29.1.16

Africa. La lunga mano di Pechino sulle infrastrutture (A.P.)

Una parte del ponte ferroviario costruito da China Railway ad Addis Abeba
La priorità per lo sviluppo economico di molti Stati africani è realizzare delle vie di collegamento capillari che consentano il trasporto delle risorse verso i porti. Negli ultimi anni il partner privilegiato del continente è stata la Cina, che ha concesso continui finanziamenti in cambio di petrolio e materie prime.
Chiudendo più di un occhio sul mancato rispetto dei diritti umani, e ricorrendo in molti casi a manodopera importata dalla madrepatria per realizzare i lavori.
Ad aprile la China Railway Construction Corporation ha firmato un accordo da 3,5 miliardi di dollari per la costruzione di un collegamento ferroviario in Nigeria. Questo accordo ne segue un altro da 12 miliardi per una linea da 1.400 chilometri lungo la costa. Un finanziamento record, il più grosso contratto vinto all’estero da una società cinese.
Sempre da Pechino arriva il progetto ferroviario che porterà i treni dalla città di Benguela, in Angola, fino in Zambia, passando per la Repubblica democratica del Congo.
Senza dimenticare la ferrovia che in Kenya sostituirà quella costruita dalla regina Vittoria a fine XIX secolo tra Nairobi e Mombasa.
Anche in Mali la Cina ha avviato trattative per la costruzione di nuove infrastrutture. Alcune delle vittime dell’attentato avvenuto a Bamako lo scorso 20 novembre lavoravano per la China Railway e si trovavano nel Paese per discutere con il ministro dei Trasporti maliano.


Pagina 99we, 15 dicembre 2015 – L'autore dell'articolo è Antonella Palmieri

Il fiume Po. Memorie e suggestioni dal dio della pianura (D.B.)

Salama da sugo
Plinio nella Naturalis Historia lo descrive navigabile fino a Torino; oggi che il suo alveo continua a sprofondare non è più così.
«C’è un cartello solenne: fiume Po. E invece è un torrentello. Ma è già il nostro fiume più grande, più lungo, più bello, più caro», scriveva Mario Soldati, ai piedi della montagna.
Per la geografia il Po nasce infatti dal Monviso, per la letteratura da Torino.
È Pavese, e poi tutta una serie di fantasie operaie e impiegatizie: da Carlo Levi a Soldati, da Calvino ad Arpino. Quindi si apre alla pianura e assume aria contadina: Pavia, Piacenza, Cremona, Mantova, Reggio, Parma, Ferrara, Rovigo.
Quattrocentomila persone ogni anno ne navigano le acque tra rive di pioppi, salici, ontani e canneti. Sono i pioppi di Novecento di Bernardo Bertolucci, il fiume che si fa storia; l’acqua di Don Camillo e Peppone, l’Italia dei nemici-amici che cercano di stare assieme. Di Michelangelo Antonioni, che qui girò il suo primo documentario sulla Gente del Po, e qui tornò trovando un fiume colorato nelle visioni di una giovane Monica Vitti: era il Deserto Rosso.
La rete idroviaria utilizzata a fini turistici si estende per circa 800 chilometri e viene praticata per escursioni e itinerari naturalistici.
È un fiume della parola e delle immagini, oggi solcato da battelli e house boat, ieri dalle sandole dei pescatori. È il Po nebbioso di Ossessione, dei colori accecanti di Ligabue, delle note di Verdi.
È il Mulino del Po di Riccardo Bacchelli. «Una volta il Po si beveva», scriveva in un saggio Domenico Rea. Acque pure che ispirarono a D’Annunzio un «loderò la chiara sfera d’aere ed acque».
È il fiume di Salgari, di Cesare Zavattini e del suo Viaggetto sul Po, dei viaggi di Gianni Celati, da Piacenza e Caorso alle bocche del Po di Goro.
È padre di un padano per sua definizione, Gianni Brera, che preferiva tenere i piedi sulla terra: «E allora, buona madonna, che andate cianciando di navigare?…. ne ho paura, una religiosa e fottuta paura. E se vi sembro matto, pensate che anch’io sono figlio di Po. Da un padre simile, chi volete che nasca?!!».
È il Po-confine di un giovane Pier Vittorio Tondelli, e poi di un rocker delle sue parti, anche lui Ligabue. Dell’Albero degli zoccoli e poi del Mestiere delle Armi di Ermanno Olmi; del gourmet Ugo Tognazzi, e quindi della salama da sugo, della filzetta all’aglio, di polenta e di anguilla. E prima anche di storioni, lucci, scardole, cavedani, carpe, e oggi del pesce siluro, lo “squalo del Po”, che se li mangia tutti. È l’acqua della vite dell’Oltrepò, del lambrusco, della Doc del Delta Ferrarese: il “vino delle sabbie”.
Si godono il panorama i crocieristi, i canoisti, gli amanti del softrafting. Gli operatori turistici più rilevanti in esercizio sulla rete idroviaria sono una ventina: la maggior parte hanno sede in Emilia Romagna, seguono Lombardia e Veneto, e dispongono di una flotta di 45 tra battelli e motonavi operativi lungo l’asta fluviale, 37 houseboats e diverse imbarcazioni minori. Per chi ama le due ruote, lungo gli ultimi 115 chilometri fino al mare si snoda una delle ciclovie più lunghe d’Europa, dai pressi di Bondeno in provincia di Ferrara fino a Faro di Gorino.
Sono le acque grigie dell’ultima scena di Paisà, i partigiani legati mani e piedi gettati nel fiume. Oggi quelle acque si colorano di rosa: alla foce di Comacchio, nel percorso che parte dal Casone Foce e arriva alla Torre Rossa, dimora la più numerosa colonia di fenicotteri rosa d’Italia. Ed è uno spettacolo vederli librarsi in volo al tramonto.


Pagina 99 we, 5.12.2015 - L'autore dell'articolo è probabilmente Diego Bonocore

25.1.16

La poesia del lunedì. Cesare Genovese (1927 -1999)

Sopra le vette alpine c’è la luna
Se dall’imposte, alquanto malsicure,
penetrava il riverbero lunare,
la luce tenue, in mezzo all’ombre scure,
mi faceva, sovente, sobbalzare.

Mi piaceva arrivare alla terrazza,
dopo le tante porticine anguste.
Ed ecco lo spettacolo: la piazza
del mio paese; in fondo, le vetuste

case, ad un piano, bianche di calcina.
Gli alberi ornamentali sonnolenti,
sfiora un cane guardingo e s’incammina,
fiutando l’aria, disperatamente!

Rompe il silenzio il sordo cigolare
di un vecchio carro, sull’acciottolato,
seguito dal confuso pigolare
di un passerotto, che si è risvegliato.

Quelle notti serene, in cui gli affanni
al mio cuore romantico eran grati,
tornano alla memoria, poiché gli anni
l’hanno, soltanto in parte, cancellate.

Tornano solo adesso che scompare
la luce della luna, sopra il bosco.
Sopra un picco dell’Alpi, che conosco,
le stelle ridiventano più chiare.

I miei sogni d’allora? Erano tanti
quanti, adesso, son pochi e son sparuti.
E, nella notte placida, ho davanti
quelli che si son persi e son caduti.

