antichi saperi, di poterli insomma leggere come un libro scritto nella propria lingua, che a una simile lettura la conoscenza attuale dell’etrusco non può arrivare, perché non si capisce abbastanza. Senza contare il fatto che, nel patrimonio scritto giunto fino a noi, in larga misura funerario, non sembra esserci granché da leggere.
Questo fatto e la caduta di interesse per la «questione delle origini» ridimensionano molto le aspettative di una volta sulla lingua etrusca, indicandone nondimeno di nuove. Per esempio il fatto che la conoscenza della macchina formale di una lingua, anche se non siamo in grado di tradurla, può dirci molto della mentalità di un popolo, del suo rapporto con il reale, dei suoi contatti con altri popoli, della sua storia.
Cerchiamo in ogni modo di tracciare, davvero in due parole, il quadro che il congresso di Firenze ci offre dello studio della lingua etrusca oggi. Possiamo distinguere in primo luogo tra un filone «ermeneutico», e cioè interpretativo, e un filone, per così dire, «meccanico-strutturale».
Nel primo caso si tratta di cogliere il significato generale di un testo, ricorrendo alla conoscenza archeologica e storica che possediamo del suo contesto culturale. Facciamo un esempio: se troviamo una scritta su una statuetta votiva pur non capendola, possiamo supporre che si tratti di una scritta dedicatoria. E se la confrontiamo con una scritta in lingua conosciuta su una statuetta votiva analoga, prodotta in ambiente culturale simile e magari rinvenuta in santuario dedicato alla stessa divinità, abbiamo buone probabilità di avvicinarci al significato della prima scritta e da questo al probabile significato delle singole parole. Lo stesso meccanismo può funzionare in casi più complessi di quell’immaginario che abbiamo descritto.
Si tratta del metodo cosiddetto «bilinguistico», che fa capo a Massimo Pallottino e che, come ha spiegato a Firenze Carlo De Simone, si fonda su un confronto storico culturale e sul presupposto che lo stesso ambiente culturale, anche con lingue diverse, esprime significati paralleli. De Simone avverte comunque del pericolo: lingue diverse dicono magari la stessa cosa, ma in modo diverso.
Il rapporto con la cosa cambia, la filosofia del linguaggio avrebbe le sue serie obiezioni da fare e l’etruscologo naviga nel probabilismo.
Il secondo metodo privilegia l’interesse «morfologico», punta cioè sulla conoscenza della «macchina della lingua» e delle sue regole di funzionamento. Anche qui si mira indirettamente alla conoscenza di un pensiero, ma questa volta tramite l’indagine delle regole formali della sua espressione e del loro mutare nella storia. Se i rapporti matematici, come le frequenze o le dislocazioni spaziotemporali, promettono maggiore oggettività, trarne conseguenze interpretative resta certamente arduo. Ma è sicuramente un buon test, come ha indicato Helmut Rix, per mettere alla prova le pretese «decifrazioni» della lingua etrusca che di tanto in tanto appaiono sulla scena.
È chiaro a questo punto che solo dal concorso di metodi diversi si possono sperare risultati meno parziali senza escludere neanche quel metodo etimologico, prevalente all’inizio del secolo e oggi sospinto ai margini dall’isolamento finora comprovato dell’etrusco da tutte le lingue conosciute.
Del concorso di metodologie diverse, del resto già Trombetti riconosceva l’opportunità cinquanta anni fa. Ma salvaguardando l'«egemonia» del suo sistema «etimologico». Cosa sia il «principale» e cosa il «secondario», resta oggetto del contendere anche nel pluralismo mal digerito che ancora caratterizza il suscettibile mondo degli studi linguistici etruschi.

"il manifesto", 2 giugno 1985

Archeologia anni 80. Andrea Carandini e l'autonomia del sepolto (Marco Bascetta)

