29.8.18

Cristo non essenza ma persona. Una lettera a Walter Binni (Aldo Capitini 1962)

Una lettera che ottimamente illustra l'interesse di Capitini per il cristianesimo. E tuttavia la sua “religione aperta” (“Cristo concretamente moltiplicato per tutti gli esseri nati”) non è solo una soluzione originale del problema filosofico della divinità, ma anche una destrutturazione della religione formalizzata e gerarchizzata, e dunque delle forme storiche in cui il cristianesimo si è cristallizzato: la Chiesa cattolica e molte chiese protestanti che vedono la salvezza nel “rapporto a due”. (S.L.L.)


Perugia, 4 novembre 1962
Caro Walter,
Dico seguitando che, per me, non si tratta di teismo o ateismo.
Pensa a quello che accadde ai cristiani quando si trovarono davanti non un’idea filosofica, un'essenza, ma una persona vissuta nel mondo, che pensarono crocifissa e risorta. Per qualcuno erano degli “atei”. Ma, naturalmente, si accorsero che potevano innestare tanto di teologico su quell’essere vissuto concretamente, a cui stavano aperti con la fede.
La stessa cosa faccio per la compresenza di tutti gli esseri nati, e quindi passati per la concretezza del mondo. Non si tratta di discutere su Dio o non Dio fuori di questa concretezza a cui ci si può aprire. Se la discussione si fa fuori di questa apertura, temo che ci si trovi in una posizione nietzscheana-tartagliesca. Invece su quell’apertura alla compresenza (Cristo concretamente moltiplicato per tutti gli esseri nati) si possono impostare categorie religiose, e si può trovare molto di Dio nella parte della compresenza, escludendo però il vecchio tipo del rapporto a due con Dio, che produce l’idea della salvezza di alcuni, e della proprietà privata come cose assolute.

Agli amici. Lettere 1947 - 1968, Edizioni dell'asino, 2011

In caso di bisogno (S.L.L.)


Mia madre suggerisce una invocazione a san Leopoldo, un frate croato di recente canonizzato e specializzato nella ricerca di oggetti smarriti, del quale porta seco una immaginetta. Io sono notoriamente un miscredente ma il più delle volte penso a codesto Leopoldo e, senza nemmeno invocarlo, ritrovo.

Come una dopo l'altra. Una poesia di Franco Fortini



Come una dopo l'altra una dall'altra una
e un'altra ininterrottamente come lente e veloci
o come stagioni o come le ore o le api o le voci
o il pianto degli innocenti o lo strido delle foglie
o il vocío delle onde delle gocce delle scaglie
di pigna o l'ondulío della ragione nella sua cuna
o della dolorosa fortuna il lamento

ma sopra come la dominante ostinata ragiona
e dice e ridice una la verità.

1955


da Questo muro, Mondadori, 1973

28.8.18

Calcio e mafie. Scommesse d’Asia (Alessandro Fragassi)


Nel continente asiatico la portata delle scommesse raggiunge livelli incalcolabili, per una montagna di denaro che si sposta anche solo con un clic del mouse. È su questo terreno, dove l’anonimato è garantito e il riciclaggio facile facile, che si muove la criminalità organizzata. Ecco come

