30.9.18

"Nell'oscura foresta". Un canto d'amore tibetano

Ragazza tibetana
Il posto dove incontro la mia amata
è nell'oscura foresta della vallata del sud.
Vi prego, o pappagalli,
non parlatene ai trivi dei sentieri.

da Canti erotici dei primitivi a cura di Alfonso M. Di Nola, Garzanti 1971

Sessantotto. La contestazione in America (Dany Cohn-Bendit)

Chicago 1968. La polizia picchia selvaggiamente i  contestatori al Congresso del Partito Democratico
L'hanno tanto amata, l'America, quei giovani americani che hanno scoperto, all'inizio degli anni 60, che la società che serviva da modello e faro al mondo occidentale non era così perfetta come si voleva far credere loro.
Educati nel rispetto dei diritti dell'individuo, non potevano comprendere che si impedisse a un nero l'accesso a una scuola. Che il governo, garante della Costituzione, accettasse che i neri non potessero, nelle piazze, sedersi sulle panchine riservate ai bianchi. Che vi fossero bar per neri e bar per bianchi. 
Questo non era tollerabile. Non era quello che avevano appreso sulla lotta tra il Bene (l'America) e il Male (il comunismo). L'America mentiva sui propri valori …
Allora essi scesero nelle vie e sulle strade del sud degli Stati Uniti per proclamare questa evidenza. E fu a colpi di pedate, di lance antincendio e di imputazioni per turbamento all'ordine pubblico che i poveri d'America insegnarono loro la verità sullo “stato dell'Unione”.
Prima falla nella fede nell'invincibilità e nella legittimità del “sogno americano”, che andrà allargandosi nel corso degli anni 60. Terremoti. Il problema nero, certamente, e l'esplosione della rivolta nei ghetti delle grandi città industriali. Primi echi delle guerre all'estero fomentate o sostenute dalla potenza americana, in Asia o America latina. Ma è soprattutto la proibizione di esprimere le loro contestazioni nei campus universitari, che giocherà il ruolo di detonatore e spingerà i giovani americani a sfidare tutti i poteri.
I poeti beatniks diedero un'anima alla loro rivolta: l'intelligenza e lo humour erano loro alleati. Herbert Marcuse fece loro comprendere l'alienazione degli individui rinchiusi nella loro funzione di strumenti di produzione, non ammessi al piacere, alla gioia. McLuhan insegnò loro l'enorme potere dei nuovi media. Bob Dylan e Joan Baez indicarono loro le virtù del ritmo, della musica e dei testi impegnati, per mobilitare le folle. Quanto ai neri, essi mostrarono loro che per vincere bisogna battersi fino in fondo, quale che ne sia il prezzo.
Nel 1962 dei giovani militanti creano lo SDS (Student for a Democratic Society), organizzazione che unifica tutti i contestatori dei campus universitari. Questo movimento dieviene la punta di lancia della rivolta, quando Kennedy si impantanò nel Vietnam e l'invasione di Cuba finì in fiasco.
Durante quegli anni, la gioventù diventa il motore di una rivoluzione dei costumi, delle mentalità, dei rapporti fra gli individui.
1968.
Tutte le forze contestatrici convergono per far vacillare il formidabile potere dell'establishment. Nel Vietnam c'è l'offensiva del Têt. L'armata americano comincia a temere la disfatta, i campus universitari sono occupati, le manifestazioni per la pace si moltiplicano. A Chicago sono i “giorni della collera”: quelli che si oppongono alla guerra si lanciano all'assalto della Convenzione del Partito democratico. Bob Kennedy e Martin Lother King sono assassinati.
Alcune donne, vere e proprie pioniere, bruciano pubblicamente i loro reggiseni e disturbano la solenne cerimonia dell'incoronazione di Miss America...
Il potere è scosso, ma non vacilla. Il popolo americano si emoziona per la rivolta dei giovani, ma non mette in discussione i fondamenti dell'ordine sociale.
Molto presto, l'unanimità artificiale dei contestatori esplode. I neri esigono il black power, e le Pantere nere spingono una minoranza di militanti verso l'autodifesa armata. Una tentazione analoga animerà alcuni gruppi di bianchi, i Weathermen, mentre gli yippies resteranno fedeli alla loro volontà di sedurre attraverso la provocazione, la beffa, l'instancabile appello al godere. Quel che nel Vecchio continente fanno già da qualche anno i “provos” di Amsterdam. Il movimento delle donne si spacca negli anni 70 in tendenze nemiche, il che indebolirà, senza peraltro cancellarle del tutto, le vittorie che aveva saputo conquistare.
E soprattutto, l'America alla fine si libera di quel fardello insopportabile: la guerra del Vietnam. Essa deve accettare l'umiliazione e la sconfitta, ma questo la libera dal corrosivo dubbio che la rode.
La repressione può abbattersi sui contestatori.. Prigioni, assassinii, violenze d'ogni genere. Ma anche recupero, per la gioia e il conforto del sistema. Molti, se non sono stati uccisi, tornano ad istallarsi nel “ventre della bestia” che hanno tanto odiato.

Da Nous l'avons tant aimée la revolution, Editions Bernard Barrault, Parigi, 1986 – Trad. Salvatore Lo Leggio

In veste grigia e verde ... Una poesia di Paul Verlaine (Traduzione S.L.L.)


In veste verde e grigia con gli arricci,
in un giorno di giugno ch'ero inquieto,
apparve agli occhi miei che sorrideva:
senza temere inganni la guardai.

Andò, venne, tornò, sedette, disse,
leggera e grave, tenera ed ironica:
ed io sentivo nell'animo adombrato
riflettersi la gioia di tutto ciò;

la voce, essendo di musica fine,
accompagnava deliziosamente
l'affascinante chiacchiera, lo spirito
senza fiele di un cuore buono e gaio.

All'improvviso fui, dopo la finta
di una rivolta presto soffocata,
alla mercé della piccola Fata
che io da allora supplico tremando.


En robe grise et verte avec des ruches,
Un jour de juin que j’étais soucieux,
Elle apparût souriante à mes yeux
Qui l’admiraient sans redouter d’embûches ;

Elle alla, vint, revint, s’assit, parla,
Légère et grave, ironique, attendrie :
Et je sentais en mon âme assombrie,
Comme un joyeux reflet de tout cela ;

Sa voix, étant de la musique fine,
Accompagnait délicieusement
L’esprit sans fiel de son babil charmant
Où la gaîté d’un cœur bon se devine.