Nel corso degli ultimi mesi l’editoria italiana ha dedicato una particolare attenzione all’archeologia ed ora sembra voler entrare nel merito della disciplina con la scoperta di un genere dimenticato: il manuale. Tra diverse traduzioni (importante quella del manuale del Barker curata da d’Agostino per Longanesi) c’è anche il primo tentativo italiano di cimentarsi su questo terreno. Lo ha intrapreso Andrea Carandini, archeologo di formazione marxista, con il suo Storie dalla terra (De Donato, 1981), manuale di archeologia stratigrafica. Manuale, ma fino a un certo punto, in parte per tradizione nazionale, in parte per mantenersi sullo stretto sentiero tra vecchia erudizione e modernismo ipertecnico. Carandini dice il suo lavoro «ad un tempo ortodosso ed eretico». Eretico probabilmente perché non rispetta quei «divieti d’accesso alla teoria», verso i quali l’archeologia tradizionalmente nutre un sacro timore. La descrizione della tecnica stratigrafica, delle sue sequenze e dei suoi procedimenti è infatti accompagnata, anzi preceduta, dall’intento di definire la cultura che la sorregge, una cultura specifica della ricerca archeologica. Si tratta insomma di indicarne il territorio se non il dominio, non solo in base a un oggetto, l’antico (che condivide con l’antiquaria e con la storia) o a un metodo, lo scavo, ma soprattutto in base a propri prìncipii. L’archeologia, intesa come archeologia stratigrafica, non sarebbe dunque una scienza ausiliaria o, peggio ancora, una semplice tecnica buona per verificare le ipotesi formulate dallo storico, ma una disciplina dotata di prospettiva culturale autonoma e di propri strumenti di conoscenza. Una disciplina in grado di individuare i problemi e i quesiti che la terra stessa formula con le sue sedimentazioni, indipendentemente dagli interessi degli storici. E questo con lo scopo principale di svelare quella parte del reale, della vita trascorsa, che la tradizione letteraria e artistica ha ignorato o volutamente omesso. La terra si trasforma così da semplice ostacolo che deve essere rimosso per raggiungere ciò che vi è sepolto e dimenticato, in oggetto di indagine, momento di ampliamento delle conoscenze già acquisite in senso non solo quantitativo, ma anche qualitativo. Disseppellire significa insomma raccogliere messaggi, scoprire le leggi che sottendono i rapporti fisici tra le diverse unità stratigrafiche, tradurre questi rapporti in periodizzazioni e infine in microstoria. L’autonomia dell’archeologia è anche quella del suo oggetto, il «sepolto» «non più solo un aggettivo», ma una realtà con sue caratteristiche peculiari e distinta dall’antico in generale. Ma Carandini non si ferma a questa peculiarità. Il sepolto, il mondo del sottosuolo, sarebbe anche munito di una sua logica, una particolare struttura, uno specifico linguaggio. Ci sono insomma due modi di essere nettamente distinti: quello delle cose vive e quello delle cose morte. E qui Carandini si avventura in un paragone classico, ma che per essere qualcosa di più che suggestivo dovrebbe fare i conti con complessi problemi teorici: il paragone tra archeologia e psicanalisi che, figlie della stessa epoca, cercano rispettivamente ciò che si è perduto nelle profondità del sottosuolo e in quelle dell’Inconscio. Psicanalisi e archeologia che storicizzano, sottoponendolo alla coscienza del presente, quel che è sepolto nell’anima e nella terra.
Al paragone classico si aggiunge poi, secondo Carandini, una particolare affinità tra i principi della stratigrafia e la teoria dell’inconscio di Matte Blanco. Come l’inconscio non sarebbe semplice luogo del rimosso, ma struttura dotata di una propria logica, diversa da quella che domina il mondo della coscienza, cosi il sottosuolo si rivelerebbe sottoposto a leggi diverse da quelle che regolano il mondo dei vivi. Il paragone si ferma qui, accennato, più repentinamente blasfemo che argomentatamente eretico, fragile e pur tuttavia indicativo della difficile posizione che l’archeologia occupa, tra il monopolio narrativo della storia e la subalternità della tecnica, tra le parole degli uomini e il silenzio delle cose. Posizione che facilmente si accorda (e si appaga) con una concezione bilogica: storia inconsapevole delle masse e storia celebrata delle classi dominanti, cocci e monumenti, esemplari unici e infinite ripetizioni, ordine sociale narrato e chaos del quotidiano taciuto, grande e piccolo, microstoria e macrostoria.
