2.12.14

Criminalmente... La prima Bancopoli dell'Italia unita (Lodato e Scarpinato)

Di recente è stato messo in rete da “Il Fatto”, per una libera circolazione il pdf del libro di Saverio Lodato e Roberto Scarpinato Il ritorno del Principe. La criminalità dei potenti in Italia (Chiare Lettere, 2008). L'intervista del giornalista al magistrato verte su tre nodi: lo svuotamento della democrazia e l'affermarsi di forme oligarchiche grazie all'illegalismo diffuso; il carattere organico della corruzione nel funzionamento del sistema italiano; il ruolo delle mafie nella geografia dei poteri. “Posto” qui le prime pagine della sezione dedicata alla corruzione: vi si tratta della Banca Romana, il primo grande scandalo dell'Italia unita, in una prospettiva di lungo periodo. (S.L.L.)

Cominciamo dalla corruzione.
Se vogliamo cogliere appieno la natura non episodica ma strutturale della corruzione nella storia italiana, dobbiamo affrancarci dalla cultura da rassegna stampa tutta appiattita sul presente, che, sull’onda del contingente, insegue di volta in volta con affanno l’ultimo caso di cronaca.
Potremmo definirla la cultura «dell’ultimo anello» che, restando disancorato dagli anelli precedenti, non consente di riannodare i fili del presente a quelli del passato, tessendo così un’unica trama globale.

Da quale «anello» vogliamo cominciare?
Direi dallo scandalo della Banca Romana esploso nel 1892, il primo grande scandalo finanziario dell’età monarchica dopo l’Unità d’Italia, a seguito del quale si istituì la Banca d’Italia; una Bancopoli di cui vi è cenno in tutti i libri di storia, e che, non a caso, presenta alcuni tratti comuni con i più recenti casi di Bancopoli.
Dopo l’unificazione e il trasferimento della capitale del regno a Roma, era iniziata una selvaggia speculazione immobiliare trainata dai palazzinari del tempo, molti dei quali, grazie a raccomandazioni di vertici politici e istituzionali, costruivano senza rischiare capitali propri in quanto utilizzavano quelli generosamente forniti loro da alcune banche senza adeguate garanzie.
Verso la fine del secolo, la bolla immobiliare iniziò a sgonfiarsi trascinando nella crisi molte società edili e alcune delle banche che avevano concesso loro crediti senza garanzie.
Tra queste vi era la Banca Tiberina che rischiava di fallire compromettendo gli interessi di taluni esponenti della famiglia reale e che, pertanto, venne salvata grazie all’intervento della Banca Romana retta dal governatore Bernardo Tanlongo, nominato da quella famiglia. Ma poco tempo dopo anche la Banca Romana entrò in crisi, sia perché dissanguata da questa operazione di salvataggio, sia perché, come sarà accertato, era diventata la cassaforte alla quale attingevano illecitamente e a piene mani i potenti del tempo.
Nel corso di un’ispezione, disposta a seguito di alcune interpellanze parlamentari, un onesto funzionario di nome Gustavo Biagini accerta che la Banca Romana, uno dei cinque istituti autorizzati a stampare carta moneta per conto dello Stato, aveva emesso banconote (alcuni milioni del tempo) in eccedenza alle quote rigorosamente stabilite da leggi e regolamenti. Biagini interroga in proposito il governatore Tanlongo, il quale per tutta risposta gli chiede in tono amichevole che stipendio ha, se è in grado di mantenere decorosamente la moglie e i quattro figli. Quindi, con disinvoltura, indicando un pacco che ha poggiato sulla scrivania, aggiunge: «Lei potrebbe da un giorno all’altro cambiare la sua posizione». Biagini non accetta la proposta e nell’ottobre 1889 presenta una relazione completa sull’accaduto al ministro Antonio Monzilli. Ma la relazione resta nei cassetti per ben tre anni e l’onesto Biagini per la «sua preziosa opera» viene promosso e trasferito altrove. Bernardo Tanlongo viene nominato senatore del regno e componente della Regia commissione di vigilanza del debito pubblico.
Nel frattempo la situazione della Banca Romana si aggrava sempre di più, lo scandalo diventa incontenibile ed esplode sulla stampa nazionale anche a seguito di una battaglia parlamentare per riesumare la relazione ispettiva insabbiata. Viene quindi disposta una nuova ispezione e viene iniziata un’indagine penale che porterà all’arresto prima di Tanlongo nel gennaio del 1893 e poi di altri colletti bianchi.
A seguito delle indagini si accerta che era stata fabbricata un’enorme quantità di moneta falsa mediante la duplicazione di serie e di numeri di biglietti di precedenti creazioni legali: circa quaranta milioni del tempo (l’equivalente di circa sessanta miliardi di oggi). La cassa era stata inoltre defraudata di una somma molto elevata, circa venti milioni. La banca era seppellita da una catasta di cambiali «in sofferenza», per la maggior parte firmate da nomi illustri della politica e del giornalismo. Gli illeciti erano stati realizzati mediante una serie di falsi contabili e operazioni bancarie simulate.
I deputati (compresi alcuni ministri o ex ministri) compromessi verso Tanlongo, dal quale avevano ricevuto generosi «prestiti» mai restituiti, erano circa centocinquanta.
Il processo, apertosi a Roma nel 1894, si concluse dopo sessantuno udienze con l’assoluzione di tutti gli imputati: i responsabili della banca, un deputato e due funzionari preposti alla vigilanza dell’istituto.

