25.4.10

Servire il popolo? o il pollo? o il porco? Il ritorno di Brandiraltung.


Durante la Rivoluzione Culturale cinese, per divulgare il pensiero di Mao Tse Tung, oltre alla pubblicazione di un libretto rosso di Citazioni, che venne stampato in milioni e milioni di copie per la Cina e per il mondo, si diede molto risalto ai “tre articoli più letti”. Si trattava di tre brevi scritti dei primi anni 40, assai poco teorici e molto retorici, che con un linguaggio semplice e appassionato, reso ancor più popolare dall’uso di parabole e proverbi, intendevano comunicare inderogabili norme di comportamento. Quando Mao li compose, erano gli anni della guerra di liberazione contro l’invasione nipponica e i destinatari privilegiati erano pertanto i soldati di quello strano esercito senza gradi e con elezioni democratiche che era l’Esercito popolare di liberazione ed erano i partigiani comunisti i quali, alla macchia, guidavano la resistenza antigiapponese nelle regioni occupate .
Il primo dei tre articoli, Come Yu Kung spostò le montagne, tendeva a dare coraggio ai patrioti, spesso isolati e braccati, li incitava a resistere spiegando come quasi nulla sia impossibile, quando alla volontà delle avanguardie si accompagni la forza del popolo.
Il secondo In morte di Norman Bethune era l’omaggio a un medico americano che aveva dedicato le sue capacità professionali e tutto se stesso alla cura dei feriti e dei malati nell’orribile guerra che devastava l’Oriente, una sorta di Gino Strada di quei tempi. Mao ne traeva spunto per esaltare l’ideale internazionalista di solidarietà e fratellanza tra i popoli, da estendere agli stessi giapponesi occupanti, quando fossero stati cacciati dalla Cina e si fossero liberati della malvagia cricca e dalle classi dominanti che li avevano spinti alla guerra imperialista.
Il terzo articolo Servire il popolo era peculiarmente diretto ai soldati, ai quali si vietavano gli atteggiamenti autoritari e militaristi cui sovente gli uomini in armi si abbandonano. Mao sottolineava come quell’esercito non avrebbe avuto alcuna possibilità di vittoria se non si fosse posto integralmente al servizio dei bisogni essenziali della popolazione più povera. Nel popolo quei soldati dovevano nuotare “come pesci nell’acqua”, consapevoli che “il popolo e solo il popolo è la forza motrice” in grado di cambiare la storia del mondo e che possiede una sua profonda saggezza rivoluzionaria, mentre “noi - aggiungeva riferendosi ai soldati e ai membri del partito comunista – siamo spesso ridicoli e infantili”. L’occasione per l’articolo l’aveva offerto un episodio edificante, di un giovanissimo soldato, Lei Feng, la cui abnegazione era totale: con il suo sacrificio mortale aveva impedito una catastrofe.
Credo non sia inutile spiegare che il termine cinese con cui Mao indica il popolo ha nel suo linguaggio un valore preciso e classista, assai diverso dagli usi che della nozione fanno in molte lingue i nazionalisti. “Popolo” è per Mao essenzialmente il popolo minuto, l’immensa maggioranza della popolazione. Come egli spiega nel suo Analisi delle classi nella società cinese del popolo facevano parte gli operai, i sottoproletari e i semiproletari delle città, i contadini senza terra o con poca terra e, infine, quella che chiamava borghesia nazionale, in cui includeva molte categorie sociali, dai maestri di scuola agli artigiani ai mercanti. Non facevano parte del popolo, pertanto, i “signori della guerra” e i proprietari terrieri di tipo feudale, la borghesia “compradora” che faceva affari con gli imperialisti e ad essi era asservita, gli intellettuali di tipo mandarinale. E non erano “popolo” – secondo Mao – anche “quelli che servono i fascisti, che servono gli sfruttatori e gli oppressori”.