Aussi soudain fus-je après le semblant
D’une révolte aussitôt étouffée,
Au plein pouvoir de la petite Fée
Que depuis lors je supplie en tremblant.


da La bonne chanson (prima ed. 1872)

Qualcuno tolga il politically correct dal mio letto. Intervista a Philip Roth (Paola Zanuttini, 2016)



NEW YORK,10 gennaio 2016.
Non tanto per rispetto al più grande scrittore vivente, quanto per il suo lucido parquet, a casa di Philip Roth si entra senza scarpe. Non lo chiede in modo esplicito, ma pare la cosa più indicata, in presenza del compìto signore che viene ad aprire in calzerotti di lana, presumibilmente antiscivolo. L'appartamento, nell'Upper West Side, è luminoso, spoglio e quasi impersonale come quello di un giovane accademico. Pochi mobili, un po' di design, nessun indizio di genio e sregolatezza. Il genio, anzi, è molto ordinato. Il tappetino da ginnastica davanti alla finestra del soggiorno non è lì per sciatteria, ma perché è sempre a disposizione della malandata schiena di Roth che, andando per i 77, da anni scrive un po' in piedi, un po' seduto e un po' sdraiato per rabbonire le vertebre. La cucina custodisce i suoi segreti, nel caso li abbia, dietro un imperscrutabile nitore di legno chiaro. Ma questo è il pied-à-terre dove lo scrittore viene a svernare, la sua vera casa è un un'antica e isolata dimora nel Connecticut.
Roth si siede sulla sua poltrona Eames, pezzo forte del Modernismo, e butta lì: «Di che libro parliamo?».

Del trentesimo: L'umiliazione.
«Me lo racconti un po', ché ho finito di scrivere il trentunesimo e c'è rischio che faccia confusione».

Di colpo, Simon, grande attore teatrale, perde talento magia: a 65 anni, si ritira.
«Bell'idea. Vada avanti».

Sprofonda nel dolore. La moglie lo pianta: solo nella casa di campagna, non regge: va in clinica a curarsi le tendenze suicide. Ne esce anche più depresso. Ma poi incontra Pegeen, lesbica di quarant'anni che ha molto sofferto perché la sua fidanzata l'ha lasciata per operarsi e diventare uomo. Si innamora.
«La storia c'è».

Lei pare ricambiare. E si rimette le gonne, che le regala lui.
«Ah, lui la femminilizza».

Sì, ma poco dopo, Pegeen, torna anche a infilarsi l'imbracatura che regge il dildo. Verde.
«Mica male, come colpo di scena».

Aspetti. Simon, per compiacere i desideri birichini di Pegeen, rimorchia una donna al bar e organizza un triangolo.
«Niente di più sbagliato. La fa tornare agli antichi amori».

Infatti. Non le dico come finisce. Simon e Pegeen sono ebrei?
«Perché dovrebbero esserlo?».

I suoi personaggi, di solito, lo sono.
«Questi sono definiti da altre cose: tristezza, allegria, dubbi, desideri».

Lei legge le recensioni?
«Cerco di non farlo: una volta chiesi a Keith Hernandez, un famoso giocatore di baseball, se dava un occhio alle cronache sportive il giorno dopo la partita. Mi rispose: "Perché dovrei? So benissimo cosa è successo". Così ho capito perché non devo leggere cosa scrivono dei miei libri: anch'io so già cosa è successo».

Molti critici americani e inglesi si sono scandalizzati per le scene di sesso del romanzo. Uno s'è scusato con i lettori per aver citato la parola triangolo.
«Puritanesimo. Con quello che si vede nei film, si sente nelle canzoni o si trova su internet, ci si può scandalizzare per i miei libri? Un libro fa scandalo solo se è scritto male».

Forse, soprattutto alle donne, dà fastidio leggere che un vecchio, con il morale e la schiena a pezzi fino a qualche pagina prima, fa le acrobazie a letto con una che potrebbe essere sua figlia (e infatti è la figlia di due suoi amici). Le pari opportunità non arrivano a tanto.
«Interessante. Ma credo che sotto ci sia dell'altro: non è politicamente corretto descrivere una lesbica che vuole far sesso con un uomo. Non è politicamente corretto che un uomo cambi l'orientamento di una lesbica. Simon le offre un buon taglio di capelli, le compra dei bei vestiti: è un gioco per vedere come sta, e lei sta al gioco. Ma è un gioco che non rientra nel politically correct».

Categoria dello spirito che si infila anche sotto le lenzuola?
«Questo non lo so, ma nella percezione dei recensori di certo. Applicano questo punto di vista e qualcosa non torna: una lesbica dev'essere lesbica, è sbagliato volerla cambiare. Avessi usato la parola bisessuale sarebbe filato tutto liscio. Non l'ho usata apposta: conosco un buon numero di lesbiche tornate femminili ed etero».

Quante?
«Tre. Non è questo gran numero, ma una si è anche sposata».

C'è anche che le sue descrizioni del sesso sono spietate.
«Spietate?»

Lo raccontano per quello che è, nudo e crudo.
«Mi soddisfa l'idea di poter ancora scandalizzare, pensavo di aver perso la magia, in questo campo».

E, in generale, ha mai sentito che la stava perdendo?
«Agli scrittori succede sempre. A me, di solito, capita all'inizio di un libro o fra un libro e l'altro. E anche se non senti di perderla, ne hai comunque paura. È la paura dello scrittore, ma ce l'hanno anche i grandi attori».

Chi è Michiko Kakutani e perché parla male di lei?
«Non è una mia ammiratrice».

Infatti scrive che ormai i suoi personaggi sono solo vecchi sporcaccioni. Giudizio che, per osmosi, pare estenda a lei.
«Non è molto importante».

Ma se è la critica del New York Times...
«È una giornalista che pubblica recensioni. I critici non si occupano di recensioni, ma pensano ai libri e ci scrivono i saggi».

Per le sue leggendarie pagine sul tumore che più affligge la popolazione maschile, Roth è stato malevolmente definito una sorta di Proust della prostata, ma è un fatto che, da un po' di anni a questa parte, si concentri sulla decadenza, la morte e la lancinante persistenza del desiderio. Non è proprio roba da vecchi sporcaccioni. In Patrimonio, il libro sulla morte di suo padre, scrive che la vecchiaia non è un picnic...
«...E in Everyman dico che non è una battaglia: è un massacro».

