2.11.14

La Caporetto di Carlo Emilio Gadda (da un diario a lungo inedito)

La “Repubblica” pubblicò nell'ottobre del 1987, stralci da un taccuino di Carlo Emilio Gadda escluso fino a quel momento dal Giornale di guerra e di prigionia. La storia del manoscritto veniva brevemente raccontata da Sandra Bonsanti nel testo che segue, a mo' di appendice, il racconto, bellissimo, del tenente Gadda. (S.L.L.)
Carlo Emilio Gadda in divisa da alpino
IL NOSTRO ADDIO ALLE ARMI
Notte del 23 sul 24 ottobre... Fummo svegliati da un sordo e intenso bombardamento nella conca di Plezzo e verso il fondo valle Planina-Za Krain. Il ritmo era quello d'un tiro violentissimo, tambureggiante. Pregai Sassella di guardare le ore: erano le due. Il bombardamento non mi stupì affatto: un senso misto d'impazienza per l'esito delle operazioni che stavano per cominciare e di quasi rincrescimento che noi non fossimo in grado di far qualcosa o di sopportar qualcosa, mi prese. Da noi non arrivava per allora nessun colpo.
Ripresi un po' di sonno fino alla luce. Il soldato Cattaneo e un altro andarono fino alla vetta Krasji a prendere il caffè e me ne portarono un po', che Sassella fece scaldare. Il bombardamento sul fondo valle a mattino venne dissimulato da quello operato sulle nostre posizioni. Intanto il cielo s'era rannuvolato e la montagna occupata da una fredda nebbia.
Mattina del 24 ottobre, fredda nebbia e nevischio. Il bombardamento veniva operato contro le batterie 6a e 8a e verso la vetta del Krasji, non capivo lo scopo di battere quest'ultima posizione, dove non c'era nessuno (l'osservatorio d' Armata ecc. erano sul rovescio) ma credo che fosse per rompere le comunicazioni telefoniche, ciò che infatti accadde. I colpi erano da 75, da 65 e da 105; il fuoco era intensissimo. Esso però non fu letale, perché i pezzi e le nostre mitragliatrici erano in caverna... Io stetti pacifico nella mia casetta, poi andai a trovare i miei serventi in galleria; poi andai da Cola in galleria, sempre sotto il fuoco. Poi andai a veder sparare i pezzi della batteria, che fecero un fuoco intensissimo contro il cocuzzolo del Vorsic: sapemmo poi che un attacco nemico era stato tentato sulle nostre posizioni del Vorsic, ma tosto respinto.
...Durante il pomeriggio del 24 il fuoco rallentò, nelle prime ore, e poi riprese, violento. Anche il fuoco delle nostre batterie, continuò. Io avevo le armi postate, nella 1a e 2a feritoia (galleria e piazzola) e stavo un po' presso l'una e un po' presso l'altra. Dopo il ritorno di Ranieri e Guignet e la loro ambasciata, continuai a osservare la valle; ero addolorato e inquieto; la nebbia impediva la vista dello Slatenik, nonché delle antiche posizioni avversarie. Cercavamo con inquietitudine il sottostante bosco con lo sguardo, ma la nebbia ci permetteva di scorgere i primi alberi soltanto. Due specialmente erano le mie afflizioni; quella di vedermi improvvisamente capitar sotto gli austriaci, e quella di non avere le bombe a mano che erano state promesse al comandante dell'8a; con delle buone bombe a mano mi sarei sentito sicuro di difendere la nostra posizione. Temevo anche, e ciò aumentava la mia responsabilità e difficoltà, di sparare sui nostri perché non si dimentichi che sotto di noi correvano la prima e seconda linea, e che nessun colpo di fucile si era sentito.