Per comprendere le varie tipologie di scommesse è necessario innanzitutto spiegare cosa significhi scommettere su un evento sportivo, ovvero (dandone una veloce definizione) impegnare parte del proprio denaro sul pronostico di un avvenimento sportivo futuro. Tecnicamente chiunque, purché maggiorenne, può piazzare una scommessa, in un centro abilitato oppure su internet, presso un bookmaker che assegna una quota in base alla quale viene calcolata la vincita potenziale per lo scommettitore.
Tralasciando tutti i numeri sul giro di affari delle scommesse in Italia, in Europa e nel resto del mondo, ci limiteremo a osservare che l’Asia è il continente dove le scommesse raggiungono volumi non quantificabili. Ciò è possibile poiché i bookmaker asiatici (i più grandi hanno sede nelle Filippine) non pongono limiti agli scommettitori e soprattutto, a differenza dei bookmaker europei, garantiscono completo anonimato al giocatore. Vien da sé che la garanzia di completo anonimato, con anche la non tracciabilità delle transazioni, rende più appetibile il mondo asiatico per i professionisti. E, ovviamente, anche per la criminalità organizzata.
In Italia come in Europa la tipologia di scommessa principale è l’1X2, dove si pronostica la vittoria della squadra di casa, del pareggio, o della vittoria della squadra in trasferta. In Asia invece la tipologia principale di scommessa è il cosiddetto handicap asiatico, che riduce le opzioni da 3 (1X2) a 2, di fatto eliminando la possibilità del pareggio e assegnando quindi a entrambi gli esiti una probabilità del 50% anziché del 33% (come avviene nell’1X2). Da qui il termine Asian Handicap, poiché viene assegnato un handicap iniziale (partendo da 0) alla squadra che il bookmaker ritiene più forte (quindi è come se la squadra più debole partisse con un vantaggio) e si può quindi scommettere sul fatto che tale squadra copra l’handicap oppure no.
Immaginiamo di avere le quote dell’1X2 di una partita come Juventus-Frosinone dove la vittoria casalinga della Juventus venga quotata a 1.30, il pareggio a 5.00 e la vittoria del Frosinone a 10.00. Con quote cosi sbilanciate è difficile per il bookmaker “bilanciare” il rischio sui tre esiti, così come può essere poco stimolante per lo scommettitore aver una quota così bassa per la squadra favorita. Poniamo invece il caso che alla Juventus fosse assegnato un handicap asiatico di -1.50 goal con una quota di 1.95 e al Frosinone un vantaggio di +1.50 goal sempre con una quota di 1.95; in tal modo il bookmaker asiatico offre allo scommettitore due sole possibilità: che la Juventus vinca con almeno due gol di scarto oppure no. Chiaramente, con due esiti si ha meno possibilità di errore (2 esiti anziché 3) ma indovinare l’esito corretto è tecnicamente più difficile poiché le quote sono bilanciate e rispecchiano le probabilità di un lancio testa/croce.
Le peculiarità dell’handicap asiatico sono quindi principalmente due. La prima: che lo scommettitore dispone di due esiti dalle quote equamente bilanciate e quindi ha un 50/50 di probabilità di successo o insuccesso; la seconda: che essendo le quote bilanciate, il pronostico è più difficile e quindi il bookmaker riesce a bilanciare meglio il rischio su entrambi gli esiti.
L’handicap parte da 0 e sale gradatamente di un quarto di punto (0, 0.25, 0.50, 0.75, …) e ovviamente più il divario fra le squadre è ridotto, minore sarà l’handicap. Qualora l’handicap assegnato sia 0, in caso di pareggio le puntate vengono rimborsate integralmente. Viceversa, maggiore sarà il divario maggiore sarà l’handicap: non è raro osservare ad esempio nella Liga Spagnola Barcellona e Real Madrid con un handicap di 2 o 3 goal, visto l’ampio divario fra loro e le altre squadre spagnole.
Oltre all’handicap asiatico, c’è la Somma Goal Asiatica con lo stesso principio: mentre in Europa la linea di confine è per la stragrande maggioranza 2.50 (da 0 a 2 goal è Under, da 3 in su è Over), in Asia la linea varia gradatamente di 0.25 punti (ad esempio 1.50, 1.75, 2.00, 2.25, 2.50, …), permettendo ai bookmaker di poter sempre offrire quote bilanciate.
Le scommesse asiatiche mantengono la loro attrattiva anche, se non maggiormente, in modalità live. Durante la partita le quote vengono aggiornate prevalentemente in base al passare dei minuti quindi avremo un handicap asiatico, cosi come l’Under Over, che diminuirà gradatamente con il passare dei minuti mantenendo sempre delle quote bilanciate sui due esiti, ovvero due quote che rispecchino una probabilità 50/50. Dopo ogni goal la linea della Somma Goal viene aggiornata, mentre chi scommette sull’handicap scommette sull’esito del match dal momento in cui effettua la scommessa. Per esempio, se la Juventus conduce 1-0 e scommettessimo in quel momento che la Juventus “copra” un handicap di -1.50 goal, vinceremmo la nostra scommessa se la partita finisse 3-0 o comunque con uno scarto di tre goal a favore della Juventus (il goal iniziale quindi non viene considerato visto che la nostra scommessa è stata effettuata successivamente). Offrendo quindi 2 quote bilanciate per tutta la durata dell’incontro, sia l’handicap asiatico che la somma goal asiatica sono due tipologie di scommesse molto più appetibili dell’1X2 o dell’Under Over tradizionale, ad esempio. Essendo l’offerta competitiva, lo sarà anche l’interesse degli scommettitori per l’intera partita.
Per avere un’idea di quanto sia difficile anche solo stimare il volume di scommesse di un bookmaker asiatico, basti pensare che mediamente è possibile scommettere sui maggiori campionati anche 50 mila euro con un solo clic del mouse, con pochi secondi di attesa per l’accettazione della scommessa. In tal modo in meno di dieci minuti il volume di raccolta su un singolo evento può arrivare facilmente a decine di milioni di euro. Ovviamente per i campionati secondari, così come gli eventi sui quali la copertura mediatica o le informazioni sono più limitati, i volumi per clic sono inferiori ma sempre di gran lunga maggiori rispetto ai bookmaker europei.
Oltre a ciò, c’è da sottolineare la non tracciabilità dei flussi, cosa che attrae ovviamente l’interesse della criminalità organizzata e sulla quale i bookmaker europei non possono “competere”. I bookmaker asiatici sono strutture piramidali con agenti e super-agenti sparsi in tutto il mondo: essi spesso raccolgono i soldi e pagano le vincite in contanti, piuttosto che aprire o chiudere linee di credito per gli scommettitori più facoltosi. Basta trovare un super-agente per garantirsi i più alti limiti di scommessa ed il gioco è fatto. Si può accendere il computer e scommettere milioni di euro in pochi minuti.
Potendo scommettere cifre difficilmente immaginabili e in pochi minuti seduti comodamente a casa, il regolare svolgimento delle gare è naturalmente a rischio. Prendendo ad esempio un match fra giovanissimi (U18, U19), in pochi secondi è possibile scommettere molto più del monte ingaggi della squadra intera. Stesso discorso dicasi per campionati dove i salari sono lontanissimi dalle cifre che sentiamo girare in Serie A. Scommettendo su tipologie come l’Handicap Asiatico o la Somma Goal Asiatica è possibile manipolare un match anche concentrandosi su una frazione di esso, come ad esempio gli ultimi 15 minuti. Osservando i movimenti delle quote offerte dai siti asiatici è possibile trarre indicazioni importanti sullo svolgimento regolare di una partita, anche se tali numeri non costituiscono ad oggi una prova forense. Tuttavia, rappresentano una base di partenza importante per un’indagine, come hanno dimostrato anche i fatti di Cremona nel 2011 (ci si riferisce alla partita truccata e venduta Cremonese-Paganese del novembre 2010).

“narcomafie”, luglio-agosto 2016

Le scimmie in viaggio. Una favola di Gianni Rodari (Secondo me un apologo sul nostro tempo)

Il testo che segue fu scritto come favola per bambini, ed è un po' surreale come spesso sono i raccontini e le poesie di Gianni Rodari. Ma nei testi dei poeti a volte si ritrova molto più di quanto gli autori intendevano introdurre e per questa loro pregnanza essi riescono a parlare alle generazioni che vengono dopo. Ecco: questa favola a me pare un apologo sul mondo di oggi, che certo Rodari non conosceva, ma che forse per qualche aspetto antivedeva. (S.L.L.)

