31.3.12

La morte, storia e destino (di Ernest Mandel)

L'economista belga Ernest Mandel (Francoforte sul Meno 1923 - Bruxelles 1995), teorico marxista e militante della Quarta Internazionale trotzkista, è noto a una piccola porzione di italiani. Negli anni 60 del secolo scorso, pubblicato da Samonà e Savelli, ebbe qualche circolazione un suo Trattato di economia marxista. Appassionato lettore di gialli, nel 1990 pubblicò una "storia sociale del romanzo poliziesco", da cui è tratta la riflessione che segue. (S.L.L.)
Ernest Mandel
Preoccuparsi della morte, un pensiero antico quanto l'umanità. La morte, come il lavoro, è il nostro ineluttabile destino. Ma si tratta di una fatalità naturale mediata da certe condizioni sociali, a loro volta determinate da particolari strutture socio-economiche. In larga misura, le cause e l'ora della morte dipendono dall'esistenza sociale. La mortalità infantile e la speranza di vita hanno subito nel corso della storia considerevoli mutamenti, e così è stato del modo di considerare la morte, delle idee relative alla morte. La storia sociale della morte costituisce una preziosa fonte d'informazione sulla storia sociale della vita.

da Delitti per diletto, Interno Giallo, Milano, 1990

Il detective secondo Raymond Chandler

Robert Mitchum nel ruolo di Philip Marlowe
Lungo queste sordide strade, un uomo deve arrischiarsi, un uomo senza compromessi, disinteressato, coraggioso. In questi tipi di storie, ecco cosa dev'essere il detective. Egli è l'eroe, il perno del romanzo. E necessario che sia un uomo completo, un uomo come gli altri eppure diverso dagli altri. Deve essere, per impiegare una formula abusata, un uomo d'onore per istinto, inevitabilmente, senza che ci pensi su e soprattutto senza che lo dica.

da La semplice arte del delitto, vol.I, Feltrinelli, Milano, 1980

30.3.12

"Il cul di Carolina". Erotico napoletano (di Maurizio Fratta)

Il mio caro amico e compagno Maurizio Fratta, napoletano verace e ingegno vivace, mi ha inviato qualche mese fa questa sua nota divertente e divertita di critica artistica e letteraria. La propongo – autorizzato – ai frequentatori del blog. (S.L.L.)
Nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli si conserva la Venere Callipigia, ovvero  "dal bel sedere": statua di mirabile fattura e di prorompente carica erotica.
La dea non si limita ad alzare la veste, il chitone, di più, volge il capo all'indietro nell' intento di rimirare anch'essa le proprie natiche perfette. Sicché,fatalmente,queste sono il vero baricentro della composizione; il punto su cui magnetizzato quasi da una forza misteriosa ed irresistibile,si posa lo sguardo di chi osserva. Hai voglia a dire che quella statua è, in ogni sua parte, uno straordinario compendio dell'ideale di bellezza muliebre: la verità è che quella statua è soprattutto il suo culo meraviglioso.
Al principio dell'Ottocento, re Ferdinando trasferì nel museo la collezione Farnese, della quale la Venere faceva parte, prima ospitata dalla reggia di Capodimonte. La sublime natura sensuale della statua era tale,che per un periodo se ne consigliò il trasloco per ragioni di pubblica decenza nella collezione segreta del museo, insieme ai reperti più dichiaratamente pornografici provenienti da Pompei. Ma,insomma, dovunque fosse, la si ammirava moltissimo, e su di essa si fantasticava.
E' in quel torno di anni che compare anonimo, a Napoli, un poemetto dall' icastico titolo: Culeide. Si tratta, almeno nella versione che è giunta fino a noi, e che si sa essere lacunosa, di quarantanove gradevolissime sestine scritte in un fresco italiano, con una naturalezza tale da avere accreditato per lungo tempo l'ipotesi che ne fosse l'autore il principe dei poeti "all' improvviso" dell'epoca, e cioè Gabriele Rossetti, ormai esule in Inghilterra. La questione non è mai stata davvero chiusa, anche se appare abbastanza convincente l'expertise di Antonio Palatucci il quale, sono ormai più di trent'anni, ascrisse l'operina al genio meno conosciuto di Raffaele Petra, marchese di Caccavone.

Non canterò di favolosi Numi
gli oracoli bugiardi, o di feroci
mentiti eroi le gesta ed i costumi,
le gloriose colpe o i casi atroci;
gli orrori o i sogni d'un'eta ferina
non vo' cantar:  ma il cul di Carolina.

Questo il "programma "del poemetto, così come viene esposto nella sestina inaugurale. Ed è un programma che viene perseguito fino in fondo con assoluta coerenza: ogni strofa, tra l'altro,termina allo stesso modo della prima, rafforzando l'idea di una specie di "tormentone", e dunque quella di una vera e propria ossessione erotica.
C'è anche un riferimento alla statuaria antica, quando il poeta dice:

Culo non v'è, né fuvvi  mai nel mondo
fra quanti più bei culi unqua fioriro,
più tornito, più vago e più Giocondo;
né fra le statue del Museo rimiro,
scavate là in Pompei, Stabia, e Resina,
simile un culo a quel di Carolina.

Ma la strofa che nel modo più mirabile s'accorda all' idea di questo erotismo panico, che procede nel golfo dagli umani al paesaggio e che da questo è ritrasmesso come in una specie di misteriosa irradiazione; il punto in cui la poesia plasticamente dipinge la bellezza di quelle natiche armoniose distinguendone il movimento nella serena luce meridiana del golfo, e ne fa un elemento essenziale del paesaggio, e in esso le immerge come in una composizione pittorica; il punto entusiasmante, insomma, viene alla sestina numero 17:

Come placida viene a lido l'onda
Quando lieve sul mar Zeffiro scherza,
che alla prima succede la seconda,
e questa torna e va a lambir la terza,
lieta d'un bacio al sen di Mergellina,
così movesi il cul di Carolina.

"I suppose" (di Salvatore Lo Leggio)

E' visibile sui muri di diverse città italiane un manifesto con l'immagine di un tenero agnellino sbaciucchiato da una candida madre e con una grossa, rossa macchia di sangue. A grandi caratteri vi si legge: "Buona Pasqua a chi non si macchierà del mio sangue". Se ne trovano parecchi a Perugia, in varie parti della città, e ce n'era uno, forse un po' abusivo, incollato con lo scotch alla Cupa, ai piedi della scala mobile che porta in via dei Priori, non lontano dalla fermata del Minimetrò.
L'ho letto superficialmente: sconsiglia vivamente l'uccisione a fini alimentari di animali e il consumo della carne: non solo degli agnelli, tanto apprezzati a Pasqua, ma di tutti gli animali.   
Lunedì scorso un giovanotto magro col giubotto in pelle (un  trentino - direbbe Montalbano) ch'era venti metri davanti a me, entrando nella scala mobile, ha acchiappato il manifesto, lo ha con violenza strappato dal muro e con altrettanta violenza lo ha fatto a brandelli. A me mangiare carne d'agnello non dispiace affatto, e non ci rinuncerò neanche nella Pasqua che sta arrivando, ma mi è sembrato che in quel gesto vi fosse un eccesso d'odio, un di più di concitazione. 
Ho accelerato il passo e ho raggiunto il tipo all'altezza di via Pellini. Gli ho detto: "E' macellaio, suppongo". M'ha risposto: "Io no, mio padre è macellaio". C'ero andato molto vicino.