Linguaggi differenti, utili per contrastare la colonizzazione delle discipline gerarchicamente forti, ma ancora lontani da una teoria e da un metodo che pongano la necessità delle connessioni rispettando la diversità della partì. Da un polo all’altro si promettono percorsi di andata e ritorno, ina resta una promessa, accompagnata dall’avvertimento che tra micro e macrostoria la strada è lunga e tortuosa e non esistono scorciatoie. È certamente vero che l’archeologo può scovare nella terra «le testimonianze involontarie della storia» e fra queste i prodotti di quella fatica e di quello sfruttamento la cui storia non è mai stata narrata. Forse è anche possibile che decifrando i messaggi che la terra contiene, l’archeologia sia davvero in grado, come scrive Carandini, di penetrare «l’altra metà dell’esistenza dove si addensano l’ultradefinito e l’indefinibile», di cogliere le «atmosfere» e non solo i «nomi» della storia, di svelare insomma anche quello che gli antichi non hanno voluto si sapesse di loro. Ma le metà restano l’una accanto all’altra, ciascuna parlando il suo linguaggio e nessuna capace di spiegare fino in fondo non solo il tutto, ma neanche la sua propria parzialità. L’archeologia sta dunque a cavallo tra due culture, tra due mondi, tra «l’ordine del grande racconto e il disordine della vita di ogni momento»? A cavallo appunto, e oscillante come sempre è il cavaliere. Lacerata e circondata da molteplici tentazioni. Ora con l’ambizione di scrivere una macrostoria della cultura materiale, ora con la convinzione di poter attingere alla verità concreta che smaschera le menzogne della letteratura e magari di avere a portata di mano la realtà della vita vissuta, poi con il desiderio di rifugiarsi nel piccolo e nella passione esasperata per l’indizio o di abbandonarsi al culto troppo acritico e ingenuo dell’ignoto. Dal bisogno di teoria al bisogno di pratica l’oscillazione è spesso brusca, il percorso oscuro. Non è facile ricondurre in un insieme armonioso questo manuale e l’anatomia della scimmia, l’ampio studio di Carandini sulla teoria marxiana delle formazioni economiche precapitalistiche. Eppure questo stesso andamento discontinuo testimonia di una disciplina in movimento, orgogliosa e timida ad un tempo, cosciente di trovarsi al centro di nodi teorici cruciali, un’archeologia multidimensionale e problematica, nel pieno di una difficile riflessione sulla propria natura e di una lotta non meno difficile contro la tradizione polverosa (ma saldamente insediata nelle istituzioni culturali italiane) e il tecnicismo ultraspecialistico che rifugge da qualsiasi prospettiva e da qualsiasi impegno civile.
Anche se tocca una problematica tanto complessa, non bisogna comunque dimenticare che Storie dalla terra resta essenzialmente un manuale con lo scopo dichiarato di descrivere in dettaglio principi e tecniche del moderno scavo stratigrafico. Uno scavo che attribuisce eguale interesse a qualunque cosa possa rinvenirsi nella porzione di terra scelta per l’indagine poiché è dai rapporti fisici, spaziali, tra tutti gli elementi che il terreno contiene che si risalirà alle periodizzazioni, alle interpretazioni e infine alla narrazione di microstoria. Questo scavo si presenta più che come una operazione di recupero, come un’operazione di chirurgia distruttiva. Tant’è che lo «scavo assoluto», lo scavo ideale, implicherebbe in teoria la distruzione totale del sito prescelto. Un paradosso utile per rendere chiaro quanto questa idea di ricerca diverga dalle tradizionali concezioni dell’archeologia monumentale (con la quale naturalmente e fortunatamente è inevitabile il compromesso). Ma soprattutto l’impostazione stratigrafica deve rinunciare alle domande precostituite, poiché la ricerca di una singola cosa ne distruggerebbe mille altre. Solo il rispetto iniziale del disordine della terra permetterà di ricostruire in seguito, a partire da esso, un ordine intellegibile.