M'è rimasto soltanto il più verace:
l'amore che rallegra e che consola
e che sa dire sempre la parola
giusta, per riportare, in me, la pace.

da Canti di stagione, Stampa d'oggi, Roma, 1969

24.1.16

Lettere smarrite. Una nuova biografia di Jane Austen (Enrico Terrinoni)

Secondo quel monumento della civiltà inglese che è il Dictionary of National Biography, un giorno fu chiesto al filosofo britannico Gilbert Ryle se mai si dilettasse con la lettura dei romanzi. Il fiero oppositore del dualismo cartesiano, con nettezza ebbe a rispondere: «certo che li leggo: tutti e sei, ogni anno». Nel ridurre il canone romanzesco a un numero ben preciso e per giunta così ristretto di opere, Ryle faceva obliquamente riferimento alla produzione di una sola scrittrice, Jane Austen, più di altri maestra di dualismi.
Della Austen non sappiamo troppo in termini biografici, eppure si ha spesso l’impressione di saperne abbastanza. Il che è forse dovuto a quel profumo «familiare» che emanano le sue opere, sempre iscritte in circuiti estremamente ben definiti e apparentemente poco soggetti alle forze centripete e centrifughe dell’esistenza. È da poco uscito per Utelibri un bel libro titolato Jane Austen si racconta, per la firma di Giuseppe Ierolli (pp. 142, euro 13), una biografia sui generis basata interamente sulle lettere, le poche sopravvissute, dell’autrice inglese. Il testo, di taglio impressionistico e non a caso inaugurato da un commento tagliente e preciso di Tomasi di Lampedusa, è curato da un appassionato traduttore di Emily Dickinson, prima ancora che della Austen. Non si affianca certo, per aspirazioni analitiche, ai lavori dei vari La Faye, Nokes, Tomalin, ma senza dubbio si aggiunge al fecondo panorama italiano di studi sulla scrittrice inglese con una sua propria dignità, regalando al lettore curioso più d’un motivo di interesse.
Il saggio presenta la vicenda di Jane Austen innanzitutto come una «storia familiare», segnata dal rapporto con gli affetti prossimi, la sorella Cassandra, i fratelli, i nipoti: una chiave non da poco per permetterci di sondare la complessa personalità della scrittrice. E non indugia morbosamente, com’è avvenuto ad esempio di recente con il film Becoming Jane, su scampoli di flirt amorosi di cui si sa poco o nulla, e che rivelano ancora meno dei segreti di Jane Austen. Pone l’accento, invece, su quel complicato rapporto idiosincratico tra arte e vita che trasforma i romanzi della Austen in una sorta di commento obliquo sulla propria esistenza, un’esistenza di ragazza, come la descrive una zia, «niente affatto graziosa e molto compita», che una volta divenuta donna saprà dar voce al suo «particulare» dipingendo ritratti sociali di una precisione narrativa inarrivabile.
L’affidarsi alle lettere come unica fonte per la ricostruzione di una vita privata ben si adatta allo stile dei romanzi di Jane Austen, alcuni dei quali si suppone abbiano visto una prima stesura proprio come romanzi epistolari, seguendo così il solco tracciato da quel Samuel Richardson, padre del romanzo inglese, le cui storie si avvitano e si snodano proprio a partire da scambi di lettere. D’altro canto, il rilievo che queste ricoprono nella biografia di Jane Austen è provato dalle opinioni stesse dell’autrice, che scrivendo alla sorella nel gennaio 1801 rivela: «ormai ho acquisito la vera arte epistolare, che come ci hanno sempre detto, consiste nell’esprimere su carta esattamente ciò che si direbbe alla stessa persona a voce; ho chiacchierato con te quasi alla mia velocità abituale per tutta questa lettera». È una consapevolezza fondante per addentrarsi nelle fitte maglie dell’evoluzione del novel inglese. Se Richardson pensava, nell’avvicendarsi tumultuoso nei suoi romanzi epistolari, di poter sfiorare il realismo tramite la tecnica del «writing to the moment», ovvero annotando tutto quel che stava avvenendo proprio nel momento in cui avveniva per dare l’impressione di estrema urgenza e anticipando così effetti stenografici, per la Austen l’andamento epistolare rappresenta al tempo stesso un commento sul reale e una modalità dialogica per stabilire ponti, contatti con chi si ha non più vicino. È da quelle «chiacchierate» scritte nero su bianco che si evince il posizionamento dello sguardo di Jane Austen sul mondo, uno sguardo capace di annotare fin nel dettaglio più delicato il sottile ritmo di una emozione, la fragile eco di un pensiero taciuto.
Se Henry James crede sia compito del romanziere realista ottenere quella che chiama la «air of reality», Jane Austen si preoccupa di riempire quell’aria di parole sussurrate in modo preciso e con forza tanto circostanziata da donare credibilità ai suoi ritratti e inserire al contempo, nel quadretto di genere, lo stesso complice lettore. Come ci ricorda Ierolli, Robert William Chapman, curatore dell’epistolario, di fronte alla possibile obiezione che l’interesse delle lettere della Austen non fosse se non privato, non avendo nulla da rivelare della sua articolata personalità, risponde ricorrendo proprio al parallelo tra arte e vita: «queste lettere sono in realtà prive di interesse? Io non credo. Persino se Jane Austen non avesse altro per cui essere ricordata, le sue lettere sarebbero degne di essere conosciute. Lette con attenzione, forniscono un ritratto della vita della classe medio-alta di quel tempo che è sicuramente senza rivali, e non descrivono solo modi di vivere, ma anche persone. La stessa famiglia di Jane Austen, con le sue ramificazioni attraverso i matrimoni, è in se stessa un argomento più esteso – direi quasi, più ambizioso – di qualsiasi altro trattato nei suoi romanzi».
Gran parte dell’epistolario della Austen è andato distrutto per opera proprio di quell’amata sorella e confidente, Cassandra, preoccupata di non divulgare particolari poco appropriati della loro vita familiare. Così, ogni ricostruzione biografica basata sulle lettere andrà inevitabilmente a fondarsi sull’ipotesi di assenze più che sulla certezza di presenze. Tuttavia, rintracciare i profili di un’esistenza fugace nelle scie lasciate su campo bianco da inchiostro epistolare, è forse l’unico modo per far sì che quelle annotazioni meditate non si tramutino inesorabilmente in docili dead letters, ovvero in silenziose e innocue lettere smarrite.


alias domenica – il manifesto, 10.08.2013

23.1.16

!amore! Una poesia di Juan Ramòn Jiménez

Tutte le rose sono la stessa rosa,
!amore! l'unica rosa;
e tutto rimane contenuto in lei,
breve immagine del mondo,
!amore!, l'unica rosa.

in Fiamma Satta, Rose d'amore, Newton Compton, 2007

Fra cent’anni. Una poesia di Trilussa per ricordare la Grande Guerra

Sacrario-ossario di Redipuglia
Da qui a cent’anni, quanno
ritroveranno ner zappa la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po’ che montarozzo d’ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fora da la terra smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesi, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.

Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna diferenza.
Nell’occhio voto e fonno
nun ce sarà né l’odio né l’amore
pe’ le cose der monno.
Ne la bocca scarnita
nun resterà che l’urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro: — Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l’uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!