29.3.12

Per Pio La Torre (un mio ricordo e un’intervista a Giacomo Cagnes)

Ricorrerà il 30 aprile prossimo il trentesimo anniversario della morte di Pio La Torre, ucciso dalla mafia nel vivo di una durissima battaglia politica contro l'istallazione dei missili a Comiso. Ho postato qui, dal sito di “Terre Libere”, ampi stralci di un'intervista del 2002, di Leonardo Mazzeo a Giacomo Cagnes, esponente comunista siciliano di primo piano e a lungo sindaco di Comiso, il quale, secondo il proprio punto di vista, racconta Pio La Torre. Non tutto collima con i miei personali ricordi, ma l'immagine del segretario del Pci ucciso dalla mafia ne esce fuori nitida e sono valorizzati quanto si deve il suo rigore morale e il suo vigore intellettuale. Forse andrebbero valorizzate le sue qualità pedagogico-oratorie.

Anni Cinquanta. Pio La Torre, segretario della Camera del
Lavoro di Palermo dirige la riunione della Federbraccianti

Ricordo un comizio, a Campobello di Licata, il mio paese natale che aveva una forte connotazione bracciantile, tutto giocato a contrastare il detto "Munnu a statu e munnu è". Pio ragionava e infondeva speranza. Era il 65, o il 66, e in Sicilia il Pci soffriva molto per lo sbracamento interclassista e sicilianista del milazzismo e il fallimento politico dell’operazione voluta e condotta da Macaluso. La Torre parlava della mafia, dei contadini vietnamiti, dell'acqua, della possibilità di un'industria collegata all'agricoltura; mescolava le esperienze concrete con le aspirazioni materiali e ideali; convinceva e incoraggiava. Vedevi le facce distendersi, quasi arrivassero alla conclusione che il mondo poteva e doveva essere cambiato; e che, con l'impegno di tutti, sarebbe cambiato. E’ un ricordo intenso che tuttora mi commuove: c’era qualcosa di profondo, da mistero religioso, in quel semplice rito scandito dalle parole di tutti i giorni, da tutti immediatamente comprensibili, da argomentazioni rigorose capaci di tenere unite le sofferenze di quei braccianti, l’emigrazione dei loro figli e l’eroica resistenza del Vietnam. Forse il segreto di quella oratoria era “la semplicità difficile da farsi”, che Bertolt Brecht amava, identificandola con il comunismo.

Pio La Torre a Palermo ricorda Giuseppe Di Vittorio.
A sinistra la gloriosa bandiera della FIOM

LA TORRE, COMISO E I COMUNISTI DI SICILIA

Intervista a Giacomo Cagnes (1924 – 2005)
Un ricordo sofferto quello dell'on. Giacomo Cagnes, figura storica del movimento antinucleare siciliano, già sindaco della città di Comiso ed ex deputato PCI all'Assemblea Regionale Siciliana. Lui, Pio La Torre lo ha conosciuto sin dal dopoguerra, negli anni delle grandi occupazioni contadine dei latifondi, condividendone l'impegno nel Partito Comunista per l'Autonomia dell'Isola, contro la borghesia agraria in odor di mafia. Poi, trent'anni dopo, il reincontro, ancora in Sicilia, per lanciare la stagione di mobilitazione popolare contro l'installazione dei missili nucleari a Comiso e il processo di militarizzazione della regione. Una stagione breve ma intensa, un importante momento di cambiamento e rivitalizzazione del PCI siciliano. Per l'on. Cagnes non ci sono dubbi: quello di Pio La Torre fu un omicidio politico-mafioso, pianificato a livello internazionale. Un atto criminale che impedì l'affermazione del processo di democratizzazione e di sviluppo politico-sociale della Sicilia avviato con le campagne di massa contro i missili e contro la mafia. Un omicidio che indubbiamente favorì la restaurazione dei gruppi di potere moderati alla guida del partito comunista siciliano.

Palermo Politeama Novembre 81. Manifestazione sindacale 
per la Pace. Si riconoscono Pio La Torre e Luciano Lama.
Giacomo, siamo a vent'anni dall'assassinio di Pio La Torre. Si è parlato di omicidio eccellente, omicidio politico-mafioso, ma ciò nonostante siamo ancora lontani dal comprendere le reali identità dei mandanti e le connivenze di certi settori istituzionali.
Pio La Torre sapeva di dover morire. Anche se non lo manifestava pubblicamente, aveva paura di essere nel mirino della mafia. Me lo disse Pancrazio De Pasquale. “Pio, riceveva continuamente telefonate mute, un paio di volte arrivarono a minacciarlo di morte, sempre telefonicamente”. Nessuno gli disse mai chi era, ma lui sapeva benissimo che era la mafia. Quando fu assassinato una parte della stampa e una parte degli inquirenti sospettarono che l'omicidio fosse stato, se non proprio materialmente compiuto, inspirato da una parte del Pci. Sono fantasie, che drammatizzano gli scontri politici duri esistenti nel Pci. La Torre è stato una vittima della mafia e su questo non ci possono essere dubbi, perché per tutta la sua vita questo problema lo affrontò quasi come fosse un fatto personale. Quando l'uccisero, era reduce da una legge che aveva presentato ed era riuscito a far passare per cui la magistratura veniva autorizzata a confiscare i beni ai mafiosi. Lui aveva toccato gli interessi forti della mafia. Da qui la reazione violenta e definitiva.

Ma che idea ti sei fatto dell'omicidio di Pio La Torre?
Quando penso all'omicidio di Pio, non posso non pensare a quello di Pier Santi Mattarella. Quanto ho pianto sulla sua bara !! Qualche settimana prima che lo assassinassero, mi aveva fatto una confidenza. Egli sapeva che il padre aveva avuto rapporti con la mafia, ma era convinto che fosse stato utilizzato dalla mafia come fiore all'occhiello, come garanzia di rispettabilità, ma che in nessun modo avesse avuto un ruolo diretto all'interno della criminalità. Sentiva il bisogno, però, di riscattare l'immagine negativa del padre e di conseguenza il proprio nome e la propria immagine. Mi disse: “Giacomo, sto per fare pulizia, sto seguendo tre filoni d'indagine, se li porto a termine, il botto sarà grande . . . . ”. Poi si pentì della confidenza e mi pregò di non riferirla a nessuno, soprattutto nel mio partito. Per paura che la notizia venisse strumentalizzata. Ma la notizia i “soliti noti” l'avevano saputa lo stesso. Nella Democrazia Cristiana l'assassinio bloccò qualsiasi processo di cambiamento all'interno e nella gestione della sua politica regionale.

Vuoi dire allora che qualcosa di simile è accaduto qualche mese dopo con l'assassinio di Pio La Torre. . .
Sì, chi ha deciso l'eliminazione, aveva una fine capacità di lettura politica degli equilibri e delle dialettiche interne di questi due partiti di massa. Al di là dei motivi di prima lettura (per Pio l'eliminazione di un uomo testardo e pericoloso e per Pier Santi l'eliminazione di un Presidente della Regione determinato a riscattare la onorabilità della sua famiglia) c'era un obbiettivo più ampio e di più lunga distanza: bloccare un pericoloso cambiamento nei due partiti di massa della loro politica. L'appoggio esterno del Pci al governo Mattarella era stato un precedente preoccupante per i suoi ipotetici sviluppi. Ho seri dubbi che la mafia locale possedesse tanta intelligenza politica di percepire che la eliminazione dei vertici dei due partiti di massa potesse avere come conseguenza immobilismi e ritardi politici di lunga distanza.