Gorilla allo zoo di San Diego

Un giorno le scimmie dello zoo decisero di fare un viaggio d’istruzione. Cammina, cammina, si fermarono e una domandò:
- Cosa si vede?
- La gabbia del leone, la vasca delle foche e la casa della giraffa.
- Come è grande il mondo, e come è istruttivo viaggiare.
Ripresero il cammino e si fermarono soltanto a mezzogiorno.
- Cosa si vede adesso?
- La casa della giraffa, la vasca delle foche e la gabbia del leone.
- Come è strano il mondo e come è istruttivo viaggiare.
Si rimisero in viaggio e si fermarono solo al tramonto del sole.
- Che c’è da vedere?
- La gabbia del leone, la casa della giraffa e la vasca delle foche.
Per forza: viaggiavano, viaggiavano, ma non erano uscite dalla gabbia e non facevano che girare in tondo come i cavalli di una giostra.

Favole al telefono, Einaudi 1962

Quali interventi per i flussi migratori? (Livio Pepino)

L'articolo pubblicato su “Narcomafie”, la rivista del gruppo “Abele” del luglio-agosto 2016, va forse aggiornato nei dati statistico-demografici, ma resta sostanzialmente valido. L'invasione non c'era allora e non c'è adesso: i dati italiani ed europei lo dimostrano. Il testo di Pepino ha peraltro un pregio che non si ritrova spesso: chiarezza sulle proposte.
Gli obiettivi indicati potrebbero, a mio avviso, diventare parole d'ordine per il movimento antirazzista. Non ci si può muovere solo in risposta agli atti di guerra di un ministro che alimenta e usa la xenofobia per affermare e consolidare la presa del potere. Bisogna organizzare mobilitazioni e avanzare rivendicazioni a Bruxelles, Strasburgo e in tutte le capitali europee. (S.L.L.)


Come ogni estate si infittisce il flusso dei migranti nel Mediterraneo verso l’Europa. Prima lungo le rotte balcaniche, oggi – di nuovo – lungo la rotta libica. E, oggi come ieri, i morti durante le traversate si contano a migliaia.
A fronte di ciò la vulgata è che bisogna finirla con il buonismo e prendere atto che per rifugiati e migranti non c’è posto né in Italia né in Europa, se non in quote minime. E, “a difesa dell’Europa”, rispuntano muri e reticolati (talora reali, talaltra metaforici ma non meno gravi). Eppure la pratica del rifiuto, lungi dal fondarsi su dati e fatti, poggia su luoghi comuni, falsi, chiacchiere che acquistano dignità di argomenti solo grazie alle ripetizioni ossessive di imprenditori dell’odio e della paura, non sufficientemente confutate dai “benpensanti”. I dati sono noti: lo scorso anno in Italia, per la prima volta da quasi un secolo, il numero dei residenti è diminuito di oltre 60.000 unità. In altri termini: gli arrivi dei migranti che si stabi-lizzano nel nostro Paese e i nuovi nati non compensano i decessi e le emigrazioni degli italiani (pari ormai, ogni anno, a circa 100.000). Ciò significa che, senza migranti, la nostra popolazione crollerebbe negli anni e subirebbe un invecchiamento senza precedenti con conseguenze devastanti in termini economici, sociali, di sviluppo. Dov’è, dunque, l’invasione di nuovi barbari proclamata da politici e giornalisti senza scrupoli?
Sul versante di provenienza dei migranti la situazione è altrettanto nota: guerre e disuguaglianze crescenti stanno provocando nel mondo – soprattutto in Africa e in Medio Oriente – un vero e proprio esodo: 60 milioni di persone in fuga alla ricerca di rifugio, secondo l’Onu, nel solo 2014, l’esodo più rilevante dalla fine della seconda guerra mondiale.
Orbene, di quei 60 milioni la stragrande maggioranza si sposta nei paesi vicini a quello di chi fugge o ai confini del Mediterraneo (in particolare, tra questi ultimi, la Turchia e il Libano), mentre nell’intera Europa, in tutto il 2015, sono arrivati complessivamente non più di un milione di profughi (di cui circa 150.000 in Italia). Una goccia in una popolazione dell’Unione europea di 500 milioni (e dell’Italia di oltre 60 milioni di abitanti).
Ragione e buon senso (prima ancora che senso di fratellanza o motivi umanitari) dicono, dunque, una cosa univoca: che un governo razionale dei flussi migratori nel nostro continente è esatta-mente l’opposto di quello che si prospetta, fondato sulla (promessa) predisposizione di aiuti economici ai paesi di provenienza (per eliminare le ragioni della fuga dei migranti) e sulla realizzazione di giganteschi campi di accoglienza ai confini dell’Europa (oggi in Turchia, domani in Libia).
Scontata l’importanza e la necessità, nel lungo periodo, di politiche internazionali giuste, rispettose e lungimiranti, è evidente che, nei tempi brevi e medi, il refrain degli aiuti nei paesi di origine è solo un vecchio ritornello di stampo colonialista che, anche quando (in verità assai di rado) proposto in buona fede, non tiene conto del fatto che nei pa-esi di origine dei migranti in cerca di rifugio umanitario (Siria, Iraq, Palestina, Eritrea, Somalia, Su-dan, Afganistan…) e nella stessa Libia sono in atto guerre civili risalenti, per lo più alimentate da politiche e armamenti occidentali, e che non si vede come eventuali aiuti economici ai governi potrebbero andare a beneficio di popolazioni sconvolte dai conflitti. Parallelamente la realizzazione di campi di accoglienza (o, più esattamente, di campi di concentramento) ai confini dell’Europa non risolverebbe in alcun modo il problema, ma semplicemente lo occulterebbe per qualche tempo (regalando, nel contempo, somme enormi a governi che violano ogni giorno i più elementari diritti umani).
Per governare efficacemente e in modo equo i flussi migratori qui e ora è necessario intervenire su altri piani. Due in particolare: creare corridoi umanitari per consentire a donne, uomini e bambini in fuga di raggiungere i paesi europei a cui aspirano (eliminando l’anacronistica e ingiustificata previsione del trattato di Dublino che li costringe alla permanenza nel paese di primo approdo) e prevedere, negli Stati di arrivo, permessi di soggiorno provvisorio per motivi umanitari idonei che consentano un lavoro regolare e la possibilità di spostamento all’interno dei paesi di Schengen. A chi definisce questa scelta economicamente insostenibile è agevole rispondere con i fatti: il numero di chi cerca rifugio in Europa è, come si è visto, modesto; gli arrivi clandestini sarebbero disincentivati in misura massiccia se non in toto; il carattere regolare e programmato dei flussi consentirebbe politiche di accoglienza organizzate e strutturate; i costi, per i paesi di destinazione, sarebbero di gran lunga inferiori a quelli oggi sostenuti per il pattugliamento del mare e per il finanziamento dei campi di accoglienza ai confini del continente.
Il problema – va detto con chiarezza – non sta nei migranti ma nella mancanza di politiche adeguate nei loro confronti. Mancanza che crea un circolo vizioso di incomprensione e di rifiuto assai rischioso per l’intero sistema di convivenza tra popoli e individui.