“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1982

25.12.17

Gandhi. Dove sei, profeta scalzo? (Beniamino Placido)

Cosa sarà di noi quando non ci saranno più le librerie vere e i librai all'antica, quelli che riconoscono i libri buoni al fiuto (o al tatto, o chissà come) e che ci orientano con i loro saggi consigli? Il vecchio libraio romano da cui mi servo, alla domanda perché non avesse negli scaffali nessun libro su Gandhi — né nuovo né vecchio, né italiano né straniero — mi ha risposto: «...ma Gandhi è triste...».
È vero: Gandhi è triste; la sua figura non ispira pensieri allegri. Ma perché? Non certo perché sia finito male, tragicamente, ucciso dalla rivoltellata del fanatico hindu Nathuran Godse, il 30 gennaio 1948. Tanti eroi popolari finiscono male, finiscono tragicamente, e lasciano tuttavia un ricordo allegro, esaltante, di sé.
Oppure: Gandhi è triste perché è triste quello che è accaduto dopo di lui. L’India alla quale egli aveva predicato la non-violenza si è fatta le sue guerricciole e le sue centrali atomiche. La società indiana alla quale egli aveva additato la fedeltà all’artigianato antico, al telaio familiare, il «Charca», si è fatta i suoi bravi piani quinquennali (più o meno realizzati) ed aspira allo sviluppo industriale. Ma è accaduto lo stesso un po' dappertutto. E allora?
No, se Gandhi è triste è perché c’è qualcosa di triste nello stesso ideale di non-violenza. Che è — intendiamoci — un ideale altissimo, e di altissimo fascino. Così come è di inesauribile fascino quel periodo di tre secoli — fino all’Editto di Costantino — in cui i cristiani predicano e praticano la non-violenza. «Mihi non licet militare, quia christianus sum», dice il martire. E Lattanzio gli ricorda che è preferibile farsi uccidere piuttosto che uccidere: «Morietur potius quam occidat».
Forse la non-violenza è triste perché ha dentro qualcosa di sfuggente, di vile? Nemmeno questo è vero. L’esempio cristiano dimostra semmai che è vero il contrario, e Gandhi ha delle parole estremamente esplicite in proposito. Si possono leggere, queste parole, nella raccolta che ne ha fatto Richard Attenborough, il regista del film sul Mahatma (e che tra poco pubblicherà Longanesi in Italia: Le parole di Gandhi, pagg. 110, lire 9.000): «Posso immaginare un uomo armato fino ai denti che sia, in cuor suo, un codardo. Il possesso di armi implica un elemento di paura, se non di vigliaccheria. La vera non-violenza è invece impossibile ove non si possegga un indomito coraggio».
E tuttavia Gandhi continua ad essere triste. Perché? Sarà la tristezza dei profeti disarmati che — diceva Machiavelli — «ruinorno», mentre quelli armati vinsero? Non è così. A parte quello che è accaduto dopo la sua morte, in vita questo profeta scalzo e disarmato le sue battaglie — contro le discriminazioni razziali, per l’indipendenza nazionale — le ha vinte.
Ma come, e dove, le ha vinte? Qui si cominciano ad intravedere i limiti — esterni — della non-violenza. Gandhi ha vinto in presenza di colonizzatori, di nemici — gli inglesi— che erano colonizzatori e nemici un po’ particolari. Particolarmente attenti al rispetto delle regole.
Non si vuole riaprire qui il discorso sul colonialismo inglese in India: se sia stato un colonialismo buono, o cattivo, o pessimo. Certamente è stato colonialismo, e non ci piace. Ma altrettanto certamente si è trattato di un colonialismo un po’ particolare. Ho presente una vecchia vignetta. Si vede un ufficiale inglese, Lord Willingdon, il viceré, che si appresta a fare anche lui lo sciopero della fame. Come a dire: siamo inglesi, siamo nel ’900, stiamo in India. La repressione non la possiamo praticare. Cos’altro ci resta, se non imitare questi benedetti «ribelli», e fare lo sciopero della fame anche noi?
In circostanze come queste, la non-violenza si può praticare. In altre no. E Gandhi lo sapeva benissimo: «Credo fermamente che laddove non ci sia da scegliere che fra codardia e violenza, si debba consigliare la violenza. Perciò, quando il mio figlio maggiore mi chiese come avrebbe dovuto comportarsi se fosse stato presente allorché io, nel 1908, venni aggredito e ridotto quasi in fin di vita, io gli risposi che sarebbe stato suo dovere difendermi, anche a costo di usare violenza».
Questi i limiti esterni della nonviolenza. Ma c’è qualcosa di più interno, e di più triste. I fatti che sono accaduti un po’ dappertutto, dopo la morte di Gandhi, hanno insinuato dentro di noi il sospetto che non siamo affatto dei non-violenti. Che siamo anzi — chi più, chi meno — tendenzialmente violenti. Che, se rimossa in modo meccanico, la violenza tende a tornare con maggior forza. Come quella certa ingordigia di guerra di cui proprio Gandhi parlava: «È probabile che uno dopo aver fatto una indigestione di dolciumi, se ne astenga per un certo periodo, ma poi tornerà a mangiarne con raddoppiata voracità, una volta passata la nausea».
E come abbiamo visto intorno a noi, proprio in questi anni, la stessa retorica radicale della non-violenza può presentarsi in termini aggressivi, incalzanti, tendenzialmente «violenti».
No, non è Gandhi che è triste. Siamo tristi noi. Perché pur amando, pur ammirando questo personaggio, non sapremmo più dove metterlo. Perché è diventato più difficile nutrire le sue grandi illusioni.


“la Repubblica”, 8 febbraio 1983

Scritto nelle stelle. Cicerone e gli oroscopi (Giovanni Mariotti)