Appunto, e il sesso che ruolo ha in questo massacro?
«Nel caso di Umiliazione la rende migliore e peggiore. Migliore quando cambia la vita del protagonista riempendola di progetti e illusioni. Devastante quando lo perde. Tutto quello che so è quello che descrivo, non so niente oltre a questo. In Il fantasma esce di scena, il mio vecchio Zuckerman è ormai fuori dal sesso, ma una giovane donna riesce a eccitarlo: il desiderio inappagato è qualcosa di bruciante e molto triste».

Dall'onanismo del giovane Portnoy alla prostata del suo ultratrentennale alter ego letterario Zuckerman, ai sogni perduti di Simon, come si è evoluto il suo racconto del sesso?
«Ci vorrebbe una settimana. Ma non è che ora parlo solo di sesso della terza età: in Indignazione, recentissimo, c'è la ragazza che fa...».

L'intermezzo angloitaliano per definire la pratica esercitata dalla ragazza sul giovane protagonista del romanzo richiama antichi ricordi.
«Nel 1972 andai a Praga e, già che c'ero, mi misi a cercare dei traduttori per Il lamento di Portnoy. Passammo una notte divertente: loro traducevano in ceco e ogni tanto pescavano parole inglesi che non conoscevano, tutte oscenità. Io cercavo di spiegarle, per lo più a gesti, davanti a gente che avevo mai visto prima».

Provi a spiegare a Michiko Kakutani perché parla di sesso.
«Perché è un grande tema. Lo era in Madame Bovary e in Anna Karenina: molti libri alla fine dell'800 parlano di adulterio. Nel 900, Joyce comincia a descriverlo – basta pensare a Molly nell'Ulisse – e Lawrence a celebrarlo. Poi a metà 900 gli scrittori si prendono la libertà di descriverlo. Come scrittore, sono nato in quella fase: allora, la descrizione grafica era consentita».

La psicoanalisi concede libertà di parola alle fantasie più inconfessabili. Andare in analisi ha liberato la sua scrittura?
«Poco o niente. Sono stato in analisi dal '63 al '68 e quello da cui mi ha liberato sono le conseguenze del mio terribile primo matrimonio».

E che era successo?
«La mia prima moglie non era una buona moglie. Disonesta, bugiarda, fredda di cuore. Le pare abbastanza? Non credo che la psicoanalisi abbia qualcosa a che vedere con il mio scrivere sul sesso. Il sesso c'è anche nel mio primo libro, Addio Columbus, del 1959. Freud fu un grande liberatore, ma non devi certo andare in analisi per subirne l'influenza. Ogni scrittore del 900 l'ha subita».

Non è che il secondo matrimonio, con l'attrice Claire Bloom, sia finito tanto meglio: lei, in un libro di memorie va giù pesantissima e la solita Kakutani insinua che lui, in Ho sposato un comunista, si ispiri a lei per lo sgradevole personaggio femminile. Come vanno i rapporti col movimento femminista?
«Non ho problemi con loro».

Li ha avuti.
«Ma esistono ancora?»

Chiaro che la detestassero.
«Non credo che mi detestino».

Viene accusato di misoginia.
«Insensato. Basta leggere bene i miei libri. Dai primi, come Lasciarsi andare o Quando Lucy era buona a La controvita o Pastorale americana».

In Pastorale, la figlia del protagonista, passata dal terrorismo al misticismo più astruso, gira con una mascherina per evitare di danneggiare col respiro i moscerini. È il ritratto straziante di una deriva generazionale: ma come le è venuto?
«È il mio lavoro. Avevo letto di questa filosofia indiana, il jain: scrivendo il libro mi è venuto di riusarla».

E il giovane Zuckerman convinto che la bella ragazza che ha davanti sia Anna Frank scampata ai lager, ma decisa a restare in incognito per non danneggiare il potenziale del suo diario ormai famoso?
«Su Anna Frank avevo lavorato per un libro incompiuto. Comincia a vedersi con un ragazzo e dopo un po' gli fa: "Devo dirti una cosa, sono Anna Frank". Lui pensa che sia matta, poi si chiede: " E se fosse vero?" Come il Pirandello di Come tu mi vuoi».

Anche lei ha una doppia identità: scrittore ascetico e inguaribile donnaiolo.
«Mi sarebbe piaciuto essere un grande donnaiolo, ma sono fantasie. In Connecticut, dove vivo gran parte del tempo, ci sono cervi, orsi, tacchini selvatici, ma niente donne».

Ho letto che è andato a ritirare un premio con una nuova fiamma di trentacinque anni.
«Non ricordo».

Aveva un fiocco in testa.
«Ah, sì. Una ragazza molto chic».

Tanto sesso, nei suoi libri, e non nasce mai un bambino.
«Non mi pare: Pastorale americana ruota tutto intorno a questa figlia diventata terrorista, il professore di La macchia umana ha tre figli».

Ma sono tutti grandi.
«Sì, ma chi scrive di bambini?».

Ian McEwan.
«Ha scritto di bambini?»

Bambini nel tempo.
«Ian, brava persona. Si rivolga a Ian se vuole leggere di bambini, a me se vuole leggere di figa».

Da che parte si mette quando descrive le esperienze limite dei suoi personaggi?
«Io capisco che uno possa fare le scelte più disastrose e dolorose per sé e per gli altri. Liberissimo. Faccio solo succedere cose che non so perché accadono senza il bisogno di approvare e disapprovare. Poi racconto le conseguenze».

Scrivere delle conseguenze è un'azione morale.
«Ha già più senso del cliché di misogino, misantropo, antisemita».

La produzione è un surrogato della riproduzione?
«Ma lei è fissata con i bambini! No, John Updike ha avuto quattro o cinque figli e ha scritto sessanta libri».

Al Pacino ha acquistato i diritti per L'umiliazione. Si può rendere al cinema la cattiva recitazione di un attore in crisi?
«Un bravo attore ci può riuscire».

Anche con il sesso sarà dura.
«Kurosawa tratterebbe il dildo come un coltello. E anche Bergman se la caverebbe egregiamente».

Qui il regista è Barry Levison.
«Non è un mio problema».

Invece, Phillip Noyce, il regista di Il collezionista d'ossa, vuole fare Pastorale. Che ne dice?
«Con Noyce ho preso un caffè cinque anni fa per parlare del progetto: non se ne farà niente».