Dicevi della capacità di lettura, di analisi politica dei mandanti di questi due omicidi. Pensi cioè che la mafia abbia avuto principalmente un ruolo di esecutrice e che esistevano altri soggetti dietro la morte di La Torre e Mattarella?
Credo che sia spontaneo pensare questo. Io ho pensato sempre ai servizi segreti. Quelli definiti impropriamente come deviati, legati alla P2 di Licio Gelli? Si, ma anche e soprattutto a quelli americani, gli unici realmente capaci di poter leggere la complessità dei sistemi e delineare nuovi scenari politico-sociali. La grande mafia americana aveva una sua particolare vocazione alla regia di settori della politica siciliana ed italiana.

Enrico Berlinguer insieme ad altri dirigenti comunisti
nella camera ardente per Pio La Torre  e Rosario Di Salvo
La Torre fu assassinato e di certo all'interno del PCI siciliano non si è fatto molto per valorizzarne il suo estremo sacrificio e tenere viva la memoria del suo impegno di lotta per la pace e contro la mafia.
C'è una questione che mi preme dire: il ritardo della costituzione di parte civile del partito al processo contro gli esecutori dell'omicidio. Essa avvenne molto, molto in ritardo. Penso che sarebbe avvenuta comunque, ma è certo che alcuni di noi, io, Pancrazio De Pasquale, altri, abbiamo fatto il diavolo a quattro, perché non comprendevamo il perché non si depositasse la costituzione di parte civile... Tutto questo per uno storico non serio o di parte può significare la spia di un partito comunista spaccato, di un partito comunista collegato alla borghesia mafiosa. Non è certamente così. Ma è certo che ci fu realmente un processo di diversificazione, all'interno del Partito, della linea politica e di governo nella regione siciliana. Sulle scelte politiche di governo non ci fu certamente unanimità.

Che immagine conservi del Pio La Torre comunista?
Pio La Torre appariva come l'uomo di partito, il praticone della politica. Non si teneva nel giusto conto la sua attività intellettuale attraverso i suoi libri, la sua attività giornalistica. Pio scriveva sempre, pubblicava libri, leggeva molto. Una donna, la Saladino scrisse un libro, Sicilia terra di rapina. Bisognerebbe leggere e ripubblicare la recensione che ha fatto di quel libro La Torre perché esprime tutta la sua concezione della Sicilia, dal tempo del separatismo, sino al milazzismo e agli anni antecedenti la sua morte. Pio La Torre, cioè, è stato un intellettuale. Egli è una delle grandi figure della storia siciliana, una delle poche, che dovrebbe essere studiata nella scuola. Senza di lui non è possibile capire bene la dialettica delle lotte sociali in Sicilia, e il loro odierno arretramento.

E del La Torre uomo?
Pio era un uomo dal punto di vista umano molto singolare. Chi lo conobbe direttamente, penso a Pancrazio De Pasquale, a cui era molto legato, nonostante fossero personalità abbastanza diverse, diceva che La Torre non aveva altri palpiti umani oltre la politica. La categoria A, superiore a tutto, agli affetti, alle donne, era la politica e nella politica la lotta contro la mafia. Una fissazione a tal punto, quest'ultima, che quando venne a Palermo, il maggiore latinista italiano, Concetto Marchesi, lui a Piazza Politeama lo interruppe durante il comizio per far sentire a tutti che la sua convinzione era che il sindacalista socialista Salvatore Carnevale era stato ucciso dalla mafia, chiedendo a Marchesi di intervenire con la sua autorità di grande intellettuale, perché si denunciasse la mafia come autrice dell'omicidio.

Con la decisione del governo italiano d'installare i Cruise in Sicilia, all''ossessione' della lotta alla mafia si aggiunge l'impegno, il protagonismo, nel movimento antinucleare.
Si lanciò anima e corpo nel pacifismo, diversamente dal resto del partito comunista che partecipò nel movimento pacifista in Sicilia, così, come una presenza formale, senza sostanziarla di scelte ed iniziative. E' stato ucciso tre giorni prima di un comizio che avrebbe dovuto tenere a Comiso, mentre alcuni di noi facevamo lo sciopero della fame. Ricordo che venne, qualche giorno prima, a trovarci in Municipio, per chiederci di smettere lo sciopero della fame e ci invitò a salire sul palco con lui per il comizio. Rifiutammo, anche perché metà dei partecipanti allo sciopero della fame non era comunista e non avrebbero capito l'iniziativa. Glielo abbiamo detto, lui capì e ci disse “ci vedremo domenica”. Per lui non ci fu la domenica, perché venne barbaramente assassinato a Palermo.

Il PCI del dopo La Torre non fu lo stesso del breve periodo della sua segreteria regionale nella battaglia contro i missili a Comiso.
La Torre fu instancabile nel mobilitare le sezioni del PCI contro i Cruise. Dopo la sua morte i dirigenti regionali, tranne pochissime eccezioni, preferirono defilarsi dalla lotta di Comiso, pur continuando a dichiarare formalmente fedeltà all'impegno pacifista. Anzi, non mancarono le resistenze nei confronti del movimento e degli stessi compagni del PCI che avevano continuato nel loro impegno.

E’ possibile riconoscere nella storia del Pci regionale[ …] fratture profonde tra diverse fasi?
Non ci sono rotture. Ci sono differenziazioni molto nette. Perché la concezione del partito, che esisteva allora, non ammetteva possibilità di rotture… Nel corso degli anni della vita di La Torre, io credo ci siano stati tre periodi. Il primo periodo è quello dopo la Liberazione, in cui il partito comunista non aveva un grande peso nella politica...  Il partito comunista, in questa situazione aveva un ruolo di classe, in particolare di tipo contadino. Pio La Torre ne fu combattivo sostenitore. Nel 1950 venne arrestato per l'occupazione delle terre a Bisaquino e resta in carcere la bellezza di 18 mesi, senza poter incontrare la madre, che era malata. La madre muore, e non gli permettono di andare ai suoi funerali. Gli nasce un bambino, gli permettono di vederlo, ma senza la moglie. Quello che denunciò con forza la questione di questa lunga carcerazione fu il compagno Bufalini, recentemente scomparso. Sollevò ufficialmente il problema della liberazione di La Torre, ponendo la questione in tutte le sedi e in maniera netta: “O lo processate e lo giudicate colpevole o lo tirate fuori”. Si fa il processo e Pio fu condannato a 4 mesi, quando ne aveva già trascorsi 18 in carcere. Da quel momento la sua lotta contro la mafia diventa quasi ossessiva. “La mafia è un cancro e non le si può accordare nemmeno un giorno di vita in più”, soleva dire.
Il secondo periodo è quello che io chiamo della stagione milazziana e che non si riferisce solo strettamente al governo regionale di Milazzo, ma che comprende anche le fasi antecedenti e successive a questo governo, gestito da un personaggio, comunque interessante, un galantuomo, un politico sincero. Il governo Milazzo venne fuori da una cultura politica che si era già sviluppata in Sicilia a vari livelli e che concretizzava un'alleanza, di fatto, fra una parte della sinistra, non tutta, perché in un primo tempo i socialisti non l'accettarono, fra il partito comunista e gli interessi che esso rappresentava (i contadini e una parte degli operai) e la proprietà contadina, media e alta. Un'alleanza con una dialettica interna rappresentata dal “conviene a me e conviene a te”. Tutto questo nel partito ebbe dei sostenitori forti, il più grosso dei quali fu Macaluso. Con la conseguenza di differenziazioni all'interno del partito e di una sua perdita d'identità. Pio La Torre non venne sostenuto all'interno del partito, nonostante non si fosse mai posto in netta contrapposizione al governo Milazzo. Lui sosteneva che il partito non poteva perdere la sua identità nel calderone del governo Milazzo e della sua alleanza, poiché gli interessi rappresentati dal PCI erano diversi dagli interessi rappresentati da Milazzo. Il lato positivo di questa alleanza era che permetteva al proletariato di far parte del Governo regionale in Sicilia.
L'arresto di Pio La Torre
Una posizione che fu tuttavia marginalizzata all'interno della dirigenza regionale.
Questo periodo non fu certo un periodo semplice, perché vide il contrasto tra le due fazioni, quella dei nostalgici del “milazzismo”, con Russo e Macaluso in testa, e, per certi aspetti, con la partecipazione del sindacalista Feliciano Rossitto, e il gruppo di Pio La Torre, che non diventò un grosso gruppo, principalmente per le sue caratteristiche umane. Pio non era capace, incontrandoti, di domandarti “come va?” o “come sta la tua famiglia?”. Non era capace di invitarti a prendere un caffè o ad andare a cena. Erano delle caratteristiche umane che impedivano che gli si avvicinassero in tanti. Questo suo rigore morale, questa sua ossessione nei confronti della mafia, conquistò tuttavia i vertici nazionali del partito. La Torre fu sostenuto dallo stesso Enrico Berlinguer… e da Pancrazio De Pasquale. Lui credeva nella tessitura della politica; fu così eletto deputato nazionale e lì a Roma preparò la sua tomba, quando fece passare la legge sulla confisca delle proprietà dei mafiosi condannati, un atto ben differente dalle solite mozioni che venivano approvate in Parlamento contro il fenomeno mafioso.