La Sibilla Eritrea rappresentata nel pavimento del Duomo di Siena
Presso due popoli che vivevano in non so quale parte dell’Anatolia o del Caucaso le arti divinatorie giunsero a tal punto di perfezione da risultare assolutamente infallibili.
Di conseguenza, gli eserciti che partivano per la guerra sapevano per filo e per segno come sarebbe andata a finire: i generali concepivano piani ingegnosi per battaglie di cui già conoscevano l'esito, e i soldati lottavano valorosamente, pur sapendo che coraggio o codardia non avrebbero affatto alterato la loro sorte: coloro che erano destinati a perire cercavano lucidamente, di schiera in schiera, e sempre combattendo, l'uomo e l’arma che stavano per trafiggerli.
Per secoli i due popoli andarono avanti a far guerre, e i loro àuguri o aruspici a divinare del loro esito; possiamo forse trovare nelle Battaglie di Paolo Uccello una rappresentazione adeguata di questa vicenda sanguinosa e immobile.
Lessi molti anni fa questa storia, che continua a impressionarmi, nelle Opere di Liutprando di Cremona edite da Bompiani. Conoscere il futuro appare desiderabile, come anche diventare immortali; ma entrambe le cose, se si realizzassero, porrebbero di fronte a notevoli problemi di comportamento. Io (non so voi), se fossi immortale rimanderei tutto a domani; e, quanto alla divinazione, «che vita sarebbe stata quella di Priamo, se fin da giovane avesse saputo che cosa gli sarebbe toccato da vecchio?».
Questa domanda la traggo da Della divinazione di Cicerone. Che meravigliose edizioni si trovano oggi nelle collane economiche: un esempio e proprio Della divinazione di Cicerone appena uscito nella collana «I grandi libri» di Garzanti, con una presentazione e note amplissime di Sebastiano Timpanaro. Gli astrologi esistono ancora, mentre gli interpreti delle viscere e del volo degli uccelli sono diventati rarissimi; ma tutto quello che si può dire su ogni sorta di mantica fu detto da Cicerone, e con inarrivabile grazia, duemila anni fa.
Cicerone si chiede se «quelli che caddero nella battaglia di Canne erano nati sotto la stessa costellazione: perché certo ebbero tutti una morte uguale».
Obiezione definitiva, che non scoraggia la lettura degli oroscopi. Secondo le stelle, le «carriere» sono piene di alti e bassi anche di domenica, e in amore ci sono continui cambiamenti. Quest’animazione fa compagnia soprattutto a chi, per anni e anni, vive la stessa vita senza novità.


Europeo, 25 novembre 1988

Mendicanti. Una poesia di Gerard Hanberry

Ci deve essere anche spazio per il lutto
in questa città scintillante
di arroganza cortese.

Quelle torri splendenti che promettono immortalità
– tenetele, tenete tutto –
non è che una valle tremula di portoni sprangati.

Vado verso le colline colori sfocati,
ambra, rossi, blue elettrici.
Da qui posso vedere chiaramente,

templi, teatri, luoghi di sapienza e bugie.
E sulla testa? Il silenzio insolente delle stelle.
Siamo meno che mendicanti. Alla fine

non potremo rubare per te o avere in prestito un'ora in più,
pur coi nostri poteri, nemmeno un ultimo,
bellissimo, balenante secondo.

da "Poesia" n. 315 Maggio 2016 - Traduzione di Francesca Diano


Al ristorante. Un testo per la radio di Carlo Emilio Gadda

Il testo che segue risale agli anni in cui l'ingegnere Carlo Emilio Gadda lavorava per la RAI. Fu scritto per la rubrica domenicale "Buona convivenza", una sorta di bonario, moderno galateo, cui collaborarono Antonio Baldini, Silvio D' Amico, Maria Bellonci, Alba De Cespedes, Lorenzo Giusso, Vincenzo Talarico. Il testo di Gadda, in cui la sua vis mimetica si disfrena con una sorta di divertita ferocia andò in onda il 2 ottobre 1955. (S.L.L.)