"Narcomafie", luglio - agosto 2016

27.8.18

La poesia del lunedì. Nazim Hikmet (Salonicco 1902 - Mosca 1963)


Nelle mie braccia tutta nuda
la città la sera e tu
il tuo chiarore l’odore dei tuoi capelli
si riflettono sul mio viso.

Di chi è questo cuore che batte
più forte delle voci e dell’ansito?
è tuo è della città è della notte
o forse è il mio cuore che batte forte?

Dove finisce la notte
dove comincia la città?
dove finisce la città dove cominci tu?
dove comincio e finisco io stesso?

da Poesie d'amore, Mondadori 2002 - Traduzione di Joyce Lussu

Lei. Una haikizzazione da Cesare Pavese (S.L.L.)

Stromboli

Acqua nel bosco.
Emergono caute
la schiuma remota, le alghe sepolte,
le gambe e le spalle,
a riva.

Intorno,
nel buio incerte,
passano il bosco calante
le scure ragazze.
Raccolto lenzuolo il mare disteso.

Qualcuna dal mare:
i piedi, il corpo tremante
traspaiono a volte,
di notte,
quando muta la luna.

Non torna mai più,
bianca e abbagliante,
lei.

Il testo originario
DONNE APPASSIONATE
Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l'acqua remota.

Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant'è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai copi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che i greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all'aperto, nel lenzuolo raccolto.

Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Ci son occhi nel mare, che traspaiono a volte.

Quell'ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei. 

(da Lavorare stanca, 1936)

25.8.18

Alcove regali. Le prime duemila notti di nozze di Maria Antonietta e Luigi XVI (Stefan Zweig)


In questo letto dapprima non succede nulla. Ed è veramente grottesco l'involontario doppio senso con cui il giovane marito l’indomani annota nel suo diario la sola parola: «Rien». Né le cerimonie di corte, né la benedizione vescovile del talamo hanno potuto vincere una penosa malaugurata deficienza fisiologica del delfino. Matrimonium non consummatum est, non oggi, non domani e non negli anni subito seguenti. Maria Antonietta ha trovato un nonchalant mari, un marito trascurato. Dapprima si pensa che sia soltanto timidità, inesperienza o nature tardive (noi diremmo oggi: infantilismo) a inceppare lo sposo sedicenne di fronte all'adorabile fanciulla. Non conviene insistere e turbare il giovane già psichicamente incerto, pensa la madre esperta. Essa esorta Antonietta a non crucciarsi troppo di quella prima delusione coniugale: «point d’humeur là-dessus» le scrive nel maggio 1771, e raccomanda alla figlia «caresses, cajolis», ma senza eccessi di tenerezze, giacché «trop d'empressement gâterait le tout».
Quando però tale situazione dura da un anno, da due, l’imperatrice comincia a inquietarsi di questa «conduite si étrange» del giovane marito. Del suo buon volere non si può dubitare, giacché il delfino di mese in mese si mostra sempre più devoto alla sua graziosa consorte: egli rinnova senza desistere le sue visite notturne, i suoi vani tentativi, ma dall’estrema tenerezza lo trattiene non si sa quale «maudit charme». Maria Antonietta pensa si tratti soltanto di «maladresse et jeunesse», e nella sua inesperienza la poverina smentisce persino le «male dicerie che circolano in paese sulla sua impotenza» (18 dicembre 1771). Ma ora interviene la madre che fa venire il proprio medico di corte van Swieten e con lui discute la «froideur extraordinaire du Dauphin». Van Swieten si stringe nelle spalle. Se una ragazzina tanto bella e affascinante non riesce a infiammare suo marito, ogni farmaco sarà vano. Maria Teresa continua a mandare lettere a Parigi; alla fine è il nonno, Luigi XV, buon conoscitore e buon esperto in materia, a tenere una paternale al nipote. Il medico di corte Lassone viene messo a parte del segreto, e una visita stabilisce che la disgrazia del principe non ha radici psichiche, bensì deriva da un difetto organico (una fimosi) di nessuna gravità.
Si susseguono i consulti per decidere se convenga l’intervento del chirurgo col bisturi... «pour lui rendre la voix», come si sussurra cinicamente nelle anticamere. Anche Maria Antonietta, nel frattempo edotta a cura delle amiche più esperte, fa quel che può per persuadere il marito («Je travaille à le déterminer à la petite opération, dont on a déjà parlé et que je crois nécessaire» 1775, alla madre). Ma Luigi XVI - il delfino nel frattempo è bensì divenuto un sovrano, ma dopo cinque anni non ancora un marito - non sa indursi a un'azione energica. Esita e indugia, tenta e ritenta, e questa situazione ripugnante e ridicola si trascina con vergogna di Maria Antonietta, con scherno della corte intera, con rabbia di Maria Teresa, con avvilimento del re medesimo, per ulteriori due anni, cioè complessivamente per sette terribili annate, fino al viaggio dell’imperatore Giuseppe, che riesce a spingere il pauroso cognato all’operazione. Soltanto allora questo melanconico Cesare dell’amore varcherà felicemente il Rubicone. Ma il paese dell’anima in cui entra da tardo conquistatore è già devastato da sette anni di ridicola lotta, da duemila notti in cui Maria Antonietta come donna e come sposa ha subito l’umiliazione estrema del suo sesso.

