6.11.14

Parole chiave. Tragedia (Franco Rella)

In occasione della prima guerra del Golfo, nel 1990, “il manifesto” pubblicò una serie di schede dal titolo Le lezioni del Golfo, che affrontavano i temi di quella guerra. In ciascuna di esse veniva affidata alla riflessione di intellettuali di prestigio una parola-chiave, di quelle usate (o anche abusate) in quei mesi di guerra. A Franco Rella, docente e studioso di estetica sulla linea di Benjamin e Bataille, che tra l'altro si è occupato più volte del personaggio di Edipo, venne affidata la voce Tragedia. E' utile ricordare che la sua riflessione, come le altre di quella rubrica Parole Chiave, si svolge a un livello di astrazione piuttosto alto e non presenta nessun collegamento immediato con la guerra mesopotamica. (S.L.L.)
Una scena dalle Baccanti al Teatro Greco di Siracusa (Edizione 2014)
La tragedia non è un genere letterario tra gli altri, a fianco dell'epica, della lirica, della commedia, come ci hanno insegnato a scuola. Non è nemmeno, come è invalso nel linguaggio comune, sinonimo di un evento efferato o luttuoso. La tragedia è una delle più grandi creazioni dello spirito umano: una creazione specificatamente greca, insieme alla democrazia e alla filosofia, che fioriscono contemporaneamente nel V secolo a.C..
Certo, nell'opera tragica, abbiamo per lo più la rappresentazione di eventi terribili, perché terribile è la vita dell'uomo presa in un'incertezza senza fine, perché tutto ciò che è, come aveva detto Eraclito, il pensatore che in qualche modo annuncia il tragico, avviene-giunge all'essere, alla sua esistenza attraverso la contesa. Il Logos (la ragione, e il linguaggio in cui questa ragione si esprime) di Eraclito, come quello dei tragici è il logos dei contrari retti, nella loro reciproca tensione, da Dike, la giustizia. La sapienza dell'uomo è il luogo di questi contrari, per cui se tutto ha misura, l'uomo che sta in mezzo a questi contrari, alla luce e alla notte, alla vita e alla morte, è «smisurato». Così recita il Coro dell'Antigone: «Molte sono le cose smisurate / ma nessuna è smisurata come l'uomo». Per questo il logos dell'anima umana, come ha detto Eraclito, è così profondo che non potrai trovare i suoi confini per quante strade tu possa percorrere. Il destino umano è dunque quello di essere la ragione della contesa attraverso cui le cose giungono al loro essere. La sua «insicurezza» è dunque, in un certo senso, la salvaguardia dell'esistenza stessa del mondo come pluralità, come differenza. Per questo nessuno, nemmeno il dio degli oracoli, può ridurre questa incertezza, e infatti, come ha detto ancora Eraclito, egli non afferma né nega, ma dà segni.
L'uomo non è certo nemmeno del nome di dio. Ma proprio in questa incertezza cresce il suo sapere. Lo afferma Eschilo nel grande coro dell'Agamennone: «Zeus, qualunque egli sia, se pure questo nome gli è gradito, con questo io lo invoco...Egli ha aperto ai mortali le vie della sapienza (phronein), fissando questa legge: 'attraverso la passione il sapere (mathos)'. Anche nel sonno, davanti al cuore che stilla affanno, che ha memoria del dolore, anche a chi non vuole, tocca la saggezza (sophronein)». La phronesis, ovvero l'intelligenza umana, il mathos, ovvero il sapere in senso proprio, la sophrosyne, ovvero la sapienza assoluta, nascono di faccia alla pathos: alla passione del mondo.