Sembra la grande madre di tutte le Bancopoli. E i fatti accertati, immagino, rimasero senza colpevoli.
Naturalmente. Lo scandalo di quell’assoluzione viene denunciato da Giolitti il quale in una lettera rivolta al re Umberto I utilizza parole che potrebbero essere scritte oggi, a dimostrazione della continuità dell’impunità della criminalità del potere nel nostro Paese: “L’assoluzione scandalosa di ladri di milioni ha fatto purtroppo una triste reputazione al nostro Paese, e ha dimostrato alle classi povere che le leggi penali non raggiungono in Italia i grossi delinquenti. Ora si aggiungerà la prova che i grossi delinquenti in Italia, oltre a essere assolti, possono con i milioni rubati far processare coloro che li avevano denunciati e messi in carcere”.
Almeno il presidente del Consiglio assunse quella posizione. Purtroppo Giolitti predicava bene ma razzolava male. Anche lui si trovò infatti coinvolto in quel ciclone. Dopo l’arresto di Tanlongo la polizia che operava alle dirette dipendenze del ministero dell’Interno, cioè del governo, aveva compiuto un blitz nei locali della Banca Romana senza alcun mandato della magistratura. Dalle deposizioni testimoniali era risultato che i funzionari di polizia, prima di formalizzare il sequestro, avevano fatto sparire molti documenti scottanti che coinvolgevano la responsabilità di importanti uomini politici.
L’ispettore Mainetti e il delegato Montalto, che avevano eseguito le operazioni, dopo appena due giorni erano stati promossi «con menzione onorevole».
Era emerso inoltre che, molto stranamente, la sera stessa della denuncia si era svolta una riunione tra il procuratore generale, il procuratore del re e il giudice istruttore non negli uffici giudiziari ma al ministero dell’Interno. Si aprì dunque un procedimento nei confronti dei funzionari di pubblica sicurezza che avevano eseguito le perquisizioni ed effettuato il sequestro, procedimento che coinvolse come mandante della sottrazione dei documenti l’onorevole Giolitti, presidente del Consiglio dei ministri in carica e ministro dell’Interno all’epoca in cui si erano verificati i fatti.
Dopo varie traversie, anche Giolitti uscì di scena grazie a una «provvidenziale» sentenza della Cassazione che stabilì che i reati compiuti da ex ministri erano sottratti al giudice ordinario sia che provenissero da un abuso di potere ministeriale, sia che avessero un movente politico o dovessero essere considerati come «un mezzo a fine politico».