31 gennaio 1915

Andare via. Una poesia di Walter Cremonte

Andare via ci vuole una bugia
ognuno ha una memoria ma manca la pietà
nei ruoli dello stato

così inventare un’ansia, depressione
almeno un’influenza
potrei morire qui adesso non avrò il permesso

chi glielo dice che era un ciclista
di fama mondiale – ma nato in quei paesi
praticamente dove sono nato anch’io

(c’era proprio scritto viva Coppi Fausto
a chiarire le cose come stanno)

Oscar Wilde. Un esteta che odiava il capitale (Enrico Terrinoni)

«Il socialismo, il comunismo, o comunque vogliate chiamarli, nel convertire la proprietà privata in pubblica ricchezza, e sostituendo la competizione con la cooperazione, restituiranno alla società la sua giusta condizione di organismo del tutto sano, e assicureranno il benessere materiale di ciascun membro della comunità». Sembrano parole di un militante d’altri tempi, e lo sono, ma non appartengono a un personaggio che siamo soliti definire «di sinistra». Proseguendo nella lettura, ci imbattiamo in considerazioni altre: «perché si arrivi a un’esistenza sviluppata al suo massimo grado di perfezione, c’è bisogno di qualcos’altro. C’è bisogno di individualismo». È questo, scopriamo, un individualismo nuovo, un ritorno a un umanesimo libero dalle catene del capitale, un individualismo socialista, se l’espressione non suonasse come un ossimoro o un paradosso.
A profetizzare tutto ciò è proprio il padre dei paradossi: l’irlandese Oscar Fingal O’Flaherty Wills Wilde, che il 16 ottobre compirebbe il suo cento sessantunesimo compleanno. Il «vero individualismo» di cui parla Wilde nel suo saggio del 1891, dal titolo L’animo dell’uomo sotto il socialismo – saggio che oltre ad essere incluso in innumerevoli antologie, oggi trova spazio persino nella preziosa «enciclopedia» marxista online (www.marxist.org) – è appunto libero di quella proprietà privata colpevole di aver «impedito a una parte della comunità di essere individualista, affamandola, e a un’altra, dirigendola sulla cattiva strada». Che è poi la strada, mortifera per Wilde, dell’accumulo. Riflessioni affini a quelle di un altro intellettuale di cento anni dopo, questa volta sì un marxista, Terry Eagleton, il quale, parlando con la sua proverbiale schiettezza di una «ossessione per l’accumulo», collega la cultura del capitalismo a una sorta di patologia che allontana l’uomo dalla sua natura di essere relazionale e solidale.

Non solo dandy
La trita vulgata di tanta critica più attenta alla forma che alla sostanza, ci ha consegnato la figura di un Wilde raffinato esteta, lontano dalle bassezze della vita quotidiana e sempre tendente alla pura bellezza. Per fare della propria vita un’opera d’arte. Leggendone però l’opera nella sua interezza – dalle prime prove poetiche alle lettere sul sistema carcerario di cui era caduto vittima, dalle commedie brillanti dove sono i cinici ad affascinare per la loro intelligenza, alla Ballata dal carcere di Reading e al De Profundis – ci si accorge che il suo interesse per il miglioramento della condizione umana fosse tutt’altro che passeggero.
D’altro canto, è in virtù di queste ambivalenze che Wilde non sembra passare mai di moda. Lo dimostra un fiorire incessante di studi, all’estero, e anche in Italia, dove i suoi scritti sono continuamente riproposti e anche ritradotti. Solo un anno fa usciva per il Saggiatore l’epistolario completo: una sua lettura — anche affrettata — non può non far risaltare l’afflato umanitario e l’attenzione verso le cause degli ultimi («per quanto spaventosi siano i risultati del sistema carcerario… tuttavia non c’è tra i suoi scopi quello di distruggere l’umana ragione…»).
Viene pubblicata in questi giorni da Marsilio un’ottima edizione della sua prima commedia, scritta un anno dopo il saggio sul socialismo. È la commedia che lo portò al successo e lo proiettò, lui irlandese e figlio di una fervente patriota nazionalista, alla ribalta dei palcoscenici e dell’alta società inglese: Il ventaglio di Lady Windermere (a cura di Paolo Amalfitano, pp. 277, euro 18). Si situa sul solco del cosiddetto «teatro della restaurazione» che, dopo la caduta di Cromwell, vide sulle scene londinesi un ritorno del mondano, talvolta frivolo, ma sempre brillante – in reazione al precedente oscurantismo puritano arrivato nel 1642 alla chiusura dei teatri e alla messa al bando dell’intrattenimento.
La commedia di Wilde gioca con sospetti di tradimento, segreti oscuri da non rivelare, amori impossibili, e reputazioni da salvare. Il tutto condito dalla efficace velocità di battute memorabili, e di una macchina teatrale dai tempi e dal ritmo assolutamente perfetti. Per i pubblici di allora e per quelli di oggi.
Sul palcoscenico, gli attori di Wilde sembrano muoversi con la leggerezza di folletti shakespeariani, ed è tramite questa levità che egli affronta rapporti sociali complessi: matrimoniali, extraconiugali, ma anche generazionali. Come il rapporto madre-figlio, ad esempio, nella complicità originaria del legame nascosto tra Lord Windermere e Mrs Erlynne, e in quello conseguente, di mutua segretezza, tra quest’ultima e Lady Windermere.
A ben vedere, è la società inglese, per Wilde, a essere un palcoscenico, esattamente come per Shakespeare, che però ne ampliava i confini, nel suo Globe, per finire ad abbracciare il mondo. L’Inghilterra di Wilde è il paese visto da un quasi immigrato, da un esule, forse. All’arcinota vicinanza della madre, Lady Speranza, alla causa dell’indipendentismo irlandese ma anche al femminismo, si affianca, per completare il quadretto di una famiglia assolutamente «non inglese» e non conformista, l’impegno del padre, Sir William, nei confronti della preservazione del patrimonio culturale dell’Irlanda rurale. Era un patrimonio fatto di superstizioni e leggende, e minacciato dal velocissimo declino, nell’ottocento, della lingua in cui veniva articolato, l’irlandese appunto.
Il retaggio familiare di Wilde, assieme al suo interessamento per le sorti dell’uomo rimasto in balìa di forze, come quelle del capitale o dell’impero, che ne minano l’autentico sviluppo, permette di leggere le sue commedie da angolazioni ironiche, distaccate, mai complici. E se nel saggio sul socialismo egli si schierava in difesa di una sorta di «umanesimo individuale» capace di comporre il reticolo sociale come una comunità di animi naturalmente solidali, così nelle commedie dipinge la propria posizione, quella dell’artista, in contrasto con i banali e disumanizzanti rapporti di potere, tipici di una certa società bene dell’Inghilterra.

Dalle risate al dramma
È una critica, la sua, che poteva soltanto provenire da un outsider. Il critico Declan Kiberd ricorda come, alla stregua dei filí (i poeti ereditari della tradizione celtica irlandese) Oscar Wilde «iniziò sin da subito a denunciare un’aristocrazia pusillanime non più interessata a difendere gli spazi dell’arte».
Questo perché gli spazi dell’arte, anche attraverso la risata, possono e devono aprire una riflessione sull’umanità. Devono permetterci, dal fango, di guardare le stelle.
In quest’ottica, il frivolo ventaglio della commedia – quasi non notato, all’inizio, dalla sua proprietaria, salvo poi rivelarsi la firma di un possibile atto di adulterio – diviene un vero e proprio specchio posto davanti agli occhi divertiti di un pubblico inglese, che ride alle sue commedie ma solo per farsi beffe della propria comunità. E c’è da immaginarsi che Wilde ridesse ancor di più, dietro le quinte o nei gentleman’s club che ospitavano le altre sue famose tirate teatrali. Perché, come s’è detto, per lo scrittore la vita era un palcoscenico: un palcoscenico da cui, e di cui ridere.
A un certo punto, l’irlandese Oscar Wilde, non rise più, in quell’Inghilterra che con tanto ardore prima l’aveva elogiato e poi portato alla gogna. Le vicende dei processi per diffamazione e omosessualità sono note, come è nota la storia dei lavori forzati a cui fu condannato, e poi l’esilio, questa volta non più privilegiato. Un esilio vero, che tramutò Wilde improvvisamente in un reietto cittadino del mondo.
Prima Napoli, poi Parigi, alla ricerca di una quadra. Ma i fasti di un tempo lasciarono gradualmente il campo all’indigenza e alla disperazione. I suoi ultimi giorni si persero freneticamente alla ricerca di un equilibrio oramai scomparso, tra conti che non tornavano più e un senso della vita smarrito. Abbandonò il palcoscenico dell’esistenza nella solitudine, il 16 novembre del 1900. E lo fece in uno squallido albergo parigino, alla fine di una commedia, la vita, che si era trasformata in tragedia.