E' su questo punto che Platone, e tutta la filosofia, aprirà un'immensa battaglia contro la tragedia, in favore di un sapere certo e immutabile che escluda da sé ogni incertezza, ogni antinomia, ogni ambiguità. Per il tragico, viceversa, questo sapere che rifiuta la diversità è un sapere funzionale al potere, che è, nella prospettiva tragica, «malsano» (Euripide, Baccanti, vv. 309 e sgg.). Quando un uomo ha potere, scrive ancora Euripide (Baccanti, 270-271) «anche se sa parlare bene diventa un cittadino cattivo»). Quindi, abbiamo che la tragedia esprime un sapere e un'etica. Un sapere legato al dolore e alla passione umana, all'esperienza, e una morale che rifiuta la semplificazione della contesa e delle contraddizioni attraverso un atto della ragione o del potere che annulli uno dei termini del conflitto stesso. Ma la tragedia non si limita a riflettere l'antinomia del mondo, viva nei conflitti delle democrazie greche è attiva nell'aprire il conflitto là dove questo si è chiuso. L'eroe
tragico vive in una situazione di «atopia» di «extraterritorialità» che mette in discussione le leggi attraverso cui la società ha stabilito In frontiera tra l'umano o il divino, tra la vita e la morte, tra il civilizzato e il selvaggio, fra suddito e potente. La linea di frontiera si fluidifica, diventa una soglia attraverso cui transita nuovamente ciò che era stato escluso. Questo lo vediamo particolarmente in Edipo, che è sempre «straniero», e soprattutto in Antigone che spinge la sua extraterritorialità fino all'assoluto: «La mia dimora non è tra gli uomini o tra le ombre; non è tra i vivi o tra i morti» (vv. 850-853).
Lo vediamo nel grande dialogo tra Antigone e Creonte, in cui tutte queste antinomie sono messe in gioco. La tragedia finisce alla fine del V secolo. Secondo Nietzsche, con l'Edipo a Colono di Sofocle e con Le Baccanti di Euripide. Nietzsche ha ragione, e infatti nell'Edipo a Colono Edipo lo straniero che rende le cose straniere mettendo in discussione ogni confine, diventa il confine e la frontiera sacra e intoccabile di Atene. Nelle Baccanti Euripide estremizza la tragedia al punto che la contraddizione diventa invisibile, in quanto tutto si fonde in una oscillazione senza fine.
Ma se la tragedia muore alla fine del V secolo, con la crisi della democrazia ateniese e con il trionfo della filosofia, essa rinasce continuamente. Rinasce ogni volta che in luogo di un sapere e di un potere viene proposta una visione aperta, plurale, contraddittoria, e per questo vitale, del mondo e della vita. Hegel ha dovuto ripercorrere la tragedia per esprimere un pensiero all'altezza del suo tempo, un pensiero che si ponesse di faccia alle contraddizioni del suo tempo. Holderlin traduce l'Edipo re, traduce l'Antigone. Nella tragedia scopre la possibilità di dire l'inesprimibile, anche l'inesprimibile della gioia, che il linguaggio della concettualità filosofica non gli permetteva di dire. Scopre anche il segreto della tragedia e lo consegna alla modernità: la prima parola della sua traduzione dell'Antigone è Gemeinsam-schwesterliches: un mostro anche per la lingua tedesca, per ogni lingua: questa parola infatti esprime una possibilità, inesplorata dall'uomo, di vivere i rapporti al di fuori della violenza in «ciò che è sororale comunità».

E' con questo livello di coscienza tragica che Dostoevskij interroga le teodicee laiche e religiose, e che risuona oggi nelle coscienze dei giovani. Il più perfetto degli ordini, instaurato sul dolore di un solo bambino, è in grado di riparare questo dolore? Che rapporto esiste tra quell'ordine e questo dolore? La domanda non ha una risposta facile, ma può essere elusa soltanto da un potere «malsano». E' questa coscienza che è nelle coscienze più alte del nostro secolo, per esempio in Simone Weil e in Walter Benjamin, che pure si sono opposti al nazismo fino al sacrificio. Uno sguardo interamente umano sul mondo non può prescindere dalla coscienza tragica, da quella coscienza che ci desitua dalle nostre ragioni abituali e che ci obbliga al confronto con tutte le ragioni possibili.

il manifesto-schede: Le lezioni del Golfo 6, senza data ma 1990

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