E' quello stesso gruppo dirigente che impone il ritorno in Sicilia di La Torre nel 1981?
Sì sono loro, Berlinguer, De Pasquale. . . Comunque il verbo imporre è inadatto. Il gruppo avverso, sì era potente, ma nulla poteva di fronte a questo rigore morale. Nessuno poteva dire no a La Torre e poi si veniva da forti sconfitte elettorali. Lui era un testardo e continuava a ripetere “voglio tornare in Sicilia”. E fu lui che convinse De Pasquale a dimettersi da deputato nazionale, per candidarsi in Sicilia e fare il capogruppo del Pci all'Assemblea Regionale Siciliana. Questo me lo disse Pancrazio che mi raccontò in che modo venne convinto. La Torre gli diceva: “Pancrazio, la corruzione morale” - dice morale, non materiale - “dentro il gruppo parlamentare comunista è insostenibile e deriva dalla stagione milazziana. Non è ormai possibile continuare su questa linea, anche se ciò ci garantisce alcuni poteri”. Pancrazio mi disse testualmente “io ormai non ne potevo più, mi chiamava una volta al giorno, tormentava mia moglie Simona”. La Torre era una specie di ariete. Alla fine De Pasquale venne a Palermo.

Le immagini sono riprese dal sito, assai ricco, del Centro Studi e Iniziative culturali Pio La Torre

28.3.12

Rufo e Nevia (Marziale, Epigrammi, I, 68 - traduzione S.L.L.)

Innamorati a Los Angeles. Foto di Henri Cartier-Bresson
Qualunque cosa stia facendo Rufo
per lui non c’è che Nevia.
Se gioisce, se piange, se sta zitto,
parla sempre di lei.
Cena e parla di Nevia,
brinda e parla di Nevia.
Chiede, nega, acconsente,
c’è sempre e solo lei:
sarebbe muto, se non esistesse.
Per augurare al padre luce e vita,
ieri Rufo scriveva: 
"Salve Nevia, mia luce, vita mia". 
Alle sue spalle Nevia
sbirciò e sorrise, abbassando il suo volto
per non farlo notare.
Matto, Nevia non è l'unica al mondo!
Perché vai delirando, poveruomo?

Testo latino
Quidquid agit Rufus, nihil est nisi Naevia Rufo.
Si gaudet, si flet, si tacet, hanc loquitur.
Cenat, propinat, poscit, negat, innuit: una est
Naevia; si non sit Naevia, mutus erit.
Scriberet hesterna patri cum luce salutem,
'Naevia lux' inquit 'Naevia lumen, have.'
Haec legit et ridet demisso Naevia voltu.
Naevia non una est: quid, vir inepte, furis?

Audacia 1950

1950, Porto Recanati. La ragazza della foto, la perugina Serenella Pilini, venne multata di cinquecento lire per il costume considerato troppo audace.

Da La memoria nei cassetti. Perugia 1944-1970, Futura, 2011

Passeri? Un'altra mia poesiola.


Sopra il fico nessuno,
troppe le foglie morte
e i frutti esacerbati,
ma sul platano in tanti a cinguettare.
Forse l’umidità.

Sensibili.
Se sbatte una persiana
all’unisono tacciono

Esteti. Il verso è tutto

Il treno traina. Una mia poesiola (S.L.L.)

Tradotta
Il treno traina,
la tradotta traduce,
ed il vagone, vago, s'invaghisce.

Ah, l'ironia smarrita onde si smaga
la vita insufficiente!

Un epigramma di amicizia, da Marziale, nella mia traduzione (S.L.L.)


A Fusco
Se trovi ancora spazio nel tuo cuore
- di qua, di là, dovunque hai amici -
ti chiedo un posticino, se rimane.
Se sono nuovo, non mi rifiutare:
tutti i tuoi vecchi amici erano nuovi.
Guarda solo chi nuovo si presenta,
potrebbe diventare un vecchio amico.

Si quid, Fusce, vacas adhuc amari
- Nam sunt hinc tibi, sunt et hinc amici -,
Unum, si superest, locum rogamus,
Nec me, quod tibi sim novus, recuses:
Omnes hoc veteres tui fuerunt.
Tu tantum inspice qui novus paratur
An possit fieri vetus sodalis.

Epigrammi, I, 54 -

27.3.12

Umbria. La Regione smemorata ("micropolis" marzo 2012)

La celebrazione di giornate dedicate alla rievocazione di tragedie collettive è attività prescritta come antidoto, di certo insufficiente, allo smarrimento della memoria storica tipico di un tempo di “vita liquida”. Alla Giornata della Memoria, dedicata al genocidio nazista di ebrei e zingari, ha così fatto seguito quella delle “foibe” (che meglio si chiamerebbe Giorno dell’Oblio, giacché ha lo scopo di far dimenticare gli orrendi crimini commessi in tante contrade slovene e croate dalle camicie nere di Mussolini e dall’esercito italiano invasore).
Altra cosa la giornata che Libera, l’associazione guidata da Ciotti, il prete torinese del Gruppo Abele, celebra da più di 10 anni all’inizio della primavera: ricordare le vittime delle mafie per Libera significa guardare a ciò che sta davanti a noi e cioè alla realtà di un nemico la cui potenza pervasiva facilmente interagisce col sistema politico e col potere economico ben oltre i territori d’origine.
Due anni fa la Regione Umbria, sollecitata da Libera, istituì per legge una giornata della memoria delle vittime di mafia, della legalità e dell’impegno per il 21 marzo: fu una scossa salutare, giacché anche qui si intravedevano presenze economiche inquietanti, ma molti preferivano chiudere gli occhi.
Nel 2011 la celebrazione fu abbastanza solenne e attenta alle infiltrazioni. Quest’anno niente di niente: la traduzione in atti della legge è in capo al Consiglio regionale e forse, in questo momento, parlare di legalità a Palazzo Cesaroni è come parlare di corda in casa dell’impiccato.
Intanto nel territorio regionale, a Foligno per la precisione, qualcosa il 21 marzo s’è mosso: su impulso dei giovanissimi del presidio cittadino di Libera, di fronte a scolaresche numerose e attente, prèsidi, insegnanti, amministratori locali, è stata intitolata una piazza a Rita Atria, testimone di giustizia portata a morte da Cosa Nostra.
Non c’era alcun rappresentante della Regione.
Per giustificare l’assenza, Paolo Brutti, presidente della Commissione del Consiglio Regionale sulle infiltrazioni mafiose, ne ha lamentato la sospensione dovuta a ragioni “che nulla hanno a che vedere con la natura e la missione di questo organo, legate agli equilibri politici tra maggioranza e minoranza”. Ha tentato lo scaricabarile: sarebbe mancata “un’azione lungimirante della Presidenza del Consiglio”. Niente in verità avrebbe impedito a Brutti d’essere presente a Foligno, da presidente o da “semplice” consigliere. La sua dichiarazione è la classica toppa peggiore del buco.