da Maria Antonietta, Oscar Mondadori 1984 (I ed. Amsterdam 1948)

Victor Hugo. Il movimento spinto fino all'esagerazione (Francesco De Sanctis)

Victor Hugo comparve come una rivoluzione, annunziò un nuovo movimento letterario con la nuova parola romanticismo, e rese questo francese, spingendolo a conseguenze radicali ed estreme. Il classicismo era la forma in riposo, la purità delle linee, la correzione del disegno; Victor Hugo spinse l’opposizione fino a contraddire il “simplex et unum” di Orazio, senza le idee medie che pure si richiedono pel trionfo di nuovi principi. La base della sua poesia non solo non è il riposo; ma è il movimento spinto fino alla sua esagerazione intellettuale, morale e materiale. L’esagerazione intellettuale è il delirio, l’esagerazione morale è lo strazio, la materiale è il mostruoso ed il grottesco: ciò che con una sola parola i suoi avversari dicevano “brutto.” Ed è questa la nota fondamentale delle sue concezioni, dalla Lucrezia e dal Triboulet fino ai Miserabili.
Sapete che grande lotta egli suscitò: i classici gli opposero Ponsard, uomo di poco ingegno, che fu tosto schiacciato. Dopo, in Francia, non rimase di quella scuola nessun vestigio, tranne una grande individualità, Victor Hugo medesimo, con quella potenza di fantasia, con la forza del sentire spesso sincero, con l’audacia della forma, la sua vigorosa immaginazione servendosi dell’antitesi. Il dualismo, la lotta, il conflitto sostituito alla semplicità ed unità classica, nella forma è conflitto fra idee e rapporti, è antitesi.

da Storia della letteratura italiana nel secolo XIX, a cura di Alberto Asor Rosa e Carlo Muscetta, vol. 2° La scuola cattolico-liberale, Feltrinelli, 1958 

Metastasio. Quella poesia che non è ancora musica e non è più poesia (Francesco De Sanctis)

Martin Van Eyes, Ritratto di Pietro Metastasio

È noto l’entusiasmo di Rousseau e l’ammirazione di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici, dopo un breve armeggiare, gli s’inchinarono, tratti dall’onda popolare. Certi luoghi, che fanno sorridere il critico, movono oggi ancora il popolo, gli tirano applausi. Nessun poeta è stato così popolare, come il Metastasio, nessuno è penetrato così intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è dunque ne’ suoi drammi un valore assoluto, superiore alle occasioni, resistente alla stessa critica dissolvente del secolo decimonono.
Gli è che quella sua oscura coscienza, quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa, quella poesia che non è ancora musica e non è più poesia, è non capriccio, pregiudizio o pedanteria individuale, ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa, come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino, ma è composizione piena di vita, che nella sua spontaneità produce risultati superiori alle intenzioni del compositore. [...]
Se vogliamo gustarlo, facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare, ma cosa ha fatto, e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il critico, se vuol ben giudicare, dee abbandonarsi alla sua spontaneità, come l’artista.

da Storia della letteratura italiana, vol.II, Einaudi, 1958

22.8.18

“Muglieri vecchia”. In siciliano dal triestino: “Vécia mòglie” di Virginio Giotti nel mio dialetto campobellese (S.L.L.)


Menza viglianti è curcata a lu scuru,
e senti lu maritu rispirari:
viecchiu midé, cuietu iddru dormi.
Arraggiuna: ch'è bellu aviri a xhiancu
lu xhiatu d'iddru, séntirlu a lu scuru
e nunn'essiri suli 'nni la vita.
Pensa: lu scuru fa scantari, forsi
murìri è tràsiri intra a un scuru ranni.
Chistu iddra pensa; e ddru rispiru carmu
ancora ascuta e nun si scanta cchiù
né di lu scuru, né di la vita e mancu
di lu mòriri ca pi tutti arriva.



La xe in leto, nel scuro, svea un poco;
e la senti el respiro del marì
che queto dormi, vècio anca lui ‘desso.
E la pensa: xe bel sintirse arente ‘
’sto respiro de lui, sintir nel scuro
che’el xe là, no èsser soli ne la vita.
La pensa: el scuro fa paura; forsi
parché morir xe andar ‘n un grando scuro.
‘Sto qua la pensa; e la scolta quel quieto
respiro ancora, e no’ la ga paura
nò del scuro, nò de la vita, gnanca
no del morir, quel che a tuti ghe ‘riva.

Traduzione in italiano
È nel letto, nel buio, un poco sveglia; / e sente il respiro del marito / che quieto dorme, vecchio anche lui adesso. / E pensa: è bello sentirsi accanto / codesto respiro di lui, sentir nel buio / che lui è là, non esser soli nella vita. / Pensa: il buio fa paura; forse / perché morire è andare in un grande buio. / Questo lei pensa; e ascolta quel quieto / respiro ancora, e non prova paura / né del buio, né della vita, neanche / del morire, quello che arriva a tutti.

Pioggia d'agosto. Una poesia di Guido Gozzano



Nel mio giardino triste ulula il vento,
cade l'acquata a rade goccie, poscia
più precipite giù crepita scroscia
a fili interminabili d'argento...
Guardo la Terra abbeverata e sento
ad ora ad ora un fremito d'angoscia...

Soffro la pena di colui che sa
la sua tristezza vana e senza mete;
l'acqua tessuta dall'immensità
chiude il mio sogno come in una rete,
e non so quali voci esili inquiete
sorgano dalla mia perplessità.