“il manifesto”, 16.10.2015

22.1.16

I miti crollano (canzone bellunese) - Una poesia di Stefano Benni

Mi sun alpin
me piase el Gin*
perché anche in degli alpin
gh'è qualche checa

* Forse Gino Pampanin, nome comune a una cinquantina di guide alpine di eccezionale prestanza fisica.


Da Prima o poi l'amore arriva, Feltrinelli, 1981

Brividi da zitella chez Balzac (Remo Ceserani)

Dell’importanza della Signorina Cormon era consapevole lo stesso Balzac, che lo definì «una delle mie cose migliori»: del resto, il romanzo affascinò Marcel Proust e attirò l’attenzione di un grande critico come Erich Auerbach, che quando in Mimesis si concentra sullo «spirito individualizzante e atmosferico dello storicismo» di Balzac, cita in proposito proprio una frase della Signorina Cormon: «le epoche stingono sugli uomini che le attraversano». Del romanzo si occuparono, dedicandogli attente analisi, critici come Fredric Jameson, che nell’Inconscio politico ne ha dato un’interpretazione marxista, e Philippe Hamon, che ne ha parlato a proposito della descrizione e dell’ironia, ma anche filologhi specialisti come Philippe Berthier, Stéphane Vauchon e Nicole Mozet che hanno dedicato al romanzo di Balzac scrupolose cure filologiche.
Ha fatto dunque benissimo Sellerio ad accogliere quella che è la prima traduzione italiana in assoluto dell’importante romanzo di Honoré de Balzac La signorina Cormon (versione molto rigorosa e scorrevole di Francesco Monciatti, pp. 474, euro 14,00) il cui titolo originale è La vieille fille, letteralmente «La zitella», che esce accompagnato da una sapiente, dettagliata postfazione di Pierluigi Pellini – il quale nella postfazione a questa edizione italiana, di cui è stato promotore, non esita a definirlo «un capolavoro del romanzo moderno» – e da un meticoloso apparato di commento, che non disturba la lettura distesa del testo, perché relegato in fondo al volume (sebbene il piccolo formato tascabile renda scomoda la consultazione dell’ampio e utilissimo apparato delle note).
Tradurre Balzac, contrariamente a quanto i lettori superficiali potrebbero pensare, non è impresa facile e questo testo risulta particolarmente arduo da rendere in italiano, per i frequentissimi doppi sensi, le molte allusioni ironiche, la scelta sistematica dell’ambiguità semantica, a cominciare dal nome stesso della protagonista, che non ha niente a che vedere con la cittadina friulana-slovena di Cormon, ma è quasi sicuramente anagramma fonico di Mon corps, il mio corpo: un corpo sgraziato, quello di Rose-Marie-Victoire, carnoso e abbondante, tenuto sotto controllo dalle pratiche religiose, dagli occhi vigili e pettegoli dei concittadini e dai consigli del direttore spirituale, ma percorso da fremiti, sconvolgimenti notturni e desideri d’amore (che saranno destinati alla frustrazione e a un sostanziale zitellaggio).
Il grande tema di fondo è la vita di provincia, indagata con spirito critico, spesso caustico e il punto di vista del narratore è quello del parigino, in una dialettica tipicamente francese: grande capitale vivace, moderna, brillante (e corrotta) versus provincia addormentata, immobile, stolidamente conservatrice (e dimentica delle antiche virtù). Siamo nella città di Alençon, in Bretagna, e l’occhio del romanziere ne mette sistematicamente in rilievo tutti gli aspetti, sia quelli di facciata sia quelli che si nascondono alle apparenze: rigida classificazione dei diversi strati sociali e delle loro gerarchie, accumulo di oggetti e memorie del passato (e segreta speranza di trovare in qualche ripostiglio un tesoro nascosto dagli antenati), culto ossessivo del cibo e del nutrimento (mentre a Parigi si mangia in punta di forchetta), centralità del denaro, considerato come sterile accumulo e non come circolazione della ricchezza, mania dell’ordine perseguita più per non aver altro da fare che per vocazione naturale, «crassa indifferenza verso il comfort professata con orgoglio».
Nella casa della signorina Cormon, che è al centro della vicenda ed è descritta minutamente in ogni sua parte, nulla è effimero, tutto appare eterno: vi si respira «l’aria della vecchia, inalterabile provincia» e a un certo punto il narratore commenta, con largo usa dell’ironia e di quella che è stata chiamata la prospettiva per incongruenza: «Certa gente, che parla molto di poesia senza capirci nulla, blatera contro i costumi della provincia; però, prendetevi la fronte con la mano sinistra, appoggiate un piede sull’alare del camino, posate il gomito sul ginocchio (la posa, osserva Pellini, è volutamente e ironicamente romantica) poi, se siete entrato in sintonia con l’insieme dolce e uniforme costituito da questo paesaggio, da questa dimora e dai suoi interni, dalla compagnia e dai suoi interessi ingigantiti dalla pochezza dello spirito, come l’oro battuto tra i fogli di pergamena, chiedetevi: che cos’è l’umana esistenza? Sforzatevi di giudicare tra colui che ha scolpito anatre tra gli obelischi egiziani e colui che ha giocato a boston per vent’anni insieme a du Busquier, al signor di Valois, alla signorina Cormon, al presidente del tribunale, al procuratore del re, al reverendo di Sponde, alla signora Granson, e a tutti quanti? Se il ripetersi esatto e quotidiano dei soliti passi su uno stesso sentiero non è la felicità, le somiglia così tanto che le persone condotte dai turbini di una vita frenetica a riflettere sui benefici della quiete diranno che questa era la felicità».
In questo passo sono nominati tutti i personaggi principali della vicenda, eccetto due: la «casta» Susanna, furba e provocante come l’omonimo personaggio biblico che, dopo aver giocato un bel tiro agli uomini della compagnia, se ne è già partita alla volta di Parigi, lontano dalla provincia, per fare la vita lussuosa della prostituta d’alto bordo, e il giovane idealista, romantico, liberale e aspirante scrittore Athanase Granson, innamorato della signorina Cormon, destinato a essere escluso da quella apparente «felicità» e finire suicida.
Al centro della vicenda c’è quindi il triangolo composto dalla signorina Cormon e dai due aspiranti alla sua mano, fra i quali lei è destinata a fare la scelta sbagliata sposando quello che finirà per introdurre, nella commedia della vita di provincia, i temi drammatici della fortuna materiale, spregiudicata e pacchiana della borghesia in ascesa, dell’infelicità, anche sessuale, della protagonista e dello svuotamento del maniacale perseguimento della felicità consentito dalla vita di provincia: il matrimonio.
I tre personaggi sono, come ha giustamente sostenuto la critica più attenta e come spiega efficacemente Pellini nella sua postfazione, al tempo stesso realistici e allegorici. Ciascuno di loro rappresenta e incarna un’epoca storica: l’ancien régime (l’aristocratico decaduto signor di Valois), l’impero (il borghese sicuro di sé du Busquier), la Restaurazione (la signorina Cormon). Balzac descrive con grande attenzione e perizia il loro aspetto fisico, l’abbigliamento, le abitudini di vita, i discorsi, i loro tic nervosi, le loro azioni e, accompagnandoli con le metafore appropriate, costruisce al tempo stesso dei personaggi che il lettore impara a conoscere e le posizioni storico-ideali che incarnano. Ogni dettaglio (e sarà questo il grande insegnamento di Balzac per Dickens e Tolstoj), ogni minimo particolare ha un significato sicuro e profondo, è un investimento semantico. Le descrizioni sono straordinarie. Il naso «prodigioso» del signor di Valois divide il suo volto pallido in due parti che danno l’impressione di non conoscersi fra loro e diventa il simbolo della doppiezza della sua vita, fra esteriorità formale e interne ossessioni, addirittura delle due fasi in cui essa si svolge. Il parrucchino che nasconde (non sempre, purtroppo) la calvizie del du Busquier, rivela che sotto i suoi modi prepotenti e i desideri spregiudicati di affermazione sociale sta una reale (e sessuale) impotenza. Basti, a proposito di descrizione, dare l’esempio di quella dettagliata che accompagna l’entrata in scena della signorina Cormon.
È un ritratto straordinario, che va contro tutte le convenzioni, e parte, diversamente dal solito, dai piedi: «I piedi dell’ereditiera erano grandi e piatti; la gamba, che spesso mostrava quando, senza alcuna malizia, sollevava il vestito dopo la pioggia, uscendo di casa o da Saint-Léonard, non poteva esser presa per una gamba di donna. Era una gamba nervosa, dal polpaccio piccolo, duro e rilevato, come quello di un marinaio». Quale altro scrittore avrebbe scelto di puntare l’obiettivo sulle gambe della povera signorina Cormon, per farci conoscere il suo carattere e al tempo stesso per rappresentare l’apparente solidità e al tempo stesso la inevitabile fragilità della Restaurazione?