Avrei avuto ragione di credere che le linee fossero ancora occupate dai nostri; ma il nessun rumore e l'ambasciata di Ranieri mi fecero quasi certo di essere alla prima linea. In tal caso il mio animo era pieno di amarezza, perché con una sola sezione e con la fitta nebbia non potevo certo presumere di tenere il Krasji. A destra c' era la 3a, ma a sinistra, verso la 6a batt. l'unico riparo era lo strapiombo. Tuttavia la coscienza del mio dovere, sempre compiuto in 2 anni di guerra mi dette pace (per i miei riguardi personali) in questo triste e difficile momento. Finalmente, parendoci di aver scorto qualcosa muoversi nella valle, eseguimmo alcune scariche con entrambe le armi, puntando a distanze minori di 300-400 metri.
...Durante il fine pomeriggio del giorno 24, seppi poi verso le 16 e mezzo, sentii una grande eplosione; l'attribuii allo scoppio di qualche deposito di munizioni, come m'accadde sul Carso a dolina Como, mentre di ben altro si trattava. (Si trattò, probabilmente, delle cariche che fecero saltare il ponte di Caporetto, ndr). Con me stette sempre il mio attendente Sassella, il quale era triste, inquieto, nervoso. Si direbbe presagisse. Io non potevo presagire e il motivo (si tenga ben presente) era questo: avendo sottostato ai terribili concentramenti d'artiglieria del Carso e di Magnaboschi, che duravano intere giornate; e ricordando la nostra fucileria di Magnaboschi che faceva per ore intere un unico suono fuso (non scoppiettio ma boato unico) mi attendevo a qualcosa di simile qui, mentre non sentii nessuna fucileria e il bombardamento fu violento ma non demolitore. Ero dubbioso e speranzoso: tirando le somme, passai però una notte terribilmente vigile e inquieta (ragione psicologica esatta che ricordo con lucidezza perfetta).
(Notte del 24 sul 25 ottobre) ...Mandai Sassella a prendere il 2ø sacco a pelo, che m' aveva portato giù la sera con la corvée del rancio e che aveva lasciato in caverna di Cola. Poco dopo egli tornò con un altro, recandomi l'ordine di ritirarmi dalla posizione il più presto possibile. Quest'ordine mi fulminò, mi stordì: ricordo che la mia mente fu percossa da un'idea come una scena e riempita da un lampo: Lasciare il Monte Nero!; questa mitica rupe, costata tanto, e presso di lei il Vrata, il Vrsic, lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m'annientò. Ma Sassella incalzava: Signor tenente, bisogna far presto, ha detto il tenente Cola di far presto e incitò poi per conto suo gli altri soldati. Mi riscossi: credo di non esser stato dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva. Diedi l'ordine a Remondino, il vecchio alpino piemontese (cl. 90 o 91) che rimase pure percosso, addolorato. Ma qui c'è qualche tradimento esclamò, ma non è possibile. Poi andai nell'altra caverna e pur là diedi l'ordine. Meticoloso come sono, volli curare che tutto fosse raccolto e portato via: e in ciò persi del tempo: la caverna era stretta e buia, il materiale (fucili, invogli, cassette coi pezzi di ricambio) la ingombrava: i fucili, i cappotti, le maschere, gli elmetti, tascapane, giberne, borraccia ingombrano estremamente il nostro soldato, i fucili col mirino s' attaccano alle sporgenze rocciose: nella fretta nasce sempre un po' di confusione. Ero attonito: i soldati erano pure costernati. Come potei raccolsi tutta la sezione, e a uno a uno li feci partire: Sassella chiamava. Io mi misi in coda, col cuore spezzato, la mente fulminata dall'orribile pensiero della ritirata, e andammo...
Gli artiglieri dell' 8a batteria s' eran già ritirati, dopo aver guastato alla peggio i loro pezzi, credo togliendo gli otturatori. Cola in testa, io in coda, tutti a uno a uno, prendemmo la strada d'arroccamento con l'intenzione di raggiungere Jezerca-Magozo e poi Ternova. L'ordine di ritirata fu trasmesso all' 8a batt. dal Comando della Brigata Genova oltre la mezzanotte perché lo comunicasse anche alle comp. mitragliatrici. Noi lo ricevemmo verso le tre e solo verso le quattro del mattino del 25 potemmo partire. Nella notte silenzio: bagliori in fondo valle e talora grandi esplosioni: i nostri incendiavano ritirandosi tutto ciò che potevano. Poco sotto trovammo il batt. Val Chisone, che si ritirava ordinato; invece il... fant. si ritirava a gruppi, ufficiali separati da soldati. Noi eravamo ordinatissimi e nonostante i nostri soldati recassero sulle spalle le pesanti mitragliatrici, sorpassammo gli altri. Cola e la 3a sezione in testa, poi la 1a sezione, per esser sottomano a me, io ultimo in coda, feroce sorvegliante che nessuno rimanesse. Il cuore era spezzato. L'orrore e l'angoscia di quei terribili momenti dovevano esser superati. Verso l' alba il tempo si rasserenò.