"La tua perplessità mediti l'ale
verso meta più vasta e più remota!
È tempo che una fede alta ti scuota,
ti levi sopra te, nell'Ideale!
Guarda gli amici. Ognun palpita quale
demagogo, credente, patriota...

Guarda gli amici. Ognuno già ripose
la varia fede nelle varie scuole.
Tu non credi e sogghigni. Or quali cose
darai per meta all'anima che duole?
La Patria? Dio? L'Umanità? Parole
che i retori t'han fatto nauseose!...

Lotte brutali d'appetiti avversi
dove l'anima putre e non s'appaga...
Chiedi al responso dell'antica maga
la sola verità buona a sapersi;
la Natura! Poter chiudere in versi
i misteri che svela a chi l'indaga!"

Ah! La Natura non è sorda e muta;
se interrogo il lichéne ed il macigno
essa parla del suo fine benigno...
Nata di sé medesima, assoluta,
unica verità non convenuta,
dinanzi a lei s'arresta il mio sogghigno.

Essa conforta di speranze buone
la giovinezza mia squallida e sola;
e l'achenio del cardo che s'invola,
la selce, l'orbettino, il macaone,
sono tutti per me come personae,
hanno tutti per me qualche parola...

Il cuore che ascoltò, più non s'acqueta
in visïoni pallide fugaci,
per altre fonti va, per altra meta...
O mia Musa dolcissima che taci
allo stridìo dei facili seguaci,
con altra voce tornerò poeta!

Dai Colloqui, in Le Poesie, Garzanti 1971

In memoria di Vincino. Sette vignette politicamente scorrette (1986)


Di persona Vincino Gallo l'ho conosciuto appena. A Gela.
Quando vi arrivai, nel 1971, era ancora lì, con altri attivisti di Lotta Continua o Potere Operaio, convinti che quello fosse il posto giusto per innescare la miccia della rivoluzione.
Io non facevo quasi per niente militanza, tutto preso dai miei impegni di giovanissimo padre e inesperto insegnante di Liceo. Fino alle elezioni politiche che si svolsero nella primavera del 1972, rimasi “cane sciolto”, come a dire un “gruppettaro senza gruppetto” e dei gruppi abbastanza deluso. Solo allora, sollecitato da Totò Crocetta, che avevo conosciuto nel 65, in Fgci, ripresi la tessera del Partito Comunista che dal 69 non avevo più rinnovato.
Fino ad allora la mia attività politica a Gela si limitò alla partecipazione a qualche assemblea in preparazione di manifestazioni operaie o studentesche. Oltre a Gallo, fu in quelle occasioni che conobbi Luigi Rosati e Guelfo Guelfi, ma l'unico dei tre ad essermi simpatico era Vincino, di cui vagamente intuivo il genio creativo e che peraltro andò via quasi subito. Gli altri due mi stavano sullo stomaco, cosa che ascrivo a mio merito.
Dopo di allora ho seguito, seppure senza assiduità, l'attività di vignettista satirico di Vincino, su “Lotta Continua”, su “L'Espresso”, sul “Male” vecchio e nuovo, e in tanti altri posti. Non sempre mi piaceva la sua aggressività, talora i suoi attacchi mi parevano forzati o volgari o ingiusti; ma era quella la sua cifra, il suo stile, che, secondo il mio mathema di insegnante di latino, sembrava riprendere toni e moduli della più antica satura latina, quelli del lutulentus Lucilio. Nelle aggressioni visivo-verbali di Vincino affiorava del fango e, se giudicate classicamente, potevano apparire di cattivo gusto, ma era così che lui dava espressione al suo estro fantastico, tendenzialmente barocco e, mentre colpiva duro, induceva alla riflessione.
I sette disegni “politicamente scorretti” che seguono sono ripresi da “Tango”, che – diretto da Sergio Staino – uscì tra il 1986 e il 1988 come supplemento settimanale a “l'Unità”. Non sono di sicuro tra le creazioni di Vincino più geniali o più efficaci, ma sono di certo esemplificative del suo modo di concepire la satira, che non tollerava limitazioni o divieti di nessun tipo. Si tratta di disegni datati, comprensibili per chi al tempo seguiva l'attualità, ma forse esigono, per alcuni tra gli osservatori più giovani, qualche ricerca di informazioni in rete. L'ultimo, in ordine cronologico ma anche nell'ordine che io ho scelto, è un po' diverso dagli altri, più astratto e nichilista se si vuole. A me pare che parli del nostro tempo sbandato.
Mi dispiace molto che Vincino se ne sia andato: era una intelligenza “fastidiosa”, che a volte trovavo qualunquistica e cattiva, ma mi mancherà. E non solo a me. (S.L.L.)

"Tango", 5 maggio 1986


"Tango", 27 ottobre 1986


"Tango", 23 giugno 1986


"Tango", 26 maggio 1986


"Tango", 14 luglio 1986


"Tango", 7 aprile 1986


"Tango", 27 ottobre 1986

21.8.18

Milano. Addio Chinatown: l'ascesa della classe media cinese (Antonio Talia)


