31.1.15

Ulisse. Una poesia di Umberto Saba

Costa dalmata
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d'onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d'alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l'alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

da Mediterranee

Su Mattarella il gioco delle parti tra Renzi e Berlusconi (S.L.L.)

Su fb il caro compagno perugino che si firma Ciuenlai ha diffuso una nota dal titolo La sinistra mattarellata in cui, contro la vulgata che legge la candidatura (e la probabile elezione) di Sergio Mattarella come una rottura del “patto del Nazareno” tra Renzi e Berlusconi, interpreta la vicenda come un allargamento della “maggioranza ricostituente” ai piddini renitenti di Bersani, D'Alema, Fassina e Cuperlo, cui l'elezione di un presidente della Repubblica amico permette di sospendere la piccola (e inutile) guerriglia contro le riforme costituzionali ed elettorali previste dal famoso patto tra gli imbonitori. L'inclusione si estenderebbe persino alla SEL di Vendola e avrebbe lo scopo di bloccare la “peste Tsipras” che potrebbe arrivare anche in Italia. L'opposizione di facciata da parte di Berlusconi all'elevazione al Quirinale di Mattarella, non metterebbe in discussione i patti sottoscritti e renderebbe più ampio quel “partito unico della Nazione” (articolato in sottopartiti) asse dell'Italia nuova che è nei voti dei poteri forti nazionali ed internazionali.
Questa lettura viene confermata sul sito di “Internazionale” da Annalisa Camilli che scrive della “mossa democristiana” di Berlusconi: il Cav, per salvaguardare i patti sottoscritti (e i suoi interessi anche privati), non scoraggerebbe e non scomunicherebbe il dissenso interno, il voto a Mattarella di una quota dei “grandi elettori” di Forza Italia e del Nuovo Centro Destra. E' un'ipotesi verosimile e credibile, anche se non sono certo che alla fine Berlusconi e i suoi non finiscano anche loro per votare ufficialmente Mattarella, “per senso di responsabilità nazionale”.
Insomma quanto sta accadendo ha tutta l'aria di un gioco delle parti.

E, tuttavia, è possibile che autori, registi e attori della messinscena abbiano sbagliato calcoli. 
La neutralizzazione dei residui carrieristici di D'Alema, Bersani e Vendola rende più facile, non più difficile, il contagio della “peste Tsipras”. Il discredito di quel ceto politico è grande e la loro partecipazione poteva farla abortire sul nascere l'ipotesi di una nuova e vera sinistra. Senza di loro è un po' meno difficile. 
Il secondo calcolo sbagliato potrebbe riguardare proprio Mattarella. E' successo altre volte che personalità considerate di secondo piano, investite di un ruolo decisivo di garanzia, lo svolgessero con scrupolo e abilità. A volte l'abito fa il monaco e Mattarella potrebbe andare oltre la funzione notarile che gli si vorrebbe assegnare difendendo valori ed equilibri della Costituzione del 48, quella antifascista.

30.1.15

IO NON SONO CHARLIE (Salvatore Lo Leggio - micropolis 1/2015)

“Je suis Charlie” è un tormentone: da Parigi, tra proclami, titoli e magliette, è rimbalzato perfino nella nostra provincia depressa, al vertice delle istituzioni locali. Campeggia, infatti, su palazzo Donini, sede della Giunta Regionale, benché sia del tutto improbabile che la presidente Marini si diverta con satirici sberleffi rivolti al Profeta dell'Islam o alla Trinità cattolica. 
In realtà slogan siffatti non sono una novità: si tratta, nella prima apparenza, di una manifestazione di solidarietà spinta all'estremo, fino a una dichiarazione di correità. Si cominciò con “io sono un ebreo polacco”; e in genere l'identificazione ha riguardato minoranze oggetto di pregiudizi e di emarginazione, prima ancora che di persecuzione violenta. Il proclamarsi ebreo, omosessuale, meridionale, zingaro, attua un principio di uguaglianza, amplia i confini dell'umanità. Questa volta invece il messaggio sottolinea una differenza, traccia una frontiera. La sua ambiguità è stata evidenziata dalla manifestazione di Parigi: destre e sinistre, laici e religiosi, governanti e comuni cittadini tutti insieme appassionatamente, con presenze imbarazzanti quali Netanyahu. Forte è il sospetto che – in Francia come in Europa - si voglia costruire una “unione sacra”, non soltanto contro terroristi e fanatici: Charlie è diventato bandiera dell'Occidente contro l'Oriente, della libertà contro il dispotismo, della tradizione giudaico-cristiana (considerata tutta una cosa, senza conflitti interni) contro l'islamismo, della civiltà contro la barbarie.
In Italia scalpitano figuri come Salvini o Giuliano Ferrara: chi a invocare la guerra, chi a sottolineare la primogenitura contro i “musulmani di merda”. Santanché straparla di superiorità della civiltà occidentale rispetto all'Islam, ma Massimo Cacciari, dopo aver definito questa affermazione una “stupidaggine colossale”, aggiunge che proprio Santanché è “la dimostrazione che non siamo una civiltà superiore". Spiega: "Personaggi come Hitler sono nati qui e due guerre mondiali non mi sembra siano state scatenate dall'Islam”. E tuttavia lo stesso raffinato filosofo si dichiara d'accordo con Ferrara, “quando dice che il problema è il Corano” e così reintroduce, sul terreno propriamente religioso, quella “inferiorità islamica” che sembra escludere nel più vasto campo della “civiltà”.
Non è il solo, del resto, ad attribuire al Corano una sorta di “irriducibilità”: qualcuno s'è spinto a individuare il peccato originale dell'Islam nel fatto che il suo libro sacro si ritenga dettato direttamente dall'altissimo, mentre i testi della Bibbia ne sono soltanto ispirati, il che li renderebbe interpretabili. Per questa ragione i cristiani avrebbero abbandonato le cacce agli eretici e alle streghe, lo spirito di crociata, i roghi e i battesimi forzati, le teorie sull'inferiorità peccaminosa della femmina e l'odio per la libertà di espressione, mentre gli islamici non sarebbero in grado di rinunciare alla loro guerra santa. 
E', con tutta evidenza, una forzatura. Che le epifanie del divino nella storia comportino una qualche relativizzazione del messaggio non è nozione estranea all'intellettualità islamica più avveduta: ci sono, per esempio, femministe che considerano il Corano ispiratore della parità fra i generi, se rettamente interpretato. L'idea che il Signore dettasse in modo da farsi intendere da Maometto come pure dalla gente del tempo e del luogo è, in fondo, lo stesso escamotage che ha consentito ai cristiani una lettura più disinvolta dei loro testi sacri.
Una spiegazione per la rigidità musulmana si trova meglio nella storia. Per effetto della lunghissima stagnazione sociale non c'è stata nel Medio Oriente islamico una Riforma protestante che valorizzasse la libera interpretazione individuale, né una radicale battaglia di laicizzazione della vita sociale come fu in Europa l'Illuminismo. Le resistenze in questo campo sono sempre dure: ancora nell'Ottocento liberale il papa cattolico Pio IX dalla sua cattedra “infallibile” emanava il proprio Sillabo contro la libertà di pensiero e di espressione. Oggi, peraltro, gli intellettuali laici del mondo musulmano non reggono al fallimento dei movimenti nazionalisti e delle tirannidi illuminate che avevano ispirato e sembrano condannati al silenzio.

Lasciamo dunque perdere i sacri testi; chiediamoci piuttosto le ragioni per cui i gruppi – tra loro frammentati e in concorrenza – che con azioni esemplari, attentati, rivolte e guerre progettano di realizzare una sorta di “totalitarismo musulmano”, vedano aumentare proseliti e simpatie tra la massa dei credenti sia in nei paesi islamizzati che nell'emigrazione musulmana. Da una parte sembra esaurito il richiamo dell'internazionalismo socialista e comunista e l'Islam diviene un surrogato per l'emancipazione dei più deprivati; poi su tutti agisce il “risentimento” per le politiche occidentali: le guerre irachene e i bombardamenti di Libia, la ferocia israeliana contro i palestinesi che trova coronamento a Gaza, la forme razzistiche con cui si è preteso di combattere il terrorismo dopo l'attentato alle Torri Gemelle, rappresentano una umiliazione cocente e un fattore di odio.
Per evitare che nelle comunità musulmane d'Europa e d'America gli integralisti e i terroristi si muovano sempre più come “pesci nell'acqua” servirebbero una revisione totale delle politiche mediorientali e più coraggiose politiche di integrazione. 
Ma non si faranno. 
La “guerra di religione” in atto accresce i profitti della grande finanza, ove gli occidentali sono spesso soci di quegli emiri che alimentano l'integralismo islamico. La “religione del capitale” è di tutte la più perniciosa.  

