28.2.17

Il naso del re di Francia. Gogol tradotto da Landolfi (Cesare G. De Michelis)

Tommaso Landolfi
L'idea einaudiana d'offrire in una apposita collana, sobria ed elegante, gli "scrittori tradotti da scrittori" appare ben azzeccata, e per certi versi insostituibile per una moderna rimeditazione sul grande tema della traduzione: un' attività che per quanto proclamata essenziale nella civiltà delle lettere, sembra riscuotere, specie in Italia, scarsa attenzione. Abbiamo dunque, ora e facilmente accessibili classiche traduzioni realizzate in tempi e condizioni diverse: Kafka di Primo Levi, Stevenson di Fruttero e Lucentini, Flaubert di Natalia Ginzburg, il Candido di Voltaire nella resa di Riccardo Bacchelli, un Poe di Giorgio Manganelli, La tempesta shakespeariana nel napoletano di Eduardo, Queneau tradotto da Italo Calvino, ancora Flaubert da Lalla Romano. E adesso, nono volume della collana, i Racconti di Pietroburgo di Gogol nella versione di Tommaso Landolfi (pagg. 318, lire 16.000).
Tommaso Landolfi, l'autore del Dialogo dei massimi sistemi scomparso nel 1979, non fu né traduttore dilettante, né russista d'occasione: come ricorda nelle sue memorie Ettore Lo Gatto, s'era laureato con una tesi su Anna Achmatova, fu legato in operoso sodalizio ad Angelo Maria Ripellino, e per tutta la vita ha continuato ad occuparsi di cose russe, sicchéla stessa presenza di temi e motivi della letteratura russa nella sua opera creativa risulta frutto d'una scelta meditata e criticamente avvertita. Caso felice (e, quanto alla letteratura russa, assai raro in Italia) del "tradotto" che lascia il segno sul "traduttore". A parte Gogol, Landolfi ha dato voce italiana a Puskin, Lermontov, Tjutcev, Turghenev, Dostoevskij, Cechov, e ad altri ancora.
Ma restiamo ai Racconti di Pietroburgo. Che cosa si proponesse con la sua traduzione, ce lo dice Landolfi stesso: "aderire, per quanto era possibile e ce lo concedevano le elementari leggi della nostra lingua, al testo originale. Riprodurre (...) insomma tutte le più minute particolarità, a costo d'affaticare in qualche luogo anche il lettore". Diciamo subito che ad un'indagine minuziosa, questi propositi - d'una modestia esemplare, e di severa consapevolezza filologica - sono realizzati solo in parte: nel senso che laddove il testo russo è, insieme, specifico e d'immediata presa colloquiale, Landolfi tende a salvare l'immediatezza a scapito della specificità (soprattutto a livello lessicale); talora, a parer nostro, anche quando le "elementari leggi" dell'italiano non dico non lo imponessero, ma semplicemente non lo consigliassero. Oserei dire che questo, che resta probabilmente il miglior "Gogol italiano" (a parte, ove e quando si rinvenissero, gli articoli che Gogol stesso pare abbia scritto per periodici romani), risulta alla fin fine troppo "italiano": risultato certamente encomiabile - diceva Pasternak (ma cose del genere le aveva dette anche Leopardi) che la traduzione non deve sembrare cosa tradotta, ma tale che il traduttore ne possa rispondere come di cosa sua -, che però corre il rischio di togliere al lettore proprio il gusto di quella "diversità nell'equivalenza", che Landolfi si proponeva di salvaguardare.
Tuttavia, un' altra è la legittima perplessità che può destare la riproposizione odierna di questa classica traduzione landolfiana: il fatto d'apparire piuttosto datata. Non mi riferisco alla presenza di espressioni già passate in disuso, o a qualche toscanismo un po' troppo marcato; ma al fatto che il testo stesso dal quale traduceva Landolfi è "invecchiato". E mi spiego. La prima edizione di questi Racconti di Pietroburgo apparve più di quarant'anni fa, nel 1941 per i tipi della Rizzoli; l'attuale edizione Einaudi li ripresenta tali e quali, pur se debitamente corretti gli errori di stampa, e opportunamente riportata la trascrizione dal cirillico alle norme d' uso ormai accettate e generali. Ma il testo dal quale traduceva Landolfi è quello "tradizionale", derivato dalle edizioni pubblicate in vita dell'autore: cioè anteriore all' edizione critica delle Opere complete (14 volumi, apparsi tra il 1937 e il 1952), che ha restaurato molti passi, e in particolare quelli a suo tempo manomessi dalla censura. Vedi i paradossi della Storia: anche lo stalinismo sapeva essere severo censore dei censori; s'intende, zaristi. Qualche esempio soltanto, dal Giornale di un pazzo. Popriscin si meraviglia non che un cane sappia parlare, ma che sappia scrivere: poi però aggiunge "Solo il nobile può scrivere correttamente. Lo fanno invero anche mercanti e impiegati, e perfino il popolino talvolta scribacchia: ma per lo più la loro scrittura è meccanica, senza virgole, nè punti, nè stile". Un po' troppo classista, si dev'esser detto il censore del 1835: e ha cassato. Ma purtroppo l'arguta osservazione è assente anche per il lettore italiano del 1984.
C'è un caso ancora più vistoso, il celebre finale. Il repentino passaggio dal grido di dolore e di sconforto, alla più assurda bislaccherìa, di quelle per cui giustamente van celebri i matti: "Mammina, salva il tuo povero figlio! Lascia cadere una lagrimuccia sulla sua testina malata! Guarda come lo tormentano! (...) Mammina, abbi pietà del tuo povero fanciullino!... E sapete, a proposito, che il bey d'Algeri ha una verruca proprio sotto il naso?"
La "verruca del bey d' Algeri", nella sua incongruità, è divenuta proverbiale: si tratta dello stesso disgraziato bey, cacciato dai francesi nel luglio del 1830 e in seguito rifugiatosi a Napoli, di cui scrisse anche il Belli nel sonetto Er pijamento d' Argèri: "E mo metteno in cima a ' na colonna / er Deo d' Argèri che vva a fasse frate, / o viè a venne le pizze a la Ritonna". Solo che nel testo originario l' escrescenza sottonasale non apparteneva al bey d'Algeri, ma al Re di Francia (all'epoca della stesura del racconto, 1833-4, non più il conquistatore d' Algeri, Carlo X, ma Luigi Filippo). È buona norma del censore di non scherzare su un sovrano regnante: e così la verruca è passata a un sovrano deposto. E tale è rimasta nella versione di Landolfi, oggi riproposta.


La Repubblica, 5 settembre 1984

La vecchiezza fa orrore anche dopo la scoperta del corpo (Rossana Rossanda)

Simone de Beauvoir e i suoi critici
L’indegna vecchia signora è Simone de Beauvoir. Come in Francia, l’Italia puntualmente si duole che non ci abbia lasciato l’immagine d’un Sartre morente che le fosse apparso come Goethe agli occhi, un po’ offuscati, di Eckermann: il corpo d’un giovane iddio. Se ne duole anche Enrico Filippini, su “Repubblica” di domenica, anche se dice che non va bene; ma termina anche lui con lo stesso giudizio — per non parlare dell’elegante titolo («E poi tutto fu Nausea», gioco di parole pseudo-sartriano: ma, dei titoli, non sarà responsabile lui). Del resto, “il manifesto” ha fatto lo stesso. Non voglio tornare sulla Cerimonia degli addii, l’ho fatto su “Orsaminore”: ma chi, specie se uomo, legge “Orsaminore”? Una rivista di donne non si legge per definizione, neanche da parte di Enrico Filippini, che — non dubito, ci avrebbe almeno messo fra parentesi (salvo “Orsaminore”). Voglio solo chiedermi quale paura, dunque, abbiamo della malattia e del corpo che si deteriora, e non sempre per l’avvicinarsi della morte, da non poter attribuire che a una singolare durezza di cuore il parlarne? O siamo ancora così vittoriani da trovare «indecente» che si pani di mancanze, gambe tremanti, memorie cadute, barcollamenti e, dio non voglia, urine? O così inconsapevolmente ipocriti da non volere che il «grande», cioè quello che «si vede» — perché i piccoli restano invisibili sempre, giovani o vecchi che siano — resti fino all’ultimo decorosamente esente dagli oltraggi che ci infligge il ciclo della vita, in modo da non turbare l’immagine della nostra fine attraverso la descrizione della sua?
Si parla e riparla d’un nuovo rapporto, laico, ravvicinato, con il corpo, ma di esso accettiamo solo il profilo giovanilistico: di Sartre non si sarebbe mai potuto dire «hollywoodiano», ma ci viene sempre ricordato che la sua bruttezza era riscattata dall’intelligenza. Ma perché riscattata? E come mai corpo non sono anche le malattie del corpo, concepite tuttavia come «decadimento» rispetto alla nostra tuttora prassitelica idea dell’umana forma? Perché, se malato, va nascosto come una vergogna? Perché la testimonianza d’un impari dibattersi con il male non può essere attribuita a un tragico rapporto finale di tenerezza e dolore, ma solo a perversità o vendetta? O voyeurismo, appena non si somigli ai bronzi di Riace?
La verità è che per noi, così moderni, anzi postmoderni, il corpo resta vergognoso e segreto, per fortuna coperto dal guscio della pelle e da quello degli abiti, esponibile solo al suo meglio, perdonabile nella sua nudità solo se soggetto o oggetto di erotismo. Per il resto, da tener ben celato. Luogo della debolezza, della paura, dell’io indifeso.
Per questo, pavidi come siamo, la vecchiezza ci fa orrore; fa orrore anche alle femministe, che pur dicono di avere una diversa sensibilità, non astratta e crudele, ma ravvicinata e diretta col corpo, che sarebbe propria delle donne, come figlie più prossime della natura.
Ma la natura crea le forme della vita e regolarmente le distrugge; vita e morte, giovinezza e vecchiaia sono assolutamente e ugualmente naturali. Anche la malattia lo è. E non sempre siamo così fortunati da esser colpiti dalla freccia di Apollo o di Artemide, in modo da lasciare ai posteri, o solo ai nostri cari, l’ultimo colpo d’occhio su di noi assolutamente integri; solo, ma è una breve parentesi prima dei funerali, non vivi.
Davvero, per essere paesi che invecchiano per il decrescere della natalità e l’allungarsi della «speranza di vita», vi arriviamo con una cultura che al «vecchio» non può che far paura. Anzi, perché non consigliargli di coprirsi il volto, o la persona, con un velo, come il peccatore di Hawthorne — deperire è «peccato» —, stabilire che i municipi decentrino gli ospedali fuori vista come i cimiteri, e istituire per gli intellettuali un’unica censura, che ci protegga tutti dall’offesa alla morale, ai sentimenti e al comune senso del pudore, quando osassero parlare del disfarsi d’una «forma». Sia punito, e non solo dai recensori, chi ce lo ricorda come destino umano e quasi sempre ineluttabile.