Ma è soddisfatto dei suoi romanzi al cinema?
«Per niente. Lezioni d'amore, tratto da L'animale morente è un disastro. Ben Kingsley è affabile, il mio professor Kepesh no. E Penelope Cruz mostra il seno come un'odalisca, non come una a che ha paura di vederlo mutilato dal cancro».

Per caso, è insoddisfatto anche da Barack Obama? Da un'intervista a un quotidiano italiano, “Libero”, risulta che lo trova persino antipatico, oltre che inconcludente e assopito nei meccanismi del potere.
«Ma io non ho mai detto una cosa del genere. È grottesco. Scandaloso. È tutto il contrario di quello che penso. Considero Obama fantastico. E trovo che l'attacco che gli stanno sferrando i repubblicani è molto simile a quello subito da Roosevelt al suo primo mandato. È la destra più stupida mobilitata da Sarah Palin. Agitano la bufala dell'atto di nascita che dimostrerebbe che è nato in Kenya. E trovano ascolto. Sotto c'è il problema della razza, della pelle. Sono molto seccato per queste dichiarazioni che mi vengono attribuite: non ho mai parlato con questo “Libero”. Smentisca tutto. Ora chiamo il mio agente».

Chiama il suo agente, che gli filtra tutti i contatti: nell'agenda delle interviste passate e future non risulta né "Libero" né il nome dell'intervistatore. Roth attacca e poi chiede cosa vuol dire “Libero” in inglese. Traduco. «Vuol dire che questi sono liberi di fare tutto quello che gli pare?».

"Il Venerdì di Repubblica", 26 febbraio 2016

Batteri e insetti pericolosi? Arrivano con i commerci, non con i migranti (Roberta Carlini)


Le ricerche dimostrano che le "specie aliene" entrano in Europa sui mercantili e gli aerei di linea: niente a che vedere con i barconi dall'Africa
Punteruolo rosso della palma. In provincia di Reggio Calabria ha distrutto centinaia di piante
Sì, l’invasione viene dal mare. Ma anche dalla terra, sulle rotaie della riaperta via della seta e sulle gomme degli autosnodati. E dal cielo, su regolarissimi voli di linea. Volontariamente, o per caso. Si insinua in culture diverse, estranee. E marcia sempre e comunque alla velocità dell’economia e della sua globalizzazione. Ma il nostro ministro dell’interno stia tranquillo: non stiamo parlando di umani, che lo preoccupano. Parliamo di altre specie, in particolare quelle classificate come aliene e invasive dai biologi: ossia insetti, uccelli, mammiferi e microrganismi che, introducendosi in un contesto estraneo a quello di provenienza, causano danni all’ambiente, alla salute e all’economia. Danni e perdite ingenti: 12,5 miliardi di euro all’anno in Europa, è la stima più prudente, 20 miliardi quella considerata più vicina alla realtà. A livello globale, c’è in gioco il 5% del Pil mondiale. Insomma, una minaccia seria per l’economia. Economia che però è anche all’origine del problema, con lo straordinaria e stratosferica accelerazione dei commerci a cavallo dei due millenni. E così, nel mondo post global di Trump e dei sovranisti casarecci, la globalizzazione della specie è già cosa fatta. Se avesse un indice sintetico, sarebbe molto simile a quelli del Pil: è una malattia dei benestanti, soprattutto quelli del Nord del mondo e adesso anche dell’Est rampante; che, come spesso succede, diventa letale per i poveracci, quelli del Sud.

Di navi e clandestini
Il sovranismo biologico contro il pesce palla può essere ancora più ridicolo e inane di quello corrente sul mercato del consenso politico. Ma certo quel Lagocephalus sceleratus carino e strambo, all’apparenza innocuo ma velenosissimo, non solo merita il suo aggettivo scientifico ma sintetizza bene i nuovi legami tra biologia ed economia. Quelli che sono esplosi, come tema della ricerca scientifica, negli ultimi anni, con frotte di studiosi alla ricerca del fattore economico-commerciale nell’impennata delle specie aliene invasive (Ias, è l’acronimo a cui dovremo presto abituarci come ai board della Bce o ai punti di Pil o alle oscillazioni del Nikkei). Il pesce palla argenteo, infatti, viene dai mari tropicali. Quando i pescatori del Mediterraneo se lo sono trovato nelle reti le prime volte, qualcuno lo ha mangiato – ed è morto. Nel nostro specchio di mare, prima, non c’erano specie velenose. Se sono arrivate, è per il canale di Suez e il suo gran via vai delle rotte commerciali. Le chiamano “migrazioni lesspsiane”, quelle travasate dall’oceano indiano al Mediterraneo attraverso il taglio fatto a fine dell’800 dall’ingegner de Lesseps: è vero che sono cominciate da allora, dunque in qualche modo è storia vecchia. Ma è anche vero che il primo viaggio navale con container è del 1956 e l’esplosione delle “multinazionali del mare” (definizione del sociologo Sergio Bologna) è molto più recente. Come recentissimo è il raddoppio del Canale di Suez, che dal 2015 ha potenziato enormemente la capacità e il flusso commerciale nonché animale, tra gli inascoltati allarmi e caveat dei biologi europei.
La rivoluzione di “the box”, il container che ha cambiato il mondo, è nel gigantismo: di stazza, peso, valore, velocità. Ma anche – si è scoperto dopo – nel piccolissimo. Per esempio, nei microrganismi che stanno nell’acqua del mare caricata magari al largo della Cina, per fare zavorra e stabilizzare il gigante, e scaricata a destinazione, nel fresco del canale di San Lorenzo, all’imbocco dei grandi laghi americani, o nel porto di Amburgo, o in California. Queste acque hanno portato tempo fa la cozza zebrata nei grandi laghi americani – prolifera più veloce di una fabbrica cinese, e il tappeto di molluschi che ne viene fuori può bloccare impianti, sbocchi, transiti – e, in un meccanismo micidiale di andata e ritorno, hanno esportato dall’Atlantico al mar Nero la noce di mare, una specie di medusa che ha annientato la pesca delle acciughe in Turchia. Ma gli “autostoppisti inconsapevoli” non viaggiano solo nelle stive: si attaccano anche alle chiglie dei giganti e così attraversano allegramente il mondo. Sopravvivendo in contesti altrimenti ‘ostili’ anche grazie all’altra grande causa della proliferazione degli alieni: il cambiamento climatico.