29.1.15

Favole vere. Charlot, Rosa e Frida raccontati ai bambini (Francesca Lazzarato)

Fabian Negrin - Frida e Diego.Una favola messicana
Particolare dalla illustrazione di copertina
Come si racconta ai bambini una storia realmente accaduta, o magari la vita di un personaggio famoso o importante, evitando allo stesso tempo l’intenzione didattica, la tentazione di impartire ammonimenti e imporre modelli?
Ci hanno provato in molti, spesso con esiti incerti perché l’agiografia è sempre in agguato. Ma le «fiabe vere» perfettamente riuscite non mancano, e un primo esempio ce lo offre, per i lettori dai sette ai nove anni, una delicata biografia di Charlie Chaplin, Io e Charlot (Biancoenero edizioni , pp. 76, euro 9,50) scritta da Arianna Di Genova e illustrata da Alessandro Sanna: la storia di un bambino poverissimo che trascorre l’infanzia nei quartieri più desolati di Londra, un piccolo vagabondo che dorme spesso tra i cespugli e a volte non ha da mangiare, ma che in strada e dalla strada impara cose straordinarie. La chiave scelta dall’autrice – che accompagna Chaplin fino agli anni americani e alla regia del Monello – è quella di un racconto in prima persona, semplice e coinvolgente: è lo stesso Charlie a narrare tempi difficili ma illuminati dall’avventura e da un talento precocissimo. Consapevole della capacità infantile di resistere e sopravvivere, Arianna Di Genova ha saputo trasformare i primi anni di Chaplin in una storia avvincente, non priva di spigoli ma anche fitta di gioie e di esperienze insolite, ciascuna delle quali contribuirà a creare Charlot.
Una storia a lieto fine, dunque, anzi la storia di un trionfo, così come lo è quella raccontata in L’autobus di Rosa (Orecchio Acerbo, euro 15; il libro ha il patrocinio di Amnesty international), scritta da Fabrizio Silei e illustrata dalle bellissime tavole di Maurizio A.C. Quarello, artista eclettico che qui arriva a ricordare la pittura e il cinema americani del ‘900 e a tratti allude apertamente a Hopper. Rosa Parks, lo sanno tutti, è la donna che un giorno, nell’Alabama degli anni ’50, rifiutò di cedere a un bianco il suo posto sull’autobus e diede così inizio al colossale boicottaggio che portò all’abolizione cartello «White only» sui mezzi pubblici. La sua storia diventa qui l’oggetto di una trasmissione di esperienza da nonno a nipote: un bagno nella memoria che parte dall’Henry Ford Museum, dove il vecchio ritrova l’autobus su cui gli era capitato di viaggiare con Rosa Parks, proprio quel giorno. La storia di tutti si trasforma così anche in vicenda personale e in «fiaba» di famiglia, per avvicinarla ai lettori bambini nel modo più convincente.
Un altro modo ancora di raccontare personaggi veri ai piccoli è quello di reinventarsi la realtà, di tirarne fuori una fiaba che è anche un viaggio attraverso le tradizioni culturali di un paese lontano. Frida e Diego. Una favola messicana (Gallucci, pp. 40, euro 17), è un libro scritto e illustrato da Fabian Negrin, che immagina Frida Khalo e Diego Rivera ancora bambini ma già innamorati: lei gelosa e lui traditore, in un primo novembre (el Día de los Muertos, festeggiato in Messico con molta allegria, molti dolciumi e fantastici altari: un modo per esorcizzare la morte, e insieme riverirla) finiranno nel paese degli scheletri, da cui potranno uscire solo grazie a uno dei famosi «cani nudi» degli Atzechi. Sulla bravura di Negrin, autore ormai sperimentato e illustratore di eccezionale livello (il suo L’ombra e il bagliore, edito da Orecchio Acerbo, ha appena vinto il CJ Picture Book Award), è quasi inutile insistere: basti dire che questo libro è tra i più belli che un bambino possa oggi ricevere in dono, per avvicinarsi domani ad altrimondi, altre immagini e alla pittura di due artisti vissuti al di là dell’Oceano.


“il manifesto”, 29 novembre 2011

Il narratore della rivoluzione. In morte di Saverio Tutino (Gianni Beretta)

Lo ricordo ancora pochi anni fa nella sua casa di Anghiari canticchiando l’inno nazionale cinese che aveva imparato da inviato dell’Unità a Pechino nel primo anniversario della Rivoluzione maoista: «Seduto in tribuna - raccontava -, due file sotto il timoniere Mao Tse Tung», che lui pronunciava ancora seconda la vecchia dizione.
Saverio Tutino, giornalista, scrittore, inventore dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano è morto ieri a Roma dopo 88 anni vissuti intensamente. Era nato a Milano il 7 luglio 1923 dove, studente di giurisprudenza, lo colse l’8 settembre e la chiamata alle armi dei repubblichini. Riparò allora in un campo di rifugiati del Canton Ticino dove legò con gli ambienti anti-fascisti e si iscrisse al Pci; fino a rientrare in Val d’Aosta come partigiano (nome di battaglia Nerio) divenendo capitano e commissario politico della settantaseiesima Brigata Garibaldi prima e della settima Divisione Garibaldi «Aosta» poi (sul periodo da partigiano scriverà nel 1975 La Ragazza scalza. Racconti della Resistenza. Dopo la liberazione entrò nella redazione de “Il Politecnico” di Vittorini, e, successivamente, al settimanale comunista “Vie Nuove”. Fino a passare a “l’Unità”, per la quale fu inviato in Cina e corrispondente a Parigi (mentre era in corso la guerra di liberazione in Algeria).
Ma è la sua lunga permanenza a L’Avana, a raccontare della rivoluzione cubana in tempo reale, che caratterizza la vicenda giornalistico-politica di Saverio Tutino (fu lui, in qualche misura, a creare il mito di Cuba e di Fidel, ciò di cui poi anni dopo si dispiacque) e che lo fa entrare in certo contrasto, dalla metà degli anni sessanta, con il suo giornale e con il partito (in particolare con Giancarlo Pajetta) per il suo convincimento della fertile nascita di un terzo schieramento sulla scena internazionale, quello dei «non allineati» del sud del mondo, quasi a sfidare la rigida logica della guerra fredda tra le due superpotenze.
I suoi testi La Rivoluzione cubana (1966) e soprattutto L’Ottobre cubano (1968) e Gli anni di Cuba (1973) furono fra i primi a «spiegare» in Italia quell’evento che tante passioni suscitò in quegli anni turbolenti e, per quanto inevitabilmente datati (d’altronde è il loro merito), furono e restano testimonianza e fonte autorevole per la comprensione della storia del castrismo. Così come preziosi per capire la figura di Ernesto Guevara sono: Il Che in Bolivia e Guevara al tempo di Guevara (1996).
Nel 1975 Tutino è nel gruppo fondatore di “la Repubblica” per la quale lavorerà (occupandosi soprattutto di America latina) per un decennio. Anche qui come a “l’Unità” il rapporto si fa conflittuale. Tutino ha una forte personalità e difende angolature e ragionamenti che mettono in discussione visioni secondo lui ancora troppo convenzionali; nella costante ricerca intellettuale di trame e connessioni (a costo di essere accusato di «dietrologia») che spiegassero gli eventi che si consumavano via via nel mondo e in Italia (compresa la stagione della lotta armata delle Br). Ma spesso aveva ragione o comunque ti aveva insinuato un fondato dubbio.
Anche su Cuba rivede e denuncia sempre più polemicamente l’obsolescenza del lider maximo Fidel Castro. Perché in realtà, come racconta in Cicloneros (1994) e nella sua autobiografia, L’occhio del barracuda (1995), neanche nei suoi ultimi anni a Cuba fu particolarmente amato; sempre per l’impertinenza di voler raccontare tutto quello che vedeva; ed esprimere liberamente ciò che pensava.
Per tutta la sua vita Saverio Tutino ha tenuto un diario, da cui ha tratto poi lo spunto per i suoi saggi e racconti successivi: dove ha riportato fatti ed eventi del tempo reale; per poi rivisitare osservazioni
e sensazioni di quel vissuto alla luce degli eventi successivi e di riflessioni a posteriori. Ed è proprio l’invenzione di «raccogliere diari di persone» la sua opera maestra, che segna la terza parte della vita di un Tutino via via sempre più dolce, quanto fulminante ed essenziale nelle intuizioni. Con quell’impellente necessità di voler preservare e mettere a disposizione di tutti le testimonianze di vite vissute da gente comune altrimenti perdute; e che hanno fatto e fanno la storia non «ufficiale».
Saverio ha fondato così nel 1984 a Pieve Santo Stefano, nella Valtiberina toscana, l’Archivio diaristico nazionale che raccoglie ormai quasi diecimila diari di persone; e che ogni anno (la seconda domenica di settembre) promuove il (non) Premio Pieve. Archivio diaristico che Tutino ha dotato da tempo anche di una rivista che non poteva che chiamarsi “Primapersona”. Mentre nel vicino borgo medioevale di Anghiari, dove era solito passare le estati insieme alla sua compagna Gloria Argeles, affermata scultrice argentina, Saverio ha fondato nel 1998, con il professor Duccio Demetrio, la «Libera università dell’autobiografia», realizzando il sogno di fare della amata valle del Tevere una vera e propria «valle della memoria». 
E proprio a Anghiari, che lo ha fatto suo cittadino onorario, Tutino sarà sepolto.