"il manifesto", ritaglio senza data ma 1981

Come riconoscere il leader populista. Un saggio di Jan Werner Müller (Enrico Pedemonte)

Nel 1967 lo storico Richard Hofstadter - nel corso di una conferenza alla London School of Economics - presentò un paper intitolato Tutti parlano di populismo ma nessuno sa definirlo. Oggi Jan-Werner Müller, professore di Politica alla Princeton University, prova a dare una risposta a questa domanda in un libro, Che cos’è il populismo? (Egea, 16 euro, 137 pp.) che nei tempi in cui viviamo vale la pena di leggere perché combina con semplicità intuizioni teoriche e inquietanti esempi storici, anche contemporanei.
Il populismo, secondo Müller, «è l’ombra permanente di qualunque democrazia rappresentativa». Per essere definiti populisti basta essere critici nei confronti delle élite? No, perché la critica alle classi dirigenti è un esercizio comune alla gran parte dei movimenti politici. I veri populisti sono coloro che si considerano gli unici genuini rappresentanti di un popolo moralmente puro e rappresentano se stessi come i veri campioni di una democrazia di cui rivendicano il monopolio. I populisti dicono di rappresentare il 100% dei cittadini e non accettano la legittimità degli altri attori della politica. Quando la Brexit trionfò, nel giugno 2016, Donald Trump, Marine Le Pen e Nigel Farage interpretarono la vittoria come il trionfo del “popolo vero”, come se il 48 per cento di contrari non esistesse.
Populista è il presidente turco Recep Tayyip Erdogan che si rivolge al Paese dicendo: «Noi siamo il popolo. Chi siete voi?». Per poi aggiungere: «Che cosa vuole il mio popolo? La pena di morte», senza averlo mai davvero consultato in merito. O Norbert Hofer, candidato perdente alla presidenza della Repubblica austriaca, che apostrofa così il suo avversario Alexander van der Bellen: «Voi avete l’alta società dietro di voi, io ho il popolo con me».
«Beppe Grillo», scrive Müller, «arriva a dichiarare che il suo movimento, in quanto unico rappresentante del popolo, vuole il cento per cento dei seggi in parlamento in quanto gli altri candidati sono presumibilmente corrotti e immorali».
Che cosa accade quando i populisti conquistano il potere? Gli esempi snocciolati da Müller fanno impressione. In Ungheria nel 2010, appena arrivato al governo,Victor Orban cambiò le regole della pubblica amministrazione in modo da poter sistemare persone di fiducia in tutte le posizioni chiave della burocrazia. In Polonia, il partito della Legge e della Giustizia dei fratelli Kaczynski, vinte le elezioni nel 2005, si mosse subito per limitare l’indipendenza della magistratura e mettere il bavaglio alla stampa. Il linguaggio dei due gemelli polacchi era simile a quello utilizzato da Beppe Grillo e da Donald Trump, che ogni giorno attaccano la stampa per minare la fiducia dell’opinione pubblica nei giornalisti.
Quando governano, i populisti sono impegnati in prima persona nell’occupazione dello Stato, nel clientelismo di massa e nella corruzione, oltre che nella soppressione di qualunque cosa assomigli a una società civile critica. Quando riscrivono le costituzioni cercano di perpetuare una presunta volontà popolare che li identifica come gli unici rappresentanti.
Un esempio perfetto - secondo Müller - è il Movimento 5 Stelle, «scaturito letteralmente dal blog» di Beppe Grillo che identifica se stesso come unico rappresentante del popolo italiano. Müller cita il comico: «Gente, funziona così: voi mi tenete al corrente e io farò da cassa di risonanza». Quando i grillini sono entrati in parlamento, Gianroberto Casaleggio spiegò che a entrarvi era stata l’opinione pubblica italiana”.
Il Partito per la libertà (Pvv) dell'olandese di Geert Wilders è un caso ancora più estremo. In questo caso Wilders controlla tutto: gli eletti in Parlamento sono delegati del partito e vengono scrupolosamente preparati ogni sabato su quello che devono dire e come dovranno presentarsi. In realtà è la stessa tecnica utilizzata da Beppe Grillo, che vorrebbe imporre agli eletti di non rappresentare idee proprie ma solo quelle indicate dal popolo grillino attraverso il Blog, sotto la tutela della Casaleggio associati che controlla la loro attività digitale.
Secondo Müller è sbagliato considerare populisti Bernie Sanders e Jeremy Corbyn (nemmeno Syriza e Podemos) perché, pur essendo fieri oppositori delle élite, non sono antipluralisti e non rappresentano un vero pericolo per la democrazia liberale, come Marine Le Pen, Farage e Grillo. O come Orbán, Erdogan e Chávez che - quando hanno potuto contare su una maggioranza abbastanza ampia - hanno portato i loro Paesi in una direzione autoritaria.
Come rispondere ai populisti? Nell’ultimo capitolo Müller sostiene che è necessario prendere le loro dichiarazioni politiche molto sul serio, rispondere su ogni punto alle loro critiche, smontare le loro rappresentazioni della realtà e soprattutto mettere in guardia gli elettori sui pericoli di un’involuzione autoritaria.
Müller sostiene che per capire fino in fondo le origini del populismo europeo bisogna tornare ai totalitarismi che si imposero in Europa negli anni Trenta. E alla risposta che venne data nel dopoguerra. Le istituzioni che nacquero dalle ceneri della guerra erano particolarmente intrise di antiautoritarismo e il potere politico che emerse (Müller lo definisce “frammentato”) era particolarmente indebolito dai contrappesi messi in atto per evitare un ritorno al passato. Gli artefici del nuovo ordine nell'Europa occidentale del dopoguerra diffidavano della sovranità popolare: non era stato il popolo a mandare al potere Adolf Hitler e il maresciallo Petain nel 1933e nel1940? Il ruolo dei parlamenti nazionali fu ulteriormente indebolito da una molteplicità di vincoli internazionali: la Corte europea di giustizia, il Consiglio d’Europa, la convenzione europea dei diritti umani. E poi ancora dalla Cee, che poi divenne Unione europea. Se l'Europa è diventata particolarmente vulnerabile al populismo - dice Müller - è anche per la sottrazione di molto potere ai parlamenti nazionali. I tagli allo stato sociale, l’immigrazione crescente, la crisi dell’euro, i posti di lavori fuggiti all’estero vengono attribuiti a caste, lontane e vicine, che i populisti vogliono sostituire - in nome del popolo - con altre caste dal sapore locale.


Pagina 99, 25 febbraio 2017

Italia. Tra i giovano suicidi in crescita (Pagina 99)

In Italia c’è un problema di suicidi tra i giovani? Il dibattito sul tema è esploso nelle ultime settimane, favorito dai suicidi di due ragazzi. Ebbene, guardando indietro agli ultimi quarant’anni, si può dire che in Italia se c’è stato un aumento della tendenza da parte dei “giovani” (intesi come maschi e femmine compresi tra i 15 e i 34 anni di età) a togliersi la vita, questo è stato molto contenuto.
I numeri dell’Istituto nazionale di statistica ci dicono che dagli anni Settanta a oggi - nonostante l’aumento degli impieghi precari e in certi periodi dell’uso di droghe - il numero dei giovani che si sono tolti la vita ha conosciuto oscillazioni fisiologiche e davvero poco significative: anche scomponendo, come fa l’Istat, in quattro diverse fasce di età (15-19; 20-24; 25-29; 30-34), il grafico mostra un lieve aumento tra il 1970 e il 1990 e una lieve discesa nel ventennio successivo. Con numeri assoluti troppo piccoli per individuare un vero fenomeno, una tendenza netta. I dati dell’Istat mostrano anche che al Nord la mortalità per suicidio è più alta che nel centro, al sud e sulle isole, e che l’Italia è tra i Paesi Ocse con i livelli più bassi.