Reportage di un anno e mezzo fa, ma tuttora utile a capire i processi in atto sotto i nostri occhi, ormai non solo nelle grandi città ma anche in nelle piccole e medie. (S.L.L.)
Milano
Nelle pause tra i compiti, gli adolescenti che dalle tre alle sei di ogni pomeriggio affollano il Bubble Tea Bar di via Messina si lanciano in brevi partite di giochi da tavolo, oppure flirtano scattandosi selfie formato polaroid da appendere alle bacheche del locale con timidi messaggi di corteggiamento: cresciuti tra le vie del quartiere e la scuola italiana, le ambizioni dei genitori e l’ascesa di Pechino, sono tutti cinesi, sono tutti nati negli anni Zero, e sono in bilico tra identità multiformi.
«Prima di aprire il Bubble Tea Bar ho cambiato molti lavori, ho fatto il garzone nel negozio di casalinghi dei miei genitori, ho aperto un internet point, poi ho studiato da pasticcere. Cerco di tornare in Cina ogni anno e visitare sempre città diverse, così ho notato la moda del bubble tea e ho imparato a prepararlo», racconta Jack Zhao, proprietario del bar insieme alla moglie Susanna Yu. La Cina e Taiwan si contendono la paternità dell’invenzione del bubble tea, boba naicha, ma chiunque abbia ideato questa bibita a base di tè frullato con latte, frutta e palline di tapioca, ha lanciato un prodotto capace di trasformarsi in un frammento dell’identità di milioni di ragazzi asiatici, che lo consumano da Shanghai a San Francisco, non importa che parlino inglese, italiano o perfetto mandarino.
Jack, che vive a Milano da 20 anni e oggi ne ha 31, ha sfruttato l’opportunità: «Abbiamo aperto da un anno e per il momento le cose vanno bene», dice, «ma quando ci sarà troppa concorrenza cambieremo ancora». «Di sicuro le mie condizioni sono molto migliorate rispetto a quelle dei miei genitori» – aggiunge Jack, cittadino italiano da qualche mese – «e questo si vede anche da come spendo il mio tempo libero. Mi piace uscire con gli amici e giocare a basket, con Susanna viaggiamo un po’, mentre per la generazione di mio padre era impensabile anche solo avere un passatempo». Nonostante i suoi periodici viaggi in Cina, quando si è trattato di investire su una nuova attività Jack Zhao non ha avuto dubbi, e lo ha fatto in Italia: troppo saturo il mercato cinese, meglio puntare su una piazza che conosce già, anche se si trova a diecimila chilometri dalla città in cui è nato. «Vorrei che mio figlio tornasse in Cina, magari non per lavorare ma per conoscere le sue origini. Quando compirà 18 anni sceglierà lui se rimanere cittadino cinese o diventare italiano».

Dieci anni dopo
Via Messina è una traversa di via Paolo Sarpi e si trova a pochi passi da via Bramante, nel cuore di quella che anche Google Maps indica come la Chinatown di Milano, ma nel percorrerle entrambe la distanza che le separa diventa soprattutto temporale: di là, in via Bramante, una lunga fila di “affittasi” in caratteri cinesi piazzati sulle saracinesche abbassate segnala il declino del modello dei primi anni Duemila, rappresentato da import-export e negozietti di abbigliamento a basso costo; di qua, in via Messina, tra agenzie di comunicazione italo-cinesi, pasticcerie, fotografi specializzati in matrimoni, bubble tea bar e agenzie immobiliari e di viaggio per concedersi fine settimana in Provenza e vacanze sulle spiagge di Santorini, si assiste allo sviluppo di attività e idee nuove dirette a generazioni che hanno incrementato enormemente il loro potere d’acquisto, maturando consumi e codici a cavallo tra Asia, Europa e gusti globalizzati.
Sono passati 10 anni dalla cosiddetta “rivolta di Paolo Sarpi”, quando nell’aprile del 2007 oltre trecento cinesi affrontarono a muso duro la polizia municipale milanese per protestare contro multe e contravvenzioni, e se in mezzo c’è stata una pedonalizzazione che ha reso più difficile il continuo carico e scarico di merci, il fattore decisivo che ha cambiato il paesaggio urbano è di carattere puramente economico: l’ascesa di una vera classe media, che non ha più neanche timori a definirsi tale.
Chi è uscito dal quartiere e dai solchi tracciati da nonni, genitori e società italiana intorno, oggi sono i trenta-quarantenni capaci di inventarsi iniziative inedite come bar alla moda, una app per ordinare sushi e noodles on demand – con tempi di consegna fulminei come sashimi.com – saloni di bellezza à la page e persino una compagnia energetica. Gli uffici di China Power si trovano al settimo piano di un palazzo in zona Stazione Centrale, stretti tra il Pirellone e la Regione Lombardia: la società si è inserita nella liberalizzazione delle concessioni elettriche e oggi fornisce energia a centinaia di imprese cinesi presenti sul territorio italiano. Luca Sheng Sheng Song e Marco Jin, i due fondatori, descrivono la società come un’utility che in qualche modo fornisce anche un servizio di consulenza: sei un imprenditore cinese e non capisci nulla della tua bolletta? China Power ti fornisce una consulenza in mandarino per scegliere il profilo più adatto.

Management alla Bocconi
«Il mio percorso è abbastanza atipico rispetto a quello di altri cinesi», dice Luca Sheng Song, «perché sono arrivato in Italia a quattro anni, ho vissuto in diverse città toscane prima di arrivare a Milano, ho frequentato tutte le scuole italiane e mi sono laureato alla Bocconi in Management. Ho lavorato come consulente strategico presso la Value Partners e poi mi sono trovato con Marco per creare qualcosa che nasceva sia dalle competenze manageriali in grandi aziende che dal network che avevamo maturato nella nostra comunità. Alla fine ci siamo trovati a creare qualcosa che non esisteva, una società di energia “etnica”, la prima in Europa».
Marco Jin, invece, ha avuto una storia più tradizionale: «Anche io ho studiato in Italia ma prima mi sono dedicato ad attività come il confezionamento di maglioni o la stireria, poi ho avuto un negozio di scarpe e ho fatto un paio di anni di import-export classico. Poi ho lavorato nel settore delle sigarette elettroniche e alla fine con Sheng ci siamo trovati a pensare a qualcosa che mancava alla comunità. Ci riteniamo una società che favorisce l’integrazione: l’imprenditore che capisce meglio la sua bolletta è più portato a rimanere in Italia, e magari a reinvestire», spiega Luca Sheng Song, raccontando di operatori che passano anche ore a spiegare tariffe e conguagli.