“il manifesto, martedì, 29 novembre 2011

28.1.15

Gli ultimi censori di Pompei (Federico Zeri)

Una magnifica riflessione tra l'artistico, lo storico e il filosofico di Federico Zeri, in occasione del centenario dell'eruzione di Pompei. Vi si svelano alcune ragioni nascoste della secolare incuria per l'arte pompeiana e per gli scavi ov'è contenuta, al di là dell'azione o dell'inazione di questo o quel governo, ministro o sovrintendente. Il finale è poi tutto da meditare. (S.L.L.)
Satiro e menade. Pittura parietale pompeiana
Il 24 agosto dell'anno 79, a due mesi esatti dalla morte di Vespasiano e dall'accessione all'impero di Tito, la città di Pompei veniva sepolta dall'eruzione del Vesuvio; il diciannovesimo centenario dell'avvenimento è stato ampiamente ricordato, in Italia e fuori, dalla stampa e dalla Tv, secondo motivi (salvo rarissime eccezioni) di netto sapore drammatico-patetico. E' cioè il filone pompeiano cui dette l'avvio, nel 1834, il romanzo The last Days of Pompei dell'inglese Edward George Bulwer-Litton, un filone di grande fortuna, e che servì a far conoscere nel mondo la storia e gli avanzi della città vesuviana più ancora forse delle rovine stesse, il cui scavo nel frattempo si andava ampliando. A quel romanzo non mancarono di ispirarsi pittori "pompiers" e scultori: uno dei caratteri dell'intreccio, Nydia, venne raffigurato in un applauditissimo marmo dell'americano Randolph Rogers (che dal 1853 in poi lo replicò almeno un centinaio di volte) e rappresenta una fanciulla cieca che tenta di sfuggire al cataclisma affidandosi al solo senso dell'udito.
A questa tradizione (volta a spremere dal fruitore anche l'ultima goccia di empatia sentimentale) si sono riallacciati nel nostro secolo vari film dedicati alla morte di Pompei; e non c'è dubbio che gli aspetti umani della tragedia furono tali da suscitare anche oggi commozione, specie dopo che un ingegnoso sistema di gesso colato, ha consentito di ottenere le forme dei corpi delle vittime rimaste sotto la pioggia di ceneri e di lapilli, rivelandone le estreme convulsioni.
Tuttavia, un approccio del genere ha finito col viziare la lettura dei significati impliciti negli avanzi della città, lettura nella quale (parlo non degli specialisti storici o archeologi ma del visitatore medio) vengono privilegiati soltanto taluni aspetti della vita quotidiana, e specie quelli che si prestano ad un confronto, per altro assai facile, con il modo di vivere dei nostri giorni. Ne resta escluso il dato più intimo e più sottile presente in questo unicum documentario della cultura pagana e della sua concezione del mondo: ed è la (per noi) straordinaria, piena libertà con cui venivano affrontati e risolti il sesso e tutte le sue infinite modulazioni.
Allorché gli scavi di Pompei cominciarono a rivelare affreschi e oggetti di argomento erotico, e spesso sfrenatamente osceno, si pensò di essere capitati negli ambienti di un qualche lupanare; ma con il moltiplicarsi di ritrovamenti del genere (e anche di oggetti di uso quotidiano provvisti di elementi inequivocabilmente sessuali) si preferì stendere un velo silenzioso su dati così sconcertanti: i reperti in questione vennero celati, o con l'occultamento (per gli affreschi, dietro tavole) o con il trasporto nei "camerini segreti" del Real Museo Borbonico (oggi Museo Nazionale) di Napoli, dove si possono tuttora vedere. Una siffatta contro-eruzione di sessualità e di paganesimo non mancò di preoccupare le locali gerarchie ecclesiastiche, alle quali si deve la nascita, a poca distanza dagli scavi, del Santuario della Madonna del Rosario, allo scopo anche di combattere con l'immagine miracolosa della Vergine le diaboliche esalazioni emanate dalla fossa della città sepolta.
Oggi è assai indicativo della situazione italiana il confronto tra l'opulenza e il rigoglio del bruttissimo tempio cattolico iniziato nel 1876 (e successivamente ampliato su disegno di monsignor Spirito Chiappetta) e l'abbandono delle preziosissime rovine della città romana, devastate dalle erbacce e da vandali, oggetto di ripetuti furti, con gli affreschi e gli intonaci sgretolati dagli agenti atmosferici. Di recente, pare che le autorità preposte alla tutela di Pompei si siano mosse, iniziando un'opera di restauro e di documentazione; non resta quindi che da sperare.
Ma per tornare alla vena di erotismo che circola insistente negli avanzi tornati alla luce, essa doveva necessariamente risultare sconcertante se non anche incomprensibile agli scopritori del secolo scorso. In effetti, oltre a rivelarsi ad una società sessualmente repressiva sino al limite del maniaco, come fu la società ottocentesca, quei reperti di significato fallico, quelle scene di congiungimenti carnali non del tutto "secondo natura", male si addicevano all'immagine, allora corrente, del mondo greco-romano e del paganesimo: un'immagine edulcorata ed esangue, come fu quella trasmessa dall'archeologia neoclassica. E non per colpa del Winkelmann (uno dei fondatori del gusto neoclassico e della scienza archeologica), ma piuttosto del perbenismo della società napoleonica prima, poi di quella della Restaurazione, l'una e l'altra ammantate (la seconda sino a verso il 1830) di orpelli ellenistico-imperiali.
Del resto, ancora oggi sono pochi coloro che riescono ad immaginare il Partenone dipinto a colori vivaci o la statuaria classica non già bianca ma animata dalla policromia naturalistica, come certe sculture "pop": e sono queste remore che nascono anche in menti coltivate, le stesse però che continuano a considerare viziose o aberranti le immagini erotiche da cui sovente siamo confrontati nelle arti figurative greche e romane.
A costoro va ricordato che temi analoghi (spesso dotati di una straordinaria carica umoristica) già appaiono nella ceramica greca molti secoli prima degli affreschi e degli oggetti pompeiani, risalendo sino al V secolo avanti Cristo; e vi appaiono secondo un repertorio in cui temi di erotismo eterosessuale si alternano alla più aperta omosessualità, maschile e femminile, e a una ricca varietà di pratiche genitali, anali e orali. Ciò che più conta è però la totale assenza di malizia con cui vengono resi questi temi, l'assenza cioè di blasfemia elucubrativa, di segreto compiacimento, di vizioso, degli aspetti cioè che caratterizzano le immagini erotiche prodotte in età moderna (salvo quelle uscite dalla immediata cerchia di Raffaello, un ambiente cioè profondamente imbevuto di classicismo). Detto altrimenti: rispetto ai greci e ai romani, i facitori moderni di immagini erotiche hanno perso l'innocenza, e l'hanno persa per via delle religioni orientali e del loro diffondersi prima e del prevalere poi nell'area del mondo ellenistico romano.
Col mitizzare il sesso, identificandolo con il concetto di peccato, il giudaismo e la sua derivazione cristiana hanno scavato un solco che ci separa dagli antichi e dalla loro felicità genitale. In tal senso, fanno ridere anche i programmi di liberazione sessuale i quali non contemplano, e preventivamente, la liberazione dalle mitologie del Dio cui si offrono i prepuzi, o del Dio che per venire in terra deve forzatamente nascere da una Vergine. 