Facendo un’analisi un po’ più sottile si nota però che un piccolo aumento c’è stato perché in questi 40 anni in Italia la popolazione giovanile è diminuita. Calcolando il numero dei suicidi tra i giovani tra i 15 e i 25 anni nel 1971 e nel 2011, si nota che, in rapporto a una popolazione calata di circa il 30 per cento in quella fascia di età, c’è stato un aumento percentuale dei suicidi di circa il 10 per cento. E il dato non cambia se si considerano i due decenni nel loro complesso. Un aumento non catastrofico, certo. Ma comunque una crescita preoccupante. Perché ogni vita ha un valore inestimabile.

Pagina 99, 25 febbraio 2017

USA. La prossima bolla è su quattro ruote (Pagina 99)

Miami, Una concessionaria di auto Ford e Mustang
Prestiti facili per comprare l'auto.
Case produttrici a rischio
I mercati finanziari rischiano lo scoppio di una nuova bolla legata ai prestiti subprime negli Stati Uniti. A differenza di quella che nel 2008 innescò la grande crisi mondiale, l’attuale non dipende dall’eccessiva esposizione sul mercato immobiliare bensì su quello delle quattro ruote. Invogliati dai bassi tassi di interesse e da un parco veicoli sempre più seducenti, veloci ed efficienti - scrive Bloomberg - negli ultimi anni gli automobilisti americani non hanno badato a spese. Con 17,5 milioni di vetture acquistate solo lo scorso anno.
Secondo la Federal Reserve (Fed), nel quarto trimestre del 2016 il debito per comprare automobili, spinto dagli acquisti di fine anno e dal credito facile, ha toccato il picco di 1.160 miliardi di dollari (nel grafico questo debito è messo a confronto con quello delle carte di credito e quello degli studenti per college e università). Una cifra enorme. Ci si potrebbero comprare 43,3 milioni di pick-up Ford F-150, uno ogni otto americani. È come se negli Usa ogni automobilista fosse gravato in media da un debito di circa 6.100 dollari.

Al momento la situazione è ancora sotto controllo, sottolinea la testata americana, perché il mercato dell’auto è diverso da quello immobiliare. Le vetture sono un asset più fluido, molto più semplice da rivendere delle case, i prestiti per acquistarle sono meno gravosi dei mutui. E le insolvenze sono ancora inferiori a quelle sui prestiti agli studenti e delle carte di credito. Ma questo non deve far dormire sonni tranquilli a banche e società che erogano i finanziamenti, né agli ad delle case automobilistiche, tra le maggiori artefici della bolla -che ora si sta concentrando su Suv e pick-up - dal momento che, almeno finché tutto fila liscio, hanno gioco facile a fare soldi sia sui prestiti che sul prodotto. Al momento alle case automobilistiche fa capo la metà circa del debito, tre quarti del quale è di tipo subprime (prestiti ad alto rischio finanziario perché erogati a favore di clienti a forte rischio debitorio). Non a caso, rileva la Fed, unaserie di recenti casi di insolvenza hanno colpito le sole case produttrici. Che, nel caso la bolla dovesse scoppiare, pagherebbero il prezzo più salato.

Pagina 99, 25 febbraio 2017

Matilde Serao. Una donna coraggiosa (Anna Banti)

Ho ripreso in mano con una certa diffidenza la mia Matilde Serao di dodici anni fa, ma non ho perso tempo a domandarmi perché avevo accettato la proposta della Utet: la protagonista che mi si offriva — fino allora per me quasi sconosciuta — mi attrasse alla prima lettura per quella che mi parve la qualità preponderante del suo carattere: il coraggio.
Il coraggio «uno non se lo può dare»: ebbene, lei se lo dava senza distinguerlo dal rimescolìo di vanità, ambizioni, sentimentalismi che la muovevano all’attacco.

Sopportarsi brutta
Il suo più elementare e costoso coraggio fu quello di sopportarsi brutta e nel modo che più contrastava con i suoi gusti. Esso non le venne mai meno fin da quando, specchiandosi nei tratti delicati di sua madre, fu quasi contenta di non somigliarle per meglio adorarla. Non conobbe mai — o quasi mai — la paura, e ce ne volle del coraggio quando, presentatasi alla redazione del “Capitan Fracassa”, indovinò subito alla prima occhiata l’ostilità, o, quanto meno, la compassione che il suo aspetto suscitava. La salvava la fiducia nella propria audacia («faccia di cuorno», diceva) e in una istintiva allegria che era forse bontà nativa. Ma non s’illudeva: più tardi, a proposito della sposa da scegliere per il principe di Piemonte, scriverà: «Una donna brutta trova difficilmente la sua strada e questa maledizione del Signore la perseguita sino alla morte».
Il guaio era che le piacevano gli uomini, a cominciare dal suo scomodissimo insolente marito. In queste condizioni continuare ad «amare l’amore» era un’altra prova del suo coraggio. Da ragazza aveva scritto di riconoscersi una natura «semivirile», poi non lo ripetè più, aveva capito che aria tirava in quella sciagurata «fin de siècle». Il coraggio può anche essere pazienza, e una enorme pazienza essa dovette spendere per disarmare colui che con ironica tenerezza chiamava «il guappo mio».
Era robusta e resisteva alla giornata faticosa che le imponevano la redazione del “Corriere di Roma”, le cure domestiche, la intensa vita mondana e i maneggi per ottenere il denaro necessario al giornale. Forse ci si divertiva. Già, e i romanzi? Beh, quelli erano il suo premio e la sua punizione.
Alla luce di questa vita onerosa va considerato l’atteggiamento di Matilde nei riguardi dei problemi femminili, le sue reazioni negative nei confronti delle donne che fanno politica (lei, sul giornale, la faceva: male, ma la faceva). Aveva scelto, e non lo nascondeva, un netto antifemminismo che la portò a deplorare la Kuliscioff, medico respinto dall’esercizio della professione. Per conformismo? Per acquiescenza coniugale? Per scetticismo? O per il coraggio della disperazione?
I tempi erano intransigenti, ignoranti: si schernivano selvaggiamente le suffragette inglesi, George Sand che vestiva da uomo era considerata una mala femmina e il ricordo delle dame illuministe del Settecento era spento. E poi l’ordine di Edoardo Scarfoglio, misogino nevrotico, era: non seccare. Semmai, formare comitati di beneficenza che sovvenissero, una tantum, le povere serve sfiancate, le madri senza pane. E, se le telegrafiste, le telefoniste, le maestrine avevano stipendi di fame, colpa loro: perché non si sposavano?
Fu a questo punto che una iraconda protesta di Matilde scoppiò: si trattava di difendere una certa Donati, una maestrina, appunto, calunniata, perseguitata, infine suicida. Anche lei, col suo diploma, avrebbe potuto subire la sorte della maestrina. Sposare? Bel rimedio. Nel 1901 essa scrive: «Io so, come tante altre donne sanno, che, come sono composte le leggi nella società moderna, non c’è felicità possibile per la donna, in qualunque condizione essa si trovi: né nel matrimonio, né nell’amore libero, né nell’amore illegale». Si parlava di divorzio e il vecchio coraggio della zitella Serao scoppiettava di sdegno. Ora nella sua tarda maturità, l’impeto avventuroso che la spingeva a farsi strada a gomitate affrontando ogni rischio, aveva preso il colore di un gelido scetticismo. Edoardo era sempre più futile e incomprensivo e quando, coinvolta nello scandalo Saredo, Matilde si senti sgomenta, il «guappo suo» così la descrisse a Febea: «la povera Matilde?... è donna e ha avuto un quarto d’ora di dolore profondo che è passato dopo quindici minuti». Vai a far capire a uno Scarfoglio che a una donna coraggiosa un quarto d’ora di recupero è più che sufficiente.
Si è molto riso, nell’ambiente giornalistico italiano della Serao, fondatrice del “Giorno”, il quotidiano inventato da lei, redattrice benemerita e congedata villanamente dal direttore del “Mattino”, suo marito: anche i figlioli, rimasti col padre, la canzonavano. Eppure tutti sapevano che questa iniziativa rappresentava l’infelice rivalsa di un’operaia licenziata: che oggi avrebbe richiesto almeno la cassa integrazione. Ma pochissimi, credo, la interpretarono come un atto di coraggio, molti ci scorsero un grottesco tentativo di vendetta. Si trattava, invece, di un atto di forza, e non si è forti senza coraggio. Matilde, del resto, era la prima a riconoscere lo scarso valore del suo giornale, senza mezzi, senza buoni servizi, senza firme spiccanti: ma almeno il solo che a Napoli annunziasse l’uscita di un suo nuovo libro, giacché “il Mattino”, dopo essersene smodatamente giovato, aveva praticamente seppellito il suo nome.
Impavida, andava avanti lavorando come sempre e scrivendo, purtroppo, cattivi libri che ebbero almeno il merito di dispiacere a Mussolini. Cavallerescamente (ché altra parola non sarebbe appropriata) volle che direttore del “Giorno” apparisse il suo nuovo compagno, l’avvocato Natale. E solo dopo la morte di lui, consentì che sotto la testata si leggesse Matilde Serao, direttore.