Un velenosissimo pesce palla  pescato a Molfetta nel 2017

Belli e terribili
Non ci sono solo le importazioni involontarie. Anzi, tutto comincia, dall’alba dei commerci, con raffinati scambi d’élite. Piante ornamentali e animaletti esotici, spesso in cattività ma poi liberati o sfuggiti e liberi di riprodursi in altro habitat. Solo che ai tempi dei mercanti veneziani non c’era il climate change e tutto andava un po’ più piano. Ma è del 1948, per dire, l’introduzione in Italia dello scoiattolo grigio, portato da un ambasciatore dal nord America ai giardini di Candiolo, nel torinese: ma il carino e socievole roditore che viene a mangiare semini nelle nostre mani a Central Park, in Europa è diventato lo sterminatore del collega scoiattolo rosso, e di tutto l’ecosistema che su questo si basava. Ed è recentissimo l’arrivo dei parrocchetti monaci che svolazzano fuori dalle nostre finestre nella calura neotropicale romana: ancora non classificati nella lista nera delle specie invasive, ma – gli estimatori si mettano in allarme – a rischio scomunica, per la loro capacità predatoria di semi come di cavi elettrici, e il rischio che diffondano la psittacosi. Specie introdotte volontariamente per bellezza e simpatia, mica infiltrati clandestini come il punteruolo rosso delle palme, il tarlo asiatico sulle foreste lombarde, la zanzara tigre, l’acaro delle api.

L’anima del commercio
Cos’è cambiato, dai tempi in cui il mercante veneziano portava a casa una pianta esotica o l’ambasciatore si infatuava dello scoiattolino americano? È la globalizzazione, stupido, si potrebbe rispondere parafrasando il motto (“It’s the economy, stupid”) dello stratega della campagna di Clinton del 1992, per l’appunto uno degli eroi della fase global del progressismo mondiale. Solo negli ultimi trent’anni, quelli della globalizzazione arrembante, il numero delle specie aliene in Europa è cresciuto del 76%. In Italia, l’aumento è stato nello stesso periodo del 96%. Nel Mediterraneo, l’invasione è raddoppiata in quindici anni. Ma una correlazione più precisa, fatta disarticolando i fattori ambientali e quelli umani, è stata fatta per l’Europa da un gruppo di ricercatori guidato dallo scienziato ceco Petr Pysek. Grazie alla disponibilità di un gigantesco dataset con tutte le specie Ias in Europa, si è cercato di vedere le correlazioni con altri dati oggettivi: demografici, come la numerosità e densità della popolazione; biogeografici; climatici; e soprattutto economici. Questi ultimi fanno riferimento non ai dati sul reddito o sui consumi (presenti), ma sulla ricchezza, che meglio testimonia anche l’accumulo passato. Bene, da questo studio viene fuori che i fattori economici sono di gran lunga prevalenti: più alta la ricchezza, più numerose le specie invasive. I valori più alti sono nelle regioni con più di 250.000 dollari di ricchezza pro capite, e con la densità di popolazione superiore a 91,1 abitanti per chilometro quadrato. Aree sviluppate e urbane, ad alta concentrazione di produzione e reddito. Traslato su una mappa mondiale, e dando il colore rosso alle zone più “invase”, una mappa pubblicata in un articolo su “Nature Communications” da un altro gruppo di ricercatori mostra a colpo d’occhio l’effetto-benessere: la minaccia “molto alta” è in Europa, negli Stati Uniti (soprattutto Est, ma anche California), zone costiere cinesi, quelle più industrializzate dell’India. Poi ci sono molti puntini rossi in zone più povere, per esempio in Africa. Qui il vettore prevalente è negli aeroporti, gli alieni arrivano più in volo che attraverso i porti, che pure ci sono ma con minori volumi di traffico e sbarco.
«Minori volumi, ma maggiore vulnerabilità»: Piero Genovesi, ricercatore dell’Ispra (l’agenzia italiana di protezione dell’ambiente) e responsabile di un gruppo internazionale di contrasto alle specie aliene, introduce un altro elemento della distribuzione mondiale dell’invasione, ed è nella minore capacità di risposta degli Stati e delle economie più deboli. Controlli alle dogane, misure di prevenzione, contromosse per fermare le epidemie. «Spesso sono Paesi che dipendono dall’agricoltura, l’effetto di un fungo o un insetto può essere tragico per intere popolazioni». Insomma, i ricchi importano più specie aliene, ma i poveri rischiano di più. Quanto alle contromosse, in epoca di sfortune crescenti della globalizzazione e dazi alzati come dighe in nome del popolo sovranista, il terreno è scivoloso più d’un tappeto d’alghe. Ma «gli strumenti non mancano, senza stravolgere le nostre abitudini di viaggio o bloccare i commerci», dice Genovesi. Per esempio, individuare la lista delle 50 specie di cui proibire del tutto il commercio, come ha fatto il regolamento dell’Ue; prendere misure di prevenzione – come far svuotare le navi delle loro acque-zavorra al largo e non in bacini chiusi, cosa che Canada e Usa hanno già deciso -; aiutare i paesi meno sviluppati a fare controlli alle dogane; diffondere conoscenze e prepararsi a gestire le emergenze. Anche perché – e di nuovo torniamo su termini e problemi economici – il vero “debito” dell’invasione viene fuori solo a decenni di distanza. Adesso lo stiamo accumulando, per i nostri nipoti. Proprio come il debito pubblico.

L'Espresso, 18 settembre 2018

29.9.18

La fotografia di moda come atto politico (Irene Alison)

Una  foto di Steven Meisel da Vogue Italia

Seducente, ammiccante, allusiva. Provocante e provocatoria. Bulimica e sfacciata, onnivora e corrosiva. Ma, soprattutto, politica. Ai mille attributi della fotografia di moda, alle sue diverse anime e ai suoi conflitti interiori – tra le ragioni della creatività e quelle del commercio, con tutte le sfumature che ci sono nel mezzo – sono oggi dedicati due percorsi, un libro e una mostra, che riflettono sulla sua capacità di essere un efficace barometro del tempo in cui viviamo.