L'Europeo, 13 settembre 1979

“Fare la libertà”. Ambiguità di una parola capitale (Luciano Canfora)

In un racconto intitolato Libertà, Giovanni Verga descrive un episodio di ribellione spontanea esplosa in un paesino sulle pendici dell'Etna nel momento in cui l'esercito di Garibaldi dilagava per la Sicilia e l'aspettativa di una rivoluzione sociale infiammava le più remote contrade precedendo, con misteriosa velocità, l'arrivo delle avanguardie garibaldine. Era stato un massacro incontrollato, capricciosamente crudele, una vampata che si era spenta nella crescente delusione e nell'angoscia di quelli stessi che lo avevano compiuto: «Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti», dicevano ora. E invece era subentrata la punizione esemplare e cieca da parte del «generale» («subito ordinò che gliene fucilassero cinque o sei»), quindi la «giustizia», par di capire, dello Stato unitario («dopo arrivarono i giudici per davvero»). Il processo non finiva mai, anzi nemmeno incominciava. Gli arrestati furono portati nella prigione in città e lì giacquero. Alla fine, dopo anni, il processo fu celebrato, e fioccarono le condanne, pronunciate da giudici - «dodici galantuomini» — svogliati e distratti da un solo pensiero: «che l'avevano scampata bella a non essere stati dei galantuomini in quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà».
«Fare la libertà» per dire ribellarsi, nel senso in cui Erasmo adopera «democrazia». E ancora: «libertà» per dire uguaglianza. Nel racconto verghiano il taglialegna minaccia, la sera del massacro: «ora che c'era la libertà, chi voleva mangiare per due avrebbe avuto la sua festa, come quella dei galantuomini!».
Libertà come sinonimo di uguaglianza o anche di democrazia sarebbe stato un non senso per un aristocratico greco o per un senatore romano. È invece una endiadi consolidata per Rousseau, il quale nel Contrat social conclude il capitolo sulla «democrazia» (libro III, capitolo IV) esaltandola in quanto libertà, con le parole, poi divenute famose grazie al pensatore ginevrino, del « vertueux Palatin», malo periculosam libertatem quam quietum servitium. Si profila, già sulla base di questi pochi esempi scelti casualmente, l'alto grado di imprecisione concettuale che avvolge questa parola capitale.


Da Manifesto della libertà, Sellerio editore, 1994

La rosa... Una poesia di Fabio Pusterla

La rosa che non vuoi ricevere
quella che non puoi offrire
cresce nella sua gloria senza nome,
sopra scarpate o ghiacci
nel silenzio, ma cresce solitaria
fuori dal tempo, fuori dallo spazio
visibili; sta lì a ricordare la cosa
che hai visto una volta, sta lì
a ricordare la rosa.

da Argéman, Feltrinelli, 2014

La luce... Una poesia di Fabio Pusterla

La luce che più intensa ci disarma
esce già quasi affranta dalla polvere,
dal nodo delle brume, delle nuvole.
Esce stanca e inattesa e sembra chiedere
scusa per essere di nuovo lì davanti,
di nuovo intatta, nonostante tutto.
Ilare e mesta.

da Argéman, Feltrinelli, 2014

Le radici arabo-islamiche della civiltà europea (Eros Barone)

Dall'amico e compagno Eros Barone ricevo la nota che segue, preziosa, di cui lo ringrazio e che, autorizzato, "posto". (S.L.L.)
Era la Grande Moschea di Cordoba, di cui ha mantenuto la struttura. 
Oggi è la Cattedrale della Nostra Signora dell'Immacolata.
“Spesso, la mattina, troviamo faticoso staccarci dal materasso, toglierci il pigiama, lavarci e vestirci. Tuttavia, ci riprendiamo facendo colazione con un caffè o anche con un’arancia. Dopodiché, guardiamo, alzando gli occhi verso lo zenit, se il cielo sia nuvoloso o azzurro e ci avviamo verso quel magazzino del sapere che è la scuola. Lì, se siamo ragazzi poco studiosi, dovremo giocare una specie di partita a scacchi, per non pagare il dazio agli insegnanti. Questi faranno di tutto per accertarsi se abbiamo pagato la gabella alla loro materia e, se scopriranno che siamo impreparati, non esiteranno a darci uno zero…”.
Questo ‘exemplum fictum’, di sapore un po’ goliardico, che ho escogitato al fine di porre in risalto le parole di derivazione araba (ma anche persiana), dovrebbe essere sufficiente per comprendere il profondo influsso che la civiltà islamica ha esercitato sul lessico italiano, molte parole del quale, da noi usate correntemente, rivelano, anche ad una sommaria indagine etimologica, le tracce di una plurisecolare vicenda di rapporti fra i paesi europei e l’islàm, fatta non solo di conflitti e di ripulse, ma anche di scambi e di attrazioni (scambi e attrazioni la cui frequenza e intensità vanno poste in relazione con il radicamento dell’islàm nella stessa Europa, dalla Sicilia e dalla Puglia, dove tale radicamento è durato circa 200 anni, alla penisola iberica, dove è durato per 800 anni).
In effetti, contrariamente a ciò che fanno pensare certe dichiarazioni di impronta piononista e neoguelfa sulla estraneità e sulla incompatibilità fra musulmani e italiani, solo una piramidale ignoranza storica o una pregiudiziale avversione antisemita possono spiegare perché gli odierni crociati siano inetti a riconoscere che la civiltà europea non ha soltanto due radici, quella greco-romana e quella ebraico-cristiana, ma anche una terza radice: quella arabo-islamica.
Eppure, oltre ad un buon numero di parole, l’Europa ha mutuato dalla civiltà arabo-islamica (che il celebre antropologo Lévi-Strauss ha definito, con grande acume, come “l’Occidente dell’Oriente”) il sistema di numerazione, l’algebra, l’astronomia, la chimica e la medicina, per tacere dei fondamentali apporti filosofici e letterari medievali (Alberto Magno, Sigieri di Brabante e Tommaso di Aquino non sarebbero mai fioriti senza Avicenna e Averroè, mentre Dante non avrebbe mai raccontato nella “Divina Commedia” il suo viaggio ultraterreno, se non avesse desunto tale idea dalla tradizione islamica, che gliene offrì il modello con la descrizione del viaggio del Profeta nei regni dell’aldilà).
Inoltre, per quanto concerne il fondamentalismo islamico, mi permetto di ricordare, a chi contrappone i campanili alle moschee, che non meno temibili e nefasti sono, per l’atteggiamento settario e per lo spirito esclusivistico che caratterizza tutti i detentori di ‘verità rivelate’, oltre al fondamentalismo cattolico di cui si è già fatto cenno, quello protestante (che giustifica su basi bibliche il capitalismo più selvaggio, il razzismo e la pena di morte) e quello ebraico (autore, fra l’altro, della provocatoria e intenzionale trasformazione del conflitto fra palestinesi e israeliani in conflitto fra musulmani ed ebrei). Ricordo infine un fondamentalismo che, grazie alla reificazione che ne occulta la natura sociale e l’origine storica, nonché grazie alle ideologie liberaldemocratiche con cui viene trasfigurato, non viene mai riconosciuto come tale, anche se è quello più micidiale: il fondamentalismo del ‘pensiero unico’, espressione di quel dominio onnipervasivo e totalizzante della forma-denaro che determina il cinismo di massa, ossia l’atteggiamento di chi insegna – e di chi viene educato – a conoscere solo il prezzo, ma non il valore, di ogni cosa, il fondamentalismo che, nel celebrare la forma-denaro come un confine ontologico invalicabile, tende a cancellare ogni alternativa e a vanificare ogni critica.

Poeti. Zanzotto legge Campana (Maria Grazia Calandrone)