Leggende amatorie
Già estromessa dal “Mattino”, scriveva al vecchio amico Gegè Primoli di «lavorare molto per dimenticare i dolori amari di una vita non esente da errori». È chiaro che a questa confessione, a questo sottinteso pentimento, corrispondono le macroscopiche leggende tuttora circolanti sulla vita erotica della scrittrice. Gli italiani sono cosiffatti che ancor oggi, pur consentendo alle loro ragazze-bene di vivere le loro esperienze sessuali in un privato pied-à-terre, seguitano a citare barzellette boccaccesche sulle esigenze amatorie della matrona che i redattori del “Giorno” — magari suoi complici — chiamavano rispettosamente: la Signora, la nostra Signora.
Io stessa ho constatato la persistenza di queste sciocche abitudini, e, devo dire, con infinita noia.

"la Repubblica", 21 febbraio 1977

In Russia e in Georgia per amore di dada (Cesare G. De Michelis)

"Taci, taci,/(femmina, nelle sue braccia/delirasti una notte così)...": così scriveva, all'inizio degli anni Venti, Ada Negri, scrittrice già dai fieri sentimenti populisti, e come tale di buona popolarità anche in Russia. E contemporaneamente, pressappoco, ecco come un personaggio di nome Ada Negri parlava in una bislacca operetta drammatica di Nikolaj Shalimov del 1922, L'amore equatoriale ovvero la terribile vendetta di una negra: "Agiu l' chuva/chuljanam/pingiaru ragiuljum/giufcha raspere...", spingendosi nel contesto dell'improbabile parlata meridionale fino a vaghe allusioni falliche: "palla polla palla/coriambo/cine banda/ban ban ban/Why son come l'ibis/lingam fallas/Diplodok".
Ebbene, sì: questo è il dada russo, del quale Marzio Marzaduri ci offre ora un'antologia ragionata, che è il primo contributo complessivo volto a intendere questa pagina certamente minore, ma sin troppo negletta, dei movimenti sperimentali: Dada russo. L'avanguardia fuori della Rivoluzione (Il Cavaliere azzurro, pagg. 258, lire 15.000). Sul perché "fuori della Rivoluzione" torneremo subito; ma intanto vale la pena di avanzare qualche considerazione sul rutilante intrecciarsi, e talora confondersi, dei molti gruppi e gruppuscoli dell'avanguardia russa, destinati spesso a una esistenza effimera e periferica.
In proposito si può ricordare un episodio forse marginale, ma emblematico come pochi altri: c'è un testo poetico del pittore Vasilij Kandinskij, Vedere ("Azzurro. Azzurro s'innalzava, s' innalzava e precipitava./Acuto. Sottile fischiava e si conficcava..."), le cui peregrinazioni sono ghiottamente tortuose. Apparso dapprima in tedesco nella raccolta Klange (1912), venne annoverato tra i primi testi dell' espressionismo letterario; a distanza di un anno ricomparve in russo (nella traduzione di David Burljuk) sull'almanacco Schiaffo al gusto del pubblico, e venne pertanto catalogato tra gli archetipi del cubofuturismo russo. Nel 1916 fece ancora in tempo per riapparire in tedesco su Cabaret Voltaire a Zurigo, tra i testi del nascente movimento dada.
Espressionismo, futurismo, dadaismo: la storia della poesia di Kandinskij sembra fatta apposta per convalidare la nozione indistinta degli "...ismi contemporanei", di cui aveva già parlato trent'anni prima Luigi Capuana. Ma siccome l'indagine scientifica procede non già dal distinto all'indistinto, ma precisamente all'inverso, eccoci al quesito da cui prende le mosse lo stesso Marzaduri: in buona sostanza, se sia esistito un dada russo, e nel caso di risposta affermativa, perché esso si ponga non occasionalmente, ma strutturalmente, "fuori della Rivoluzione" (non contro, o accanto: semplicemente fuori). La domanda appare sensata, se non altro perché nelle svariate ricognizioni che sono state compiute sul fenomeno dell'avanguardia russa (tanto per restare in Italia, ricorderemo almeno Le poetiche russe del Novecento di Giorgio Kraiski, del 1969, e L'avanguardia russa di Serena Vitale, del 1978), di un dada russo non si fa nemmeno menzione.
Tuttavia, i filoni culturali cui si rifà anche questa rassegna antologico-critica, sono ben conosciuti e presenti: in particolare, transmentali (zaumniki) e nullisti (nicevoki). Ha senso dunque convogliare gli uni e gli altri (e altri ancora) sotto la comune etichetta di dada? Il modo di procedere di Marzaduri appare in proposito sensato, anche se non dimostrativo: "L'autore - scrive - assume come plausibile la categoria di un dada russo, o transmentale. L'affermazione non è comprovabile filologicamente (...), ma appare tuttavia giustificata da una seria tradizione". In sostanza si tratta del fatto che dal tronco vigoroso del futurismo russo s'è sviluppato - tra gli altri - un ramo assai particolare, quello dello zaum' (o lingua transmentale), coltivato già prima della guerra e della Rivoluzione da Chlebnikov e Kruciònych. Trapiantato a Tbilisi (in Georgia), ebbe l'apporto di altri scrittori e pittori, russi e georgiani, dando vita alla compagnia del 41, che si fregiò, oltre quello di Kruciònych, dei nomi di Il'ja e Kirill Zdanevic, nonchè di Igor' Terent'ev. Questo ramo dell'avanguardia russa, pur se ben noto, è rimasto piuttosto in ombra, in patria e all'estero, per il concorso di circostanze eterogenee: la sua breve esistenza, la quasi programmatica intraducibilità (o perfino illeggibilità) dei testi che produceva, la commistione di cultura russa e di cultura (e lingua) georgiana: ad esempio, il numero unico più prossimo al "dada assoluto", "H2SO4" apparve nel 1924 in georgiano.
L'altro ramo dell'avanguardia russo-sovietica che può legittimamente esser avvicinato al dada zurighese, è come abbiamo detto quello dei nullisti, di Rostov sul Don, che promulgarono il loro manifesto nel 1920, e ai quali fu vicino il giovane Grigorij Shil'tjan (Sciltian), prima di divenire nell'emigrazione convinto assertore della restaurazione. Episodio minore e provinciale, s'esaurì esso pure nei primi anni Venti; ha ragione insomma Marzaduri a sostenere che "tra la primavera e l'autunno del 1923 finisce il dada russo".
Episodi successivi d'un'avanguardia estrema e nichilistica, pur se accusati di "dadaismo" (come fu il caso, nel 1927, degli Oberiuty di Leningrado: Charms, Vvedenskij, in parte Vàginov e Zabolotskij), escono di fatto dal quadro del fenomeno ora ricostruito e documentato da Marzaduri. L'avanguardia fuori della Rivoluzione. Episodio nato negli anni convulsi della guerra civile (e in particolare nella repubblica "socialdemocratica" di Georgia), quando il potere sovietico prese definitivamente piede, si dissolse per gran parte nell'emigrazione (le dra, quasi illeggibili, di Zdanevic, vennero proposte a Parigi); quelli che rimasero in Unione Sovietica, o finirono dimenticati (come lo Shalimov, dal quale abbiamo preso le mosse), o continuarono sempre più isolati - è il caso di Krukiònych - a coltivare una sorta di "antiquariato nostalgico" dell'avanguardia. O ancora, come lo sventurato Terent'ev finirono in un lager, a costruire il Canale del Mar Bianco: e con una epistola in versi indirizzatagli da Kruciònych si conclude anche l'antologia: davvero, "triste tombeau del dadaismo russo".


“la Repubblica”, 29 agosto 1985  

L'angelo e la bestia. I “Quaderni” di Simone Weil (Enrico Filippini)

Simone Weil, Autoritratto (1930)
«Non solo io penso che l’universo mi schiaccia, ma lo amo». «Rinunciare a tutto ciò che non è la grazia, e non desiderare la grazia». «Il tempo ci conduce sempre dove non vogliamo andare. Amare il tempo»... Per riparlare di Simone Weil, propongo uno sforzo prolungato e ripetuto di attenzione su queste poche frasi, scelte quasi a caso. Perché esso, molto più di una normale lettura, consente di penetrare subito le movenze interne, la temperatura e le ellissi del suo pensiero. Che è un pensiero tanto più grande e sterminatore, in quanto è sempre al limite del non-pensiero e dell’impraticabilità: è il pensiero che ci vuole. La mia idea è che il testo della Weil è un «testo d’uso», come un libro di cucina o L’imitazione di Cristo.
Quale testo? Qui, il testo dei Cahiers. Alla vicenda di Simone Weil (1909-1943), ho già accennato un’ altra volta (sulla Repubblica del 12 luglio 1981). Di essa bisogna ora ritagliare quel periodo, ormai già finale, che iniziò col soggiorno a Marsiglia e finì in un ospedale inglese, dove la Weil si lasciò morire di fame proprio quando stava iniziando la liberazione dell’Europa. Aveva passato la Settimana Santa del 1938 presso l’abbazia benedettina di Solesmes. Come sempre, era torturata da atroci mal di testa. Ma la liturgia e «l’eterno presente» del canto gregoriano resero quel soggiorno l’evento fondamentale dell’ultima parte della sua vita, segnata dalla «presenza personale di Dio», cioè di un «nulla» o di un «vuoto».
A metà giugno del 1939, i tedeschi entrarono a Parigi. La famiglia Weil decise di fuggire, raggiungendo prima Vichy, poi Tolosa, poi Marsiglia, col proposito di lasciare la Francia. Il disastro propiziò nella Weil l’esigenza di ripensare tutto ciò che aveva pensato e vissuto fino a li: a cominciare dal suo pacifismo, che ora le appariva un «errore criminale». Il soggiorno a Marsiglia si protrasse fino al 7 giugno 1942, e fu molto fecondo. Ad esso risalgono numerosi saggi sulla scienza, sull’Iliade e sulla Grecia in generale, sulla nozione di filosofia, sul concetto di valore, sulla lettura, sulla responsabilità della letteratura, sull’oppressione e sulla forza, ancora sulla scienza, nonché quelle meditazioni teologiche che verranno poi raccolte in due volumi postumi: Attente de Dieu e Pènsées sans ordre concernant l’amour de Dieu. Ma credo si possa dire che il meglio della sua riflessione fu affidata ai famosi Cahiers, i quali tuttavia ebbero una storia complicata.
Tra le numerosissime persone che la Weil frequentò in quel periodo, c’era il frate domenicano Jean-Marie Perrin, che era stato uno dei suoi interlocutori al momento dell’«incontro con Dio» e al quale il 7 giugno 1941 si presentò per chiedergli un lavoro di bracciante agricola; inoltre il filosofo cattolico Gustave Thibon, che era anche vignaiolo nell’Ardèche, e presso il quale andò a lavorare durante la vendemmia del 1941, massacrandosi di fatica e leggendo al suo ospite, la sera, i filosofi greci e i testi sapienzali indiani, a cui era stata iniziata dallo scrittore René Daumal.