«Il commercio svanisce, la foto resta»
Fashion & Politics in Vogue Italia, curata da Alessia Glaviano e Chiara Bardelli Nonino per il prossimo Photo Vogue Festival (a Base Milano dal 16 al 19 novembre), è un percorso dagli anni ’90 a oggi tra le pagine del più celebre fashion magazine italiano. Attraverso le immagini degli editoriali di moda realizzati negli anni della direzione di Franca Sozzani da fotografi come Steven Meisel, David LaChapelle, Tim Walker, Peter Lindbergh, Miles Aldridge o Ellen Von Unwerth, la mostra provoca la nozione comune di buongusto e solleva alcune questioni: in che modo la fotografia di moda può veicolare idee e ideali che vanno oltre i semplici intenti commerciali? Ridurre questo genere a una semplice vetrina pubblicitaria ci aiuta a capire la portata del suo impatto nel modellare/manipolare il nostro immaginario e con esso la nostra opinione politica? Tutto avviene senza voler offrire risposte univoche né rassicuranti.
«Vogue Italia ha sempre utilizzato la moda per parlare d’altro», spiega Alessia Glaviano. «Il fatto che un giornale di moda sia un veicolo commerciale non significa che non possa trasmettere contenuti sociali o anche esercitare un senso critico sul sistema di cui è parte».
Sviluppando diversi nuclei tematici, Fashion & Politics mette in relazione arte e cultura di massa, immagini coraggiose e icone controverse, rimasticamenti e proiezioni della nostra memoria collettiva. Kristen McMenamy ritratta da Steven Meisel nei panni di una sirena dark portata a riva dalla marea nera diventa evocazione del disastro petrolifero nel Golfo del Messico e metafora di una dialettica sempre più conflittuale tra uomo e natura. Le bellissime aliene di Peter Lindbergh reinterpretano, nello scenario di un incerto futuro, la paura del diverso che segna il contemporaneo. Le bambole in technicolor di Miles Aldridge, con il carrello della spesa sempre pieno e la messa in piega perfetta, danno corpo alla caricatura di un’America bianca, borghese e disperata. I profili neri e fieri delle modelle di colore, fotografate ancora da Maisel per la cover del celebre Black Issue di Vogue Italia, sono il volto di una denuncia, dall’interno del sistema, nei confronti di un’industria che ha lungamente praticato il razzismo in passerella e nelle pagine dei magazine. «Black Issue era un atto politico dovuto», afferma Glaviano. «La fashion photography può e deve preoccuparsi di questioni come la razza, il genere, l’inclusività, strettamente connesse al discorso moda; e anche, perché no, spingersi in altri territori».
Ma fino a dove è lecito avventurarsi? Dove finisce il diritto/dovere della fotografia di moda di esprimere una coscienza etica e politica e dove comincia la strumentalizzazione del conflitto e la glamourizzazione della protesta? Esiste una differenza tra il Make Love Not War di Steven Meisel, editoriale del 2007 ispirato alla Guerra del Golfo con modelle seminude avvinghiate ai soldati in mimetica, e la pubblicità della Pepsi (poi ritirata per il diluvio di critiche) in cui la musa degli stilisti e dei millennial Kendall Jenner offre una lattina di cola a un poliziotto durante una manifestazione, citando l’iconico scatto Taking a Stand in Baton Rouge in cui Ieshia Evans fronteggia pacificamente i poliziotti durante gli scontri del Black Lives Matter? «Per me l’unico discrimine», sostiene Glaviano, «è la qualità del lavoro e la credibilità del contesto che lo veicola. Il legame della fotografia di moda con il commercio, in realtà, è transitorio: finito il tempo della collezione, l’intento commerciale svanisce; mentre la foto, se è in grado di comunicare su altri piani, resta. In queste immagini gli abiti sono uno degli elementi che servono a raccontare la storia, non è la storia che è a servizio dell’abito».

Esprimere un’opinione sul mondo
Se la moda è un territorio di contraddizioni e rivoluzioni, in precario equilibrio tra consumismo ed elitarismo, rivendicazione identitaria e omologazione di massa, la fotografia di moda non può che essere un linguaggio complesso: un codice che, plasmando l’immaginario, orienta non solo i consumi, ma anche i valori.
Sul filo di questa riflessione corre un’altra strada, quella del libro Fashion Photography: The Story in 180 Pictures di Eugénie Shinkle (Aperture): un percorso in 180 immagini sull’impatto che la fotografia di moda ha storicamente avuto sulla società e sulla cultura. «La storia della fotografia di moda», scrive Shinkle, «è anche la storia di una crescente fiducia di questo genere fotografico nella propria capacità di esprimere un’opinione sul mondo».
E se gli esordi già parlano chiaro – basta guardare la satira sociale di Old and New Styles, immagine stereoscopica realizzata nel 1860 dal fotografo inglese Michael Burr – è dal secondo dopoguerra che la fotografia di moda comincia a schierarsi in maniera più esplicita: fotografi come Henry Clarke danno il loro contributo al cambiamento del ruolo delle donne nella società, artisti come William Klein mettono in discussione le convenzioni e incoraggiano un processo di autocritica, innovatori come Richard Avedon si assumono dei rischi per abbattere barriere razziali e consuetudini editoriali (a lui si deve la pubblicazione, su Harper’s Bazaar del 1959, del primo scatto di una modella non bianca, la cinese-portoghese China Machado).
Negli anni ’90, riviste come The Face e i-D e immagini come quelle di Corinne Day proiettano il grunge, con la sua sfida al capitalismo e alla rispettabilità borghese, verso il grande pubblico, influenzando i modelli estetici, culturali e sociali di una generazione e aprendo la strada a una fotografia di moda più concettuale e contaminata.
Una foto di moda di Corinne Day
Ideali a misura di t-shirt
Oggi, nell’era del fast fashion, la moda procede in bilico tra grandi statement e macroscopiche ipocrisie. Se sfilate e campagne diventano vetrine per esporre il proprio impegno politico, sono pochi i brand che accettano di ripensare in maniera più etica la propria produzione: meglio stampare slogan femministi sulle t-shirt che assumersi la responsabilità per le condizioni di lavoro disumane della manodopera femminile a basso costo che le cuce all’altro capo del mondo. La fashion photography, d’altro canto, fa i conti con vecchie e nuove schizofrenie. I social network hanno trasformato percorsi e linguaggi della fotografia di moda: Instagram ha spalancato una nuova frontiera di espressione e riflessione a fotografi come Campbell Addy, Harley Weir, Robi Rodriguez o Mayan Toledano, che veicolano, tra arte e moda, la propria coscienza politica; ma ha anche dischiuso il claustrofobico confine della cameretta delle influencer, nei cui specchi distorcenti la realtà sembra ridursi a un #lookoftheday.
«Le immagini veicolate dai social», dice Alessia Glaviano, «stanno contribuendo a far cadere pregiudizi e a cambiare l’opinione pubblica, trasformando pure le dinamiche dell’industria. Ma la moda oggi passa anche e soprattutto per gli account di ragazze carine che si limitano a indossare vestiti. Mi auguro che, dopo quest’ubriacatura di apparenza, il loro ruolo possa cambiare: sarebbe bello che in futuro esercitassero la loro influenza non solo per ispirare nuovi look, ma anche nuove consapevolezze sociali, culturali ed etiche».