Dino Campana
Non abbiamo grazia abbastanza per compensare la grazia dei poeti che ci lasciano varcare la soglia del proprio laboratorio. Perché l’officina alchemica dei poeti è la loro stessa animacorpo. Lì è dove essi compiono il miracolo di rifare il mondo con le parole. Leggere dunque che una figura totemica come Andrea Zanzotto si sia accostata con circospezione a Dino Campana, come se Campana incarnasse un principio di fuoco e dissonanza, è cosa che fa spazio nel nostro cuore, perché conferma che i poeti mantengono vivo il sentimento del mito e del «timore». Non della idolatria, non del divismo, bensì del mito greco, quello radicale, che ha espresso incomparabilmente e una volta per tutte le immutabili fondamenta umane.
Nella terra di Euripide il pubblico assisteva alla messa in scena dei propri istinti, non solo i più incivili ma anche quelli apparentemente più innaturali, quali quelli di una madre tragica che arrivava a uccidere i propri figli per causa di strazio d’amore. Anzi, peggio: per causa di vendetta d’amore. Forse così, osservando fuori di sé la propria anima nuda, anzi che la ferocia del proprio giudizio morale si poteva produrre una qualche affinità, una qualche compassione, un qualche commosso perdono, contemporaneo a quello che si dava a chi stava soffrendo sulla scena: un poeta aveva preso in carico il nostro inconfessabile segreto e lo stava ponendo sotto i nostri occhi. Lo strazio, il desiderio sono comuni. Le sue parole, il nostro salvacondotto. Ma l’azione la simula un altro, che occupa il posto del nostro dolore. E così io mi sento provvisoriamente salvo.
Oggi abbiamo i tabù della morte, che rendono ipertrofica e dunque inefficace l’esposizione della morte. E abbiamo le dimensioni esangui della televisione. E una rete invisibile nella quale gettare una quantità istantanea di parole così abbondante da annullarle tutte. Abbiamo l’ambizione e dunque la solitudine. Vorremmo tutti essere un io che agisce sotto gli occhi di tutti. Ed ecco l’esemplarità di Zanzotto che si accosta a Campana – stampo, secondo lui, della più nobile follia italiana novecentesca, come ricorda Niva Lorenzini nella sua bella e onesta postfazione al volume (Andrea Zanzotto, Il mio Campana, a cura di Francesco Carbognin, Clueb, 2011) – con il rispetto che si deve a un portatore di segreti. Ecco ancora un uomo che racconta di un io che si sottrae dalla scena mondana e, sebbene bambino già percosso dalla nota «inappartenenza» dei poeti, ubiquo al pari di Hölderlin rispetto al mondo, cerca la solitudine boschiva per trovare nell’autosufficienza del paesaggio le voci degli immortali. Quello del quale riferisce Zanzotto è un isolamento ontologico, opposto a quello identitario che Massimo Raffaeli così acutamente dice: quanto all’identità, mi fa venire in mente la radice greca che la connette all’«idiozia», cioè allo stato di minorità politica.
Dalla solitudine dei poeti emana infatti una voce collettiva, politica, ovvero aperta alla dimensione pubblica, civica; ancora di più, con Jean Cocteau: una voce umana. Più volte ho riflettuto sulla differenza tra anima e psiche e ho finito per considerare «psiche» la superficie, la confezione sociale dell’anima, la mera somma dei comportamenti, mentre chiamerei «anima» quanto di immutabile in noi, le caratteristiche con le quali abbiamo aperto gli occhi la prima volta e che nessuno degli eventi nei quali siamo incorsi ha potuto modificare. Ovvio azzardare che la voce dei poeti parli da questo nucleo immutabile e allo stesso nucleo, custodito negli altri, si rivolga – e che esso sia un nucleo comune, una scarna serie di elementi umani collettivi. Riflettendo intorno a riflessioni simili, in questo volumetto leggero leggero Zanzotto si prende il tempo per affermare che c’è una quantità enorme di persone (specie tra quelle che ci governano) catalogabili psichiatricamente.
Lo fa perché Campana lo costringe a parlare di «follia». Zanzotto ragazzo, ci dice Zanzotto adulto, operò una incursione nello snodo cruciale poesia-follia frequentando contemporaneamente Hölderlin, Rimbaud e Campana. Rendendo conto di questa sua certa affinità col terribile, Zanzotto arriva ad affermare che Campana ha il diritto di infischiarsene delle regole e ha diritto a essere imperfetto, perché ciò che lo necessita non è una comune simmetria, non è nemmeno il regolare ardore metrico dei poeti, ma una urgenza che va lasciata esposta: spuria e viva come un pesce fuor d’acqua. Dunque in Campana stanno una libertà e una solitudine maggiori, un «io» maggiore. Campana è stato altrove e, ritornando a singhiozzi presso di noi che abbiamo eretto intorno alla nostra vita le rassicurazioni della norma, ci dice – anzi, ci scrive cos’ha visto. Le parole sono il salvacondotto di Campana, come lo sono di Rosselli e di tanti altri pionieri in contatto forse più continuo con le interferenze degli immortali. Data questa lauta e cruciale premessa Zanzotto non poteva che chiudere sostenendo che la poesia – questa non catalogata divinità, questa stella che non avrebbe dovuto esserci – oggi (siamo nell’oggi già abbastanza «odierno» del 2002, quando a Zanzotto venne consegnato il premio Campana per Sovrimpressioni) viene respinta nel margine attraverso la tecnica del «riassorbimento», attraverso il sostenere, cioè, che tutto è poesia, senza introdurre ulteriori, necessarie divisioni.

Ma la poesia alla quale si riferiscono i poeti è questa conoscenza che si ottiene attraverso le parole che sono costretti a scrivere da una cieca ossessione, confessa Zanzotto. Non è il geyser di riconoscenza senza nome che ci sgorga in petto quando vediamo la vita nel suo stato di semplicità, né è il tramonto che ci tiene a bagno nel rosso di un sole enorme. Quello è il sentimento, che sta prima delle parole e non deve tradursi per forza in parola. La poesia è suscitare quel sole e quei bambini attraverso il mezzo poverissimo delle parole, è parole che risplendono chiare come quel sole e quei bambini e danno la stessa calma certezza di finitudine che scavalca se stessa. Questo mi sembra dire Zanzotto. Di questo Campana. Di questa immersione, della doppia vista di un poeta lasciata al suo stato di ferita lampante. Della attrazione verso una irrinunciabile rinuncia.


“il manifesto”, 9 ottobre 2011

Architettura. Toccate e fuga di Ludovico Quaroni (Manuel Orazi)

San Giuliano di Mestre. In alto i grandi edifici circolari del CEP, progettati da Ludovico Quaroni
Alla fine del suo saggio Gli architetti e il fascismo (Einaudi 1989), Giorgio Ciucci indicava chiaramente quelli che, nella cultura architettonica italiana del Dopoguerra, sarebbero stati i pilastri, coloro cioè a cui sarebbe toccato il compito di ricostruire materialmente e moralmente un paese e una disciplina dopo le tragiche morti di Giuseppe Pagano, Edoardo Persico e Giuseppe Terragni.
I quattro pilastri – tutte figure paterne, tranne Ridolfi – erano, in ordine di anzianità, Giuseppe Samonà direttore dello Iuav di Venezia, unica isola felice della modernità italiana; Mario Ridolfi con la ciclopica impresa del Manuale dell’architetto (portata avanti insieme e grazie a Bruno Zevi); Ernesto Nathan Rogers e il Movimento di Studi per l’Architettura (Msa) che riuniva a Milano architetti e intellettuali come Enzo Paci intorno alla rivista «Casabella-Continuità»; e infine, a Roma, Ludovico Quaroni con la sua «ricerca sul quartiere». Ovviamente i protagonisti del dopoguerra sono stati molti di più, alcuni dei quali sottovalutati perché conservatori, in politica e no (Saverio Muratori, Luigi Moretti, Gio Ponti) – ma quella di Quaroni è stata una ricerca in più direzioni, sicuramente la più inquieta.

La stagione del neorealismo
Nato a Roma cento anni or sono, Ludovico Quaroni si laurea nel 1934 e l’anno successivo apre lo studio professionale insieme a Muratori e Francesco Fariello, con i quali vincerà il concorso per la piazza imperiale all’E42, oggi Eur – dove la pulizia del disegno viene inficiata dall’uso, per le colonne, non del marmo, ma di una scadente pietra scura imposta da un gerarca, proprietario delle cave. Sin dall’inizio della carriera, dunque, Quaroni (allora ventitreenne) è votato al lavoro di gruppo, ma anche al compromesso: la sua ricerca di una sintesi fra razionalismo e classicismo è coeva al suo impegno di assistente universitario di Piacentini, Del Debbio, Plinio Marconi, vale a dire alcuni fra i più strenui avversari dell’architettura moderna italiana.
La seconda guerra mondiale mette fine a questa stagione formativa e vede Quaroni catapultato prima in India e poi, già dalle prime fasi del conflitto, prigioniero dagli inglesi in Etiopia, dove rimarrà cinque lunghi anni a meditare sulla fine del regime e di un’intera epoca. Tornato a Roma nel 1946, aderisce all’Apao, l’associazione per l’architettura organica diretta da Zevi e per circa un decennio si lega a doppio filo con Mario Ridolfi. Verrebbe anzi da dire che quasi si nasconda dietro di lui, sia nel concorso per la nuova stazione Termini, sia soprattutto nel quartiere InaCasa al Tiburtino, costruito fra il 1950 e il ’54 da un team allargato di cui fanno parte anche giovanissimi progettisti come il nipote comunista di Piacentini, Carlo Aymonino.
Il Tiburtino segna la stagione del Neorealismo architettonico che in opposizione al monumentalismo fascista cerca di tradurre in città le forme e i modelli della vita rurale, per avviare così i nuovi immigrati dalle campagne alla vita urbana secondo modalità ibride ben viste sia dalla Dc fanfaniana sia dal Pci di Guttuso e Alicata. Ancora una volta però si tratta di una ricerca di sintesi fra due entità irriducibili, città e campagna, e sarà lo stesso Quaroni il primo a fare autocritica già pochi anni dopo definendo il suo quartiere un paese dei barocchi: «non è il risultato d’una cultura solidificata, d’una tradizione viva: è il risultato d’uno stato d’animo».