Camerieri inguantati sono a scodinzolare tutt'attorno gli schienali delle seggiole, o si inscrivono tra i neri signori e i decolletés delle dame color pervinca; si curvano sulla tavola presentando la portata, e accuratamente servendo. Ma i due professori non c'è probabilità che la smettano di polemizzare, di sofisticare, il controbattere l'uno la opinione dell' altro: fra la noia di tutti. L'uno sostiene che si deve mangiare tacendo, l'altro che si deve parlare mangiando: "a bocca piena?" "no, sì, già, a bocca vuota": "ma allora lei non mangia più... e semina il disordine e la confusione tra l'andirivieni del servizio...".
L'uno dà la palma al silenzio, al diligente lavoro dei molari, alla tacita deglutizione dei gnocchi adeguatamente lubrificati in butirro, alla muta eccitazione delle ghiandole insalivatrici. Tutti i commensali, secondo lui, dovrebbero far propria la pertinace disciplina dei ruminanti, del bove: masticare zitti zitti, con occhioni estromessi ma cervello introvertito: quegli occhioni che non dicon nulla, ma esprimono la preoccupazione d'aver mandato giù il non salubre ossicino o la insaluberrima resca. "Attenti alla resca!" è il suo motto.
L' altro vorrebbe che "gli spiriti" degli attavolati, il fascino e il brio delle stupende signore, incrociassero le rispettive armi, impegnassero un unico gioco, accendessero la gran fiamma della cordialità conviviale. La tavola, e la zona dei volti, tutto uno scoppiettare di motti, di lampeggiamenti fascinatori. La tavola un campo di battaglia, l'elegante campo di una intelligente battaglia: uno schermagliare di sottili intelletti, un'accòlita di rari pezzi grossi, una tornata accademica di lingue nobilmente favellanti. L'assaporante lingua, per lui, è una linguaccia: un organo bestiale che, usato per il cibo anziché per la favola, ci degrada alla condizione delle bestie. La lingua motteggiante, guizzante, è invece la fiamma che ci riporta verso la sfera del fuoco, verso la mobile sfera del nostro ardore: cioè del nostro ardire, del nostro intendere, del puro nostro vivere: “I gnocchi! le polpette! Che volgarità! Il cibo secondo lo spirito deve disporre al meglio, col suo profumo un tantino platonico, la parte migliore del nostro essere, cioè la sola che sia degna di venir considerata: deve ottenere partita vinta, comunque, contro il cibo che seduce la carne, ossia la lingua, il palato e lo stomaco. A Platone la palma sulle scaloppine! Allo spirito è consentita la nobile voracità dell'apprendere, alla gola è inibita la voracità turpe del deglutire”.
Per poco i due teologi non si accapigliano: uno è talmente calvo che non sarebbe fair play, non sarebbe gioco leale da parte sua il prendere l'avversario per i capelli. Entrambi si astengono dal grattarsi la calva palla del cranio (l'epicuréo) o il carbonioso e cresputo capillizio (il platonico): e di ciò li lodo: ché il grattarsi la testa a tavola, svincolando squame di forfora nell' altrui minestra o pietanza, è pratica inelegante, nell'Ottocento, anzi, si diceva schifosa.
La signora Dirce, biondissima fascinatrice di cuori tra le cannonate della polemica e le conseguenti more del servizio che va rotolando verso le classiche forme del disservizio, ha estratto il piumino dal marsupio della trousse e si studia di dealbare il nasetto, resosi un tantino più rubizzo, forse, di quanto sarebbe desiderabile, e da lei e da noi. All'udire il tuono delle severe opinioni maritali - (poiché il polemista platonizzante è suo marito) - all'udirle prolungarsi al di là d'ogni pazienza e speranza degli attavolati rimminchioniti, ella profitta per far seguire alla raggiunta e perfezionata imbiancatura dell'organo del fiuto alcuni maestri colpi di péttine inferti in parrucca. Dalle sue chiome d'oro si libera per tal modo un pulviscolo d'oro che un impreveduto riscontro, detto volgarmente spiffero, conduce a indorare le fragole del vicino, con la delicatezza silente con cui il flauto, detto volgarmente piffero, di Ermes guidatore di greggi, conduce le più delicate anime a depositarsi ai campi elisi. Il vicino è un terzo professore: è provveduto di lenti: ma "soffre di denti". Lo zabaglione gelato che rinserra le fragole gli si sdilinquisce nel mal di denti, mentre la pioggia d'oro le investe. Il professore non avverte il fenomeno: ha preso le parti del microcosmo contro quelle del macrocosmo sostenute da un commentatore di Goethe che gli siede quasi dirimpetto. Feroce sostenitore del "culto della donna, che è la fiamma di ogni ideale, il modulo di ogni più sana prassi nella vita dello spirito" - (intende dello spirito maschile, certo) - non ha avvertito il piumino, non ha avvertito il pettine, non ha avvertito il pulviscolo, non ha avvertito i capelli d'oro, non ha avvertito la biondissima Dirce (quasi Circe) che gli siede a lato. Spara sulla prassi come un cacciatore con gli occhiali d'oro su di una gallina scambiata per fagiano.
La signora Dirce, bionda vincitrice di ogni cuore, s'è rassegnata ad avere per vicino di tavola un professore di pedagogia infatuato, hélas! del "culto della donna". Alla bisteccuzza gli aveva chiesto il sale: e lui, senza far motto, glie lo aveva subito passato. Ma era il portastecchi. Dall'altra parte, voglio dire dall'altro lato della signora, c'è un critico. Non si capisce che cosa critichi, perché dice "io sono un sincretista": parla con la bocca piena e dà quindi ragione a entrambi i due tonanti avversari del parlare e del mangiare; da vero ed autentico sincretinista quale si professa. Continua a fabulare di "trasposizione" e di "trasfigurazione in termini poetici", perché la sua, a sentirlo, è una critica "puntuale", il che significa una cicalata che dà il cerchio alla testa a tutte le bionde o nere testoline tristemente ammutolite nei dintorni, coi poveri occhi (per solito così splendidi!) chini e compunti sulla pietanzuzza. Il sincretino va nervosamente spilluzzicando un chicco sì un chicco no da due grappoloni dorati che stringono un gigantesco ananasso in centro tavola, lasciando in quel trofeo di Vertunno dei vuoti, dei neri, che ricordano ogni incisivo mancante e il conguente fòrnice in una bocca salivosa poco sovvenuta dalle cure dello stomatologo. Il capo cameriere bolognese lo sguarda in cagnesco e strizza i denti e poi mormora nonostante i guanti bianchi: "Che Dio ti stramaledica, lascia stare quel grappol d'uva che poi non è più buono per un'altra volta". Il critico parla e parla: e a poco a poco, e non impedito dalla bocca piena, supera il cannoneggiamento languente dei due teologi del mangiare e del tacere. Partito a lancia in resta contro uno scrittore "barocco", "Sì, barocco!" urla, e tra le ultime stramaledizioni del chef, butta là lungo disteso sulla tovaglia bianca, il calice di vin rosso che gli era stato così cautelosamente servito da mano inguantata di fil bianco, e ch'era gocciato così nobilmente dal collo di antica bottiglia, incravattata di bianco tovagliolo (a ritenere la stilla!). Il critico non beve se non acqua: il calice era colmo. Egli non si riscalda col vino, ma con la sua stessa voce, come il 95 per cento degli oratori. Quel rosso carmine sulla tovaglia di novemila lire è una stilettata al cuore, per il cuore del proprietario o gestore che fosse. "Viva! allegria!" tuona l'ingegner Pacchioni: e ci bagna il dito, nel guazzo, e se lo porta al naso: per battezzare un organo che, nella specifica, non ha bisogno d'esser tinteggiato col cinabro.