Pagina 99, 10 novembre 2017

Il telelavoro ci rende soli? Una indagine americana del 2017


Una migliore qualità della vita, risparmi economici per le aziende e i lavoratori, ottimizzazione dei tempi e della qualità del lavoro. Per anni esperti e addetti alla gestione delle risorse umane hanno decantato i tanti pregi del lavoro da casa, il famigerato telelavoro. Adesso una ricerca condotta da due studiosi della materia, gli americani Joseph Grenny e David Maxfield, pubblicata sulla Harvard Business Review, rivela che in realtà molti lavoratori a distanza si sentono tagliati fuori e che questo influisce sulle loro performance.
La ricerca ha coinvolto 1.100 lavoratori, il 52% dei quali ha dichiarato di lavorare da casa. Coloro che sono impiegati con queste modalità sostengono che i colleghi in ufficio non li trattano allo stesso modo. Molti si sentono maltrattati, esclusi dalle decisioni, segnalano che i loro progetti vengono modificati senza avvertirli, sospettano che i colleghi in ufficio sparlino e complottino alle loro spalle e trascurino le loro esigenze.
Per chi lavora da casa, scrivono gli autori della ricerca, relazionarsi con i colleghi è molto più complicato, soprattutto quando emergono conflitti. L’84% dichiara che in genere il problema si trascina per qualche giorno, mentre il 47% ammette di lasciarlo irrisolto per settimane. Queste difficoltà non si limitano ai rapporti interpersonali ma si ripercuotono sul lavoro, incidendo negativamente in termini di produttività, costi, scadenze, morale, stress.
Molti manager, di fronte a situazioni di questo tipo, preferiscono riportare gli impiegati in ufficio. Ma Grenny e Maxfield ritengono il vero problema sia proprio nella gestione del telelavoro da parte del management. In base ai report dei lavoratori gli studiosi suggeriscono ai manager una serie di best practice: verifiche frequenti e approfondite sul lavoro di ciascuno; colloqui periodici personali o in videoconferenza; comunicare fiducia e rispetto; chiarire sempre quali sono le aspettative dell’azienda; rendersi reperibili; mostrare dimestichezza con le nuove tecnologie.

Articolo non firmato da “Pagina 99”, 10 novembre 2017

Riccardo Lombardi, una vita di sinistra. Nota biografica (S.L.L.)

Ho scritto questo testo come corredo a un resoconto di un convegno a Regalbuto, città natale di Riccardo Lombardi, per i 25 anni della morte, nell'autunno del 2009. Lo riprendo qui per ricordare a me stesso e rammentare a qualche altro una figura importante della ricca storia socialista.