Autoanalisi e autocritica
Nel villaggio La Martella invece, nei dintorni di Matera, ancora frutto di un gruppo di progettazione allargato, nel 1951 Quaroni cerca di portare un po’ di urbanità nel nuovo quartiere destinato a ospitare gli sfollati dei Sassi, che prima convivevano in condizione di miseria assoluta e di promiscuità con gli animali; si tratta certamente di una delle pagine più commoventi e generose della ricostruzione scritta peraltro insieme con Adriano Olivetti. È infatti l’industriale e filantropo piemontese ad animare queste e altre esperienze riformatrici in alcune fra le zone più arretrate del meridione. Non a caso a Quaroni, vincitore del premio Olivetti nel 1956, viene dedicata una monografia pubblicata dalle Edizioni di Comunità nel 1964 da uno dei suoi numerosissimi allievi, Manfredo Tafuri.
Come Quaroni, anche Tafuri – sebbene su un altro piano, quello storiografico – sarà maestro del dubbio e del ripensamento, dell’autoanalisi e dell’autocritica. Quegli «stati d’animo» così caratteristici della cosiddetta scuola romana sono alla base di svolte continue, di slanci ideali in seguito rinnegati e infine rimossi: ouverture, toccate, fughe e contrappunti per usare i termini dell’arte forse più cara a Quaroni, peraltro raffinato collezionista di strumenti musicali e profondo amante delle variazioni Goldberg di Bach. Secondo Franco Purini, anch’egli suo allievo, la coltivazione del dubbio ha avuto senz’altro una funzione positiva per coloro i quali sono stati poi capaci di superarla imboccando una strada propria, mentre è stata negativa per la maggioranza assoluta, per i meno sicuri di sé che hanno trasformato il dubbio in interdizione verso qualsiasi strada possibile. (Il che, aggiungiamo noi, è piuttosto grave per chi – come Quaroni – è stato non solo maestro, ma relatore di tesi di laurea per una intera generazione di architetti romani, che a loro volta sono diventati docenti occupando le facoltà di mezza Italia o creandone altre ex novo).

Ai due lati della laguna
Secondo Purini, comunque, Quaroni resta una figura fondamentale per la ricerca problematica della via italiana all’architettura moderna, anche se non lo è stato dal punto di vista formale. Una certa insicurezza lo ha portato sempre a circondarsi di collaboratori e associati, spesso di vaglia, sebbene eterogenei, e gli esiti compositivi non potevano che essere differenti: neorealisti al Tiburtino e a Matera, votati verso la megastruttura nella stagione successiva del progetto per l’Asse attrezzato di Roma (1967) o per il nuovo centro governativo di Tunisi (1969).
Giustamente il Maxxi (che ha come senior curator un altro suo allievo, Pippo Ciorra) dedica una piccola mostra al progetto di Quaroni più felice e noto, quello per i grandi edifici circolari Cep alle barene di San Giuliano di Mestre del 1959 – esempio di una architettura della grande dimensione aperta verso la laguna in un abbraccio che era al tempo stesso anche l’allegoria della sintesi fra architettura e urbanistica, quella sintesi auspicata dal suo alleato Giuseppe Samonà, che dall’altro lato della laguna aveva appena dato alle stampe L’urbanistica e l’avvenire delle città (Laterza 1959).

Un’impresa misconosciuta
E un’allegoria è anche il titolo del libro pubblicato nella collana Polis diretta da Aldo Rossi per Marsilio, La torre di Babele, del 1967 – cosa ci faceva Quaroni nella collana di un architetto opposto per temperamento e da cui era stato duramente contestato al convegno olivettiano sull’urbanistica di Arezzo del ‘63? Nel 1939 Quaroni aveva svolto una ricerca dal titolo L’architettura delle città in cui distingueva una coppia dialettica focus/tessuto urbano che ricorda molto quella degli elementi primari/area che è al centro dell’Architettura della città di Rossi del 1966. Nel testo del ’67 Quaroni dà una sua interpretazione positiva del valore conoscitivo della forma, ma le affinità si fermano qui e nella stessa prefazione al libro Rossi liquida Quaroni ingabbiandolo all’interno della sua teoria dell’architettura.
Eppure il riavvicinamento con Rossi sarà solo il preludio a un’ultima grande impresa, la più misconosciuta, ma anche una delle migliori fra tutte le azioni quaroniane: la direzione, alla metà degli anni ’70, della splendida collana «Planning & Design» per la casa editrice Gabriele Mazzotta di Milano che, nata pochi anni prima, aveva già un ricco catalogo d’arte. La madre tedesca aveva reso naturale la propensione di Quaroni verso movimenti e autori tradizionalmente poco studiati in Italia. A lui dobbiamo infatti la prima traduzione di testi fondamentali dell’architettura del ‘900 come Da Ledoux a Le Corbusier: origine e sviluppo dell’architettura autonoma di Emil Kaufmann, Lo studio delle piante e la progettazione degli spazi negli alloggi minimi di Alexander Klein, l’antologia della rivista espressionista Frühlicht o ancora La corona della città di Bruno Taut a proposito del quale malignamente – ma giustamente – Quaroni consigliava a Rossi e Scolari, che lo avevano appena arruolato fra i padri del Neorazionalismo della Tendenza, di ricordare le origini espressioniste, dunque irrazionali, dello stesso razionalismo.

Compositore di intelligenze
A questi titoli già di per sé considerevoli si alternavano ristampe di classici antichi (i trattati settecenteschi di Francesco Milizia e Andrea Memmo) e moderni (Il modulor di Le Corbusier) oltre a una serie di saggi di giovani storici, architetti, urbanisti e sociologi (Vieri Quilici, Giorgio Muratore, Giandomenico Amendola) su temi che spaziavano dalla città rinascimentale alla Russia costruttivista fino a pioneristici studi sulle città sudamericane di Manuel Castells oggi così in voga, tenendo sempre insieme architettura e urbanistica. E forse la dimensione editoriale è quella che più corrisponde a Quaroni: quella di un compositore di intelligenze, complesso e contraddittorio come una collana editoriale, frutto di un lavoro collettivo (autori, curatori, traduttori) e di molti compromessi. Un lavoro che in ultima analisi assomiglia maledettamente al destino dell'architettura.


“il manifesto”, 30 novembre 2011

27.1.15

Musica a Pachino (Vitaliano Brancati)

Vitaliano Brancati (Pachino 1907 - Torino 1954)
Nel 1961 Bompiani pubblicò, postumo, il Diario romano di Vitaliano Brancati, la cui stesura risale agli ultimi anni Quaranta. Questi ricordi di adolescenza, ambientati nella natìa Pachino, mi sembrano carichi di una stravolta sensualità. (S.L.L.)

Pachino, Un gruppo musicale negli anni Venti del 900 (dal sito "pachinoantica")
Ho conosciuto in seguito la notte di luglio a Pachino, coi carri dei vendemmiatori, staccati dagli asini e dai muli, le aste in aria, zeppi di caratelli e di quartaroli, in fila nelle strade polverose lungo gli stretti marciapiedi, presso i balconcini poco elevati.
L'odore del mosto rende l'aria vinosa e densa: i polmoni la bevono e il palato l'assapora. I sogni sono gravi e felici. Le mosche, ubriache, sbattono pazzamente sui vetri, nient'affatto ripugnanti e sporche, ma piene anch'esse di mosto e simili a chicchi d'uva rimbalzanti nell'aria.
Il paese amava la musica. Il fratello di mio nonno, poeta e farmacista, suonava egregiamente la chitarra, mio nonno cantava; i barbieri si univano coi loro mandolini e un impiegato municipale col suo contrabbasso che stentava a uscire dalla porta di casa e veniva trasportato da due giovanotti come un canterano. La serenata si ingrossava da una stradetta all'altra e giungeva in piazza numerosa come la banda municipale. Il paese, semisveglio, riconosceva la voce di coloro che cantavano e il tocco di coloro che suonavano.

26.1.15

La poesia del lunedì. Guido Gozzano

Torino
Quante volte tra i fiori, in terre gaie,
sul mare, tra il cordame dei velieri,
sognavo le tue nevi, i tigli neri,
le dritte vie corrusche di rotaie,
l'arguta grazia delle tue crestaie,
o città favorevole ai piaceri!

E quante volte già, nelle mie notti
d'esilio, resupino a cielo aperto,
sognavo sere torinesi, certo
ambiente caro a me, certi salotti
beoti assai, pettegoli, bigotti
come ai tempi del buon Re Carlo Alberto...

«...se 'l Cônt ai ciapa ai rangia për le rime...»
«Ch'a staga ciutô...» – «'L caso a l'è stupendô!..
«E la Duse ci piace?» – «Oh! mi m'antendô
pà vaire... I negô pà, sarà sublime,
ma mi a teatrô i vad për divertime...»
«Ch'a staga ciutô!... A jntra 'l Reverendô!...»

S'avanza un barnabita, lentamente...
stringe la mano alla Contessa amica
siede con gesto di chi benedica...
Ed il poeta, tacito ed assente,
si gode quell'accolita di gente
ch'à la tristezza d'una stampa antica...