Servire il popolo diventò lo slogan preferito (e la testata ufficiale) di uno dei più noti gruppi maoisti italiani del postsessantotto, l’Unione dei comunisti (marxisti-leninisti) italiani, fondata da Aldo Brandirali già dirigente della Fgci e animatore del gruppo trotzkista “Falcemartello”. Fu, tra il 69 e il 70, il “gruppetto” più numeroso e comunque più appariscente della galassia maoista. Di sicuro disponeva di molti soldi che utilizzava per arricchire le manifestazioni con enormi e scenografici striscioni e cartelli inneggianti a Mao, a Stalin (con la scritta Dittatura del Proletariato), al popolo italiano e al servizio del popolo. L’adesione veniva soprattutto da giovanissimi, delle medie superiori: entravano in una organizzazione totalizzante, che forniva loro certezze indiscutibili e li sollecitava ad un impegno morale con l’intransigenza che piace ai ragazzi. Non pochi passavano senza soluzione di continuità dall’Azione cattolica a Servire il popolo. Vi aderirono però, in numero cospicuo, anche ricchi borghesi in crisi, giovani e meno giovani, in preda a una sorta di misticismo populista: dai loro patrimoni, a sentire quanto si raccontava in giro, veniva la grande ricchezza del gruppo. All’interno di esso vigeva un moralismo bigotto che veniva attribuito al popolo ed a cui ci si adeguava: niente capelli lunghi, niente vestiti estrosi, niente canne, niente libero amore. Mentre adattavano in maniera ridicola gli slogan cinesi alla situazione italiana (“la grande, gloriosa e giusta Unione dei comunisti”, “la nostra grande guida il presidente Brandirali”, “viva l’unità tra operai, contadini e soldati, viva il popolo italiano”) pagavano giovani funzionarietti in giacca e cravatta che avevano sparpagliato in provincia e assomigliavano, per l’abbigliamento (borsa degli opuscoli inclusa) e per l’approccio untuoso e petulante, ai “Testimoni di Geova”. In tutta la sinistra, dalla Fgci a Lotta continua, erano perciò oggetto di sfottò: c’era chi li chiamava “servire il polipo” chi “servire il pollo” e il loro capo indiscusso era detto “Brandiraltung”. Nel loro rifiuto della morale borghese, lassista, corrotta e decadente, obbligavano alla castità prematrimoniale e istituirono i “matrimoni comunisti”, che venivano celebrati dai dirigenti del movimento. Brandirali osò intervenire anche sulla sessualità postmatrimoniale: tra l’altro ordinava ai compagni di spegnere la luce; guardarsi nudi era “edonismo borghese”.
Nel 1972 il gruppo tentò l’avventura elettorale, ma i voti furono pochissimi, poco più di 100 mila. Dopo decadde rapidamente. Qualche anno dopo si seppe che Brandirali si era convertito al cattolicesimo e si era riciclato con la “Comunione e liberazione” di don Giussani e la sua Compagnia delle opere. Di quando in quando rilasciava qualche intervista e lo si vedeva ad un convegno. Passava per un efficiente manager.
Martedì scorso, alla direzione del Pdl, il documento della maggioranza berlusconiana, nella sua chiusa, faceva proprio l’antico motto maoista caro a Brandirali: “Siamo al servizio del popolo italiano e del suo bene comune. Le ambizioni dei singoli non possono prevalere sull’obiettivo di servire il popolo…”. Qualcuno ha pensato: c’è lo zampino di Brandirali; qualche altro (Jacopo Iacoboni de “La Stampa”) ha pensato a intervistarlo. Dalle risposte date si desume che Brandiraltung doveva essere in fregola: “Mi son scritto degli sms con i tanti amici che ho nel Pdl… gente come Maurizio Lupi, Roberto Formigoni, Mario Mauro... l’area di Cl… Ho scritto agli amici ‘si torna al punto’. Cioè all’unica verità della politica: servire il popolo».
All’intervistatore “il Grande Timoniere del popolo italiano” - così tra l'altro fu chiamato - appare un po’ confusionario: “Il maoismo, un partito che si pretende liberale, l’ispirazione supercattolica di Cl... che caos meraviglioso”.
Ma Brandirali, imperterrito, conclude: “Io nel ‘68 ero sfottutissimo dai gruppi marxisti-leninisti, loro parlavano di proletariato, classe operaia, mi chiamavano “servire il pollo”... Ma quando incontrai don Giussani ebbi la certezza di essere nel giusto. Mi disse “che bello slogan, servire il popolo, uno slogan cattolico”.

1 commento:

Marco Vulcano ha detto...

illuminante parentesi di riflessione sulla storia, utilissima per capire l'oggi, e per chi, come tutti quelli della mia generazione, di quel periodo conosce pochissimo e in modo del tutto confuso.
Grazie

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