“la Repubblica”, 7 agosto 1992  

La poesia del lunedì. Sandro Penna

Gli aghi dei pini lungamente assorti
entro la pigra gioia stagionale
sovra gli amori umani nati e morti.


Da Stranezze[1957 – 1976] in Poesie, Grarzanti, 2001 

24.12.17

Ad alcuni radicali. Un epigramma di Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini in una borgata di Roma
Lo spirito, la dignità mondana,
l’intelligente arrivismo, l’eleganza,
l’abito all’inglese e la battuta francese,
il giudizio tanto più duro quanto più liberale,
la sostituzione della ragione alla pietà,
la vita come scommessa da perdere da signori,
vi hanno impedito di sapere chi siete:
coscienze serve della norma e del capitale.

da La religione del mio tempo, Garzanti 1961

Divismo ieri ed oggi (Vanni Codeluppi)

Di Vanni Codeluppi, sociologo, professore ordinario all’Università Iulm di Milano, dove insegna Sociologia dei media, dovrebbe essere uscito per Carocci editore un saggio dal titolo Il divismo. Cinema, televisione, web, che però non ho ancora notato in libreria e di cui l'articolo qui “postato” sintetizza le tesi di fondo. Io non le trovo del tutto convincenti, ma preferisco per ora non argomentare i miei dubbi, sperando di sollecitare altre riflessioni con cui confrontarli. (S.L.L.)

Chissà se anche i divi rimpiangono il passato. Chissà se tra pochi giorni a Venezia, alzando al cielo il Leone d'Oro alla carriera, anche Robert Redford e Jane Fonda verseranno una lacrima al pensiero di “come eravamo”, con lo stesso rimpianto di Hubbell Gardiner nel film di Sydney Pollack.
C’è ancora spazio per i divi nell’era di Instagram, oppure la polvere di stelle si è definitivamente posata a terra, spenti i riflettori su un mondo di sogno che, fatto essenzialmente di celluloide, ci ha accompagnato per buona parte del Novecento?
Il divismo contemporaneo è stato inventato negli anni Dieci del secolo scorso dalle case di produzione cinematografica di Hollywood e da allora è rimasto sostanzialmente invariato, resistendo persino all'assalto della televisione che pure ha apportato diversi cambiamenti, però non sostanziali.
Tutto cambia però con i nuovi media digitali: l’Olimpo è diventato più raggiungibile, capita infatti spesso di vedere persone sconosciute riuscire a farsi notare e a occupare quel ruolo prestigioso che veniva ricoperto in passato solo dai divi. Persone cioè che riescono a “vetrinizzarsi”, magnificando e valorizzando il più possibile in pubblico se stessi e la propria esistenza sui diversi social network e, soprattutto, attraverso Youtube, in grado di raggiungere circa un miliardo di spettatori unici al mese, una grande televisione sempre disponibile e che però, al contrario della televisione, consente a tutti di entrare liberamente al suo interno, costruendo palinsesti personalizzati.