Su "micropolis" di marzo 2012 con il titolo Smemorata 

La poesia di lunedì 26 marzo 2012. Meleagro di Gadàra

La corona sul capo d'Eliodora appassisce,
ma splende essa! corona della corona sua!

Luigi Siciliani, Poeti erotici dell'Antologia palatina, Einaudi 1977

26.3.12

Il presidente Ciampi e il patriottismo (di Antonio Tabucchi)

“Il manifesto” del 22 gennaio 2004 aveva in prima un articolo di Antonio Tabucchi intitolato Disastri, una sorta di collazione di brevi commenti su alcuni disgraziate vicende italiane dell’epoca. Uno era dedicato a un discorso di qualche tempo prima del Presidente della Repubblica d’allora, Carlo Azeglio Ciampi, sui soldati italiani uccisi a Nassyria nel novembre 2003. Conviene rileggerlo per misurare la distanza tra la massa degli intellettuali ignavi o corrivi e uno scrittore che prende partito, si assume la responsabilità di parlare, ha il coraggio di criticare un Presidente della Repubblica popolare a sinistra e a destra e se ne assume tutte le responsabilità. La foto che correda questo post non è relativa al 2003, ma al 2 maggio 2006, dopo la morte in Iraq di altri 3 militari italiani. Il numero dei patrioti uccisi stava aumentando, come pure il numero dei “traditori” . (S.L.L.)
Il presidente della Repubblica nel suo discorso di fine anno ha detto che i soldati italiani massacrati a Nassyria sono dei patrioti. Che hanno dato la vita per la patria. Nessuno ha protestato. Il presidente della Repubblica non ha letto la Costituzione. O se l'ha letta con le sue parole l'ha tradita. I nostri soldati sono stati inviati a morire da un governo cinico e irresponsabile che ha agito senza mandato internazionale, al servizio dell'amministrazione Bush, di un paese in cui perfino il segretario di stato Powell riconosce che gli Stati uniti hanno fatto una guerra senza giustificazioni e dice: «non so perché». I nostri soldati in Iraq non dipendono dal ministro Martino, che nei paesi dell'Alleanza che ha invaso l'Iraq conta quanto il due di briscola. Dipendono dal ministero della difesa inglese. Prendono ordini dagli inglesi. Che li trattano come si sa gli inglesi trattano la gente del sud. Col disprezzo con cui David Niven trattava Alberto Sordi in un celebre film sulla seconda guerra mondiale. O peggio. Come Bossi tratta gli extracomunitari. Poveri patrioti. Perché il presidente della Repubblica invece di fare tanti discorsi non li va a trovare a Nassyria, visto che Berlusconi non ci è potuto andare a causa del suo lifting? E' troppo vecchio? Se ha fatto un viaggio recentemente per andare a trovare il presidente Bush può arrivare fino in Iraq, è più vicino.

25.3.12

Tabucchi collaboratore del "manifesto". Una lettera e la sua risposta.

Per qualche anno Antonio Tabucchi collaborò con “il manifesto”. Il 9 maggio del 2003 venne pubblicata dal “quotidiano comunista” la lettera di un antico militante della cultura (e della sinistra) su un caso a lui stesso accaduto, che chiedeva all’autore di Sostiene Pereira un commento al fatto. Riprendo qua la lettera del lettore (Giuseppe Morandi) e la risposta di Tabucchi per ricordare, nel dolore per la scomparsa l’intransigenza democratica e umanistica del compagno scrittore. (S.L.L.)
Antonio Tabucchi