Testamento letterario
Quando fu il momento di partire (per Casablanca e poi per gli Stati Uniti), fu a Perrin e a Thibon che la Weil consegnò gran parte dei suoi scritti e i quaderni marsigliesi. Non era una partenza come un’altra. Già nel '40, la Weil così aveva scritto a un amico di Vichy: «...benché non possa prevedere ciò che l’avvenire porterà, parto definitivamente. Non è solo a causa delle circostanze. Ho sempre pensato che un giorno sarei partita così». Sapeva che nulla sarebbe mai più stato come prima. La collocazione dei suoi scritti fu una specie di testamento letterario ed editoriale. A Perrin consegnò i «saggi spirituali». A Thibon undici quaderni tutti uguali, fittissimi di scrittura, che — insieme con gli altri sei, scritti più tardi in America e a Londra — costituiranno il corpo dei Cahiers.
Sarebbe complicato ripercorrere qui la storia editoriale di questi testi, come del resto di tutta la produzione della Weil. Ma una cosa va accennata. Nel 1947, Thibon trascelse dai Cahiers e pubblicò un piccolo libro, La pesanteur et la grace («La pesantezza e la grazia», o meglio «La gravità e la grazia»). È un piccolo libro assolutamente fulminante, benché Thibon fosse preoccupato dall’accoglienza che il cattolicesimo francese avrebbe riservato all’arroventata meditazione «mistica» della Weil. Ne consiglio caldamente la lettura. Ma nello stesso tempo è un libro del tutto arbitrario, perché concentra in un’unità testuale e di senso una scrittura spasmodica che tuttavia si vuole dispersa, discontinua e mescolata di altri temi e ossessioni: impoverendo enormemente l’orizzonte della Weil.

Più tardi, tra il '51 e il '56, l’editore Plon pubblicherà in tre volumi sedici dei diciassette quaderni, ma si tratta di un’edizione molto sommaria e priva di ogni apparato critico. Così si può dire che la prima vera edizione è quella a cui ora ha posto mano l’editore Adelphi con un primo volume di Quaderni, che ne contiene i primi quattro e che è stato quasi impeccabilmente curato da Giancarlo Gaeta; dico quasi, perché mancano le indicazioni di alcune fonti.
A prima vista, i Quaderni possono sembrare una scrittura privata: una raccolta di appunti, di pensieri a volte monchi e anche di trascrizioni. Ma è noto che la Weil pensava che dovessero venir pubblicati e che riteneva la forma di questi frammenti definitiva. Gaeta coglie bene il senso di questa frammentarietà quando nella sua introduzione afferma che essa corrisponde intimamente alla forma del suo pensiero filosofico: «Poiché tutto, a questo mondo, esiste “allo stesso titolo”, come nella pittura di Giotto, lo straordinario potere della scrittura dei Cahiers è nell’assenza di un punto di vista...; occorre che gli oggetti della riflessione si dispongano su piani molteplici, non coordinati gerarchicamente, lasciando libero spazio alla contraddittorietà dell’esistente...».
La mia idea è che ci sia anche un’altra ragione di grandezza. Innumerevoli studi hanno rilevato i rapporti del pensiero filosofico della Weil, non solo col platonismo, col marxismo e con la sapienza indiana, non solo con le matematiche moderne e con le geometrie non euclidee, ma anche con la filosofia accademica francese: con quella linea che da Maine de Biran, attraverso Largneau e Alain (suo maestro alla Normale) arriva a Merleau-Ponty. Di questi rapporti, come del resto di altri, sarebbe insensato non tenere conto. Ma l’essenziale è che nel vortice frammentato e vertiginoso dei Quaderni c’è una deflagrazione, dentro cui va in pezzi ogni possibilità di pensiero sistematico, unitario e finalizzato. Va in pezzi, anzi, il fondamento, la forma e la tendenziale cristallizzazione della cultura europea: tutto è rimesso in questione, anzi in sospensione nello spazio vuoto. La mia idea è, dunque, che, proprio per questa ragione il testo della Weil sia, oltre che un libro d’uso, uno dei massimi libri della filosofia (e della critica culturale e della sociologia e della psicologia) contemporanea.

Un bastone da cieco
Molto più difficile è riferire esaurientemente di che cosa parlano i Quaderni. E del resto non è neppure necessario. In un certo senso basterebbe rilevare alcune metafore costanti che sono come l’ago magnetico della bussola dentro lo scompiglio della ricerca e dello scavo: il «bastone da cieco» («Che quest’energia divenga un mezzo d’esplorazione del mondo — un bastone da cieco?», pag. 247), la «barca» («Una barca, strumento per afferrare interamente il mare, interamente il vento, e le stelle», pag. 209), la «leva»: «Nozione di leva applicata alla vita interiore (in funzione della nozione di energia)», pag. 259, la «bilancia»...
Ma volendo accennare, molto sommariamente e un po’ tradizionalmente, ai contenuti dei Quaderni, si può dire così: i Quaderni sono «un inventario della civiltà attuale» e contengono innanzitutto una critica della scienza moderna (spesso esemplificata nell’algebra), una comparazione della scienza moderna e di quella greca, e un’analisi dei rapporti di una scienza «tutta ridotta a segni» con la tecnica e con la «crisi della macchina» in Europa: «Macchina: il metodo si trova nella cosa, non nello spirito. Algebra: il metodo si trova nei segni, non nello spirito...». E per molti aspetti, questa critica della scienza si accosta a quella di Husserl e di altri pensatori degli anni Trenta. Di suo, oltre l’intensità e la concretezza, la Weil ci mette l’intuizione dell’origine religiosa di questa riduzione della scienza a gioco di segni: «L’uso dei segni in un primo momento è necessariamente religione», e l’intuizione della causa di questo stato di cose: «solo nei segni si può eliminare il caso, e far apparire la necessità».
I Quaderni contengono inoltre una critica del «pensiero collettivo» («Non esiste un pensiero collettivo»), una critica del lavoro industriale notevolmente originale rispetto a quella marxista tradizionale, una costante evocazione dell’arte, nutrita di notevolissime osservazioni (per esempio relative allospazio), digressioni sul progresso, sulla forza e sulla violenza, sul passaggio dall’«era industriale» all'era finanziaria», sull’hitlerismo e sulle sue somiglianze coi meccanismi di potere nella romanità, sulla guerra, sulla morte, sull’analogia, sull’apparire del mondo nell’esperienza, su quella nozione di «sventura» di cui si parla sempre a proposito della Weil, come del resto su quelle altre nozioni di «grazia», «pesantezza» o «gravità» a cui si è già accennato. Inoltre, i Quaderni contengono ampie esplorazioni del Bhagavad Gita e delle Upanishad, racconti e commenti di fiabe, intense e costanti rivisitazioni della filosofia platonica (in particolare del Timeo, del Filebo e della Repubblica) nonché della tradizione pitagorica (in particolare di Filolao), e naturalmente squarci di riflessione teologica e morale.
Ma mi rendo conto che un’elencazione, anche più dettagliata, non serve a nulla, e che in particolare non rende conto dell’incandescenza, dello stile filosofico-letterario della Weil. Forse è più utile citare un paio di esempi. Il primo potrebbe essere il seguente. Tutto questo primo volume è attraversato da una ricerca sul tempo, per così dire da una ricerca del tempo vivente. E fin dall’inizio la Weil intuisce che il tempo morto o pietrificato è il tempo dei segni e insieme dell’ossessione («L’ossessione è l’unica sofferenza umana», pag. 148, «Il tempo è il primo limite, l’unico», pag. 182, «Tutto ciò che turba l’uomo lo turba nel suo sentimento del tempo», pag. 204). La ricerca del tempo vivente è dunque superamento della «virtù negativa» e della parvenza ingannevole e alienata dell’ossessione: si tratta di accettare la «violenza del tempo» che «lacera l’anima», perché «attraverso la lacerazione entra l’eternità».
Questa visione del tempo è per un verso in rapporto con la rilettura di Platone e di Filolao, col tema del «limite» e dell’«illimitato» e del «finito» e dell’«infinito» nell’esperienza e e con quello di «ritmo», di una «musica» dell’esperienza che sta di là del «tic-tac» della musica meccanica, e quindi è in rapporto col tema di Dio e con la problematica teologica della Weil. Per un altro verso, poiché la filosofia della Weil è al tempo stesso una forma di e-sperienza personale e persino psicologica, questa visione è connessa con le costanti e durissime prescrizioni che s’imponeva: «Non essere mai vile davanti allo scorrere del tempo», con la necessità di vincere l’inerzia e la «pigrizia», e quindi con la terrificante disciplina e con la tensione a cui si sottoponeva.
Il secondo esempio potrebbe essere quest'altro, che allude a quella che si potrebbe chiamare l’«etica» della Weil, che è un’etica altamente paradossale, cioè all’altezza dei conflitti che l’epoca le proponeva. Questo primo volume è disseminato di proposizioni di questo tipo: «Nell’ambito dei sentimenti, più si dona, più ci si mette in una situazione di mendicità»; «A partire da un certo grado di oppressione i potenti arrivano necessariamente a farsi adorare dai loro schiavi»; «Desiderare l’amicizia è una colpa grave»; «La dedizione non è possibile senza asservimento»; «La virtù consiste nel custodire in sé il male che si patisce»; «Quel che si odia si potrà giungere ad amarlo»; «Mentire a se stessi risulta da una necessità vitale»; «Non ci si deve consolare con ciò che si ha di meglio in sé»; «E’ facile essere sulla croce quando vi si è inchiodati»; «E’ necessario essere molto puri per fare il male»; «La possibilità del male è un bene»; «Piuttosto che prendersi sul serio, peccare»... In generale, si tratta di una morale che si scosta notevolmente da quella cristiana, e il cui emblema potrebbe essere questo: «Chi fa l’angelo fa la bestia»...