alias domenica – il manifesto, 22.03.2015

21.1.16

La nostra sciagura o la nostra fortuna (Franco Fortini)

Che sciagura astuta gli anni ci hanno apparecchiata o che straordinaria, immeritata fortuna! Il paesaggio di corpi e parole è tutto mutato intorno ed è irriconoscibile. Il linguaggio materno è distante come da quello di allora il sapore dei frutti di oggi. Lo spazio è tanto vuoto che ogni minimo suono ne ricava un’eco. E nel medesimo tempo i rumori sono così scatenati che una frase pronunciata a voce normale ha poche probabilità di venire intesa. Ma supponiamo pervenga a destino. Sarebbe allora la compiuta notizia di una esperienza compiuta. Raggiunta la mente di un giovane, può suonargli più opaca di una moneta d’ottone sul marmo. O invece dargli presentimento e quasi rimorso d’un passato da interrogare e cui misurarsi. Che è come dire: di un futuro da penetrare in compagnia di un passato. Così una volta accadde a noi.

Da Nulla è dovuto per il recapito in Insistenze, Garzanti, 1985

20.1.16

Un papa liberale? Non è vero ma ci credo (Mario Isneghi)

Pio IX
Da roccioso diniego, quale era stato Gregorio xvi, punto di resistenza di tutte le preventive obiezioni al cambiamento, il vescovo di Imola salito al soglio di Pietro col nome di Pio IX si presta a figurare da mallevadore e vindice della patria, della libertà, della indipendenza nazionale, della Costituzione, persino della modernizzazione dei trasporti e delle ferrovie. Viva il papa liberale! Viva l’Italia!
Non è vero, ma ci credo: questo il senso del biennio 1846-48. E non solo agli occhi dei posteri. Un sonetto di Francesco Dall’Ongaro - prete spretato e quarantottardo a sinistra di Manin - lo mostra lucidamente: Pio IX è una creatura dell’immaginario. La recitazione si fa universale. Nei teatri dello Stato pontificio - a Bologna e Cesena già in agosto, a San Giovanni in Persiceto in ottobre - il “Sommo Carlo” invocato nel terzo atto dell’Ernani deve togliersi di mezzo, benché si tratti di Carlo Magno e ne canti Carlo v, per essere sostituito da un inopinato "O sommo Pio” prorompente dalla cronaca.
E la recita traborda, esce dalle sale, si fa a Roma comunione sociale, con epicentro nei grandiosi cortei e banchetti, in una edizione politicamente riveduta e corretta delle feste romane, dove tutti - uomini e donne con la coccarda tricolore - recitano la scoperta e la mistica della cittadinanza. Il far teatro è divenuta una pratica sociale semiunanime e si è riversato fuori, non importa se le sale teatrali rimangono vuote - come sarà poi, ma ora per una forma di assenteismo e di contrasto politico, nel diverso contesto del dopo ’48. Gustavo Modena prevede che potranno restare vuote per anni. O piuttosto - potremmo aggiungere - diventano lo spazio di una nuova autorialità diffusa e fuori programma, di una presa della parola fatta di discorsi, cori, versi, cantate. Mentre si danno azioni sceniche più dirette, teatro di strada. Anche dei giochi di parola escogitati dall’“arguzia popolare", che a Venezia, dove l’I.R. polizia proibisce inni più dispiegati, suggerisce canticchiamenti come questo: “Via l’x con l’i da drìo, / e l’uselin che fa pio pio". 
Un testimone molto vicino a Verdi fa capire in una lettera del 9 novembre 1846 a che punto sia giunto l’"innamoramento” collettivo per questo papa "diverso”:

Si era sparsa la ciarla che una mattina portarono del cioccolatte al Papa, e che era avvelenato. Non bisogna crederlo; perché sono i fanatici quelli che l’inventano. Mi hanno detto persone che sono venute da Roma che se Pio IX morisse non si salva un Cardinale, che sicuramente sarebbero tutti uccisi dal popolo; il quale non li può più soffrire, perché sono oppositori delle riforme veramente paterne di quel stragrande miracolo di Papa.

da Ritorni  di fiamma. Storie italiane, Feltrinelli 2014 

La Piramide di Cheope: ecco le carte (Paolo Matthiae)