(Scritto fino al 21 novembre, con memoria freschissima dei partic.). 25 ottobre, tra le 11 e le 13,30... Mi raccolsi, nell' amarezza, e misurai la situazione: un migliaio circa di fuggiaschi disordinati e privi d' armi, cioè totalmente liberi da ogni peso, si pigiavano a rischio di precipitare nel fiume verso la passerella. (Una passerella improvvisata, larga una sola tavola, che permetteva il passaggio di un solo uomo per volta, in circa 2 minuti, ndr); il fiume non poteva guadarsi in alcun modo; l'Isonzo, sopra Tolmino e anche ad Auzza, Canale ecc. ha un letto stretto (20 metri circa) e rive precipiti e profonde (5-6 e più metri). Il fondo non è visibile, ma l'azzurro cupo testimonia della profondità: la corrente è velocissima, torrentizia. Insomma esso ha un carattere affatto diverso dagli altri fiumi della pianura veneta, larghi, ghiaiosi, lenti. Un tal fiume, in tal punto, non è guadabile in nessun modo, neppure a un nuotatore; tanto meno poi vestito o con armi.
...D'altra parte il tempo stringeva e l' affanno cresceva. Sentivo ormai a poco a poco delinearsi il pericolo. Non in linea, non in posizione, dove avremmo potuto batterci con onore e infliggere anche a un nemico preponderante terribili perdite; ma dispersi in ritirata, fra una folla di soldati sbandati! Come la sorte s' era atrocemente giocata di me! Non l' onore del combattimento e della lotta, ma l' umiliazione della ritirata, l' abbandono di tanta roba, e ora questo maledetto Isonzo! questi ponti saltati.
...Cominciammo a scendere, quando non so chi mi assicurò che Cola era ritornato e nuovamente che il ponte di Ternova era distrutto. Allora decisi di tornare alla passerella, unica speranza che ancor rimanesse. I soldati mi seguirono istupiditi, con le mitragliatrici, stanchi, forse ormai certi della nostra sorte. Io volevo sperare ancora, non dico speravo. La necessità delle decisioni, la responsabilità di condotta, mi tolse in quei momenti di soffrire troppo del vicino pericolo. Riprendemmo ancora una volta il ciglio del fiume, nel bel sole meridiano che la stanchezza e il dolore ci impedivano di benedire, se bene ci riscaldasse dopo le lunghe piogge e la tormenta della notte. Così marciando avvistammo sul bellissimo stradale della sponda opposta una fila di soldati neri, che provenivano da Caporetto, preceduti da alcuni a cavallo; il cuore mi s'allargò pensando che fossero nostri rincalzi, e al momento quell'uniforme nera mi fece pensare (che stupido) ai bersaglieri; non pensavo che questi in combatt. hanno l'uniforme grigio verde. Al dubbio espresso da alcuni gridai: Ma sono nostri rincalzi, che prendono posizione sull' altra riva del fiume! e la cosa era logica, poiché, essendo saltato il ponte di Caporetto, io immaginavo che i tedeschi fossero innanzi a Caporetto, ma sempre sulla sinistra idrografica dell'Isonzo! Mai più immaginavo la strada che fecero. Poco dopo, il crepitio d'una mitragliatrice e qualche colpo di fucile: cominciai allora a temere e intravedere la verità: i Tedeschi saliti da Tolmino! Stanno per circondarci e pensavo che i colpi di mitragliatrice segnassero una fazione, un combattimento tra avanguardie salenti da Tolmino e nostre retroguardie dirette verso Nord Ovest. Invece la mitragliatrice, come m'accorsi poi, crepitava né più né meno contro i fuggiaschi della passerella.