Quando abbiamo perduto tutto
Tuttavia mi rendo conto che anche così adombrata, la filosofia della Weil è ancora altrove, e che quando si è detto tutto questo non si è detto quasi niente. La filosofia della Weil non sopporta sillogi e riduzioni a un senso. Me ne rendevo conto acutamente durante un convegno su di lei all’Istituto Stensen di Firenze (13-14 marzo), a cui partecipavano, tra gli altri, il teologo Jean-Marie Aubert, Gabriella Fiori, biografa italiana della Weil, Vilma Gozzini, Adriano Marchetti, Gilbert Kahn e Massimo Cacciari. Nonostante tutti gli sforzi da parte cattolica, la Weil non è collocabile dentro una normale prospettiva cristiana; e si può dire anche che, nonostante gli sforzi di Cacciari a quel convegno, la Weil non è normalmente collocabile neppure dentro la storia della filosofia.
Il problema, anzi uno dei problemi della Weil era di «fare del tempo un’immagine mobile dell’eternità»; e insieme la Weil sapeva di essere collocata in un punto altamente critico del tempo: «Non potresti desiderare di essere nata in un’epoca migliore di questa, in cui si è perduto tutto». Ora che ridiventa attuale, dopo che un’altra volta sono deflagrati i sistemi di pensiero lineari e conchiusi che ripresero corpo dopo la sua morte, la mia idea è che la sua «attualità» stia nella sua perfetta inutilizzabilità in direzione di ciò che si è perduto.


la Repubblica, 7 maggio 1982

«Orlando Innamorato». Nelle nebbie della finzione, indefinitamente (Niccolò Scaffai)

Matteo Maria Boiardo
«L'Innamorato è un racconto che non finisce, perché non può finire». È una frase, sorprendente e enigmatica, che ho sentito una volta da Marco Praloran, trai massimi esperti di poema cavalleresco, in occasione dell'uscita dei suoi ultimi studi su Boiardo e Ariosto (Le lingue del racconto, 2009). Lo diceva prima che la malattia gli impedisse di finire il suo, di racconto. È bello ora vedere come gli studi di Praloran sulla lingua e sull'organizzazione narrativa dell'Innamorato siano stato ben messi a frutto da Andrea Canova, nel nuovo commento al poema: Matteo Maria Boiardo, Orlando innamorato ((BUR, 2 volumi). Tra i punti forti dell'edizione, che ne raggiunge altre due in versione economica (una curata da Bruscagli, l'altra da Giuseppe Anceschi), ci sono appunto l'ampiezza dell'aggiornamento bibliografico e l'adozione (sia pur 'dialettica') del testo critico allestito da Antonia Tissoni Benvenuti e Cristina Montagnani (Ricciardi, 1999).
Come e perché la narrazione boiardesca non possa finire è uno dei tanti misteriosi paradossi che la rendono affascinante: non a caso, la ‘traduzione' contemporanea del poema (L'Orlando innamorato raccontato in prosa, 1994) la dobbiamo a un narratore - Gianni Celati - che più di ogni altro sa come avanzare per i campi sconfinati e le nebbie illusionistiche della finzione. Ma anche su altri aspetti del poema, legati per esempio alla sua storia compositiva, restano dubbi più o meno consistenti. «Innanzitutto - spiega Canova nell'ottima Introduzione- non è affatto chiaro quando il poeta iniziasse la composizione del suo capolavoro»: intorno al 1476, come vuole l'ipotesi più diffusa, quando cioè Boiardo aveva già concluso il suo canzoniere (gli Amorum libri tres), o circa un decennio prima? Controversa è anche la cronologia relativa dei primi due libri, resa difficile dalla combinazione di due fattori: la penuria di diretti riferimenti a fatti storici e la lunga durata che la stesura del poema deve aver richiesto. Per non parlare dei rapporti con un altro campione del genere, il Morgante di Pulci, vexata quaestio che ha opposto studiosi illustri e su cui Canova fa il punto con autorevolezza.
Ma l'incertezza più significativa e vistosa è quella che ci coglie alle soglie del racconto: qual è infatti il vero titolo del capolavoro di Boiardo? L'edizione porta una doppia titolazione, aggiungendo il più corretto L’inamoramento di Orlando (presente in quasi tutti i documenti antichi e definitivamente riaccreditato proprio dall'edizione ricciardiana) al tradizionale Orlando innamorato (pure attestato nelle rubriche che precedono il secondo e il terzo libro).
Dal punto di vista di noi contemporanei, quella del titolo non è solo questione da eruditi, ma la forma concreta di due diverse posizioni ideali, entrambe legittime, rispetto alla letteratura: la consuetudine e la filologia. Servono tutte e due, per riconoscere e amare un classico. La consuetudine è quella dei lettori assuefatti all'Innamorato, tanto come opera a sé quanto come 'primo tempo' di una storia compiuta nel Furioso (anche di qui il calco di un titolo sull'altro, l'inevitabile influenza dell'opera più recente e importante che stinge su quella più antica). Una specie di familiarità di cui ha parlato ancora Celati, nella premessa al suo Orlando in prosa: «in Boiardo troviamo quel senso della lingua nativa che avevamo da bambini, quando non c'era differenza tra italiano e dialetto... qualcosa che mi riporta sempre alle emozioni della vita in famiglia».
La filologia, invece, è quella dei lettori specializzati, che hanno il compito e il merito di collocare l'opera sulla base delle coordinate più attendibili, chiarendo per esempio che «osservare L'inamoramento de Orlando dalla specola dell'Orlando furioso» non è tanto corretto quanto lo è «riprodurre lo sguardo di un poeta e dei suoi lettori di fronte al romanzo cavalleresco tra gli anni Sessanta e Settanta del Quattrocento». Il tempo, la storia valgono per entrambe le categorie di lettori, ma il moto degli uni e quello degli altri, pur oscillando sempre tra passato e futuro, non procede nella stessa direzione. Viene da pensare all'erranza degli stessi paladini boiardeschi e ariosteschi o, ancora di più, alla complessa temporalità dei poemi in cui il gioco degli incastri tra le vicende dei diversi personaggi crea l'effetto di un tempo che, nel progredire, sembra invece scorrere all'indietro. Del resto, è lo stesso Boiardo a consentire, nel finale del poema, che l'urgenza del presente irrompa nel passato assoluto dei cavalieri: «Mentre che io canto, o Dio redemptore, / Vedo la Italia tutta a fiamma e a foco / Per questi Galli, che con gran valore / Vengon per disertar non sciò che loco». Il riferimento è alla discesa di Carlo VIII in Italia ( 1494), che offre al poeta una conclusione provvisoria, lo spunto per un memorabile decoupage narrativo. In un certo senso, se «contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo» (Agamben), perfino Boiardo è anche un autore ‘contemporaneo'.
Tra i meriti di Canova c'è quello di aver conciliato le due prospettive, fin nella scelta del testo da proporre: il modello, come si è detto, è quello di Tissoni Benvenuti-Montagnani, da cui Canova però si discosta, facendo «qualche concessione alla norma attuale per semplificare il compito» ai lettori che non conoscono gli usi grafici degli incunaboli settentrionali. Inoltre, dove la tradizione lo permetteva, Canova restituisce un assetto regolare ai versi irregolari o anomali accolti nel testo critico. Rischi calcolati o, se vogliamo, arbitri ben temperati da un guadagno in termini di leggibilità da cui un'edizione divulgativa non può prescindere.
Anche il commento è ispirato a un analogo criterio di equilibrio, costruito com'è da un lato per non prevaricare l'opera imponendogli il peso di una struttura interpretativa specialistica; dall'altro perché il piacere ingenuo della lettura si concili con il primo diritto-dovere che vincola il commentatore al lettore: la comprensione letterale del testo. Preceduti da un cappello introduttivo che funziona come sommario e mappa narrativa delle vicende, i vari canti sono infatti annotati, a piè di pagina, con discrezione interpretativa e puntualità esplicativa (a vantaggio, per esempio, degli studenti di un corso universitario). Puntualità che, talvolta, confina con l'eccesso di zelo: utili le note che danno conto delle differenze morfologiche tra le parole di Boiardo e gli equivalenti toscani, ben calibrate le parafrasi, ma superflue certe chiose. È necessario spiegare 'Levante' con 'Oriente', o 'soffire' con 'sopportare'? Non saprei, ma certo è un segno di sfiducia - non sempre immotivata- nelle risorse dei destinatari, che meriterebbe altrove una riflessione sullo stato della lingua e sui mezzi per insegnarla. D'altra parte, qualche riscontro intertestuale in più non avrebbe stonato nell'insieme, anche per dare il senso della dialettica culturale e linguistica che agisce dentro il poema cavalleresco. Una dialettica che coinvolge, ora con intenzioni allusive ora in un più generico rapporto di interdiscorsività tanto la tradizione quanto l'eredità che l’Innamorato trasmette agli ultimi capolavori del genere letterario. Nella possibilità di riconoscere tali rapporti sta una parte del piacere e del divertimento. E sta anche una delle ragioni per le quali il poema non finito di Boiardo è davvero un racconto senza fine.