Quale fu la reazione della pubblica opinione?
L’assoluzione generale per lo scandalo della Banca Romana fu così commentato dalla «Rivista penale», una delle più autorevoli riviste giuridiche del tempo: “Fu un verdetto che da molti si prevedeva, e in modo tale da far sorprendere come mai non si provvedesse, per iscongiurarlo, con la sospensione del dibattimento. Ma tutto, anzi, parve che congiurasse per venire a questa conclusione. Dai primi passi dell’istruttoria alla sentenza di accusa, alla fissazione della sede del giudizio, alla scelta del pm, al modo in cui fu condotto il dibattimento, agli episodi dolorosi e deplorevolissimi che si tollerarono […] tutto parve rivolto al triste epilogo”.
Per evidenziare lo scarto culturale esistente tra la classe dirigente nazionale e quella di altri Paesi europei, vale la pena ricordare che in quegli stessi anni in Francia si era svolto un processo per lo scandalo finanziario del canale di Panama, che aveva pure coinvolto degli uomini politici, imputati di avere ricevuto denaro per dare voto favorevole alla legge che autorizzava il prestito Panama. In quel Paese le cose erano andate molto diversamente.

In che modo?
La Corte di Cassazione francese aveva respinto il ricorso con il quale deputati e senatori avevano sostenuto il divieto di sindacare il loro voto per l’immunità parlamentare che vi era connessa, ritenendo che il divieto di sindacare il voto dei parlamentari non si estendeva agli atti che un membro del Parlamento avesse compiuto «criminalmente», ancorché in connessione con le opinioni e i voti emessi in una delle due Camere. Criminalmente: un avverbio al quale la classe politica italiana, da allora a oggi, non ha mai riconosciuto diritto di cittadinanza nel suo vocabolario. E infatti era bastato quell’avverbio a fare la differenza, e il processo francese si concluse con la condanna dei principali imputati.

Una lezione di senso dello Stato inimmaginabile ieri come oggi in un Paese come il nostro.
E per comprendere come ci troviamo all’interno di una storia circolare destinata a ripetersi, basti ricordare la motivazione con la quale nel 1996 – circa un secolo dopo lo scandalo della Banca Romana – la nostra Camera dei deputati respinse la richiesta di autorizzazione a procedere per il reato di corruzione avanzata nei confronti dell’onorevole Cirino Pomicino, accusato di avere ricevuto in qualità di presidente della Commissione bilancio della Camera quattro miliardi dalle aziende che dovevano realizzare il métro collinare di Napoli, per far passare nella legge finanziaria dello Stato lo stanziamento necessario.

Con quale motivazione fu respinta la richiesta di autorizzazione a procedere?
L’autorizzazione fu negata con la motivazione che in sostanza il comportamento contestato rientrava tra le prerogative insindacabili del parlamentare. Una motivazione singolare. Dopo la vicenda della Banca Romana, stava per esplodere in campo nazionale un altro scandalo bancario, quello della gestione illegale del Banco di Sicilia. Di questa storia però parleremo nel capitolo dedicato alla mafia, perché in quel caso il Principe invece del metodo di insabbiamento soft messo in opera per chiudere lo scandalo della Banca Romana, adottò quello hard.

Metodo «hard»?
«Insabbiare» fisicamente, seppellire cioè sotto due metri di terra e sabbia tutti coloro che a causa della loro incorruttibilità rompono il grande gioco del potere, ponendo così a rischio gli equilibri del sistema. In quel caso si procedette a «insabbiare» il direttore generale del Banco di Sicilia, l’incorruttibile Emanuele Notarbartolo, dopo averlo fatto assassinare da killer mafiosi il 1° febbraio 1893 a colpi di coltello sulla carrozza di un treno. Ma tornando per ora al metodo «soft», quella della Banca Romana fu solo la prima di una serie interminabile di assoluzioni scandalose. Con una assoluzione generale nei primi decenni del Novecento si concluse anche il processo per un altro grande scandalo bancario che riguardava la Banca Italiana di Sconto e che coinvolse, oltre che numerosi colletti bianchi, anche quattro senatori del regno per i quali il Senato si costituì in Alta Corte di Giustizia. Con generali assoluzioni si conclusero, sempre all’inizio del secolo, anche numerosi processi per frodi nelle forniture militari.
Con riferimento a una di queste assoluzioni la «Rivista penale» commentò: “Effetto non certamente favorevole per il prestigio della giustizia e dell’amministrazione. Risultato finale: che molto probabilmente i vampiri dell’una e dell’altra seguiteranno imperturbati le loro ignobili imprese. Evviva la guerra!”.

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