Caro Antonio Tabucchi,
desidero metterti al corrente di un episodio avvenuto a Piadena il 28 dicembre 1999 di cui siamo stati protagonisti io stesso, il signor Gianfranco Azzali, la signora Anita Pini, agente di polizia municipale di Piadena, e la signora Jeu Chan, in seguito denominata, secondo gli atti del processo, la «donna orientale» o la «giovane asiatica». Io ti parlo da vecchio ariano, come sei tu, e come è ariano il dottor Vacchiano, giudice monocratico del Tribunale di Cremona che ci ha giudicato, e come è arianissima la signora Anita Pini, agente di polizia municipale di Piadena.
In breve i fatti.
Essendo entrato per caso nell'ufficio della signora Pini (io stesso sono un dipendente del Comune di Piadena) ho visto la signora Jeu Chan accasciata per terra, di fronte all'agente di polizia municipale, che usava nei suoi confronti atteggiamenti arroganti e irridenti. Trovando insopportabile un tale spettacolo, ho chiesto ragione all'agente di polizia municipale e ho provveduto a convocare, vicesindaco, assessori e consiglieri di maggioranza e minoranza.
Interpellata sul suo atteggiamento prevaricatorio e volgare nei confronti di una persona indifesa (si trattava di una cittadina extracomunitaria, che vendeva povere cose per strada, alla quale l'agente Pini aveva sequestrato la mercanzia, conducendola, a mio avviso abusivamente, nel suo ufficio) l'agente rispose che stava esercitando il suo potere e che ciò le procurava diletto.
Offeso nella mia dignità di uomo nel vedere una persona umiliata e offesa nella mia stessa città, tornato a casa ho redatto un manifesto, firmato Lega di Cultura di Piadena, di cui sono uno dei fondatori, a cui ho dato il titolo «La vigilessa si diverte» e che mi è costato una denuncia per diffamazione a mezzo stampa, seguita da una condanna pecuniaria di 600 euro, oltre al pagamento delle spese processuali e a risarcire alla parte civile (la vigilessa) 4.000 euro e alla rifusione di 1.000 euro per spese di costituzione e difesa, sentenziata dal giudice monocratico dottor Vacchiano.
Ti cito tra virgolette i passi incriminati nel mio manifesto: «nell'ufficio della vigilessa si sono presentati consiglieri comunali della maggioranza e minoranza consiliare per risolvere senza danno il problema della povera cinese, mentre la vigilessa rispondeva che ad eseguire in questa maniera il suo lavoro si divertiva. Bella umanità! Questo è razzismo bello e buono».
Ti cito altresì alcuni passi della motivazione della sentenza: «Nel caso specifico riguardante la giovane asiatica, i testimoni hanno negato che la sig.ra Pini abbia infierito nei suoi confronti o che le si sia rivolta con parole o toni sprezzanti; anche il semplice fatto che la ragazza si trovasse china a terra in posizione quasi fetale non significa di per sé che tale postura sia stata assunta per imposizione della vigilessa. Vi sono, al contrario, fondati elementi atti a confermare l'ipotesi secondo cui in siffatta posizione l'extracomunitaria si fosse posta volontariamente, denotando un atteggiamento di sottomissione e marcata deferenza, naturale e tipico dei costumi orientali; basti pensare che la teste Oneda ha dichiarato di aver fatto sedere su una sedia la giovane, ma il collega Torchio, entrato nella stanza pochi minuti dopo, ha affermato di averla trovata nuovamente accovacciata per terra con il capo chino.
Pertanto si desume che i libelli distribuiti dalla Lega di Cultura di Piadena debbano essere letti come volti a deformare e travisare un fatto determinato che di per sé può anche essere realmente accaduto, ma come ha riferito puntualmente chi vi assistette, certamente non nei termini in cui è stato ivi ricostruito».
Caro Tabucchi, su questa vicenda mi piacerebbe avere la tua opinione.
Giuseppe Morandi
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Caro Morandi,
in Italia non ci sono solo pini marittimi, ci sono soprattutto pini ariani. Magari di razza Piave. E giudici monocratici. Vedi, Morandi, la mononucleosi è una malattia infettiva che colpisce le cellule che non riescono a scaricare le scorie infettive sui tessuti destinati a questo scopo. Probabilmente una forte mononucleosi ha colpito il nostro Paese. Molte volte esso è vestito da tutta una serie di articoli del Codice, e i codici, come si sa, possono essere monolitici. Basta applicarli in un certo modo. Tu sai meglio di me che nel 1938 Vittorio Emanuele III firmò le «leggi razziali» secondo le quali i cittadini italiani di «razza ebraica» - allora si chiamavano così - non erano uomini come gli altri; e dunque meritavano un trattamento speciale. I giudici monocratici o mononucleari dell'epoca che le applicarono, non erano delle cattive persone, ubbidivano semplicemente al vento che spirava allora in Italia.
Che dire del giudice Vacchiano che ti ha condannato? Non direi mai che aderisce forse inconsapevolmente al vento che soffia sulla razza italica. No. Secondo me, egli è a suo modo un antropologo. Lo rilevo dalle diciture con cui definisce la signora Jeu Chan, chiamandola «giovane asiatica», «la donna orientale», e denotando una rara competenza scientifica sui costumi dei popoli che sono lontani dal nostro Paese. Egli sa che la signora Jeu Chan, accasciata a terra sotto l'atteggiamento arrogante della vigilessa, non si trovava nella condizione di una creatura umiliata, intimidita, impaurita dal burbero atteggiamento di un agente in divisa (la vigilessa). Sa che in «siffatta posizione», come egli dice, «la donna orientale» si era posta «volontariamente, denotando un atteggiamento di sottomissione e marcata deferenza, naturale e tipico dei costumi orientali». Quale profonda conoscenza dei popoli orientali dimostra il giudice monocratico!
Ultimamente, come saprai dai giornali, alcune agenzie di viaggio italiane organizzano escursioni in certi paesi dell'Oriente (di solito i più poveri) affinché bravi cittadini arianissimi di razza Piave, e non solo Piave, possano dare sfogo a certe loro libidini che sulle rive italiche non si possono esercitare. Vanno, costoro, e ben pagando; e là arrivando, negli Orienti, sottomettono, con la potente convinzione del dollaro (e euro che si voglia), delle giovani, dei giovani e spesso dei giovanissimi. E come si accucciano costoro, e quali atteggiamenti di sottomissione e marcata deferenza manifestano nei confronti del bravo occidentale visitatore! Secondo me il giudice Vacchiano ha studiato gli usi orientali sugli articoli e reportage pubblicati dai nostri quotidiani e settimanali.
Egli ha probabilmente esercitato la sua cultura antropologica appresa da questi testi per scrivere la sua sentenza. Naturalmente gli mancano alcuni capitoli, perché l'Oriente è grande, e il giudice Vacchiano usa il termine in maniera un po' spiccia. Perché come c'è Occidente e Occidente, c'è anche Oriente e Oriente. Vorrei ricordarti che durante l'ultimo conflitto mondiale, per un senso dell'onore incomprensibile a noi occidentali, i piloti giapponesi si buttavano sugli obiettivi nemici, facendosi esplodere con il proprio aereo. Da cui la parola «kamikaze». Non è propriamente un segno di sottomissione, tanto che gli americani, per risolvere il problema, dovettero lanciare due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.
Tu, che hai qualche anno di più di me, forse ricorderai l'episodio accaduto in Germania negli anni cinquanta a una donna italiana, quando noi italiani eravamo un popolo di emigranti. Quella donna, una lavoratrice, fu aggredita nel capannone dove lavorava dal caporeparto tedesco che tentò di violentarla (o la violentò, questo non lo ricordo). Al processo, il giudice assolse l'aggressore con la motivazione che le donne italiane, dati i lavori che tradizionalmente debbono svolgere nei campi (il giudice si riferisce alle mondine, forse aveva visto Riso amaro) assumono notoriamente posizioni corporee che possono risultare provocanti. E l'emigrante italiana, col danno subì la beffa e fu condannata a pagare le spese processuali: le donne italiane, all'epoca, stavano notoriamente piegate in due offrendo il proprio corpo ai passanti.
Vedi, caro Morandi, io temo che il mononucleare, voglio dire una mentalità monolitica che pensa che la propria civiltà sia l'unica del mondo, abbia come reazione il kamikaze. Perché, a suo modo, anche il monolita è un kamikaze. Anzi, il peggior kamikaze. Perciò auguro a te un diverso esito rispetto alle carte che mi hai fatto leggere. Carte che fanno gravi affermazioni: una delle quali è che tu «appartieni notoriamente alla Lega di Cultura di Piadena». Cosa vuol dire? E' una sorta di segnalazione come si usava in Italia nel ventennio? Oppure, cos'è? Perché, se ragioniamo con la sua mentalità, anche il giudice Vacchiano è «notoriamente» un giudice monocratico. E la signora Pini è «notoriamente» una vigilessa di Piadena. Se io dicessi questo, li indicherei forse come obiettivi di qualcosa o di qualcuno, in questa Italia in cui negli ultimi trent'anni tutti siamo stati nel mirino di qualcosa o di qualcuno, magari senza saperlo? Ma no. Auguriamoci che il giudice invece di guardare la televisione, che gli insegna un Oriente che non esiste e un Occidente che non c'è e invece di imparare l'antropologia dai giornali si iscriva, magari, nel tempo libero, a una istituzione culturale, dove possa imparare ancora tante cose sull'Oriente e sull'Occidente. Cose che gli permettano di scrivere frasi di altra competenza rispetto a quelle che ha sottoscritto nella sua sentenza.
Saluti e auguri.
Antonio Tabucchi

Petting

Anni 60. Ragazze e ragazzi a un quaresimale.
I ragazzi, anche quelli che l’inglese non lo masticano, usano tanti anglismi, che meglio si direbbero nord-americanismi per la loro origine; ma, parlando di sesso giovanile  con una diciassettenne emancipata, ho notato con sorpresa che ignorava cosa fosse il petting. “Tutto – le ho detto - tranne quella cosa”. Ha capito.
Il petting fu parola (e pratica) che ebbe tanto successo ai miei tempi, specie quando si parlava con le ragazze o le ragazze parlavano tra loro. Tra maschi siculi preferivamo “schiniari”. Di pomiciare non si parlava se non d’estate, quando tornavano gli emigrati dal continente. Ricordo due fratelli muratori, due giovanissimi galletti. Uno diceva: “Ogni sabato vado in balera a pomiciare”; l’altro lo rederguiva: “Gianni, sta zitto, chiudi il becco”.
Ho l’impressione che non solo il petting, ma tutto quel lessico sia un po' in disuso. Sono più numerose – credo - le teenagers (altro vocabolo di successo nei favolosi Sessanta) che danno un consapevole addio alla verginità, senza neppure far finta, come un tempo, che la cosa accada senza premeditazione. E ce ne sono ancora di quelle per cui “la verginità è un valore”, le cattoliche militanti per esempio, neocatecumenali, cielline o simili. Ho tuttavia l’impressione che, quando si acconciano a peccare, preferiscano un peccare duro e profondo a quello lieve e superficiale del petting. 