“Alias domenica – il manifesto”, 4 marzo 2012

Ludolinguistica. Fantalingue contro la stupidità. Un libro di Monica Longobardi (Paolo Lago)

Monica Longobardi
Non sono tanti i libri che, a una rapida occhiata, sùbito ti danno la sensazione di essere penetrato in un vicolo nascosto pieno di piccole e sorprendenti magie. L’ultimo saggio di Monica Longobardi, filologa romanza e provenzalista, Vanvere (Carocci, pp. 255, €19,00) è sicuramente uno di questi: il lettore, non appena inizia a leggerlo o a sfogliarlo, viene come proiettato dentro una sorta di «paese delle meraviglie» della parola, della lingua e della letteratura.
Lasciamo che ci prenda per mano, allora, la verve fantalinguistica e genialoide dell’autrice (che è anche colei che, recentemente, ha creato una vitalissima traduzione a pastiche del Satyricon di Petronio). Il primo capitolo, dedicato alle «invenzioni», ci dischiude l’universo delle lingue inventate, a partire dal camuffamento del linguaggio, come, ad esempio, inserire tra una sillaba e l’altra una vocale o un nesso «vocale + consonante», fino ad arrivare ai travestimenti dei nomi e delle trame di film famosi come Saldate il soldato Ryan o Tittanic. Il punto forte del secondo capitolo, «Bricolage», ci appare subito lo spazio dedicato alla cucina e in particolar modo alle «ricette scombinate e andate a male», fra le quali spiccano quelle di un Esperto livornese (alias il virtuoso Federico Maria Sardelli) tratte dalle pagine del Vernacoliere (vediamo, ad esempio, gli «orsi alla bourguignonne»: «Si procede come per le chiocciole, ma invece delle chiocciole si prenda una dozzina d’orsi […]per dodici orsi io mi terrei su una presa scarsa di pepino») e i menu anagrammati di Giuseppe Riva (valgano per tutti, l’antipasto assortito al buffet che diventa un «paffuto ratto stalinista» e lo «sformato di spinaci» che si trasforma in una «formica indisposta»). Il terzo capitolo, «Suoni», è dedicato appunto alla magia del suono delle parole e dell’invenzione che, da questi suoni, possiamo trarre, passando attraverso i giochi oulipiani e quelli di Queneau, i testi degli Skiantos e le poesie di Montale, per approdare a traduzioni – inventate of course – da lingue a loro volta inventate fino a testi in lingue sconosciute. Il vivace volume si chiude con un capitolo dedicato ai «cloni», cioè ai travestimenti burleschi di opere serie e soprattutto di intere parti della Commedia dantesca nonché di sonetti dello stesso sommo poeta.
Non soltanto vengono realizzati i travestimenti – appartenenti alla serie «Erotopaegnia Romanica» curata dal filologo Alfonso D’Agostino e raccolti dall’autrice – ma anche apparati critici e commenti in chiave ‘seria’ ed erudita agli stessi, come nel caso del sonetto Ringo, i’ vorrei che nui e Django e Tex; seguono attualizzazioni-divertissement di varie parti dell’Inferno e creazioni di poesie e testi in stile burchiellesco e rabelaisiano. Tutto questo giocare, tutto questo divertirsi con le parole e con la letteratura ‘alta’ potrebbe apparire gratuito ma, come afferma l’autrice, «il nostro presente e la scuola che si vuole sono alquanto sordi al divertimento intellettuale, vestendo piuttosto il doppiopetto affaristico e funzionale, quello che un tempo si chiamava più modestamente avviamento al lavoro». La Longobardi, creando questo piccolo mondo incantato e conducendoci attraverso il gioco, la fantasia e l’intelligenza, crea una vivace alternativa al grigiore e alla piattezza di ciò che è funzionale, di ciò che è banalmente ‘utile’. E al giorno d’oggi di questa alternativa ce n’è davvero bisogno: un tassello in più contro la stupidità che ci circonda ogni dove.

alias domenica - il manifesto, 4 marzo 2012

27.2.17

La poesia del lunedì. Alfonso Gatto (1909- 1976)

Il sigaro di fuoco
Nel mondo l'uomo che guarda il lavoro
degli altri, e tutto dice e nulla sa,
in piedi con la sua catena d'oro ...

Nel mondo l'uomo che guarda il lavoro
degli altri, e tutto chiede e nulla dà,
in piedi con un sigaro di fuoco …

Ma tu bambino sai anche per poco
com'è contento un operaio, avrà
dentro le mani il filo del suo gioco,
la dolce lena dei volani, il canto …


da Il sigaro di fuoco, Bompiani, 1945

26.2.17

Autobiografie. Lillian Hellman: oggi ho sposato un Mito (Oreste del Buono)

Ritrovo fra le mie carte il ritaglio della vecchia recensione che qui riprendo e la recensione, opera di una persona affidabile come Oreste Del Buono, mi dice che ho perso molto nel non aver acquistato e letto questo libro quando uscì, nei primi anni 80.
Da una ricerca in rete non mi risultano ristampe; in compenso ho potuto ordinare il libro per posta elettronica. Sono dunque in attesa di riceverlo. Cercherò – anche attraverso la lettura che mi figuro piacevole e coinvolgente – una spiegazione del mancato successo italiano del libro. (S.L.L.)
Lilian Hellman e Dashiell Hammett
Curiosa sorte editoriale, quella qui da noi di Lillian Hellman, la «donna dell’uomo ombra». Della tetralogia per così dire autobiografica che la famosa commediografa di Piccole volpi ha cominciato a pubblicare a partire dal 1969, abbiamo avuto, tradotti prima, il secondo e il terzo pezzo, Pentimento (1973) e Scoundrel Time (1976), uniti da Adelphi sotto il titolo cumulativo Pentimento e il tempo dei furfanti (1978). Poi abbiamo avuto il quarto pezzo, May be (1980), proposto dagli Editori Riuniti sotto il titolo Una donna segreta (1982) e solo in questi giorni abbiamo avuto il primo pezzo, il pezzo migliore di cui gli altri sono più o meno utili appendici, A Unfinished Woman (1969) che ancora gli Editori Riuniti ci hanno procurato sotto il titolo Una donna incompiuta (1983).
Questa volta, contrariamente a quella di Una donna segreta, si tratta anche di una buona traduzione (di Paola Campioli, ricordiamoceli, i nomi dei buoni traduttori, sempre rari). Quindi, il lettore italiano oggi ha tutte le opportunità di conoscere un’interprete e una testimone molto discussa e ulteriormente discutibile, ma preziosa, della cultura americana contemporanea e di conoscerla regolarmente dall’inizio: «Sono nata a New Orleans da Julia Newhouse di Demopolis, Alabama, che si era innamorata una volta per sempre di Max Hellman, i genitori del quale erano venuti a New Orleans durante l’immigrazione tedesca del 1845-1848 per mettere al mondo lui e le sue sorelle. La famiglia di mia madre, molto prima che io nascessi, aveva lasciato Demopolis per Cincinnati e poi New Orleans, entrambe città desiderabili, per tre ragazze da marito...».
L’inizio di Una donna incompiuta è quieto, liscio, scontato. Oddio, pare un’autobiografia delle solite, la solita infanzia di una gentildonna del Sud, con la balia negra e il resto. Ma, presto, Hellman tira fuori le unghie, si descrive come una bambina, prima ancora che una ragazza, ribelle, portata alla selvatichezza, aggressiva, una destinata a rompersi la testa o a romperla agli altri. Se non la testa le scatole. Un matrimonio sbagliato celebrato dopo la fine non proprio gloriosa di una carriera di redattrice editoriale a New York ha, comunque, il merito di portare Hellman a Hollywood, al seguito del marito Arthur Kober, agente teatrale, commediografo e sceneggiatore di successo. E a Hollywood Hellman incontra il Mito.
Il Mito si chiama Dashiell Hammett, è un gentiluomo del Sud che ha provato a campare facendo un mestiere non da gentiluomo, il poliziotto privato, e poi è diventato famoso, scrivendo romanzi d’azione come Il falcone maltese (1930) che gli ha meritato un contratto da sceneggiatore appunto a Hollywood, ma non ci si trova bene, e beve.
Anche Hellman non ci si trova bene, e beve. Il loro amore nasce tra una ciucca e l’altra. «Conobbi Dash quando io avevo ventiquattro anni e lui trentasei in un ristorante di Hollywood. La sbronza di cinque giorni aveva spiegazzato la sua bella faccia e l’alta, sottile figura era stanca e curva. So che discorremmo di T.S. Eliot, anche se non ricordo più cosa dicemmo, poi andammo a sederci nella sua auto e parlammo, l’uno all’altra e l’uno dell’altra, fino al mattino. Ci rivedemmo qualche settimana dopo e, in seguito, con qualche separazione, per il resto della sua vita e trent’anni della mia...».
Come si vive accanto a un Mito? Dipende dal carattere. Se anche avesse voluto essere un’avida profittatrice, Hellman non ce l’avrebbe fatta proprio per il suo carattere, un cattivo carattere, pessimo addirittura per irruenza, generosità, sventatezza, voglia perpetua di sfida. È vero che Hammett l’aiutò a scrivere la prima commedia L’ora dei bambini (e lei gliela dedicò nel 1934 come lui aveva dedicato a lei nel 1932 il romanzo L’uomo ombra).
Ma Hellman non fu succuba e, mentre Hammett declinava precocemente, andò mitizzandosi lei, diventò lei stessa un Mito, sbattendosi in Spagna durante la guerra civile e in Russia durante la seconda guerra mondiale, e neppure da giornalista, quasi neppure da intellettuale, ma piuttosto da compagna di viaggio appassionata e indocile, oh, quanto indocile, resistentissima oltre ogni fisica fragilità. Quando Hammett finì in carcere al tempo dei furfanti senatore Joseph Mc Carthy e giovane deputato Richard Nixon e la bufera politica si abbatté anche su di lei, Hellman tenne duro. E, all’uscita dal carcere, prese in cura il vecchio, sfinito, perduto amante, più «ombra» che «uomo».
Una donna incompiuta racconta questo e altro. Spiega perché Hellman, oltre che amata, sia odiata in patria. A odiarla più di tutti è un’altra scrittrice, un’altra donna mitica americana, Mary McCarthy, che non perde occasione per sminuirla a ogni costo, ma è addirittura un odio di famiglia: un suo marito, il pomposo critico Edmund Wilson, stroncò, infatti, ferocemente, Hammett nel 1944. Hellman si difende, figurarsi se non tiene duro, è una vera lotta di arpie. A una certa età, e Hellman è del 1905, McCarthy del 1912, le polemiche, specie tra donne, diventano laide (gli uomini, laidi, lo sono già dalla nascita, quindi non sono passibili di peggioramento). Tuttavia il mio cuore hammettiano non può non stare per la «donna dell uomo ombra». «Donna dell’uomo ombra» o «Uomo dell’inferno», come storpiava il suo cognome «Hellman», una delle sue serve negre? Questo libro che ci arriva in ritardo è bellissimo per furore e retorica. Sì, retorica: quando ci vuole, ci vuole.