Eccezionale ritrovamento della Missione francese sulla costa di Suez: una caverna restituisce papiri che raccontano il colossale cantiere attraverso date, organizzazione del lavoro e trasporto dei materiali.
È stato il più gigantesco cantiere architettonico di tutti i tempi per l’intera durata dell’Antichità e del Medioevo, fino agli albori dell’Età moderna. Considerata in età ellenistica una delle sette meraviglie del mondo, la Piramide di Cheope, eretta negli anni attorno al 2600 a.C., impegnò migliaia di operai e artigiani di altissima specializzazione. È probabile che il suo architetto sia stato il principe Hemiunu, figlio del vizir Nefermaat e della sua sposa Itet e nipote di Snofru, fondatore della IV Dinastia, vizir anch’egli e «sovrintendente dei lavori del re», che fu sepolto in una delle tombe a mastaba localizzata su uno dei lati del gigantesco sepolcro di Cheope. La sua immagine ci è conservata in un’impressionante scultura del Pelizaeus Museum di Hildesheim.
Inattese testimonianze sulla complessa organizzazione dei lavori che permisero la realizzazione della straordinaria ultima dimora del faraone che una tradizione assai antica, ancora viva all’inizio del III secolo a.C. (quando il sacerdote Manetone scrisse per i nuovi signori dell’Egitto di stirpe macedone dopo la conquista di Alessandro), dipingeva come un inflessibile tiranno, vengono dalle scoperte recenti di una Missione archeologica francese dell’Università di Paris-Sorbonne e dell’Institut Français d’Archéologie Orientale, guidata da Pierre Tallet, allo Wadi el-Jarf sulla costa occidentale del Golfo di Suez.
In questa località sono venute alla luce installazioni marittime, che sono state definite a ragione le più antiche del mondo, databili tra la fine della III e gli inizi della IV Dinastia del regno faraonico: un molo composto di due segmenti ortogonali lunghi 160 e 120 metri, proteggeva un bacino d’ancoraggio di più di due ettari di superficie dove sono ancora più di una ventina di ancore disperse sul fondo del mare. A circa 200 metri di distanza sono state identificate cellette disposte a pettine in due campi, dove sono state trovate un centinaio di ancore in calcare, alcune iscritte in caratteri geroglifici corsivi con i nomi di battelli 0 di equipaggi. A una distanza di circa 6 chilometri sono stati identificati i resti di accampamenti faraonici con serie di gallerie scavate nella roccia che dovevano servire per custodire materiali appartenuti a equipaggi di piccole imbarcazioni dei primi decenni dell’antico Regno.
All’ingresso di una di queste gallerie, bloccate da grossi massi squadrati che dovevano sigillare questi apprestamenti quando furono abbandonati, sono stati trovati un’ampia serie di resti di papiri nei quali compare ripetutamente il nomedi Cheope. In una cinquantina di frammenti di papiro, che costituiscono la più antica documentazione papirologica finora scoperta in Egitto, si trovano inattese informazioni sui lavori preparatori della costruzione della Grande Piramide, risultanti da due serie distinte di documenti, che possono essere definiti, da un lato, contabilità e, dall’altro, veri e propri giornali di bordo.
Uno dei documenti contiene una data che corrisponde al 26° o 27° anno di regno di Cheope, mentre i testi fanno riferimento alle équipe impegnate nella costruzione dell’immenso sepolcro, che raccoglievano un migliaio di lavoratori e che erano suddivise in manipoli, detti “tribù”, di 200 operai, di cui sono riportati i nomi: la «Grande», l’«Asiatica», la «Prospera», la «Piccola». Una perfetta macchina organizzativa era prevista: nei documenti sono registrati, per ciascun manipolo, l’ammontare della dotazione prevista, quello di quanto realmente consegnato e, infine, il residuo presente nell’accampamento, mentre tra le registrazioni appaiono i nomi dei nòmoi, le provincie dell’antico Egitto, con quanto avevano versato in granaglie per il mantenimento dei lavoratori.
Per quanto concerne, invece, i giornali di bordo, questi, in maniera del tutto inaspettata, fanno riferimento proprio al trasporto per via fluviale verso Giza delle gigantesche lastre della pregiata pietra di Turah che venne utilizzata per il rivestimento della Grande Piramide, il cui nome antico era «Orizzonte di Cheope»: i papiri citano il transito delle pietre verso la «Porta dello Stagno di Cheope», che doveva essere la sede del distretto amministrativo creato per il coordinamento dei lavori di realizzazione del gigantesco progetto.
Erodoto, più di 2000 anni dopo la costruzione, afferma che per la costruzione della Grande Piramide lavorarono 100mila uomini per 20 anni. Nelle ricostruzioni moderne si ritiene verosimile che furono in realtà impiegati tra 20mila e 30mila uomini divisi in gruppi di 2mila lavoratori per l’estrazione, il trasporto e la messa in opera di blocchi di pietra del peso, solo in media, di circa 2 tonnellate e mezza.
Le recenti straordinarie scoperte della Missione francese permettono oggi di controllare queste teorie, per verificare le quali nella stessa Giza negli anni passati fu costruita una piccola piramide moderna chiamata la piramide «Nova» secondo le tipiche e suggestive procedure dell’archeologia sperimentale.
Ma nessuno poteva immaginare che stupefacenti documentazioni epigrafiche contemporanee del grande faraone potessero confermare gli audaci calcoli degli egittologi di oggi.


“Il Sole 24 ore domenica”, 15 marzo 2015

Lu sposalizio de l’arriccato. Una poesia in dialetto ternano di Antonio Pecorelli (1923-1986)

“Voli Clemente Tronfio per consorte
Rosina Crastabbiocche qui Presente ?”
‘Sto siso pavoneggia po’ fa forte:
“L’ho straportata in chiesa espressamente!”

Don Gino rastia e annanno pe’ le corte
ripete: “Voli tu Tronfio Clemente
sposà Rosina in vita come in morte?”
E quisto: “Sono qui positamente!”

Lu prete ruscio come un pomidoro
chiude lu libro e ne’ smiccià l'astanti
t'arza su ‘n braccio pe’ zittì lu coro ...

Po’ fa a lu sposo: “Pochi paroloni,
o dici SCI’ come che tutti quanti
o me te sciacqui via da li coglioni” !!!

22/12/1969

da Vestito blu (a cura di Fabio Pecorelli), Terni, 2015

18.1.16

La poesia del lunedì. Walter Cremonte

ONDE

Quando le onde vengono piano
alla riva, dove vanno i pensieri
vanno dove vogliono andare
vanno e vengono, ritornano a riva
o vanno dove il mare è profondo
da dove non tornano...  

da Come qualcosa che dura, Perugia 2015

17.1.16

Stazione Nord a Milano. Una poesia di Michele Stellato

Sapendo del mio arrivo sei venuta ad aspettarmi
alla stazione dei treni
e fu un convegno (non il caso)
e per questa rosa
ancora fresca fuori stagione
che mi offri
in punta di dita (che sciocca, ma dovevi farlo?)
chissà quante stille di sangue
ti sei spremute
dall’unico seno
per tenerla in vita.

Fu un giorno alla perfezione,
dietro le cancellate dei cortili
risuonava il badile,
il morso affaccendato delle cesoie.
La città qui e là negli orti
in una mano l’annaffiatoio,
in testa il fazzoletto a fiori di contadina.

- Hai viaggiato bene?
Cosi per dire, per il resto
sapevamo tutto:
la via di casa tua, la spesa
già fatta per due, il numero del tram.

“Quaderni della Fenice”. n.26, Guanda, 1977

14.1.16

Pensare la Cina. Ripensare il post-capitalismo (Domenico Losurdo)

Trovo in rete questo testo di Domenico Losurdo, con un passato illustre di accademico, autore negli ultimi anni di libri importanti su questioni cruciali, da Stalin alla lotta di classe alla non violenza, oggi presidente dell'associazione politico-culturale “MARX XXI”. Si tratta della relazione presentata a un convegno tenutosi a Roma il 2 ottobre 2015, dal titolo La Cina dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2008.
Nonostante una maliziosa citazione del Grande Timoniere, l'impianto del discorso di Losurdo è rigorosamente antimaoista e sostanzialmente stalinista. Ho molte ragioni di dissenso da questa lettura che si traduce in una apologia della Cina di oggi, cui si attribuisce il carattere di società postcapitalistica che sta costruendo il socialismo guidata dal partito comunista e insidiata dal capitalismo mondiale e da una borghesia autoctona forte, ma a tutt'oggi priva di potere politico. Non intendo parlarne qui, è tema assai complesso. Accenno solo a un nodo, a mio avviso centrale: la democrazia di base, l'iniziativa delle masse, operaie in primo luogo, una trasformazione che non riguardi solo i rapporti di proprietà e di produzione, ma i rapporti di potere; insomma quel complesso di tematiche su cui Mao, soprattutto nella Rivoluzione culturale, fornisce al marxismo del ventesimo secolo – non senza contraddizioni – un apporto originale e, a mio avviso, attuale. (S.L.L.)