...Intravidi ormai il pericolo della prigionia, e affrettai il passo, per raggiungere Cola, la passerella, non so che. L'ansia diveniva spasmodica. Disperavo di trovar Cola, quando ci sentimmo chiamare, da poco sotto il ciglione! Oh, finalmente si trovano i compagni. Scendemmo qualche decina di metri e difatti trovammo Cola, con gli altri, seduti lì, sull'erba. Gadda! Cola. Eh? Siamo qui. Mi ricordo esattamente che appena lo vidi gli chiesi, e gli occhi mi luccicarono di pianto: Sono loro? Ma è possibile? e non seppi dir altro, né far altro che piangere. Ah! è orribile, è orribile esclamò Cola (parole precise). Più che se fosse morto mio padre. Siamo finiti.
… I nostri passavano il fiume arrendendosi: non c'era altro da fare. Allora decidemmo: di star lì fino a notte, di guastare le armi, e di vedere di salvarci nell'oscurità. Ma l'ostacolo del terribile, insuperabile Isonzo ci sorgeva nella mente come uno spettro. Dove, come passarlo? Intanto ci radunammo e ci riposammo; i 2 cucinieri che mi avevano seguito divisero l'ultima volta il formaggio fra i presenti. Consigliammo ai soldati di consumare i viveri, poiché, nella probabilità, ormai grande, di cader prigionieri, non li dovessero dare ai tedeschi. Io mangiai un po' di marmellata, offertami da Cola. Ero sfinito, ma senza fame. Guardai ancora l'orribile fila dei tedeschi; la strada non ne era più occupata, era ormai sgombra. Solo qualche gruppo, qua e là. Cola strillò perché temeva mi mostrassi e ci sparassero: ma purtroppo non spararono, si curavano poco di noi. Se avessero voluto avrebbero potuto aprire il fuoco quando marciavamo in fila indiana sul ciglio nudo e prativo, parallelamente e contrariamente a loro. Poi mi sdraiai come giumento che più non vuol trarre le some sull'erba, accasciato; le lacrime s'erano inaridite e un istupidimento brutale mi teneva.
Nel fondo dell'anima l'angoscia della prigionia e una speranza ultima di salvarci la notte; ancora non guastavamo le armi. La cosa ci pesava; non so in che speravamo. Vicino a me i miei migliori soldati: Raineri Andrea, del ' 95, (venuto dall'America, di Menaggio) e Sassella Stefano, di Grosio, il mio attendente, del '97. Erano essi pure costernati: già uomini, sebbene giovanissimi; e intelligentissimi entrambi; sebbene Sassella fosse un contadino, avevano la netta visione della sciagura nazionale e personale. NON imprecavano a nulla, a nessuno, oppressi dalla realtà presente. Sassella, con la sua inquietudine nella notte, e con la sua tristezza, era stato presago: egli sarebbe stato all'Ospedale se (per devozione a me non lo fece) avesse marcato visita a Clodig. Invece mi seguì, sebbene malato di febbre reumatica e brutto di ciera, e fu preso! Poveretto. Gli altri soldati tutti erano angosciati; tutti rispettosi, ancora, nessuno disapprovò l'invito nostro di attendere la notte. Solo alcuni, più paurosi, avrebbero voluto darsi prigionieri subito. Il nostro animo era in uno stato di dubbio angoscioso; il quale andava a mano a mano tramutandosi nella certezza orribile della prigionia. Il fischietto degli ufficiali tedeschi che ordinavano l'avanzata ai loro, verso i monti di là dal fiume ci giungeva distinto. Ancora si fece sentire qualche colpo di fucile, qualche breve scarica di mitragliatrice, credo contro qualche tentativo di fuga. Noi eravamo di qui d'un fiume invalicabile, senza ponti: i tedeschi, avendo sfondato a Plezzo e Tolmino, s'erano già tra loro allacciati di là dal fiume: a Caporetto c'erano; a Drezenca c'erano già, scesi dal Mrzli. Noi eravamo esausti di forze e d' animo, accasciati, quasi digiuni. Ma sopra tutto l'impossibilità di passare l'Isonzo. Io e Cola pensammo quindi ormai inutile il prolungare le nostre speranze; sarebbe stato puerile. De Candido uscì con un fazzoletto bianco, mentre io e Raineri guastavamo le armi della mia sezione, asportandone e