L'EUROPEO/10 DICEMBRE 1983

J'accuse. Nel caso Dreyfus una chiave per capire il nostro presente (Claudio Vercelli)

C'è qualcosa di sinistramente attuale nelle tante pagine vergate da Emile Zola ai tempi dell'Affaire Dreyfus e che ci vengono ora riproposte, in una sistemazione definitiva, dalla casa editrice La Giuntina (L'affaire Dreyfus. La verità in cammino, pp. 230, euro 9,90). La vicenda è nota al punto da non richiedere d’essere richiamata se non per sommi capi. Nel 1894 un capitano d’artiglieria francese, Alfred Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi, finisce ai lavori forzati nell’Isola del diavolo, nella Guyana francese. Solo una intensa campagna di stampa, condotta dallo stesso Zola, permette di riabilitarlo, liberandolo dai ceppi e riconsegnandolo alla società civile. La quale, a onor del vero, da subito si era rivelata poco propensa a una pacata discussione, vivacizzando invece una diatriba che spaccò in due la nazione, tra sostenitori della colpevolezza e innocentisti.
L’oggetto del contendere era costituito soprattutto dall’origine ebraica dell’imputato. In un progressivo cortocircuito della comunicazione e del giudizio, la sua radice «etnica» era stata accostata all’accusa di tradimento e di cospirazione, traslando l’una nell’altra e viceversa, in una sorta di reciprocità immediata tra appartenenza di gruppo e propensione all’infedeltà. Le tensioni franco-prussiane, e le frustrazioni maturate dal paese, non da ultima la vicenda sanguinosa della Comune del 1871, non ancora digerita a distanza di una ventina d’anni, erano deflagrate in una miscela esplosiva nel momento in cui alcuni avevano ravvisato nell’identità dell’incolpevole militare il suggello di una colpa tanto antica quanto inemendabile.
La storia, in sé tristemente banale, era così destinata a segnare un solco profondissimo, che arriva fino ad oggi. Non a caso si fa risalire ad essa la radice dell’antisemitismo contemporaneo. Poste queste premesse, in quale modo la vicenda Dreyfus ci parla ancora e, non di meno, perché? In realtà la storia che travolge l’incolpevole militare, indifferente alla sua ascendenza ebraica, è una vera e propria cassetta degli attrezzi della modernità. Ci sono tanti elementi che si sarebbero incontrati successivamente, in molte altre vicende: il ruolo della stampa e della comunicazione nell’enfatizzare e nel guidare le reazioni della collettività; il concorso degli apparati pubblici nella stigmatizzazione razziale del «reprobo», sancendo il nesso tra ebraicità e condotta deviante; l’enfasi sulla dimensione del complotto, di cui Dreyfus sarebbe stato la punta di un ben più ampio iceberg, ancora sommerso; la necessità, sostenuta a pie’ sospinto dalla destra cattolica - alla ricerca di una precisa identità politica -, di provvedere a una pulizia sistematica del «corpo nazionale», infettato dalle troppe presenze straniere; la prassi di continuo depistamento attuata dalle autorità militari e l’acquiescenza di quelle politiche.
Sul versante ideologico, ciò che viene inoculata nell’opinione pubblica è la convinzione che la nazione, in sé «sana», sia minacciata da forze tanto potenti quanto irriconoscibili. Di lì a non molto i «Protocolli dei saggi anziani di Sion», artefatto della polizia politica zarista, sarebbero intervenuti a dare sostanza a questa percezione ondivaga e incerta, trasformandola in una solida teoria, politicamente spendibile: sono gli ebrei a tirare i sottili fili del destino mondiale e la liberazione collettiva passa, obbligatoriamente, attraverso l’identificazione e la neutralizzazione dei parassiti. La storia delle sofferenze dell’umanità si emenda attraverso una nuova forma di giustizia sociale, che non è quella che implica la redistribuzione della ricchezza ma lo smascheramento dei cospiratori che stanno alle spalle della Terza Repubblica.
A una lettura ingenua il dispositivo che la vicenda Dreyfus mette in moto, e le passioni che orchestra, esacerbandole ad arte potevano sembrare appartenere alla trivialità di un passato oramai superato dalla modernità. Quest’ultima, declinata positivisticamente come progressiva evoluzione, avrebbe infatti dovuto garantire l’emancipazione degli spiriti dalla barbarie dell’inconsapevolezza e dell’ignoranza. In realtà il caso del capitano francese è tutto fuorché un vuoto di coscienza, rivelando, nella dialettica delle sue diverse parti, una intrinseca razionalità, che bene si prestava alle esigenze di una società in mutamento accelerato quale quella francese di fine secolo. E di riflesso, di quelle europee e mediterranee, non da ultime le comunità nazionali degli imperi in decadenza, dall’austroungarico all’ottomano.
In questa ottica l’affaire Dreyfuss è parte del più ampio processo di metamorfosi ideologica del nazionalismo successivo all’età romantica, dove alla formulazione dell’idea che una nazione andasse costituendosi, come nel caso dei risorgimenti, attraverso l’inclusione degli individui, si era ora sostituito il principio della definizione dei confini materiali e culturali attraverso la selezione e l’esclusione. Il fantasma dell’ebreo errante, nomade ma sempre uguale a sé, capace di contaminare le società con le quali entra in contatto, che nella pubblicistica di quegli anni prende piede, alimentandosi sia del vecchio antigiudaismo di matrice cristiana che di nuove suggestioni, ridisegna la funzione sociale dell’antisemitismo. Il quale diventa uno dei fattori nella mobilitazione collettiva e nella costruzione di identità politiche. 
Coeva alle vicende che coinvolgono Dreyfus è, ad esempio, la traiettoria di Karl Lueger, carismatico borgomastro di Menna, noto per essere stato l’ispiratore politico di Hitler. Alla questione sociale, posta dal movimento operaio e dal mondo del lavoro, sempre più prossimo al transito verso la produzione di massa, subentrava l’incapsulamento delle istanze di giustizia collettiva all’interno di una logica etnica che avrebbe conosciuto molte fortune nei decenni successivi. Qualcosa ci induce a pensare che la potenza di tale manipolazione non sia tramontata, quanto meno a giudicare dall’«antica ferocia» che si annida dietro i razzismi contemporanei, al confronto con le metamorfosi dell’economia postfordista, in un clima di «eccezione» che livella qualsiasi tentativo mediazione. La storia non si ripete ma il cliché paranoide dimostra di avere una lunga durata.

“il manifesto”, 3 gennaio 2012

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