Usano tutti WeChat
Tutti i servizi, inclusa la documentazione e perfino i pagamenti, passano attraverso WeChat, un’app cinese simile a un WhatsApp superpotenziato che è diventata l’assistente personale di centinaia e centinaia di milioni di persone, in Cina e all’estero. Secondo Marco Jin, il percorso della classe media cinese in Italia è quasi classico; la prima generazione vive solo per lavorare, la seconda inizia a concedersi maggiori piaceri e consumi, ma tra le due si sta anche inserendo un fenomeno nuovo: «C’è un enorme afflusso di studenti cinesi che sono già economicamente solidi, vengono a studiare in Italia e hanno notevoli capacità di spesa. Sono ventenni, ma entrano anche loro nella comunità e siamo tutti figli della Cina del benessere. Secondo me il potere d’acquisto si è almeno quadruplicato negli ultimi dieci, quindici anni».
Dopo un apprendistato nella bottega di pellame del padre e vari altri mestieri, Luca Hu ha scelto di ridefinire l’attività che aveva intrapreso: insieme al fratello gemello ha aperto in corso Garibaldi Chinese Box, ieri un classico baretto milanese, oggi un cocktail bar su due piani con pareti scure e lampadine art nouveau: «Ho riflettuto per anni sulla mia identità, poi mi sono detto: sono pragmatico, concreto, allora sono di destra. Poi è arrivato un mio dipendente, un barman italiano, e mi ha detto: “Tu sei il datore di lavoro più di sinistra che abbia mai avuto”. Sarà che non mi sono dimenticato come si confeziona una borsa», scherza.

Far meglio del padre
Secondo Luca l’ascesa dei cinesi di seconda o terza generazione non è solo una questione economica, ma di prestigio: «Noi non lavoriamo solo per i soldi, ma per l’immagine. Vogliamo far capire che siamo parte integrante di questo tessuto urbano che abitiamo da trent’anni. È inutile nascondersi dietro le quinte come hanno fatto i nostri genitori, perché poi non riesci ad approcciarti alla società. Un proverbio cinese dice “la casa è sempre più bassa della montagna”; significa che io sono tenuto a fare meglio di mio padre».
Francesco Zhou Fei invece vanta una storia a zig-zag, che può sembrare inusuale ma si inserisce pienamente nel flusso continuo di scambi interni alla comunità cinese tra Asia ed Europa: arrivato in Italia da bambino, si è laureato alla Bocconi e dopo un’esperienza lavorativa a Milano è sbarcato a Pechino con una specializzazione nella gestione del rischio crediti. «Lì sono diventato davvero biculturale, non solo sul piano della lingua o della vita di ogni giorno, ma soprattutto su quello del business. Adesso, dopo nove anni in Cina sono tornato a Milano: in un’epoca di acquisizioni cinesi in Italia voglio mettere a frutto questa mia doppia identità».
Zhou Lei è laureata in economia alla Cattolica e non esita un istante a definirsi classe media: «Tra me e i miei genitori non c’è una generazione di mezzo, ce ne sono almeno tre. Loro hanno vissuto la Cina della Rivoluzione Culturale e poi sono arrivati a Milano, è come passare direttamente dall’Italia fascista all’Italia del Duemila senza vivere quello che c’è stato nel mezzo. Io oggi ho una mia attività, ma faccio anche palestra, vado in piscina, pratico yoga e guido un’utilitaria». Dopo qualche anno come contabile, Lei ha aperto insieme alla cognata Chicchi un nail saloon dedicato a clientela ad alto reddito nella centralissima via Ariosto: «La cura delle mani è una pratica asiatica. Volevamo fare qualcosa di nuovo, diffondere una nostra tradizione ma attualizzandola, continuando a vivere e investire in Italia. Investire in Cina è ormai impossibile, ci vogliono cifre enormi, mentre il cambio yuan-euro ci ha avvantaggiato».
Come Lei sta adattando l’estetica cinese ai canoni occidentali, il marito Agie ha proiettato l’antica arte culinaria dei jiaozi, i ravioli, su uno scenario italiano. Dall’amicizia con Walter, macellaio milanese da due generazioni e pioniere dell’allevamento biodinamico, è nato un piccolo spazio di enorme successo: da due anni Ravioleria Sarpi ha cancellato l’immagine di unto così anni ’80 legata alla gastronomia da strada cinese, con cuochi e cuoche che cucinano il prodotto in vetrina direttamente davanti agli occhi dei clienti: «Sono arrivato in Italia da bambino e ho fatto varie cose, nell’informatica e nell’abbigliamento, lavorando da Canton. Ma l’idea di portare i veri jiaozi l’avevo in testa da sempre», racconta Agie. «È un alimento popolare, in Cina lo cucinano le nonne o lo gusti nei locali fatto al momento. Bisognava solo riportarlo agli ingredienti più genuini e farlo conoscere agli italiani, che sono così esigenti. Adesso abbiamo in testa altri investimenti».

Sogni globalizzati
Secondo la definizione classica del geografo americano Carl Sauer quello che chiamiamo “paesaggio culturale” è modellato da un gruppo culturale a partire dal paesaggio naturale: «La natura è il mezzo, la cultura è l’agente, il paesaggio culturale è il risultato finale». Seguendo questa definizione, pochi paesaggi culturali si sono mostrati plastici e innovativi come alcune Chinatown: da quel 12 aprile 2007 della “rivolta di Paolo Sarpi”, mentre una politica polverosa si accaniva intorno a definizioni obsolete come “seconda generazione” e dibattiti sulla cittadinanza, in quelle vie stava succedendo qualcosa il cui precipitato si è diffuso molto al di là del quartiere.
Identità ibride definite da tempi individuali iperaccelerati, capacità di adattamento: gli adolescenti del Bubble Tea Bar continuano a studiare in italiano e flirtare su WeChat in cinese, ammirano la moda coreana e inseguono sogni globali: non lo sanno ancora, ma tutti insieme sono già avanguardia e alcuni di loro diventeranno élite.

Pagina 99, 21 gennaio 2017

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