disperdendone la culatta mobile, il percussore e altri pezzi. Che dolore, che umiliazione, che pianto nell'anima anche in quest'atto ormai inevitabile. L'ufficiale che a Torino aveva fatto il possibile per assicurare all'esercito il funzionamento di un ottimo reparto, dover gettare così le sue armi, lasciarle lì, negli arbusti! Io gettai anche la mia rivoltella e tutti lasciarono i fucili, lì dov'erano; poi in fila indiana, in ordine, dopo De Candido, Cola, poi tutti i soldati, io ultimo, in coda, scendemmo per la boscaglia alla passerella: nessuno più vi si trovava: tutto era deserto, lì tutti ormai avevano già fatto l' inevitabile passo. Ai piedi della passerella il flutto travolgente, brutale dell'Isonzo lambiva un mucchio di fucili, mitragliatrici Fiat, nastri, roba, ecc. lasciata nella resa. Di là la sentinella tedesca ci guardava passare, osservando che non avessimo armi. Altre sentinelle armate custodivano i prigionieri, raccolti nel prato soprastante, il prato dell'adunata delle 13,20 del 25 ottobre. La passerella fu passata uno a uno; reggendo i primi il cavo metallico che a sinistra serviva di ringhiera. Tutti passavano lentamente, con gran precauzione per non scivolare nel fiume; il ponticello arcuato mi costrinse a sedermi, poiché gli scarponi chiodati scivolavano sull'asse. Giunto a metà, mi levai e proseguii ritto. Passai di là col viso accigliato; assorto e istupidito più che altro. Tra il branco adunato avanti le sentinelle tedesche qualcuno non dissimulava la tranquillità per lo scampato pericolo. Io guardai la sentinella, che non offerse nulla di notevole alla mia curiosità: ritta, seria, quasi accigliata.
Nel prato, sopra un sasso, una scatoletta di carne che qualche prigioniero aveva offerto a un tedesco per propiziarselo: appena questo tedesco si voltò io gli feci sparire la scatoletta, e me la mangiai con molta fame e con una gioia satanica. Erano le 13,20 del 25 ottobre 1917; le sentinelle tedesche tutte armate, con baionetta; facciamo sul prato l' ultima adunata, l' ultima chiamata. Poi ci venne ordinato a me e Cola, di incamminarci con gli attendenti, verso Caporetto, lasciando i soldati. Col pianto negli occhi e nel cuore mi congedai da ciascuno, stringendo a tutti la mano.
...A un nuovo bivio, dove un ramo della strada prosegue per Tolmino, l'altro per Cividale, ebbimo l'ultimo desiderio e tentativo di fuga. Ci fermammo un momento e io feci la proposta: dobbiamo prendere per Cividale? I compagni non la trovarono attuabile: la tema delle sevizie tedesche contro noi quattro inermi valse pure a farci desistere. E poi la sentinella sopraggiungeva. Avanti, allora, verso Tolmino. Io, Cola, Sassella, De Candido. Finiva così la nostra vita di soldati e di bravi soldati, finivano i sogni più belli le speranze più generose dell' adolescenza: con la visione della patria straziata, con la nostra vergogna di vinti iniziammo il calvario della dura prigionia, della fame, dei maltrattamenti, della miseria, del sudiciume. Ma ciò fa parte di un altro capitolo della mia povera vita, e questo martirio non ha alcun interesse per gli altri. (Dal taccuino inedito di Carlo Emilio Gadda)
Prigionieri italiani dopo Caporetto
Appendice
Storia di un manoscritto 'indecifrabile'
Settant'anni fa il tenente degli alpini Carlo Emilio Gadda fu travolto con la sua compagnia di mitraglieri nella disfatta di Caporetto. Mentre la battaglia infuriava e al momento stesso della resa (ore 13,20 del 25 ottobre 1917) al di là della passerella sull'Isonzo nel prato dove i tedeschi assistevano all'ultima adunata dei nostri prigionieri, Gadda segnò su un taccuino alcuni appunti. Dieci giorni dopo, nel campo di concentramento di Rastatt cominciò a redigere il diario-cronaca di quei giorni e della sconfitta, continuando l'uso seguito per tutta la durata della guerra e mantenuto poi durante tutta la prigionia.