Ai giorni nostri è un luogo comune parlare di restaurazione del capitalismo a proposito della Cina scaturita dalle riforme di Deng Xiaoping. Ma su che cosa si fonda tale giudizio? C’è una visione più o meno coerente di socialismo che si possa contrapporre alla realtà dei rapporti economico-sociali vigenti nella Cina odierna? Diamo un rapido sguardo alla storia dei tentativi di costruzione di una società postcapitalistica. Se analizziamo i primi 15 anni di vita della Russia sovietica, vediamo susseguirsi rapidamente il comunismo di guerra, la NEP e la collettivizzazione integrale dell’economia (compresa l’agricoltura). Ecco tre esperimenti tra loro ben diversi, ma tutti e tre caratterizzati dal tentativo di costruire una società post-capitalista! Perché mai dovremmo scandalizzarci per il fatto che, nel corso degli oltre ottanta anni che hanno fatto seguito a tali esperimenti, ne siano emersi altri, ad esempio il socialismo di mercato e dalle caratteristiche cinesi?
Concentriamoci per ora sulla Russia sovietica: quale dei tre esperimenti appena visti si avvicina di più al socialismo teorizzato da Marx ed Engels? Il comunismo di guerra viene così salutato da un fervente cattolico francese, Pierre Pascal, in quel momento a Mosca: «Spettacolo unico e inebriante […] I ricchi non ci sono più: solo poveri e poverissimi […] Alti e bassi salari s’accostano. Il diritto di proprietà è ridotto agli effetti personali». Questo populismo, che individua nella miseria o nella penuria il luogo dell’eccellenza morale e condanna la ricchezza come peccato, è criticato con grande precisione dal Manifesto del partito comunista: non c’è «nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una mano di vernice socialista»; i «primi moti del proletariato» sono spesso caratterizzati da rivendicazioni all’insegna di «un ascetismo universale e un rozzo egualitarismo» (MEW, 4; 484 e 489).
Al comunismo di guerra subentra pochi anni dopo la NEP che sviluppa le forze produttive e combatte la miseria di massa, ma al tempo stesso tollera una ristretta area di economia capitalistica e introduce vistosi elementi di diseguaglianza: indignati, migliaia di operai bolscevichi strappano la tessera del partito. In Russia e fuori, persino tra i dirigenti comunisti trova spazio un atteggiamento, così deriso da Lenin: «Vedendo che ci ritiravamo, alcuni di essi sparsero, puerilmente e vergognosamente, persino delle lacrime, come avvenne all’ultima seduta allargata del Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista. Animati dai migliori sentimenti comunisti e dalle più ardenti aspirazioni comuniste, alcuni compagni scoppiarono in lacrime» (LO, 33; 254-55). È soprattutto il crescente pericolo di guerra a provocare l’abbandono della NEP e la cancellazione di ogni traccia di economia privata. Dopo un tragico periodo di guerra civile nelle campagne, l’economia sembra procedere nel migliore dei modi: al rapido sviluppo delle forze produttive s’intreccia l’edificazione di uno Stato sociale senza precedenti nella storia. In realtà, con il passaggio dalla grande crisi storica a un periodo più «normale» (la «coesistenza pacifica») si affievoliscono e poi dileguano l’entusiasmo e l’impegno di massa nella produzione. Negli ultimi anni della sua esistenza l’Unione Sovietica è caratterizzata dall’assenteismo e dal disimpegno di massa sui luoghi di lavoro: non solo ristagna lo sviluppo produttivo, ma non trova più alcuna applicazione il principio che secondo Marx dovrebbe presiedere al socialismo (la retribuzione a seconda della quantità e qualità del lavoro erogato).
Diverso è il quadro che presenta la Cina. Nel 1949 il Partito comunista cinese conquista il potere a livello nazionale, dopo aver però cominciato già vent’anni prima a esercitarlo in questa o quella regione, una regione la cui estensione e la cui popolazione sono paragonabili a quelle di un paese europeo di media grandezza. Per buona parte di questi 85 anni di gestione del potere, la Cina, in parte o globalmente governata dai comunisti, è caratterizzata dalla compresenza di economia statale, economia pubblica ma non statale, economia cooperativa, economia privata: è così che la descrive alla fine degli anni ’30 Edgar Snow. A Yenan – osserva uno storico dei giorni nostri (Rana Mitter) – il partito comunista «esercita la supervisione su un’economia privata di significative proporzioni, che include proprietà terriere private di larghe dimensioni». La compresenza di diverse forme di proprietà non cessa dopo il 1949, anzi viene esplicitamente teorizzata da Mao in un discorso del 18 gennaio 1957, che distingue tra «espropriazione politica» ed «espropriazione economica»: la borghesia doveva essere espropriata sino in fondo del suo «capitale politico», della considerevole influenza politica da essa esercitata; il capitale economico, invece, non doveva essere oggetto di espropriazione totale, almeno sino a quando poteva servire allo sviluppo dell’economia nazionale e quindi, indirettamente, alla causa del socialismo.
È una linea politica che cade in crisi con il Grande balzo in avanti del 1958-59 e la Rivoluzione culturale scatenata nel 1966. Gli ultimi anni della Cina maoista non si distinguono molto dagli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica. In mancanza di incentivi materiali, i tentativi di rilanciare la produzione mediante gli appelli alla mobilitazione e all’entusiasmo di massa non producono più alcun risultato: alla liquidazione sostanziale del principio socialista della retribuzione in base al lavoro erogato fa seguito il ristagno produttivo; mentre non mancano coloro (la cosiddetta Banda dei quattro) che cercano di trasfigurare tutto ciò agitando il motivo populista del socialismo povero ma bello.
Il populismo diviene poi il bersaglio della polemica di Deng Xiaoping. È rimasto celebre il suo detto: «diventare ricchi è glorioso!». Ma forse, per comprenderlo adeguatamente, occorre collegarlo con un altro detto che meriterebbe di essere non meno famoso: «diventare ricchi non è un peccato!». Si tratta in altre parole di farla finita con l’«ascetismo universale» e il «rozzo egualitarismo» denunciati già dal Manifesto del partito comunista. Deng Xiaoping ha avuto il merito storico di comprendere che il socialismo non ha nulla a che fare con la ripartizione più o meno egualitaria della miseria e della penuria; agli occhi di Marx ed Engels il socialismo è superiore al capitalismo non solo perché garantisce una più equa ripartizione delle risorse, ma anche e soprattutto perché assicura uno sviluppo molto più rapido e più largo della ricchezza sociale; ed è per conseguire questo obiettivo che il socialismo è regolato dal principio della retribuzione secondo il lavoro erogato.
Le riforme introdotte da Deng Xiaoping hanno stimolato un miracolo economico senza precedenti nella storia, con la liberazione dalla miseria di centinaia e centinaia di milioni di persone. Si sono al tempo stesso inasprite le diseguaglianze? In realtà, a livello internazionale si sta riducendo la «grande divergenza», il distacco economico e tecnologico detenuto dall’Occidente sul resto del mondo. E per quanto riguarda il rapporto all’interno del grande paese asiatico? Sia la NEP sovietica sia il nuovo corso cinese sono stati preceduti da crisi devastanti che hanno comportato anche la morte per inedia su larga scala.
Allorché la miseria raggiunge un certo livello, essa può comportare il pericolo della morte per inedia. In tal caso, il pezzo di pane che garantisce ai più fortunati la sopravvivenza, per modesto e ridotto che esso sia, sancisce pur sempre una diseguaglianza assoluta, la diseguaglianza assoluta che sussiste tra la vita e la morte. E cioè, allorché la miseria diventa disperata e di massa, lo steso problema dell’eguaglianza può essere risolto solo mettendo l’accento sullo sviluppo delle forze produttive.
Il bilancio positivo fin qui tracciato non ci deve far perdere di vista le sfide. La campagna per la «democratizzazione» della Cina (nei tempi e nei modi dettati da Washington e Bruxelles) è in realtà una campagna per mettere fine all’«espropriazione politica» della borghesia cinese e consentirle di conquistare il potere politico (che per ora non detiene in alcun modo). Se, come osservano molti analisti, oggi in Occidente il potere della ricchezza è tale che si può parlare di avvento della «plutocrazia», dobbiamo concludere che la campagna in corso per la democratizzazione della Cina è una campagna per la sua plutocratizzazione. Una seconda campagna, condotta sempre da Washington e Bruxelles, esige la sostanziale liquidazione del settore statale dell’economia che un ruolo così importante svolge nella lotta contro le due grandi divergenze: sul piano internazionale tale settore promuove lo sviluppo tecnologico della Cina, che sempre più riduce il suo distacco rispetto ai paesi più avanzati; sul piano interno, esso accelera lo sviluppo delle regioni meno avanzate del grande paese asiatico, che ora non poche volte crescono a un ritmo più accelerato delle regioni costiere. Se questa seconda campagna dovesse aver successo, sarebbe liquidata l’«espropriazione economica» della borghesia, che di nuovo vedrebbe spianata la strada per la conquista del potere politico. Sono chiare le armi con le quali si sviluppa la lotta contro il paese scaturito dalla più grande rivoluzione anticoloniale della storia, impegnato in un processo di lunga durata di costruzione di una società post-capitalistica. Come si schiererà la sinistra occidentale?