Postilla
E' la prima parte di un ampio componimento dedicato alla città e inserito nell'ultima sezione dei Colloqui
Il dialogo in dialetto può così rendersi: “Se il Conte li acchiappa, li aggiusta per le rime” “Stia zitta” “Il caso è stupendo” “E la Duse le piace?” “Oh! Io non mi intendo molto... Non lo nego, sarà sublime, ma io al teatro vado per divertirmi” (la Duse aveva un repertorio impegnato, tipo Ibsen o D'Annunzio) “Stia zitta. Sta entrando il reverendo!...”

25.1.15

Africa 900: decolonizzazione senza indipendenza (Giampaolo Calchi Novati)

Accra (Ghana) - Il monumento a Kwame Nkrumah nel mausoleo a lui dedicato
Nel 1999 “il manifesto” commissionò e pubblicò in serie articoli di bilancio su vari aspetti e passaggi del Novecento, il cosiddetto “secolo breve”. Questo di Calchi Novati sull'Africa è centrato sulle figure contrapposte di due capi di stato africani: Nkrumah e Houphouet-Boigny. Alla fine entrambi perdenti. Da allora lo scenario è cambiato. Il sottosviluppo continua, ma una nuova potenza s'aggira per il continente, la Cina comunista e turbocapitalista. Le sue politiche non sono del tutto riconducibili ai vecchi schemi coloniali. Ma non sarà un neo-neocolonialismo? (S.L.L.)
Il presidente ivoriano Félix Houphouet-Boigny in una foto degli anni 80 del 900
Lo scenario è l'Africa alle soglie dell'emancipazione dal colonialismo. Un'Africa che si sarebbe tentati di definire intonsa, allo stato puro: davanti a sé la prospettiva di una politica tutta da inventare, che aveva il vantaggio di poter mettere a frutto quel poco o tanto di entusiasmo che aveva accompagnato la lotta di liberazione. Naturalmente quella libertà era in gran parte illusoria. I condizionamenti che pesavano sull'Africa non erano meno coercitivi per il fatto che con la proclamazione dell'indipendenza le potenze coloniali lasciavano il posto a governi espressi dalle popolazioni o meglio dalle élites nere. E chissà se fra i due protagonisti della storica scommessa, il più cosciente di quanto nella realtà fosse stretta la via per gli stati africani era il visionario, idealista e radicaleggiante Kwame Nkrumah, leader del nuovo Ghana, o il più empirico Félix Houphouet-Boigny, medico, sindacalista piantatore e capo tradizionale, che aveva sperimentato con successo l'arte del compromesso nella sua Costa d'Avorio e persino nel governo metropolitano a Parigi.
Quella sfida - fu il presidente avoriano Houphouet-Boigny a lanciarla, quasi per sottrarsi alla riprovazione degli ambienti nazionalisti per il suo programma di collaborazione con la Francia anche dopo l'indipendenza, nell'ambito dell'opzione che poi sarebbe stata bollata come «neocoloniale» - derivava dal carattere nettamente alternativo delle due politiche. Il Ghana, ex-possedimento inglese della Costa d'Oro (Gold Coast), aveva ottenuto l'indipendenza per primo, nel 1957, guadagnandosela metro per metro, e si era subito schierato nel campo del «socialismo africano». La Costa d'Avorio, e lo dimostrava anche la prosecuzione di quel nome inconfondibilmente coloniale oltre l'indipendenza, era aliena da qualsiasi rottura: beneficiaria dell'ondata di indipendenze collettive dell'«anno dell'Africa», il 1960, accettava lo status quo, rapporti prioritari con la Francia e preponderanza dei capitali francesi compresi.
Solo che Houphouet-Boigny ebbe l'ardire di giocare al rialzo e di convocare Nkrumah, niente meno che l'Osagyefo, il «messia» di un'Africa libera e unita, a un appuntamento concreto o virtuale di lì a dieci anni per mettere a confronto i rispettivi risultati. E' inutile dire che lui, il «vecchio», come era chiamato già allora anche se aveva poco più di 50 anni, era convinto che avrebbero avuto la meglio il capitalismo e il liberalismo. Dal canto suo, Nkrumah confidava nella spinta rivoluzionaria racchiusa nella decolonizzazione, non necessariamente in Ghana, ma più generalmente in Africa, e nella progressiva dislocazione dei poteri forti dell'imperialismo sul piano mondiale per effetto di svolte come Dien Bien Phu, Suez, l'Algeria. Nel conto entrava sicuramente da parte di Nkrumah una sopravvalutazione del ruolo, a fianco dei popoli ex-coloniali, dell'Urss e del comunismo internazionale: come per un segno del destino quando nel 1961 il Ghana fu scosso da una gravissima crisi, scatenata da uno sciopero dei portuali, non acquisiti evidentemente alla politica «socialista» di Nkrumah, lo stesso Nkrumah fu costretto a rientrare precipitosamente in patria dall'Europa orientale dov'era in visita, e il colpo di stato militare del 1966 che doveva estrometterlo dal potere avvenne mentre Nkrumah era in viaggio fra il Vietnam del Nord e la Cina.
Al di là delle speranze degli uni o delle prudenze degli altri, l'indipendenza dell'Africa era oggetto di valutazioni discordanti anche a livello di specialisti. L'Africa veniva dal boom degli anni '50 grazie all'aumento dei prezzi delle materie prime, in parte a seguito della guerra di Corea. Il trend positivo dell'economia e del commercio mondiale sembrava promettente. Sull'ottimismo diffuso cadde come una doccia fredda il pamphlet scritto da Rene Dumont. e pubblicato da Seuil, un editore simpatetico per l'Africa e il terzomondismo: l'Africa nera è partita male. Molte delle accuse di Dumont, un agronomo di vaglia, erano tecniche e riguardavano le scelte in materia di politica rurale. Il libro denunciava però anche la mancanza di democrazia e la corruzione dei gruppi dirigenti («un colonialismo di classe»), e metteva in discussione le colture d'esportazione e il modello industrializzante a cui si ispiravano con poche differenze conservatori alla Houphouet e riformatori alla Nkrumah. Qualche anno più tardi, Dumont ammise che alcuni passaggi della sua analisi si erano rivelati affrettati, ma intanto il disastro dello «sviluppo», anche nei paesi che si erano affidati al dirigismo statalistico e alla pianificazione centralizzata, aveva portato l'Africa nel vicolo cieco della soggezione coloniale e neocoloniale.
Non avrebbe molto senso chiedersi chi fra Houphouet-Boigny e Nkrumah ha vinto la scommessa. Nella stagnazione che prevale in Africa la Costa d'Avorio - per stabilità apparente e tassi di crescita - fa la figura d'una eccezione. In termini di mera politica, mentre Nkrumah alla data della verifica non era neppure più al potere, Houphouet-Boigny ha battuto via via tutti i primati di longevità facendosi rieleggere capo dello stato per sei volte ogni 5 anni, senza rivali fino alla consultazione del 1990, e morì da presidente, pianto dal suo popolo e dai grandi del mondo, nel dicembre 1993 all'età presunta di 88 anni. Kwame Nkrumah aveva vissuto in esilio gli ultimi anni alla corte di Sékou Touré (la Guinea aveva dato fiducia a Nkrumah e alla sua strategia quando nel 1958 votò «no» al referendum gollista, quest'ultimo perfettamente in linea invece con la politica minimalistica più ancora che gradualistica di Houphouet-Boigny) ed era morto nel 1972 in un ospedale di Bucarest (ancora l'Est).
I modi d'accumulo adottati dal Ghana, in un sistema che perseguiva l'eguaglianza, non avevano potuto competere con il dinamismo di un'economia aperta agli investimenti senza curarsi dei divari sociali e sfruttando la forza-lavoro degli immigranti dai più poveri paesi vicini (con poco potere contrattuale e nessun potere politico-sociale perché stranieri).
Probabilmente il clou dello scontro Houphouet-Nkrumah si era consumato nel 1965 al vertice dell'Oua che si tenne ad Accra, capitale del Ghana. Forte del suo carisma e della presidenza di turno dell'organizzazione pana-fricana, Nkrumah tentò di coinvolgere tutta l'Africa nel suo impegno proponendo la costituzione di una specie di «esecutivo» entro l'Oua, nucleo di un futuro governo africano, di cui sarebbe stato verosimilmente l'animatore. Nkrumah non faceva mistero che libertà e unità significavano rivoluzione, antimperialismo e così via. Capendo molto bene quali potevano essere le implicazioni di una misura di per sé innocua, e che favoriva un processo unitario dell'Africa che a parole nessuno osava contrastare, Houphouet-Boigny non esitò a boicottare la Conferenza di Accra trascinando con sé i suoi fedelissimi. Nkrumah non si sarebbe più ripreso da quello smacco e qualche mese dopo sarebbe stato rovesciato da una congiura dei militari nella sostanziale indifferenza, se non con il consenso, del suo popolo (troppa inefficienza, autoritarismo sfrenato e nessuna radice del socialismo nella società).
Alla lunga la Costa d'Avorio ha avuto performances molto superiori a quelle del Ghana, evitandosi fra l'altro l'instabilità che ha moltiplicato in Ghana i colpi di stato e la numerazione delle repubbliche. Ha persine «sorpassato» il Ghana come primo produttore di cacao in Africa e nel mondo. E poco importa se lo sviluppo ha baciato soprattutto alcune migliaia di grandi coltivatori e la borghesia urbana, i due pilastri del governo di Houphouet, e se il paese è pesantemente indebitato. Come ricorda Samir Amin, il Ghana, al pari della Nigeria, che non si è mai lasciata tentare dal socialismo, ha scontato, a differenza della Costa d'Avorio, il grado più avanzato (anche come valorizzazione) della politica coloniale. Quando il Ghana ha raggiunto a sua volta la stabilità e lo sviluppo - con il regime del giovane e irruento capitano J. J. Rawlings, passato senza colpo ferire dall'estremismo giacobino a beniamino della Banca mondiale - è stato per una conversione alle ricette liberal-capitalistiche che il «vecchio» aveva patrocinato 20-25 anni prima abbandonando ogni velleità populistica.
Ma anche Nkrumah aveva a suo modo avuto ragione. E non solo perché nel frattempo le spoglie dell'Osagyefo sono state riportate in Ghana con tutti gli onori. Alla base della politica di Nkrumah, che si atteggiava infatti a Lenin d'Africa, c'era la certezza che non ci sarebbe stato il socialismo in un solo paese (africano). Se aveva dovuto soccombere, era stato perché contro di lui si erano coalizzate forze soverchianti, le stesse che hanno di fatto impedito il progresso e la democrazia dell'Africa, di tutta l'Africa, minacciando la sua stessa identità. A perdere non è stato solo Nkrumah, ma l'idea che la decolonizzazione - uno dei grandi eventi del secolo - avrebbe restituito l'Africa alla sua storia insieme al controllo delle sue risorse materiali e umane.