Finché visse, Gadda non volle che questo taccuino vedesse mai la luce. In esso erano narrati i momenti di una tragedia nazionale che lui continuò a soffrire come sua propria. Ma soprattutto egli sapeva, e temeva, che la descrizione di quella tragedia stessa, col ricordo ancora vivissimo e preciso, avrebbe potuto rinverdire le polemiche sulle responsabilità della disfatta, sul grado di conoscenza da parte dei Comandi del disastro cui le nostre truppe andavano incontro. Così Gadda affidò il taccuino più prezioso del suo Giornale di prigionia a mio padre, Alessandro Bonsanti, che lo custodì e lo fece copiare da mia madre. Un lavoro molto difficile: il tenente prigioniero degli austriaci aveva escogitato molte piccole e grandi astuzie per impedire loro di leggere il testo, qualora ne fossero venuti in possesso.
Mio padre, sopravvissuto a Gadda per dieci anni, ritenne vincolante anche per sé il desiderio del suo grande amico; così come non volle mai pubblicare le lettere che testimoniano la storia della loro amicizia. Il settantesimo anniversario di quella data sacra per l' Italia, e l'imminente pubblicazione da parte dell'editore Garzanti dell'opera omnia di Carlo Emilio Gadda, hanno convinto mia madre, mio fratello e me che non fosse possibile aspettare oltre.
La storia di quel supplizio, che segnò per sempre la vita e i pensieri dello scrittore, completano quel Giornale di guerra e di prigionia che, come accadde per diverse altre opere, Gadda si decise a pubblicare soltanto negli anni Cinquanta per le insistenze di mio padre che riuscì, come ha scritto Silvio Guarnieri, a vincere miracolosamente le reticenze e i timori dell'amico. I due scrittori, oltre che dalla grande amicizia, furono legati anche dal segreto di Caporetto. Finché gli fu consentito, mio padre curò le angosce dell' amico, che così violente dovevano riemergere quando i tedeschi ricomparvero nella sua vita. Le sofferenze del '17-'18, la fame, le morti di allora tormentarono Gadda nel ' 44, nei giorni fiorentini dell'occupazione tedesca, quando sotto le bombe attraversava la città per dividere con noi la zuppa di rape nei sotterranei del Vieusseux, a Palazzo Strozzi. La sofferenza di quell'uomo così grande e così impacciato, il tormento del suo sguardo trovano nella lettura della cronaca di Caporetto una spiegazione definitiva.
Pochi giorni dopo la morte di Gadda, nel '73, mio padre scrisse: Bisogna adattarsi a considerarsi postumi degli amici oltreché di se stessi; chi si dispone di fronte a Gadda come se tutto fosse cominciato trent' anni fa, è nato alla storia in quel momento, e niente è più difficile del resto di convincere la gente che il mondo esisteva anche prima. La domanda essenziale è: capiranno meglio i nuovi, i freschi, coloro che si pongono davanti al fenomeno liberi dai preconcetti d'un passato cui non parteciparono? I vecchi amici, come i familiari, possono diventare l' ingombro più pesante. Si dice tante volte: vorrei arrivare per la prima volta da turista in questa città dove sono nato e abito da sempre, e sappiamo che è un desiderio irrealizzabile. Purtroppo, un Gadda inedito non potremo mai conoscerlo, noi che venimmo su con lui e delibammo parola per parola sul loro nascere scritti e idiosincrasie. (SANDRA BONSANTI)


“la Repubblica”, 21 ottobre 1987  

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