24.3.12

Ferguson e la superiorità dell'Occidente (di Riccardo De Sanctis)

L’articolo che segue, di Riccardo De Sanctis, dal “manifesto” del 12 gennaio 2011, è un bilancio critico dell’attività di uno storico di successo, lo scozzese Niall Ferguson, in occasione della pubblicazione (in lingua inglese) dell’ultimo suo libro Civilization: The West and the Rest (italiano Civiltà. L’occidente e il Resto del mondo). Nel caso di Ferguson più che di storiografia si dovrebbe parlare di “ideologia”: da molte sue opere, non a caso amatissime nelle ristrette oligarchie finanziarie che ancor oggi fanno il bello e il cattivo tempo, i dati storiografici sono piegati a sostegno di una tesi: la superiorità dell’Occidente, del suo capitalismo-imperialismo, rispetto ad ogni altra forma di civilizzazione. Con l’ardita postilla che legge il declino dell’Occidente come riprova della sua superiorità. La sugosa sintesi di De Sanctis mi pare utilissima non solo per una prima informazione sulle tesi di Ferguson, ma anche per comprendere il sostrato ideologico della “dittatura tecnocratico-finanziaria” che in Italia e in Grecia sta facendo le sue prime importanti prove e che, verosimilmente, si diffonderà come la peste o come, a suo tempo. il fascismo. (S.L.L.)
Niall Ferguson

Nel recente Civilization Niall Ferguson scrive che l'Occidente è in crisi, perché non crede più al proprio modello, che si rivela vincente in altre aree del mondo. Un'ottica neoimperialista, ribatte il saggista angloindiano Pankaj Mishra. È una vera e propria querelle - o per dirla all'inglese un feud - la polemica scoppiata sulle due rive dell'Atlantico in seguito all'uscita nel Regno Unito e negli Usa di Civilization: The West and the Rest dello storico britannico Niall Ferguson (in Italia sarà pubblicato nel 2012 da Mondadori). Consapevole di quanto può fare per la diffusione di un libro una pubblica controversia, Ferguson ha reagito alla pioggia di critiche che hanno sommerso il suo libro con un articolo sul «Wall Street Journal» (2021 The New Europe) nel quale immagina l'Europa fra dieci anni, prefigurando che la parte sud del continente, Italia compresa, sarà composta di cuochi e giardinieri per tedeschi e inglesi in vacanza. Una ulteriore provocazione che difficilmente farà cambiare idea a coloro i quali, come il romanziere e saggista indiano Pankaj Mishra, hanno definito senza mezzi termini «razzista» lo studioso scozzese (che ha minacciato per questo azioni legali).

Un set di istituzioni
Ormai da diversi anni Ferguson, docente a Harvard e alla London School of Economics (e marito dell'attivista olandese di origini somale Ayaan Hirsi Ali), ha allargato il campo dei suoi interessi fino a cimentarsi con concetti vastissimi come quello, appunto, di civiltà. Secondo lo storico, con la crisi attuale siamo arrivati alla fine di un predominio occidentale durato cinquecento anni - un modello i cui elementi principali sono il potere e la ricchezza e di conseguenza le strutture politiche, sociali ed economiche che li sostengono. Ma se l'occidente è in crisi - questo in sostanza l'assunto di Ferguson - il modello è vincente: «Quello che una volta caratterizzava l'Occidente non è più un nostro monopolio. I cinesi hanno il capitalismo. Gli iraniani hanno la scienza. I russi hanno la democrazia. Gli africani stanno (lentamente) acquisendo la medicina moderna. E i turchi hanno la società dei consumi... La civiltà occidentale è più di una cosa sola, è un pacchetto. È il pluralismo politico e il capitalismo; è libertà di pensiero e metodo scientifico; è l'amministrazione della legge e la democrazia».
Proprio questo pacchetto sarebbe per Ferguson il miglior «set» disponibile di istituzioni economiche, sociali e politiche. Il punto è se gli occidentali sono capaci di riconoscerne la superiorità: «La vera minaccia - scrive - non è nella crescita della Cina, dell'Islam o delle emissioni di Co2, ma nella nostra stessa mancanza di fede nella civiltà che abbiamo ereditato dai nostri antenati». E per dimostrare la ragionevolezza del suo assioma, lo storico porta a sostegno l'esplosione della civiltà occidentale negli ultimi cinquecento anni: «Nel 1500 le future potenze imperiali d'Europa occupavano circa il 10 per cento della superficie della terra e contavano al massimo il 16 per cento della sua popolazione totale. Nel 1913 undici potenze occidentali controllavano quasi i tre quinti dell'intero territorio e della popolazione mondiale e circa il 79 per cento dell' economia globale... Ogni anno che passa sempre più esseri umani fanno shopping come noi, studiano come noi, sono in buona (o cattiva) salute come noi e pregano (o non pregano) come noi».
Una lettura della storia estremamente semplificata (forse non è un caso che il libro sia nato in parallelo a una serie televisiva realizzata da Ferguson su questi temi) e che si scontra per esempio con quanto ha scritto Christopher Bayly, cattedra a Cambridge, uno dei maggiori esperti inglesi di storia coloniale, nel suo La nascita del mondo moderno 1780-1914 (Einaudi 2009). Secondo Bayly il dominio dell'Occidente comincia ad avere effetti solo a partire dal XIX secolo e naturalmente non è il risultato di una particolare «cultura» superiore rispetto a quella degli altri continenti, visto che - giusto per citare un solo esempio - alla fine del Settecento l'India e la Cina fabbricavano più manufatti e pubblicavano più giornali che Francia, Inghilterra, Italia e Germania.

Parabole discendenti
Autore di saggi letterari e politici come quelli raccolti nel volume La tentazione dell'occidente. India, Pakistan e dintorni, Guanda 2007), nei quali cerca di interpretare l'idea dell'Asia in tempi post-coloniali, Pankaj Mishra rivolge a Ferguson («homo atlanticus redux») critiche ampie e articolate in un articolo uscito sulla «London Review of Books». Quella di Ferguson - sostiene Mishra - è in sostanza una nozione di «civiltà» misurata solo sulla capacità di miglioramento della qualità materiale della vita. Una nozione del resto di cui si possono già trovare diverse tracce nelle opere precedenti dello storico scozzese.
In The pity of war del 1998 (tradotto in italiano per il Corbaccio nel 2002 con il titolo La verità taciuta. La prima guerra mondiale: il più grande errore della storia moderna), Ferguson attribuiva alla Gran Bretagna la responsabilità di avere dato avvio alla prima guerra mondiale, e individuava in quell'avvenimento l'inizio della parabola discendente per l'Impero britannico, sottovalutando, se non ignorando, il ruolo dei movimenti anticolonialisti in Asia. Nel successivo The Cash Nexus (Soldi e potere nel mondo moderno, 1700-2000, Ponte alle Grazie 2001) pubblicato pochi mesi dopo l'attacco terroristico dell'11 settembre, Ferguson sosteneva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto destinare una parte maggiore delle proprie risorse a rendere il mondo più sicuro per il capitalismo e la democrazia.