“il manifesto”, 11 agosto 1999

L'Eros del ricco è sempre più bello (Nicola Tranfaglia)

Museo del Louvre, Gabrielle d'Estrées et una delle sue sorelle (la Duchessa de Vilars?)
Ha scritto Paul Valéry nei suoi Cahiers: «L'amore, indubbiamente, val la pena di farlo... Ma come occupazione intellettuale, o soggetto di romanzi o di analisi, è tradizionale e irritante, tanto più che non ci si dimentica mai di legarlo alla fecondazione. Della quale è un incidente, un episodio, un diversivo...». Gli storici occidentali sembrano essere stati, negli ultimi due secoli, della medesima opinione. Quantunque pittori e letterati ci abbiano lasciato, dal Medioevo ad oggi, testimonianze sterminate sulla storia del sesso e dell'amore, il problema è stato completamente rimosso. Del passato sono stati diffusi aneddoti, episodi strani o emozionali; e si è lasciato alla letteratura d'evasione il compito di ricordare ai contemporanei differenze e ricorsi nelle vicende sessuali e sentimentali dei tempi trascorsi, con una netta prevalenza (come è ovvio) dei fatti legati a protagonisti della scena politica o letteraria, o di racconti poco fondati, ma capaci di catturare, per qualche particolare straordinario, l'attenzione.
Poi, lentamente, sono apparse le prime ricerche attendibili. Se ne sono occupati, quasi di straforo, studiosi della Chiesa e della vita, religiosa (e lo testimonia da ultimo l'interessante numero monografico di Quaderni storici, dedicato alle religioni delle classi popolari.), storici della magistratura, storici della mentalità collettiva, soprattutto in Ftoameia e nei paesi anglosassoni. E' arrivata poi l'applicazione dei metodi quantitativi ala storia sociale: nascite, morti, matrimoni, rapporti sessuali. L'irruzione della psicoanalisì, della sua influenza (diretta e indiretta) nella ricerca storica ha infine accelerato il proccisso di appropriazione da parte degli storici di un problema a lungo snobbato o rimosso. Nella stessa direzione hanno operato a loro volta il femminismo, la questione omosessuale, la crisi delle ideologie rigide e teleologiche (a cominciare dal marxismo). Così nell'ultimo ventennio, soprattutto fuori d'Italia, si sono moltiplicate le indagini e le ipotesi su sesso e amore in una prospettiva storica.
Gli interrogativi si sono precisati. Che rapporto esiste tra l'organizzazione della repressione sessuale e lo sviluppo dello Stato moderno? In che senso, e in quali limiti, le differenze di classe hanno pesato sulla sfera individuale che racchiude la concezione e la pratica dell'amore? Quale ruolo eserccitano l'eroitismo e la prostituzione organizzata un una società caratterizzata appunto dalla repressione sessuale? A queste e ad altre domande si è incominciato a rispondere con una serie di ricerche.
Siamo già in grado di fornire una sintesi soddisfacente di questi studi, un'interpretazione dei problemi tale da sostituire o precisare le ipotesi lanciate da Freud e sviluppate, ad esempio, da Reich in una direzione affascinante? Personalmente ho qualche dubbio, ma tdi diverso avviso è Jacques Solé, autore di una Storia dell'amore e del sesso nell' età moderna, che l'editore Latarza pubblica in questi giorni.
Non gli si può dare del tutto torto. Il libro che Solé ha messo insieme, sorvendosi di fonti lettenarie e artistiche (dando peraltro un peso eccessivo a quelle francesi rispetto alle altre), ma anche di tutti gli studi apparsi in questi anni sulle “Annales” e sulle riviste inglesi o tedesche dedicate alila storia sociale, suscita più problemi di quanti ne risolva, su più di una questione è oscillante o contraddittorio, si perde spesso nell'enumerazione di episodi di per sé poco significativi. Tuttavia esso ha due meriti indiscutibili. Anzitutto, è uno stimolo notevole all'allargamento e allo sviluppo di queste ricerche in un paese come il nostro, dove la rimozione del tema è ancora dominante, i pregiudizi nel mondo accademico sono forti, il lavoro da fare immenso. Poi, l'autore scrive per tutti: una scrittura chiara, limpida, non di rado piacevole, conduce il lettore all'interno di una narrazione che copre l'arco di sei o sette secoli, passando dalla Normandia all'Italia centrale, dalla Svezia alla Spagna cattolica, dalla Germania contadina all'Inghilterra puritana.
Le conclusioni sono necessariamente parziali: ma vale la pena di fermarsi su alcune di esse per la luce che gettano sull'uno o l'altro interrogativo cui ho accennato prima.
Solé è convinto, ad esempio, che l'estrema giovinezza degli sposi, agli albori dell'età moderna, sia un mito sociologico: in lealtà, egli afferma, i matrimoni erano tardivi. Lo provano le ricerche più recenti condotte sull'argomento; e le fonti letterarie e memorialistiche lo confermano, soprattutto per quanto riguarda le classi popolari. «Ciò che la nobiltà trovava di stupendo nel matrimonio tardivo riservato ai poveri», scrive lo studioso francese, «era il fatto ch'esso ne limitasse a un tempo il numero e i piaceri; unito alla repressione della sessualità illegittima, mediante un sottilissimo gioco di rapporti di classe, esso infatti condannava i poveri ad amare meno, meno presto e meno a lungo dei ricchi».
Anche su altri aspetti, l'opera di Solé appare utile e interessante. Manca invece (e forse non poteva essere altrimenti) un'ipotesi complessiva capace di offrire una spiegazione articolata del processo storico che, dal Medioevo ad oggi, ha caratterizzato il ruolo del sesso e dell'amore nella società occidentale Solé sottolinea a ragione l'influenza esercitata sia dalle chiese cristiane, sia dallo Stato moderno, sia, ancora, dall'ideologia borghese-capitalistica nell'irrigidire l'ordinamento sessuale, limitare e addirittura vanificare la libertà dei singoli, fondare quei miti dell'erotismo che agiscono come elementi sostitutivi e compensativi di quel che la repressione generalizzata vieta. Ma non s'avventura a porre questi fattori in una connessione tale da trarne indicazioni per un modello comprensivo, ammesso e non concesso che a un simile modello si possa un giorno arrivare.
Si preoccupa piuttosto di sfatare leggende e luoghi comuni consolidati nei secoli e di comunicare al lettere una nostalgia singolare, a volte un vero e proprio rimpianto, per la società contadina e per quella medioevale. Anche a Solé, come ad altri storici legati in qualche modo alle “Annales”, la società del capitalismo e dell'etica protestante piace assai poco.


“la Repubblica”, 19 ottobre 1979

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