Conta cosa fai, non solo chi sei
Lo sviluppo di tutto ciò è stato facilitato dal cambiamento del ruolo delle tradizionali star cinematografiche, che in passato passavano di film in film rimanendo identiche a se stesse, mentre oggi hanno la necessità di offrire degli elevati livelli di prestazione interpretativa in ruoli spesso molto diversi.
Anzi, sono considerate soprattutto quando dimostrano di saper recitare al meglio in ruoli estremamente differenti.
Ma, una volta che l’appartenenza al mondo dei divi venga fatta dipendere da un principio di prestazione (la performance attoriale), l’accesso a tale mondo è libero per chiunque sia in grado di fornire un’adeguata prestazione interpretativa. Siamo dunque di fronte all’indebolimento dell’identità del divo tradizionale e alla comparsa di un vero e proprio divo di tipo “prestazionale”.

Siamo tutti star?
A fianco di tale tipologia, diventa significativo oggi anche lo spazio rivestito da altri tipi di divi per i quali scompare la necessità di offrire una prestazione.
Sempre più di frequente la cultura delle società avanzate si popola infatti di personaggi privi di particolari competenze o capacità professionali e che sono diventati celebri solamente grazie alla loro costante presenza mediatica.
Si tratta di persone sconosciute che hanno acquistato una notorietà grazie alla partecipazione a un qualche evento oppure a un determinato programma televisivo, come un quiz o un reality show, o a un abile utilizzo del web per promuovere la propria immagine.
In realtà, nell’epoca contemporanea tutti sono portati a compiere quotidianamente delle performance davanti a un pubblico immaginario, sono cioè performer che sentono di doversi esibire in continuazione davanti a una vera e propria “audience diffusa”.
Ciò avviene anche indipendentemente dalla possibilità di dare vita a uno spettacolo che utilizzi precisi canali mediatici: da quando si sono diffusi i social network, le persone sviluppano spesso la consapevolezza di essere al centro dell’attenzione degli altri e per questo cercano di presentarsi al meglio sui propri profili personali, riducendo i contatti fisici e cercando di manipolare quello che appare della propria identità personale stando “dietro le quinte” di una protettiva vetrina digitale.
Tutti hanno un’immagine personale da promuovere e gestire attivamente nel corso del tempo presso una propria audience che va curata con successo.
Per gestire al meglio tale fama, le “microcelebrità” imitano le strategie di comunicazione che vengono solitamente impiegate per costruire la propria immagine e la propria reputazione da parte dei divi, i quali riprendono a loro volta i comportamenti adottati da tempo sul piano comunicativo da parte delle marche aziendali.
Non è detto che ciò possa effettivamente funzionare, ma gli individui si espongono comunque quotidianamente nelle diverse vetrine digitali di cui dispongono, perché queste sono gratificanti in quanto consentono di sentirsi pienamente in scena davanti agli altri, una sensazione rassicurante sul piano psicologico.

Una vita in vetrina
E però: qualsiasi platea, grande o piccola che sia, dev’essere continuamente sollecitata con nuovi stimoli, se necessario anche esponendo in pubblico la propria sfera privata più intima.
Infatti, se si vuole tenere il passo con quei cambiamenti accelerati che caratterizzano il mondo della comunicazione mediatica, non si devono porre dei limiti all’esposizione della propria vita privata.
Anzi, al contrario, occorre essere sempre disponibili a comunicare e mostrare corpi, desideri e sentimenti. Fare cioè come i divi, che hanno dimostrato di riuscire a vivere molto bene sotto la luce dei riflettori, sia sugli schermi spettacolari che nella loro vita privata.
Il divo, insomma, è diventato oggi un modello di riferimento fondamentale per i comportamenti di molte persone le quali, peraltro, nelle società contemporanee non sono più unite, come in passato, da legami collettivi o da ideologie condivise e devono costruire autonomamente il loro progetto di vita.
Non avendo però più i modelli tradizionali a cui appoggiarsi, sono costrette a cercare nuovi riferimenti e li trovano nei comportamenti dei divi, per sapere come fare, ma anche per essere rassicurate da esempi vincenti. Anche in un’epoca in cui ciascuno sembrerebbe poter essere padrone del suo destino, c’è più che mai bisogno di avere degli eroi.

Quello che rimane delle semidivinità
I nostri eroi, però, non sono più quelli del cinema hollywoodiano del passato, considerati come essenze intangibili, soggetti lontani che vivevano in una condizione particolare a metà strada tra l’esistenza quotidiana e il mondo delle divinità. O meglio, come ha sostenuto negli anni Sessanta il sociologo Edgar Morin, che erano vissuti come «esseri ibridi», allo stesso tempo umani e divini, reali e immaginari. Esseri perciò distanti, seppure in grado di stimolare speranze di divinizzazione nelle persone comuni.
I divi di oggi, invece, sono maggiormente inseriti all’interno dello spazio della quotidianità, ma noi riusciamo comunque a riconoscere qualcosa di diverso in loro. A vedere ancora, nonostante tutto, un po’ di “polvere di stelle” che scende sulle loro spalle.


Pagina 99, 25 agosto 2017

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