Il ruolo dell'impero
In Empire uscito in originale nel 2003, poco dopo l'invasione dell'Iraq (Impero: come la Gran Bretagna ha fatto il mondo moderno, Mondadori 2007), lo studioso affermava che gli Usa erano un impero incapace di riconoscersi come tale e che, volendo, avrebbero potuto esercitare lo stesso ruolo imperiale della Gran Bretagna nel XIX secolo. Infine, in Colossus: The Rise and Fall of the American Empire (2004, in italiano Colossus. Ascesa e declino dell'impero americano, Mondadori 2006) Ferguson sembra preoccuparsi più della capacità che della legittimità dell'impero americano, ritornando - nota Mishra nel suo articolo - alla storia dei bianchi così come veniva declinata ai tempi dell'imperialismo.

Uniformità di vestiario
Determinanti per il successo dell'Occidente sul «resto» del mondo (The West and the Rest è l'inequivocabile sottotitolo di Civilization) sarebbero quelle che lo storico scozzese chiama, adoperando un brutto gergo da computer, «killer apps», applications: la competizione, la scienza, la proprietà, la medicina, il lavoro, i consumi. In altre parole una rete di idee e comportamenti, basate su una struttura morale e un modo di agire, che avrebbero fornito il collante per una società potenzialmente dinamica. Sulla società dei consumi in particolare Niall Ferguson si sofferma a lungo: «Oggi - afferma - è così diffusa da farci pensare che sia più o meno sempre esistita. In realtà è una delle più recenti innovazioni del capitalismo, e anche quella che ha spinto l'Occidente più avanti rispetto al resto del mondo». Per lo storico l'abbigliamento è al cuore del processo di occidentalizzazione: con la manifattura tessile - scrive in sostanza lo storico - ha avuto origine la rivoluzione industriale, e già allora il lavoratore non era soltanto uno schiavo del salario, ma anche un consumatore.
Di questo processo iniziato più di due secoli fa saremmo adesso per Ferguson al punto di arrivo, culmine trionfante della «civiltà occidentale» - nel mondo intero la stragrande maggioranza della gente veste in modo molto simile: gli stessi jeans, le stesse scarpe da ginnastica, le stesse t-shirt... E se qualcuno non fosse convinto, Ferguson è pronto a portare a sostegno dei suoi ragionamenti una controprova. Tra le pochissime sacche di resistenza contro questa gigantesca macchina sartoriale di uniformità, c'è il Perù rurale: nelle montagne delle Ande le donne quechua vestono coloratissimi abiti tradizionali, con scialli e piccoli cappelli di feltro. Peccato, si affretta a puntualizzare lo storico, che questi non siano affatto abiti tradizionali, ma abbiano origine - guarda caso - in occidente: i vestiti, gli scialli e i cappelli sono di origine andalusa e vennero imposti dal vicerè spagnolo Francisco de Toledo nel 1572.

Esperimenti naturali
Un altro cavallo di battaglia di Ferguson è la nascita della scienza moderna. Lo sviluppo delle scienze e della medicina furono senza dubbio un importante fattore di potere: le nuove conoscenze fornirono migliori modi di navigare, di estrarre minerali, di costruire cannoni e di curare le malattie... E dalla metà del XVIII secolo in poi la gran parte delle innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche avvengono in Occidente. Rimane da chiedersi come sia stato possibile, quando si pensa che a metà del '500 la tecnologia cinese, la matematica indiana e l'astronomia araba - tanto per fare qualche esempio - erano molto più avanzate che in Occidente. Un quesito a cui gli storici della scienza non riescono a dare risposte definitive. Ma lo studioso scozzese ha la risposta pronta: il mondo cristiano, sostiene, usa la scienza per cambiare il mondo, l'Islam trova blasfemo svelare i segreti divini. Peccato che per secoli la scienza si sia basata soprattutto sulla tradizione araba.
Tra i fattori di predominio dell'Occidente va individuata sicuramente la conquista e la colonizzazione delle Americhe, quello che secondo Ferguson è stato uno dei più grandi esperimenti naturali della Storia: «Prendete due culture occidentali, - scrive - esportatele e imponetele a una larga varietà di popolazioni e territori - Britannici al Nord, Spagnoli e Portoghesi al Sud. Poi vedete chi fa meglio. Non c'era partita. Guardando al mondo oggi, dopo quattro secoli, nessuno può dubitare che la forza dominante nella civiltà occidentale sono gli Stati Uniti d'America». Come e perché è accaduto? Non perché la terra al nord era più fertile o perché fosse più ricca di oro e petrolio, o perché il clima fosse migliore o semplicemente perché l'Europa era più vicina. No, la differenza - secondo lo storico britannico - sta in un'idea: «Un'idea ha segnato la differenza cruciale fra l'America degli inglesi e quella iberica: un'idea circa il modo con cui la gente si dovesse governare. Non fate l'errore di chiamarla democrazia e immaginare che qualsiasi paese può adottarla semplicemente indicendo delle elezioni. In realtà la democrazia è solo la pietra finale di un edificio che ha le sue fondamenta nel governo della legge, per essere precisi, la santità della libertà individuale e la sicurezza dei diritti della proprietà privata, garantiti da un governo costituzionale rappresentativo».
Evidentemente Ferguson non ha letto un libro appena pubblicato in Gran Bretagna, 1493: How Europe's Discovery of the Americas Revolutionized Trade Ecology and Life on Earth, in cui lo storico Charles C. Mann afferma che il processo di globalizzazione ebbe inizio già con Cristoforo Colombo e le basi del predominio occidentale furono tanto biologiche quanto economiche - una tesi in parte già sostenuta prima di lui dallo storico americano Alfred W. Crosby, che aveva parlato di un vero e proprio imperialismo ecologico, e da Jared Diamond nel suo Armi, acciaio e malattie.

La via di Edgar Morin
Come antidoto alla prospettiva neoliberista di Ferguson viene voglia di suggerire la lettura del recentissimo La voie - Pour l'avenir de l'humanité di Edgar Morin, un pensatore trans-disciplinare e indisciplinato (come ama definirsi) appena uscito in Francia. Qui la «civiltà che abbiamo ereditato» e la «crisi dell'Occidente» sono lette in un'ottica completamente diversa. Si parla di una crisi ecologica segnata dal degrado progressivo della biosfera, di una crisi delle società tradizionali, di crisi demografica, urbana, delle campagne. La civiltà occidentale che produce le crisi della globalizzazione è essa stessa in crisi, con effetti devastanti: un malessere psichico e morale che si installa al cuore del benessere materiale - quella «intossicazione» da consumismo di cui si sono avute drammatiche testimonianze nei giorni scorsi, a Roma come negli Stati Uniti, con code, risse e spari per accaparrarsi l'ultimo prodotto scontato.
In Civilization non ci si chiede mai se un altro modello sarebbe ipotizzabile. Eppure esiste un altro aspetto, tutt'altro che secondario, del modello occidentale: i pericoli di una cultura egemone che crea contrasti, razzismi, fa crescere identità verticali di credi religiosi, di costumi e abitudini. Manca la capacità di pensare che un'altra società, un altro modello, sia possibile.
C'è insomma un'altra storia. E in questo consistono gran parte delle critiche rivolte a Ferguson. Una storia vista dalla parte dell'Oriente o dell'Africa ad esempio, o dalla parte dei diseredati, dei dannati della terra. Una storia che si basi sull'etica, sulla dignità dell'uomo, di tutti gli uomini; che abbia il coraggio della fantasia e la volontà di percorrere strade nuove.

“il manifesto” 12 gennaio 2011

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