Dal sito dell’Associazione politico-culturale “Marx XXI”

«Si vive finché si ama». Intervista a Elena Benvenuti Binni (Sandro Allegrini)

Il testo che segue è un'intervista dello scorso aprile a Elena Benvenuti, la vedova di Walter Binni, che fu, con la comunista Fernanda Maretici, la prima donna consigliere comunale a Perugia, per il Partito socialista, nel 1946. Ho avuto la gioia di conoscerla nelle campagne lucchesi, donde era originaria ed ammirarne a 101 anni la presenza e lo stile. E' morta domenica scorsa e l'abbiamo salutata ieri, nella Chiesa di Casaglia. C'era poca gente, la famiglia, qualcuno degli amici di Capitini e Binni, qualche femminista, qualche intellettuale illuminato. Nessun politico in attività, ad eccezione del presidente del Consiglio Comunale, Varasano, che è un uomo di destra, ma ha mostrato nell'occasione sensibilità istituzionale. Nessun esponente della sinistra, del centro sinistra o del partito democratico. Il prete che ha fatto l'omelia si è dimostrato professionalmente capace: s'è documentato sulla figura della Benvenuti, ha citato alcune sue frasi, ha fatto riferimento senza citarlo a Capitini e alla sua teoria della compresenza dei morti e dei viventi. (S.L.L)
Elena Benvenuti con il figlio Lanfranco Binni 
Elena Benvenuti è nata a Lucca, il 16 settembre 1912. Studentessa universitaria a Pisa, nella Facoltà di Lettere, conobbe Binni nel 1932 alle lezioni dell'italianista Attilio Momigliano. Dal 1933 iniziò la sua profonda relazione d'amore con Walter, di cui sarebbe stata la compagna di tutta una vita. Si sposarono nel gennaio del 1939, stabilendosi a Perugia, dove Binni insegnava all'Università per Stranieri.
Dopo la Liberazione, fu eletta per il Partito socialista nel primo consiglio comunale di Perugia, mentre Binni fu eletto deputato socialista all’Assemblea Costituente. Da sempre è stata la più assidua collaboratrice del marito, battendo a macchina i suoi libri, correggendo le bozze, curandone la corrispondenza, partecipando alle sue relazioni politiche e letterarie.

Cosa ricorda degli anni di Perugia?
Abbiamo vissuto a Perugia dal 1939 al 1948, gli anni dell’antifascismo, della guerra, della Resistenza e della Costituente. Walter era già attivo, dal 1936, nelle reti nazionali della cospirazione antifascista, a fianco di Aldo Capitini. Per me la grande scoperta, a Perugia, fu proprio Capitini, un vero campione di rigore intellettuale e morale: per Walter un fratello maggiore, per me un grande amico, per i miei figli un maestro (il figlio Lanfranco ha in preparazione un libro sul Capitini politico, ndr). Ripenso spesso all’entusiasmo con cui Walter ed io salivamo di corsa i 103 gradini che portavano allo studiolo di Capitini, nella torre campanaria del Palazzo dei Priori, per incontrarci con lui. Sono stati anni intensi, drammatici, entusiasmanti: di conflitto e di liberazione, di solidarietà e di speranza.

Poi, la partenza da Perugia.
Nel 1948, conclusi i lavori della Costituente, Walter vinse una cattedra all’Università di Genova. Da quel momento si sarebbe totalmente dedicato al suo lavoro di critico, storico della letteratura e docente universitario. Da Perugia ci trasferimmo a Lucca, poi nel 1958 a Firenze, e infine (1964) a Roma, dove Walter concluse la sua attività universitaria.

Che cosa ha significato vivere accanto a un grande intellettuale?
Più che accanto, siamo vissuti insieme. Ho imparato, nel corso della mia lunga vita, a dare un grande valore a questa parola.

Dopo la morte di Binni, nel 1997, si è dedicata all’ordinamento del suo archivio.
Ho continuato a lavorare “con lui”. La sua biblioteca di studioso (15.000 volumi) è stata donata, per sua volontà, alla Regione Umbria, per essere collocata nella Biblioteca comunale Augusta di Perugia, dove oggi si trova, finalmente catalogata. Il lavoro più impegnativo ha riguardato l’archivio, che oggi si trova in gran parte presso l’Archivio di Stato di Perugia: lettere (più di 14.000), fotografie, documenti. Con i miei figli Francesco e Lanfranco stiamo ancora ordinando gli ultimi materiali.

E le lettere di Binni ai suoi corrispondenti? Sono state pubblicate?
Alcune sì: nel 2007 è stata pubblicata una scelta dell’immenso carteggio con Capitini, nel 2009 quello con Giuseppe Dessí, recentemente quello con Luigi Russo.

E le opere di Binni? È in corso un’edizione delle opere complete…
Sì, se ne occupa Lanfranco con Il Ponte Editore. Sono già usciti nel 2014 «Leopardi», 3 voll., «Scritti novecenteschi», «Scritti politici», «La poetica del decadentismo»; è in stampa «Ariosto», in preparazione «Alfieri», 2 voll., e quattro volumi di scritti settecenteschi. Il piano editoriale prevede venti volumi entro la fine del 2017. Mi piace che, oltre all’edizione su carta, le opere siano liberamente scaricabili da Internet, dalla sezione “Biblioteca” del sito www.fondowalterbinni.it. Questa soluzione sarebbe piaciuta anche a Walter.

Binni si definiva «leopardista leopardiano» e «pessimista rivoluzionario», è vero? E che significa?
Sì, Leopardi è stato il poeta della sua vita e ha continuato a frequentarlo, a studiarlo, a scriverne fino alla fine. Uno dei libri che amava di più era La protesta di Leopardi, pubblicato nel 1973, e quel titolo rivelava il legame profondo tra Leopardi e la concezione del mondo di Walter. Si trattava anche della protesta esistenziale e politica dello scrittore e del critico: intransigente, indignato, inconciliabile, antiaccademico.

Un ricordo degli amici perugini?
È indelebile il ricordo di tanti amici: Aldo Capitini, Bruno e Maria Enei, Ilvano e Marisa Rasimelli, Maria Schippa, Piera Brizzi, Alberto e Renata Apponi, Remo e Clara Mori... L'elenco sarebbe lunghissimo, di una straordinaria varietà umana ed esistenziale. Spesso rivedo i volti di tante umili donne di Via della Sposa (abitavamo in via Lorenzo Spirito Gualtieri), compagne comuniste e socialiste, straordinariamente umane e generose. In quegli anni sono nati i nostri due figli, Francesco e Lanfranco (il quale ricorda che a insegnargli a leggere fu il grande perugino Giacomo Santucci, ndr). Poi la vita ci ha portati altrove, ma il legame con Perugia è rimasto sempre fortissimo. Walter amava la sua città, la considerava all'origine della sua stessa “tensione” di critico, con la durezza sconvolgente della tramontana, la presenza della Storia in ogni suo dettaglio, l'invito all'essenzialità.

Un bilancio dei suoi “primi” cento anni?
Oggi, dall'altezza dei miei anni, ormai più di cento, continuo a considerare centrale il valore delle esperienze che abbiamo avuto la buona sorte di vivere. Auguro a tutti, con gratitudine, una vita essenziale e attenta alle persone. Da vivere «con semplicità», come mi scrisse Aldo nella sua ultima lettera, e parlava della sua morte imminente. Diceva Bonhoeffer, il grande teologo tedesco assassinato dai nazisti, che niente è più miracoloso del sorriso di un bambino. E, come Walter continuamente ripeteva (con Feuerbach), si vive finché si ama.


“il Giornale dell'Umbria”, 15 aprile 2015

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