Riccardo Lombardi, a sinistra, con Pietro Nenni

La vicenda umana e politica di Riccardo Lombardi è tra le più intriganti del Novecento, bella da conoscere, lunga da raccontare. Qui proverò a sintetizzarne qualche momento.
Nato nel 1901 a Regalbuto, orfano a 3 anni di un capitano dei carabinieri toscano che si era sposato nella Sicilia dove prestava servizio, fece le medie dai gesuiti, nel rinomato collegio Pennisi di Acireale, e si laureò in Ingegneria industriale al Politecnico di Milano. 
Antifascista della prima ora nelle file della sinistra cattolica vicina a Pietro Miglioli, ma totalmente alieno da settarismi, partecipò nel 1922 con gli Arditi del popolo alla difesa dell'"Avanti" assaltato dai fascisti. Si avvicinò al marxismo quando il cattolicesimo italiano, nei suoi vertici vaticani e nelle gerarchie locali, cessò di opporsi al fascismo e, anzi, ne preparò la benedizione concordataria.
Lombardi era tra quelli che "non mollarono" anche dopo la soppressione dei partiti e delle libertà politiche e subì, durante un volantinaggio clandestino, l'aggressione di una squadraccia che ne danneggiò permanentemente il fisico.
Negli anni Trenta, da dirigente della sede milanese di un gruppo tedesco-olandese di impiantistica chimica, conobbe importanti successi industriali, rimase tuttavia collegato ai gruppi dell'antifascismo, aderendo a Giustizia e Libertà.
Nel gennaio 1943 è tra i fondatori del Partito d'Azione e nello stesso anno, nonostante i problemi di salute, è tra i partigiani, comandante nelle brigate di Giustizia e Libertà. Rappresenterà il Comitato di Liberazione nelle trattative per la resa di Mussolini avviate dal cardinale Schuster. Nell'incontro in Arcivescovado è lui a dire al "duce" e Graziani che nulla c'è da trattare se non la resa incondizionata dei fascisti.
Dopo la Liberazione è Prefetto di Milano per il governo Parri ed è Ministro dei trasporti nel primo governo De Gasperi, artefice della rapida ricostruzione del sistema ferroviario.
Ma una più grande battaglia lo attende nella nativa Sicilia, quando, dopo la rottura dell'unità antifascista e la fine del primo governo De Gasperi, accetta di guidare nel 1947 quell'Ente Siciliano di Elettricità per la cui costruzione si era battuto. Era convinto che nessun progresso avrebbe portato la stessa riforma agraria senza l'elettrificazione nelle campagne. Riuscì nei sedici mesi di presenza a impegnare l'Ente nella costruzione di nuove centrali, ma non riuscì a spezzare la forza del potente monopolio privato dalla Sges (Società generale elettrica della Sicilia) di proprietà della grande finanza siciliana ed italiana, che condizionava pesantemente la neonata Assemblea regionale siciliana e acquisì una posizione assolutamente dominante dopo il 18 aprile del 1948.
Questa battaglia perduta gli servì forse da bussola quando, 15 anni dopo, con il primo centro-sinistra fu tra gli alfieri della nazionalizzazione dell'energia elettrica.
Nel 1948 con Fernando Santi e Vittorio Foa è alla testa della corrente autonomista che vince il congresso del Psi. La linea proposta è chiara: superamento del Fronte popolare, autonomia dai comunisti, ma anche opposizione netta al nascente regime democristiano. Da direttore dell'"Avanti" in un articolo del 31 dicembre 1948, intitolato Prospettiva 1949, si schiera nettamente contro gli irrigidimenti della guerra fredda. Parla di una negativa sfiducia che spingerebbe la sinistra ad affidarsi "alla pressione militare e politica dell'Unione Sovietica" più che "allo sforzo autonomo e rivoluzionario delle masse, all'iniziativa popolare, alla diuturna conquista e alle faticose realizzazioni".
Gliene viene una sorta di scomunica da parte di Rodolfo Morandi che, a quel tempo allineatissimo con Mosca, lo accusa di "insensibilità di classe" e di "socialismo liberale", anche per la sua matrice GL, e ne chiede la rimozione da direttore del quotidiano del Psi. Lombardi replica il 18 gennaio scrivendo tra l'altro che "la fase sovietica, di diretta democrazia popolare è ineliminabile" in ogni rivoluzione e deve anche durare: "La costituzione di consigli degli operai e dei contadini non può essere sostituita da nessuna parata di truppe liberatrici".
Nonostante l'impegno di Lombardi il primato degli "autonomisti" durò poco nel Psi e in meno di un anno a riprendere il controllo del partito furono i "frontisti" di Morandi e Nenni (che nel 1950 vincerà il premio Stalin). Lombardi si proclamava "acomunista", per sottolineare la distinzione dall'Urss e dal Pci, ma rifiutava l'anticomunismo; ed era, da autonomista, favorevole a un rapporto e, se possibile, a un raccordo con il Pci.
Dopo "l'indimenticabile 1956" Lombardi rientra con forza nel gioco politico del suo partito, lo convince a votare per il Trattato di Roma che dà l'avvio alla Comunità Europea (i comunisti votarono contro) ed è parte fondamentale della nuova maggioranza che governa il Psi dopo il Congresso di Venezia del 1957.
L'obiettivo è la "svolta a sinistra", cioè un governo appoggiato dai socialisti che realizzi - grazie alla programmazione democratica - una serie di grandi riforme (nazionalizzazione dell'energia elettrica, pubblicizzazione dei suoli edificabili, scuola media unica, servizio sanitario nazionale etc.).
La prospettiva pare realizzarsi con il governo Fanfani del 1962, cui il Psi garantisce un appoggio esterno e una fattiva collaborazione (il lombardiano Ruffolo dirige la programmazione e Lombardi segue personalmente la nascita dell'Enel), mentre il Pci togliattiano, pur critico dell'operazione, si astiene sulla fiducia. Lombardi è tuttavia tra i primi ad avvertire l'impantanamento della originaria spinta riformistica del centro-sinistra e nel 1964 la sua corrente non entra nel governo di centro-sinistra "organico" presieduto da Aldo Moro.
Negli anni successivi Lombardi mantenne nel suo partito questa posizione critica e cominciò a prospettare una "alternativa di sinistra" alla Dc, favorita dall'evoluzione del partito comunista italiano. Da queste posizioni criticò fortemente il "compromesso storico" berlingueriano e, su questa linea, contribuì nel 1976 all'elezione a segretario del Psi di Bettino Craxi.
L'alleanza Craxi-Lombardi raggiunse il suo punto massimo nel congresso di Torino (1980), in cui Lombardi si fece fautore di una svolta mitterandiana, ma anche di una nuova Bad Godesberg che riscrivesse il programma fondamentale del Psi. Eletto presidente del partito nel gennaio del 1980 si dimise un paio di mesi dopo perché isolato rispetto alla sua stessa corrente di "sinistra socialista", i cui principali esponenti, De Michelis, Signorile, Cicchitto sembravano più interessati a un accordo di potere, di governo e sottogoverno con Craxi che non alle politiche ed avallarono, sia pure in modi diversi, le scelte di rottura a sinistra. Morì il 18 settembre 1984.

settembre 2009

28.9.18

L'abisso dell'infinito e l'audacia di Newton (Voltaire)

Isaac Newton

Il labirinto e l’abisso dell’infinito rappresentano una nuova strada percorsa da Newton, e da lui deriva il filo che può farci da guida. Anche in questo sorprendente complesso di novità, suo precursore è Cartesio: nella sua geometria, egli procedeva a grandi passi verso l’infinito, ma si arrestò sull’orlo di esso. Wallis, alla metà circa del secolo scorso, fu il primo che ridusse una frazione, con una divisione perpetua, a una serie infinita. Milord Brouncker si servì di tale serie per
Voltaire
la quadratura dell’iperbole. Mercator pubblicò una dimostrazione di tale quadratura. È press’a poco in quel tempo che Newton, all’età di ventitré anni, inventava un metodo generale per fare su tutte le curve ciò che si era appena tentato sull’iperbole.
Questo metodo di sottomettere ovunque l’infinito al calcolo algebrico si chiama calcolo differenziale o delle flussioni, e calcolo integrale. È l’arte di numerare e di misurare con esattezza ciò di cui non si può nemmeno concepire l’esistenza.
In effetti, non credereste che ci si voglia burlare di voi se vi si dicesse che esistono linee infinitamente grandi le quali formano un angolo infinitamente piccolo? Che una retta, ch'è retta finché è finita, mutando infinitamente poco in direzione, diviene una curva infinita, e che una curva può diventare infinitamente meno curva? Che vi sono dei quadrati d’infinito, dei cubi d’infinito, e degli infiniti d infinito, di cui il penultimo è nulla in confronto all’ultimo?
Tutto ciò, che a prima vista sembra il colmo dello sragionamento, rappresenta in realtà il massimo dell’acume e dell’audacia dello spirito umano, e costituisce il metodo per trovare verità che fino allora erano sconosciute.
Questa costruzione tanto ardita è poi basata su idee molto semplici. Si tratta di misurare la diagonale d’un quadrato, di ottenere l’area di una curva, di trovare la radice quadrata di un numero che non ne ha affatto nell’aritmetica ordinaria.

Lettere inglesi, a cura di Paolo Alatri, Editori Riuniti, 1971

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